1 SETTEMBRE 2020

1Cor 2,10b-16; Sal 144 (145); Lc 4,31-37

MARTEDÌ DELLA XXII SETTIMANA T. O.


Colletta: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Jorge A. Card. MEDINA ESTÉVEZ (Rituale degli Esorcismi): Vorrei sottolineare che l’influsso nefasto del demonio e dei suoi seguaci viene abitualmente esercitato attraverso l’inganno, la menzogna, la bugia e la confusione. Come Gesù è la Verità (cf. Gv 8, 44), così il diavolo è il bugiardo per eccellenza. Da sempre, sin dall’inizio, la menzogna è stata la sua strategia preferita. Non c’è dubbio che il diavolo riesca ad intrappolare tante persone nella rete delle bugie, piccole o clamorose. Inganna gli uomini facendo loro credere che la felicità si trovi nel denaro, nel potere, nella concupiscenza carnale. Inganna gli uomini persuadendoli che non hanno bisogno di Dio e che sono autosufficienti, senza bisogno della grazia e della salvezza. Addirittura inganna gli uomini diminuendo, anzi facendo scomparire il senso del peccato, sostituendo alla legge di Dio come criterio di moralità, le abitudini o le convenzioni della maggioranza. Persuade i bambini che la bugia è un modo adatto per risolvere diversi problemi, e così, man mano, si crea tra gli uomini un’atmosfera di diffidenza e di sospetto. Dietro le bugie e le menzogne, che portano l’immagine del Grande Bugiardo, si sviluppano le incertezze, i dubbi, un mondo dove non c’è più sicurezza né Verità e dove, invece, regna il relativismo e la convinzione che la libertà consista nel fare quel che si vuole; così non si capisce più che la vera libertà è l’identificazione con la volontà di Dio, fonte del bene e dell’unica felicità possibile.
La presenza del diavolo e della sua azione, spiega l’avvertimento del Catechismo della Chiesa Cattolica: «la drammatica condizione del mondo che “giace” tutto “sotto il potere del maligno” (1 Gv 5, 19), fa della vita dell’uomo una lotta: “Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, n. 37, 2)» - (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 409).
La Chiesa è sicura della vittoria finale dì Cristo e perciò non si lascia trascinare dalla paura o dal pessimismo, ma allo stesso tempo è consapevole dell’azione del maligno che cerca di scoraggiarci e di seminare la confusione. “Abbiate fiducia - dice il Signore - Io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). In questa cornice trovano il loro posto gli esorcismi, espressione importante, ma non l’unica, della lotta contro il maligno.

Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro: così il giudaismo chiamava i demoni, estranei e anzi ostili alla purità religiosa e morale che esige il servizio di Dio. Omicida fin da principio (Gv 8,44), Satana è colui che si mette di traverso per rovinare l’uomo e alienarlo da Dio, ma non può resistere alla potenza di Dio, deve retrocedere dinanzi all’autorità del Cristo. Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!: magnifica professione di fede. Poiché Dio è il «santo» per eccellenza, tutto ciò che si ricollega a lui è santo, e in primo luogo Gesù, che gli appartiene per la filiazione divina e l’elezione messianica.

Dal Vangelo secondo Luca 4,31-37: In quel tempo, Gesù scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: «Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetti 31-32 Egli discese allora a Cafarnao, città della Galilea; l’evangelista, dopo l’inaugurazione solenne della predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazareth, riprende il filo del racconto di Marco narrando di seguito quattro episodi che hanno luogo a Cafarnao. Da Nazareth il Maestro «discese» verso il lago di Tiberiade sulla cui sponda a nord-ovest si trovava Cafarnao. Luca indica la posizione geografica di Cafarnao con una designazione generica (città della Galilea), perché si rivolge a lettori pagani non palestinesi. In giorno di sabato; poiché in tal giorno ci si riuniva nelle sinagoghe; cf. vers. 16. Perché egli parlava con autorità; lo scrittore semplifica l’espressione di Marco che, nel vers. parallelo, scrive: «poiché egli li ammaestrava come uno che ha autorità e non come gli Scribi» (Mc., 1, 22); per i lettori del terzo vangelo il paragone dell’insegnamento di Gesù con quello degli Scribi, non aveva un significato particolare, né dava maggior rilievo alla frase.
versetti 33-34 Il racconto dell’indemoniato è parallelo a quello di Marco (cf. Mc., 1, 23-28 ed il relativo commento); Matteo invece non lo riporta. Un uomo posseduto dallo spirito di un demonio impuro; Marco nel testo parallelo usa una espressione più immediata ed incisiva, poiché scrive: «un uomo dallo spirito immondo»; Luca spiega la frase sintetica del suo informatore precisando che si tratta di un demonio impuro, cioè nemico di Dio.
versetto 35 Il demoniogettandolo a terra davanti a tuttiuscì da lui senza fargli del male; la descrizione di Luca è più sobria di quella di Marco. Al termine l’evangelista osserva con delicatezza che il demonio, dopo aver maltrattato la sua vittima, l’abbandona definitivamente «senza fargli del male». Il rilievo sottolinea la bontà di Gesù che comanda al demonio di non infierire crudelmente fino all’ultimo momento sull’infelice ossesso.
versetto 36 Che parola! Letteralmente: «Che parola è mai questa!». Non si tratta di ammirazione per la dottrina («parola») del Maestro, della quale Luca aveva parlato sopra (cf. vers. 32), ma di stupore suscitato nei presenti per l’ordine («parola») uscito con tanta «autorità e potenza» da Gesù e prontamente eseguito dal demonio. Nel testo di Marco invece i due concetti (parola-insegnamento; parola-comando, sono espressi uno dopo l’altro (cf. Mc., 1, 27).
versetto 37 La sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione; è omesso il nome della regione («della Galilea»), perché Luca l’aveva segnalato all’inizio dell’episodio (cf. vers. 31). Un esorcismo compiuto in pubblico, davanti ad un’assemblea raccolta nella sinagoga di Cafarnao, non poteva rimanere ignorato. All’inizio del ministero di Gesù, gli uditori della sua parola e gli spettatori delle sue opere si mostrano ammirati e favorevolmente aperti verso di lui. Gli Scribi ed i Farisei non sono ancora apparsi sulla scena con il loro caratteristico atteggiamento di avversari accesi e di accusatori prevenuti. Il vers. contiene un rilievo prezioso per una spiegazione psicologica dello sviluppo dei fatti, spiegazione propria del terzo vangelo: all’inizio della sua attività il Maestro è accolto favorevolmente da tutti, in seguito si profilano le prime ostilità che vanno man mano moltiplicandosi e intensificandosi.

Gianfranco Ravasi: “Siamo nella cosiddetta “giornata di Cafarnao”: nell’arco di un giorno e nello spazio di questa cittadina che s’affaccia sul lago di Tiberiade, Gesù compie una serie di atti miracolosi. Uno di questi eventi si svolge nella sinagoga locale (quella che Giovanni inserì come fondale per il celebre discorso di Gesù sul “pane di vita”): all’improvviso una persona si alza nell’assemblea, mentre Gesù sta insegnando con grande autorità, e gli si scaglia contro interpellandolo e apostrofandolo (Marco 1,21-26). Chi travolge quest’uomo apparentemente normale, facendone un avversario di Cristo? In lui agisce un’inattesa presenza specifica, sollecitata dalla parallela presenza di Gesù. È una presenza vitale e personale che interloquisce con Cristo, paradossalmente riconoscendolo come «Santo di Dio», rivelandosi quindi come dotata di una trascendenza e di un’origine divina. Si ha, perciò, un’epifania di Satana il quale sa di avere come avversario Dio stesso, presente e operante in Gesù Cristo. Non possiamo qui ridurre l’evento a una guarigione da una malattia grave, come la demenza (Marco 5,1-20) o l’epilessia (9,14-29), casi che in seguito considereremo e rubricati dagli evangelisti come possessioni diaboliche. Sappiamo, infatti, che nell’antico Vicino Oriente si era inclini a porre sotto l’insegna del demoniaco tutto il negativo della storia: le malattie fisiche, le devianze psichiche, gli influssi sociali nefasti, il peccato personale, il male in generale. Qui, invece, si ha una presenza personale specifica; è l’incontro con un essere misterioso che si erge contro Cristo dichiarandosi suo avversario; con lui Gesù ingaggia un duello che si risolve con un comando efficace e salvatore: «Esci da quest’uomo!». E, in finale, l’urlo che si ode rappresenta il grido di sconfitta di Satana. La salvezza non viene da formule e gesti esoterici, da filtri o pozioni magiche, ma solo da un ordine autorevole e operativo di Cristo. Al centro di questo racconto non c’è, quindi, lo ‘spirito impuro’, il diavolo, ma Cristo liberatore dal male. Il cristianesimo rigetta ogni forma di dualismo che veda come arbitri della storia e dell’essere due divinità antitetiche: il demonio non è il principio del male che combatte il principio divino del bene. Satana (in ebraico ‘avversario’) è inferiore a Dio ed è da lui controllato e dominato. Anche se, dunque, la sua presenza dev’essere ridimensionata, il diavolo (in greco, ‘colui che divide’) è un essere personale che agisce con forza. Certo, l’uso del termine ‘persona’ è per lui un po’ improprio, perché si tratta di un concetto positivo, usato anche per Dio (ad esempio, le tre ‘persone’ della Trinità). Satana è, invece, l’antitesi di Dio, nel quale l’essere persona è pienezza assoluta; è l’antitesi anche dell’uomo, la cui persona dovrebbe essere segno di intimità, di donazione, di amore. Lo scrittore francese agnostico André Gide scriveva: «Se il diavolo potesse, direbbe: Io sono colui che non sono». E curiosamente lo stesso autore concludeva: «Non credo nel diavolo; ma è proprio quello che il diavolo spera: che non si creda in lui». A lui farà eco Giovanni Papini quando diceva che «l’ultima astuzia del diavolo fu quella di spargere la voce della sua morte».

Il peccato - Guadium et spes 13: Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui.
Pur avendo conosciuto Dio, gli uomini «non gli hanno reso l’onore dovuto... ma si è ottenebrato il loro cuore insipiente»... e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore .
Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza.
Infatti l’uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono.
Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l’uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l’armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione.
Così l’uomo si trova diviso in se stesso.
Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.
Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato.
Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori «il principe di questo mondo» (Gv12,31), che lo teneva schiavo del peccato .
Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione, sia la profonda miseria, di cui gli uomini fanno l’esperienza.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Taci! Esci da lui!  (Vangelo)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.



31 AGOSTO 2020

1Cor 2,1-5; Sal 118; Lc 4,16-30

LUNEDÌ DELLA XXII SETTIMANA T. O.

Colletta: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Quando Cristo iniziò a fare e ad insegnare - Dives in misericordia 3: Dinanzi ai suoi compaesani a Nazaret, Cristo fa riferimento alle parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18 s.). Queste frasi, secondo Luca, sono la sua prima dichiarazione messianica, a cui fanno seguito i fatti e le parole conosciute per mezzo del Vangelo. Mediante quei fatti e quelle parole Cristo rende presente il Padre tra gli uomini. È quanto mai significativo che questi uomini siano soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono privi della libertà, i ciechi che non vedono la bellezza del creato, coloro che vivono nell’afflizione del cuore, oppure soffrono a causa dell’ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre. In tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri tempi possono vedere il Padre.
È significativo che, quando i messi inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7,19), egli, rifacendosi alla stessa testimonianza con cui aveva inaugurato l’insegnamento a Nazaret, abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella», ed abbia poi concluso: «E beato è chiunque non si sarà scandalizzato di me!» (Lc 7,22s.).
Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l’amore, l’amore operante, l’amore che si rivolge all’uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l’ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la «condizione umana» storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e la fragilità dell’uomo, sia fisica che morale. Appunto il modo e l’ambito in cui si manifesta l’amore viene denominato nel linguaggio biblico «misericordia».

Gesù giunge a Nazaret preceduto da una favorevole nomea: Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si  diffuse in tutta la regione (Lc 4,14). Entra, secondo il suo solito nella sinagoga, e si alza a leggere: Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa. In verità nella citazione troviamo due brani distinti: Is 61,1-2 e 58,6. Alla solenne proclamazione «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato», Luca registra inizialmente una reazione positiva anche se portava un interrogativo: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». In pratica, i Nazaretani da una parte si meravigliavano delle parole di grazia che uscivano dalla bocca di Gesù, dall’altra parte si meravigliavano perché conoscevano la sua famiglia, i suoi natali, la sua normalità, in paese lo conoscevano tutti, e non ricordavano affatto episodi fuori dalla norma, insomma un giovane come tutti gli altri. Gesù coglie questa difficoltà dei suoi compaesani e rimprovera apertamente la loro incredulità innescando una reazione furibonda tanto da correre il rischio di essere ammazzato.
Per la Bibbia di Gerusalemme l’inspiegabile mutamento della folla, che passa dall’ammirazione (v 22a) al malanimo “è forse il risultato di una evoluzione letteraria. Un primo brano narrava la visita di una sinagoga con predicazione coronata da successo, all’inizio del ministero […]. Questo racconto è stato in seguito ripreso, sovraccaricato e posto più tardi nella vita di Gesù [Mt 13,53-58, Mc 6,1-6], per sottolineare l’incomprensione e il rifiuto che hanno fatto seguito al primo favore del popolo. Luca ha saputo trarre, da questo testo complesso, una pagina mirabile, che egli ha conservato all’inizio del ministero come una scena inaugurale, nella quale dipinge, in un compendio simbolico, la missione di grazia di Gesù e il rifiuto del suo popolo.” (Bibbia di Gerusalemme, nota Lc 4,16-30).
Possiamo mettere in evidenza il tema della incredulità così come è suggerito dall’evangelista Matteo: a Nazaret, “a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58), un tema ricorrente in tutte le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento: Israele un popolo dalla dura cervice (Es 32,9), cieco e sordo, incapace di cogliere le visite di Dio, un popolo ribelle ad ogni correzione, un popolo che non ha esitato ad ammazzare i profeti inviati da Dio, una storia che si ripete a Nazaret, un tentativo fallito, quello di uccidere Gesù, ma il fuoco cova sotto le ceneri, ben presto trovare come realizzare il loro progetto omicida.

Dal Vangelo secondo Luca 4,16-30: In quel tempo, Gesù venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi a proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Elisèo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Subito dopo aver superato le tentazioni nel deserto (Cf. Lc 4,1-13), Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo. Gesù inizia il suo ministero in Galilea pieno di Spirito Santo, che è il protagonista della intera opera lucana. Nazaret, il villaggio dove Gesù «era cresciuto» (Lc 4,16), non è menzionata né dallo storico Giuseppe Flavio, né nel Talmud. San Girolamo nel V secolo affermava che fosse un viculus ovvero un piccolo villaggio, abitato da un centinaio di persone.
Gesù, come tutti gli Ebrei, amava frequentare la sinagoga che è l’edificio in cui gli Israeliti si radunavano per pregare, per leggere e per studiare la Legge. Il decano degli anziani, il quale era incaricato della celebrazione, a volte invitava qualcuno dei presenti a predicare. Fu così che Gesù venne invitato a leggere il profeta Isaia.
Il brano che Gesù legge è tratto dal libro di Isaia (61,1ss) dove il profeta, da parte di Dio, annunzia un messaggio di consolazione al popolo d’Israele. Ma in verità il testo isaiano non era scritto sul rotolo perché è frutto del lavoro redazionale di Luca che ha fuso insieme Is 61,1-2 e 58,6.
Lo Spirito del Signore... mi ha mandato... a proclamare l’anno di grazia del Signore. Il giubileo, prescritto ogni cinquanta anni (Cf. Lv 25,10), era stato istituito per donare la libertà agli schiavi e la restituzione dei beni patrimoniali. L’anno di grazia, «con cui termina questa profezia, non è altro che il tempo di perdono che Dio accorda a quanti gli si accostano con sentimenti di umiltà e di povertà, il tempo della pace, nel senso più vasto del termine: la pace di Dio, intesa come suo dono amoroso; la pace di Dio, intesa come bene atteso dall’alto; la pace con Dio, intesa come riconciliazione col suo amore» (Carlo Ghidelli).
Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato. In Gesù questa Scrittura si compie perfettamente, ma in una dimensione molto più ampia in quanto raggiunge l’uomo nella sua totalità. I destinatari di questa Buona Novella sono i poveri, cioè gli umili, i deboli, i piccoli e i contriti di cuore che da sempre, per la loro obbedienza alla volontà di Dio, hanno attirato sulla terra lo sguardo benevolo del Padre fino a costringerlo amorevolmente a mandare il Verbo, la cui «incarnazione costituisce l’attestato più eloquente della sua premura nei confronti degli uomini» (Teodereto di Ciro).
In Gesù di Nazaret il Padre compie il suo progetto di salvezza e il suo compimento non è una resa di conti, ma è gioia, festa: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (Ne 8,10). Il Vangelo, che sostanzialmente è una buona notizia, quando è veramente compreso, rallegra il cuore di chi lo accoglie, e porta a condividere questa gioia: chi è contento desidera che anche gli altri lo siano. La profezia si è compiuta in Gesù e la sua stessa presenza rappresenta «l’oggi della salvezza, il compimento della Scrittura appena letta. Gesù con la sua parola non annunziava soltanto, ma attuava la salvezza divina, contenuta nelle promesse profetiche... La parola di Gesù diventa evento salvifico, vivo, attuale» (Angelico Poppi). Quella di Gesù è un’affermazione che dovrebbe far sognare ad occhi aperti tutti gli uomini: un sogno che diventerà realtà quando finalmente l’umanità, varcata la soglia della vita terrena, per essa si spalancheranno per sempre le porte della casa del Padre.

Lo Spirito del Signore è sopra di me… - Bibbia di Navarra (nota a Lc 4,18): In questo versetto i Santi Padri vedono indicate le tre Persone della Santissima Trinità: lo Spirito (Spirito Santo) del Signore (il Padre) è sopra di me (il Figlio) (cfr Origene, Homilia 32). Lo Spirito Santo inabitava nell’anima di Cristo fin dall’istante della Incarnazione, e discese visibilmente sotto le sembianze di colomba quando Gesù fu battezzato da Giovanni (cfr Lc 3,21-22).
«Per questo mi ha consacrato con l’unzione»: si fa riferimento all’unzione che Gesù Cristo ricevette al momento dell’Incarnazione, soprattutto per la grazia dell’unione ipostatica. «L’unzione di Gesù Cristo non fu corporate, come quella degli antichi re, sacerdoti e profeti, ma tutta spirituale e divina. perché la pienezza della divinità abita in lui sostanzialmente» (Catechismo maggiore, n. 76). Da questa unione ipostatica scaturisce la pienezza di tutte le grazie. A significarla è detto che Gesù Cristo fu unto dallo Spirito Santo medesimo, e non ci si limita ad affermare che ne ricevette le grazie e i doni come i santi.

Sacrosanctum concilium 5: Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4), «dopo avere già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti» (Eb 1,1), quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto di Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti, «medico della carne e dello spirito», mediatore di Dio e degli uomini. Infatti la sua umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza. Perciò in Cristo «avvenne il perfetto compimento della nostra riconciliazione e ci fu data la pienezza del culto divino». 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Vangelo). 
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.

 



30 AGOSTO 2020

DOMENICA DELLA XXII SETTIMANA T. O.

Ger 20,7-9; Sal 62 (63); Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

Colletta: Rinnovaci con il tuo Spirito di verità, o Padre, perché non ci lasciamo deviare dalle seduzioni del mondo, ma come veri discepoli, convocati dalla tua parola, sappiamo discernere ciò che è buono e a te gradito, per portare ogni giorno la croce sulle orme di Cristo, nostra speranza. Egli è Dio, e vive e regna con te....

I Lettura: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre: affermazioni stupefacenti che sottolineano l’azione amorosa di Jahve sul profeta. Pur macerato dall’angoscia e dal dolore, Geremia conserva la certezza che Jahve è il Dio fedele, per questo, nel momento stesso in cui è atterrato dalla afflizione, apre il cuore alla speranza.

Salmo Responsoriale: «Il salmo 62 dà voce all’anima assetata del Signore; un desiderio ardente spinge il salmista; egli ricerca Dio come la terra riarsa attende l’acqua. L’umanità dopo il peccato, era una terra arida e riarsa; il Figlio di Dio, incarnandosi, ha suscitato in essa il desiderio della sete della divinità. Questo salmo mette in evidenza come la Chiesa abbia sete del suo salvatore, e brami il dissetarsi alla fonte dell’acqua viva che zampilla per la vita eterna. Siamo invitati a dissetarci alla sorgente della grazia, che la passione e la risurrezione di Cristo hanno fatto scaturire in mezzo a noi» (Giambattista Montorsi).

II lettura: Israele adorava Dio in un tempio fatto di pietre, il cristiano l’adora nel suo cuore costituito tempio vivente dalla inabitazione della Trinità. Il cristiano onora Dio mettendo la propria vita a sua disposizione, sacrificandola interamente come nel vecchio regime si bruciavano le vittime sull’altare. Per questo, Paolo può parlare del cristiano come una vittima vivente, offerta, consumata per una causa santa che è la salvezza dei fratelli.

Vangelo: Gesù non vuole nascondere ai suo amici il suo destino, di passione, di morte. Pietro non comprende, o forse non vuole comprendere, e si arroga il diritto di rimproverare Gesù. Ma Gesù non arretra e fa intendere che anche a loro è riservata la stessa sorte. Una condivisione che inizia già nella sequela. Le condizioni per seguirlo sono aspre, ma si aprono alla gioia della salvezza e della perfetta comunione con Dio in Cielo. I verbi adoperati rinnegare, prendere la croce, seguire, perdere la vita sono sfumature di una stessa realtà: chi vuole seguire Gesù deve rinunciare decisamente a tutto per condividere con Gesù il suo doloroso destino che culmina sulla croce. L’accenno alla venuta del Figlio dell’uomo nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli dimostra però, che l’ultima parola va riservata alla risurrezione.

Giovanni Paolo II (Omelia 14 Settembre 1984): Perché la croce e il Cristo crocifisso sono la porta alla vita eterna?
Perché in lui - nel Cristo crocifisso - è manifestato nella sua pienezza l’amore di Dio per il mondo, per l’uomo.
Nella stessa conversazione con Nicodemo Cristo dice: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui (Gv 3,16-17).
La salvezza del Figlio di Dio attraverso l’elevazione sulla croce ha la sua sorgente eterna nell’amore. È l’amore del Padre che manda il Figlio; egli offre suo Figlio per la salvezza del mondo. Nello stesso tempo è l’amore del Figlio il quale non “giudica” il mondo, ma sacrifica se stesso per l’amore verso il Padre e per la salvezza del mondo. Dando se stesso al Padre per mezzo del sacrificio della croce egli offre al contempo se stesso al mondo: ad ogni singola persona e all’umanità intera.
La croce contiene in sé il mistero della salvezza, perché nella croce l’amore viene innalzato. Questo significa l’elevazione dell’amore al punto supremo nella storia del mondo: nella croce l’amore è sublimato e la croce è allo stesso tempo sublimata attraverso l’amore. E dall’altezza della croce l’amore discende a noi. Sì: “La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull’uomo. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo” (Ioannis Pauli PP. II, Dives in Misericordia, 8).

Dal Vangelo secondo Matteo 16,21-27: In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

Gesù... doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto - Il verbo soffrire, da latino sufferre, è composto da sub, sotto, e da ferre, portare. Da qui il significato di sopportare, tollerare, resistere a qualcosa di penoso, patire. Se per gli Apostoli il messaggio era abbastanza chiaro, oggi un po’ meno, e per molti, anche credenti, è una parola da esorcizzare. Eppure è l’elemento fondante di una sana ascetica. È il valore inalienabile che accompagna il discepolo di Cristo sulla via della santità, cammino che sfocia naturalmente nella salvezza.
Valore immarcescibile, la sofferenza conforma a Cristo e contribuisce alla salvezza del mondo: «Si ricordino tutti che, con il culto pubblico e l’orazione, con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente [Cf. 2Cor 4,10; Col 1,24], essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo» (AA III).
La Chiesa, proprio perché fondata da Cristo e inviata in tutto il mondo, deve seguire la strada da Egli seguita, «la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso fino alla morte; da cui, poi, risorgendo, uscì vincitore. Proprio con questa speranza precedettero tutti gli Apostoli, che molto tribolando e soffrendo completarono quanto mancava ai patimenti di Cristo a vantaggio del suo corpo, cioè della Chiesa. E spesso anche il sangue dei cristiani fu seme fecondo» (AG I). In questa luce ben si può parlare di un apostolato della sofferenza: «E sappiamo che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla debolezza, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzione per la giustizia: il Signore nel Vangelo li proclamò beati e “Dio... di ogni grazia, che ci chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po’ di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri”» (LG V).
È quindi un invito ad accogliere la Croce come segno di predilezione divina, sapendo anche che Cristo non la dà a tutti, ma soltanto ai suoi amici.

Se qualcuno vuole venire dietro a me..., se nel linguaggio di Matteo il termine discepoli indica tutti i seguaci del Rabbi di Nazaret, allora, le parole dure di Gesù sono rivolte ai Dodici, a tutti i discepoli, a quelli che affollavano le strade della Palestina, e anche ai cristiani di oggi e a quelli di domani. Da qui l’urgente necessità di mettere in atto il programma di conversione indicato dal Cristo: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Le tre espressioni verbali - venire, rinnegare, prendere - non vanno intese come tre tappe di un cammino vocazionale, ma tre aspetti della stessa realtà: la decisione coraggiosa di seguire il Maestro non contando più su se stessi, abbandonandosi al progetto di Dio e legando la propria sorte a quella di Gesù: «A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21; cfr. Fil 2,5-9). Poi, l’inciso, per causa mia, fa evitare la trappola di un ascetismo astratto e vacuo: la rinunzia, la sofferenza, la morte hanno senso, e valore salvifico, solo se riconducono alla croce e alla morte di Cristo; hanno significato solo se si rapportano alla piena e totale adesione a Gesù. Fuori da questa cornice il dolore, la rinuncia ai beni terreni, la sofferenza, la morte sono incomprensibili: la croce resta uno strumento di tortura, via larga che conduce solo alla disperazione.

Benedetto XVI (Omelia del 14 Settembre 2008): “Quale mirabile cosa è mai il possedere la Croce! Chi la possiede, possiede un tesoro! (Sant’Andrea di Creta, Omelia X per l’Esaltazione della Croce: PG 97, 1020)”. In questo giorno in cui la liturgia della Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della santa Croce, il Vangelo che avete appena inteso ci ricorda il significato di questo grande mistero: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché gli uomini siano salvati (cfr Gv 3,16). Il Figlio di Dio s’è reso vulnerabile, prendendo la condizione di servo, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8). E’ per la sua Croce che siamo salvati. Lo strumento di supplizio che, il Venerdì Santo, aveva manifestato il giudizio di Dio sul mondo, è divenuto sorgente di vita, di perdono, di misericordia, segno di riconciliazione e di pace. “Per essere guariti dal peccato, guardiamo il Cristo crocifisso!” diceva sant’Agostino (Tract. in Johan.,XII,11). Sollevando gli occhi verso il Crocifisso, adoriamo Colui che è venuto per prendere su di sé il peccato del mondo e donarci la vita eterna. E la Chiesa ci invita ad elevare con fierezza questa Croce gloriosa affinché il mondo possa vedere fin dove è arrivato l’amore del Crocifisso per gli uomini, per tutti gli uomini. Essa ci invita a rendere grazie a Dio, perché da un albero che aveva portato la morte è scaturita nuovamente la vita. È su questo legno che Gesù ci rivela la sua sovrana maestà, ci rivela che Egli è esaltato nella gloria. Sì, “Venite, adoriamolo!”. In mezzo a noi si trova Colui che ci ha amati fino a donare la sua vita per noi, Colui che invita ogni essere umano ad avvicinarsi a Lui con fiducia. [...]
La Chiesa ha ricevuto la missione di mostrare a tutti questo viso di un Dio che ama, manifestato in Gesù Cristo. Sapremo noi comprendere che nel Crocifisso del Golgota è la nostra dignità di figli di Dio, offuscata dal peccato, che ci è resa? Volgiamo i nostri sguardi verso il Cristo. È Lui che ci renderà liberi per amare come Egli ci ama e per costruire un mondo riconciliato. Perché, su questa Croce, Gesù ha preso su di sé il peso di tutte le sofferenze e le ingiustizie della nostra umanità. Egli ha portato le umiliazioni e le discriminazioni, le torture subite in tante regioni del mondo da innumerevoli nostri fratelli e nostre sorelle per amore di Cristo. Noi li affidiamo a Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, presente ai piedi della Croce.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Vangelo)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.



SABATO 29 AGOSTO 2020

Ger 1,17-19; Sal 70 (71); Mc 6,17-29

MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA – MEMORIA

Martirologio Romano: Memoria della passione di san Giovanni Battista, che il re Erode Antipa tenne in carcere nella fortezza di Macheronte nell’odierna Giordania e nel giorno del suo compleanno, su richiesta della figlia di Erodiade, ordinò di decapitare. Per questo, Precursore del Signore, come lampada che arde e risplende, rese sia in vita sia in morte testimonianza alla verità. 

Colletta: O Dio, che a Cristo tuo Figlio hai dato come precursore, nella nascita e nella morte, san Giovanni Battista, concedi anche a noi di impegnarci generosamente nella testimonianza del tuo Vangelo, come egli immolò la sua vita per la verità e la giustizia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Vivere il Vangelo “sine glossa”: Giovanni Paolo II (Angelus, 29 Agosto 2004): Nell’Enciclica Veritatis splendor, ricordando il sacrificio di Giovanni Battista (cfr. n.91), notavo che il martirio è “un segno preclaro della santità della Chiesa” (n. 93). Esso infatti “rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale” (ibid.). Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però “una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici” (ibid.). Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo “sine glossa”. L’eroico esempio di Giovanni Battista fa pensare ai martiri della fede che lungo i secoli hanno seguito coraggiosamente le sue orme. In modo speciale, mi tornano alla mente i numerosi cristiani, che nel secolo scorso sono stati vittime dell’odio religioso in diverse nazioni d’Europa. Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa.

Erodìade, figlia di Aristobulo IV e Berenice, era moglie di Erode Filippo e madre di Salome. Avendo abbandonato il marito perché poco portato alla politica decise di convivere con il fratellastro di lui Erode Antipa tetrarca della Galilea e della Perea. Una relazione che scatenò gli strali di Giovanni il Battista. Per questo Erodìade odiava Giovanni il Battista e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Da fredda calcolatrice seppe attendere il giorno propizio.
Giuseppe Flavio addebita l’esecuzione di Giovanni Battista a Erode in quanto impaurito del crescente consenso popolare verso la persona del Battista: “Quando altri [le folle] si affollavano intorno a lui [Giovanni Battista] perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte” (Antichità Giudaiche, Libro XVIII:118-119).
Al di là dei mandanti e della atrocità si impone la fermezza incrollabile di Giovanni il Battista e la fedeltà alla sua missione di precursore sino alla fine. La presenza di Erode, un “re vigliacco e adultero, la disinvoltura di una ragazza che si fa pagare una danza con un delitto, il menefreghismo e l’indifferenza con cui una guardia obbedisce senza batter ciglio a un capriccio ingiusto non possono cancellare e neppure sminuire l’impressione di grandezza che emana dalla figura del Battista” (Bibbia per la Formazione Cristiana). 
La morte cruenta di Giovanni Battista, uomo giusto e santo, fedele al suo mandato e messo a morte per la sua libertà di parola, fa presentire l’arresto e la condanna ingiusta di Gesù. Giovanni muore per la malvagità di una donna e la debolezza di un sovrano, ma la sua morte non è uno dei tanti fatti di cronaca che da sempre fanno parte della storia umana, è invece una Parola che Dio rivolge a tutti gli uomini: morire per la Verità è farsi discepolo del Cristo, ed è offrire la propria vita per la salvezza degli uomini: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando.” (Gv 15,12-14).

Dal Vangelo secondo Marco 6,17-29: In quel tempo, Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Jean Radermakers (Lettura Pastorale del Vangelo di Marco): Erode Antipa aveva fatto imprigionare Giovanni per ragioni di ordine politico, afferma Giuseppe Flavio; perché gli rimproverava la sua unione illegittima con la moglie di suo fratello Filippo, replica Marco. Di fatto, le due ottiche non si escludono, ma sottolineando ciascuna una dimensione diversa della realtà vissuta, raffrontate tra loro rivelano l’ambiguità dell’uomo. Condannando la condotta di Erode, il Battista si dimostrava fedele alla legge, la quale riprovava l’adulterio (Es 20, 14; Dt 5, 18), come anche certi matrimoni consanguinei (Lv 18,16; 20,21); inoltre, s’inseriva in anticipo nella linea della posizione che avrebbe preso Gesù in relazione al divorzio (10,1-12). Questo tema, della fedeltà di un profeta alla legge, richiama chiaramente Elia di fronte alla condotta perversa del re Acab (1Re 21,17-26) e agli intrighi della regina Gezabele (1Re 19,2; 21,4-16), punto di partenza di una tradizione di profeti-martiri (Sir 48,12; Ger 38, 14-15; 1 Mac 2,58). La presentazione del racconto evangelico nel quadro di un banchetto di compleanno, con la danza della figlia di Erodiade (Salomé), e il giuramento del re Erode, richiama certi passi del libro di Ester, in cui la bella ebrea (Est 2,9) succede alla regina Vasti (Est 1) e provoca il re Assuero a offrirle «anche la metà del suo regno» (Est 5,3.6; 7,2; 9,12), ottenendo il decreto della riabilitazione degli ebrei e la morte dei partigiani di Aman (Est 9,5-17). Il giuramento, poi, metteva il re Erode in una situazione delicata a motivo dei commensali (6,26), per la maggior parte sadducei, con qualche fariseo interessato sia a spiare la condotta del re che a condannare il Battista.
Questa situazione, che non mancava di implicazioni politiche, potrebbe evocare quella in cui Pilato si troverà in rapporto a Gesù, «perché conosceva che i sommi sacerdoti l’avevano consegnato per invidia» (15,10).
La potenza suggestiva di questo racconto viene ancora accentuata dal posto che occupa nel vangelo: il legame fra la sorte di Gesù e quella del Battista, presentato come «Elia che deve prima venire» (9,11; cf. Mt 3,23-24), il contesto di un banchetto in cui viene versato il sangue di un «uomo giusto e santo» ciò che fa pensare all’ultima cena (14,l8-25) - e le allusioni alla passione e alla sepoltura di Gesù costituiscono altrettanti avvertimenti dell’evangelista sul modo di leggere «la sezione dei pani». Il banchetto di cui si tratta e la ripetuta menzione dei pani assumono il loro vero significato solo a partire dalla persona di Gesù, la cui identità si scoprirà nel modo in cui consegnerà il suo corpo nelle mani degli uomini (9,31; 14,22; 15,45).

Giovanni Battista - Alice Baum: Secondo il Nuovo Testamento Giovanni Battista è il precursore di Gesù. Consacrato a Dio sin dall’infanzia, fu destinato ad annunciare l’irruzione della signoria di Dio. La sua comparsa pubblica fu preceduta da una lunga permanenza “nel deserto”. Sono possibili relazioni con Qumran. Verso il 28 d.C. (Lc 3,1ss) è raggiunto dalla chiamata di Dio. Predica un battesimo per la remissione dei peccati ed esorta insistentemente alla conversione radicale, perché il giudizio di Dio è imminente. L’affluenza della gente è massiccia, molti si convertono e si fanno battezzare. Giovanni però è rifiutato nelle cerchie dei farisei e dei sacerdoti. Quando stigmatizza pubblicamente l’adulterio del re Erode, viene da questi arrestato e poi decapitato. Anche Giovanni, che dal popolo era considerato un profeta e che Gesù chiama il “più grande fra i nati di donna” dovette sperimentare la lotta interiore per la fede (Mt 11,2-6). Alcuni dei suoi discepoli seguirono Gesù, altri si fecero battezzare più tardi “nel nome di Gesù” (At 19,5). Un gruppo di discepoli di Giovanni, che vedevano nel Battista il messia, sopravvisse come setta fino al II sec. I brani neotestamentari sull’opera di Giovanni e sul suo rapporto con Gesù vanno compresi sullo sfondo della controversia della comunità cristiana con questi discepoli di Giovanni Se i discepoli del Battista potevano richiamarsi al fatto che Gesù si era fatto battezzare da Giovanni - secondo loro - e sottomettendosi in tal modo a lui, la chiesa replicava che lo stesso Giovanni non considerava se stesso messia, ma sviando da sé, indirizzava verso il più grande che doveva venire (Mc 1,7-8 par.), e che egli stesso proclamò espressamente Gesù come questo “più grande” (Mt 13,14; Gv 1,19.34).

C. Augrain: 1. Cristo martire - Gesù stesso è, a titolo eminente, il martire di Dio, e per conseguenza il tipo del martire. Nel suo sacrificio volontariamente accettato, egli dà effettivamente la testimonianza suprema della sua fedeltà alla missione affidatagli dal Padre.
Secondo S. Giovanni Gesù non ha soltanto conosciuto in anticipo, ma ha accettato liberamente la morte come perfetto omaggio reso al Padre (Gv 10,18); e nel momento della condanna, proclama: «Io sono nato e sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità» (18,37; cfr. Apoc 1,5; 3,14).
Nella passione di Gesù, S. Luca mette in rilievo i tratti che caratterizzeranno ormai il martire: conforto della grazia divina nel momento dell’angoscia (Lc 22,43); silenzio e pazienza dinanzi alle accuse ed agli oltraggi (23,9); innocenza riconosciuta da Pilato e da Erode (23,4.14s.22); dimenticanza delle proprie sofferenze (23,28); accoglienza fatta al ladrone pentito (23,43); perdono accordato a Pietro (22,61) ed agli stessi persecutori (22,51; 23,34).
Più profondamente ancora, l’insieme del NT riconosce in Gesù il servo sofferente annunziato da Isaia. In questa prospettiva la passione di Gesù appare come essenziale alla sua missione. Di fatto, come il servo deve soffrire e morire «per giustificare moltitudini» (Is 53,11), così Gesù deve passare attraverso la morte «per apportare a moltitudini la redenzione dai peccati» (Mt 20,28 par.). Tale è il senso della «bisogna» che Gesù ripete a più riprese: il disegno di salvezza di Dio passa attraverso la sofferenza e la morte del suo testimone (Mt 16,21 par.; 26,54.56; Lv 17,25; 22,37; 24,7.26.44). D’altronde tutti i profeti non sono forse stati perseguitati e messi a morte (Mt 5,12 par.; 23,30ss par.; Atti 7,52; 1Tess 2,15; Ebr 11,36ss)? Non può trattarsi di un incontro casuale; Gesù vi riconosce un piano divino che trova in lui il suo compimento (Mt 23,31s). Perciò cammina «risolutamente» verso Gerusalemme (Lc 9,51), «perché non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (13,33).
Questa passione fa di Gesù la vittima espiatoria che sostituisce tutte le vittime antiche (Ebr 9,12ss). Il fedele vi scopre la legge del martirio: «Senza effusione di sangue, non vi può essere redenzione» (Ebr 9,22). Si comprende come Maria, cosi strettamente associata alla passione del figlio suo (Gv 19,25; cfr. 2,35) sia salutata più tardi come la regina dei martiri cristiani.
Il martire cristiano - Il glorioso martirio di Cristo ha fondato la Chiesa: «Quando sarò innalzato da terra, aveva detto Gesù, attirerò a me tutti gli uomini» (Gv 12,32). La Chiesa, corpo di Cristo, è chiamata a sua volta a dare a Dio la testimonianza del sangue per la salvezza degli uomini. La comunità ebraica aveva già avuto i suoi martiri, specialmente all’epoca dei Maccabei (2Mac 6-7). Ma nella Chiesa cristiana il martirio assume un senso nuovo, che Gesù stesso rivela: è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione perfetta alla sua testimonianza ed alla sua opera di salvezza: «Il servo non è maggiore del padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 5,20). Ai suoi tre intimi Gesù annunzia che lo seguiranno nella passione (Mc 10,39 par.; Gv 21,18ss); ed a tutti rivela che soltanto il seme che muore in terra porta molto frutto (Gv 12,24). Così il martirio di Stefano - che evoca con tanta forza la passione - determinò la prima espansione della Chiesa (Atti 8,4s; 11,19) e la conversione di Paolo (22,20). L’Apocalisse, infine, è veramente il Libro dei Martiri, di coloro che sulle orme del Testimone fedele e veridico (Apoc 3,14) hanno dato alla Chiesa e al mondo la testimonianza del loro sangue. L’intero libro ne celebra la prova e la gloria, di cui la passione e la glorificazione dei due testimoni del Signore sono il simbolo (Apoc 6,9s; 7,14-17; 11,11s; 20,4ss).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. (Mt 5,10)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che ci hai riuniti alla tua mensa
nel glorioso ricordo del martirio di san Giovanni Battista,
donaci di venerare con fede viva
il mistero che abbiamo celebrato
e di raccogliere con gioia il frutto di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.