IL PENSIERO DEL GIORNO

1 LUGLIO 2017


Oggi Gesù ci dice: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!” (Mt 8,10).

Bibbia di Gerusalemme (Nota a Mt 8,10): La fede, che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede (Lc 1,20.45; Mt 21,25.32). Gesù la domanda in modo particolare in occasione dei miracoli (Mt 8,13; 9,2p.22p.28-29; 15,28; Mc 5,36p. 10,52p; Lc 17,19), che sono meno atti di misericordia che segni della sua missione e del regno (Mt 8,3+, cf. Gv 2,11+); così egli non può compierne se non trova la fede, che deve dare ad essi il loro vero significato (Mt 12,38-39;13,58p. 6,1-4). Esigendo un sacrificio dello spirito e di tutto l’essere, la fede è un atto difficile di umiltà (Mt 18,6p), che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele (Mt 8,10p.15,28.27,42p; Lc 18,8) o lo fanno solo per metà (Mc 9,24; Lc 8,13). I discepoli stessi sono lenti a credere (Mt 8,26p; 14,31; 16,8; 17,20p), anche dopo la resurrezione (Mt 28,17; Mc 16,11-14, Lc 24,11.25.41). Anche la fede più sincera del loro capo, la «roccia» (Mt 16,16-18), sarà scossa dallo scandalo della passione (Mt 26,69-75p), ma poi trionferà (Lc 22,32). Quando è forte, la fede opera meraviglie (Mt 17,20p; 21,21p; Mc 16,17), ottiene tutto (Mt 21,22p; Mc 9,23), in particolare la remissione dei peccati (Mt 9,2p; Lc 7,50) e la salvezza, di cui è la condizione indispensabile (Lc 8,12; Mc 16,16; cf. Mt 3,16+).


Ortensio da Spinetoli (Matteo)

Va’, avvenga per te come hai creduto. In quell’istante il suo servo fu guarito.

Il miracolo è un’apologia del Cristo ma soprattutto un panegirico della carità, espressa nella cura del padrone verso il «servo», e particolarmente della fede cristiana. L’esempio a insegnamento viene da un pagano, per di più da un militare, generalmente di scarsa sensibilità e poco incline alle emozioni religiose. L’elogio della fede del centurione («tanto grande», «ti sia fatto come hai creduto) ha una portata pastorale e apologetica che l’evangelista non può passare sotto silenzio. L’ufficiale non solo chiede la guarigione ma suggerisce a Gesù il modo di operarla. Egli si ispira al suo mondo e alla sua professione. Nella prassi militare un «ordine» appena emanato raggiunge indistintamente vicini e lontani. La stessa cosa può fare Gesù. La sua «parola» guaritrice è un «comando» che si porta sulle forze del male obbligandole a recedere dall’infermo.
Nell’ipotesi che la risposta di Gesù, come quella alla Cananea (IS, 21-28), contenga un rifiuto del miracolo («Debbo forse venire a guarirlo?») il comportamento del centurione appare ancor più eroico. La sua protesta nei poteri del messia segna il punto culminante del racconto.
Questo testo, che la chiesa ha ripetuto come suprema professione di fede e di umiltà, contiene anche una precisazione sulla forza della parola. Il lό goz tou Qeou ha creato i cieli: la sua virtù è per questo incontenibile.
Il miracolo di Cafarnao ne è un’illustrazione confortevole.


JEAN DUPLACY

La Fede

Per la Bibbia la fede è la sorgente e il centro di tutta la vita religiosa. Al disegno, che Dio realizza nel tempo, l’uomo deve rispondere mediante la fede. Sulle orme di Abramo, «padre di tutti coloro che credono» (Rom 4,11), i personaggi esemplari del Vecchio Testamento sono vissuti e sono morti nella fede (Ebr 11) che Gesù «porta a perfezione» (Ebr 12,2). I discepoli di Cristo sono «coloro Che hanno creduto» (Atti 2,44) e «che credono» (1Tess 1,7). La varietà del vocabolario ebraico della fede riflette la complessità dell’atteggiamento spirituale del credente. Tuttavia due radici sono dominanti: ‘aman evoca la fermezza e la certezza; batah, la sicurezza e la fiducia. Il vocabolario greco è ancora più vario. Di fatto la religione greca praticamente non concedeva posto alla fede; quindi i LXX, non disponendo di parole appropriate per rendere l’ebraico, sono andati a tastoni. Alla radice batah, corrispondono soprattutto: elpìs, elpìzo, pèpoitba (Volg.: spes, sperare, confido); alla radice ‘aman: pìstis, pistèuo, alètheia (Volg.: fedes, credere, veritas). Nel Nuovo Testamento le ultime parole greche, relative al campo della conoscenza, diventano nettamente predominanti. Lo studio del vocabolario rivela già che la fede, secondo la Bibbia, ha due poli: la fiducia che si pone in una persona «fedele» ed impegna tutto l’uomo; e dall’altra parte, un passo dell’intelligenza, cui una parola o dei segni permettono di accedere a realtà che non si vedono (Ebr 11,1).
Abramo, padre dei credenti - Jahve chiama Abramo, il cui padre «serviva altri dèi» in Caldea (Gios 24,2; cfr. Giudit 5,6ss), e gli promette una terra ed una numerosa discendenza (Gen 12,1s). Contro ogni verosimiglianza (Rom 4,19), Abramo «crede in Dio  (Gen 15,6) e nella sua parola, obbedisce a questa vocazione ed impegna la sua esistenza su questa promessa. Nel giorno della prova la sua fede sarà capace di sacrificare il figlio nel quale è già realizzata la promessa (Gen 22); per questa fede infatti la parola di Dio è ancor più vera dei suoi frutti: Dio è fedele (cfr. Ebr 11,11) ed onnipotente (Rom 4,21). Abramo è ormai il tipo stesso del credente (Eccli 44,20); preannunzia coloro che scopriranno il vero Dio (Sal 47,10; cfr. Gal 3,8) o il Figlio suo (Gv 8,31-41.56), coloro che si rimetteranno, per la propria salvezza, a Dio solo ed alla sua parola (1Mac 2,52-64; Ebr 11,8-19). Un giorno la promessa si realizzerà nella risurrezione di Gesù, discendenza di Abramo (Gal 3,16; Rom 4,18-25). Abramo sarà allora il «padre di una moltitudine di popoli» (Rom 4,17s; Gen 17,5): tutti coloro che la fede unirà a Gesù.


Catechismo degli Adulti (nn. 90-91)

Un dono

La fede è un dono o una scelta? Quando Paolo venne a portare il vangelo in Europa, nella città di Filippi «c’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia... e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo» (At 16,14). Non basta l’annuncio esteriore a suscitare la fede; occorre anche una illuminazione interiore.
Già l’Antico Testamento aveva chiara consapevolezza che la fede è frutto di una iniziativa di Dio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti... Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele» (Dt 7,79). Gesù stesso ha dichiarato pubblicamente: «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44). La fede è dono dello Spirito Santo, che la previene, la suscita, la sostiene, l’aiuta a crescere. È lui che illumina l’intelligenza, attrae la volontà, rivolge il cuore a Dio, facendo accettare con gioia e comprendere sempre meglio la rivelazione storica di Cristo, senza aggiungere ad essa nulla di estraneo.
Qualcuno potrebbe pensare: se la fede è un dono, forse io non l’ho ricevuto ed è per questo che non credo. C’è da dire, anzitutto, che i confini tra fede e incredulità nel cuore delle persone non sono ben marcati, un po’ come in quell’uomo che diceva a Gesù: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24). I credenti sono tentati di non credere e i non credenti sono tentati di credere. Qualcuno pensa di non credere e invece crede, almeno a livello di disponibilità e adesione implicita; altri pensano di credere e invece danno soltanto un’adesione teorica, senza vita.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
** **  Credo aiutami nella mia incredulità.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


 IL PENSIERO DEL GIORNO

30 GIUGNO 2017



Oggi Gesù ci dice: “Io sono il buon pastore, e dò la mia vita per le mie pecore” (Gv 10,11.15) .

Gesù, buon pastore, offre liberamente la sua vita per le pecore, da se stesso senza essere costretto né dagli uomini né da avvenimenti avversi, perché nessuno gliela può togliere. Da qui la sua maestà serena, la sua piena libertà davanti alla morte. 


Il buon pastore - Nell’Antico Testamento, la figura allegorica del buon pastore oltre a rappresentare Dio (Cf. Gen 48,15; 49,24; Sal 23,1-4; 80,2; Sir 18,13; Is 40,11; Ger 31,10; Mic 4,6-8; 7,14; Sof 3,19; Zac 9,16; 10,3) indicava anche le guide spirituali del popolo eletto (Cf. Sal 78,72; Ger 2,8; 3,15; 10,21; 12,10, 22,22; ecc.). Questo uso passò nelle comunità cristiane (Cf. Ef 4,11; 1Pt 5,1-4; ). 
Il brano odierno va letto alla luce di Ez 34, dove i pastori del popolo eletto vengono rimproverati perché lasciano le pecore in preda alle bestie selvatiche (vv. 1-10). Dio stesso si incarica di averne cura: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare» (vv. 11-16). Donando agli uomini suo Figlio Gesù (Cf. Gv 3,16) Dio realizza la sua promessa.
Per il testo greco Gesù è il bel (kalos) pastore, non volendo certamente esaltare i tratti fisici: nei LXX l’uso prevalente di kalos è quello di tradurre tob che significa buono, «non tanto però nel senso di una valutazione etica, quanto piuttosto in quello di gradito, soddisfacente, benefico; kalos è... ciò che è gradito a Jahvé, che gli procura gioia o gli piace» (E. Beyreuther). Gesù è il pastore buono perché compie ciò che piace al Padre. È il pastore, quello vero, gradito al Padre, perché affronta il lupo impegnando e donando la propria vita. 
Al buon pastore si contrappone il mercenario cioè colui che lavora dietro determinato compenso giornaliero. Sono messi bene in evidenza sia la pusillanimità del pastore, che per salvare la vita abbandona le pecore e fugge; sia l’azione fulminea del lupo, che rapisce e disperde le pecore lasciate incustodite. Una scena drammatica quest’ultima, nella quale si può intravedere la situazione delle prime comunità cristiane assediate da nemici esterni ed interni. Tracce di questi “assedi pressanti” le troviamo, per esempio, nelle parole di Paolo nel discorso d’addio agli anziani di Èfeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio. Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé. Per questo vigilate» (Atti 20,28-31a).
Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me: per la sacra Scrittura, conoscere Dio per lo più non significa averne una conoscenza teorica, ma farne l’esperienza, per esempio, attraverso la storia (Cf. Is 41,20; Sal 91,11). Per Giovanni, la conoscenza «prende forma in un comportamento storico conforme a Dio e alla sua rivelazione storica. Poiché Dio rivela nella missione del Figlio il proprio amore per i suoi [Gv 17,23; 1Gv 4,9s] e per il mondo [Gv 3,16], oppure poiché il Figlio ama i suoi secondo la misura dell’amore con cui il Padre lo ama [Gv 15,9; 17,26], si realizza storicamente anche da parte dell’uomo amato un conoscere che appunto nell’amore trova la sua forma concreta [1Gv 4,8]: “Chi non ama non ha conosciuto Dio”. Come il Figlio esprime il suo amore per il Padre nell’obbedienza verso la missione che Dio gli ha affidato [Gv 14,31], così il conoscente esprime il suo conoscere nell’ossservanza dei comandamenti [1Gv 2,3-5], specialmente di quello dell’amore fraterno [1Gv 4,7s; Cf. 2,7ss], nel non peccare [1Gv 3,6]» (E. D. Schmitz).
Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, cioè da Israele. È un chiaro cenno alla portata universale della salvezza. Ma può essere un’allusione ai «figli di Dio che erano dispersi» di 11,52, riuniti poi in un’unica nazione, o ai cristiani in conflitto con la comunità di Giovanni.
Ai Giudei e ai discepoli Gesù svela perché il Padre lo ama: il Padre mi ama: perché io do la mia vita. La compiacenza va ricercata nell’obbedienza alla volontà salvifica del Padre (Cf. Gv 4,4; 14,31), una obbedienza vissuta tra gli spasimi mortali della sofferenza (Cf. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22, 40-46; Gv 18,1; 12,27-30; Eb 5,7-10), ma lieta, serena, totale, completa fino «alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Mentre nei Vangeli sinottici è il Padre che consegna il Figlio, in Giovanni è il Figlio stesso che si dona.
Le ultime parole di Gesù marcano la sua divinità: a differenza di At 2,24, 4,10 e Rom 1,4; 4,24 dove è il Padre a risuscitare Gesù, liberandolo dai dolori della morte, qui, come Dio, mostra assoluto potere sulla vita e sulla morte: «Ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo». Naturalmente in perfetta e filiale comunione con il Padre, infatti subito dopo si aggiunge: «Questo è il comandamento che ho ricevuto dal Padre».
Tutta la vita di Cristo è offerta al Padre - CCC 606-607 Il Figlio di Dio “disceso dal cielo non per fare” la sua “volontà ma quella di colui che” l’ha “mandato” (Gv 6,38), “entrando nel mondo dice: .. Ecco, io vengo ... per fare, o Dio, la tua volontà ... Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Eb 10,5-10). Dal primo istante della sua Incarnazione, il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). Il sacrificio di Gesù “per i peccati di tutto il mondo” (1Gv 2,2) è l’espressione della sua comunione d’amore con il Padre: “Il Padre mi ama perché io offro la mia vita” (Gv 10,17). “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Questo desiderio di abbracciare il disegno di amore redentore del Padre suo anima tutta la vita di Gesù  perché la sua Passione redentrice è la ragion d’essere della sua Incarnazione: “Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27). “Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?” (Gv 18,11). E ancora sulla croce, prima che tutto sia compiuto, egli dice: “Ho sete” (Gv 19,28).

Che cosa significa essere il Buon Pastore? - Giovanni Paolo II (Omelia 6 Maggio 1979): Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente: 
– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20);
– il pastore nutre le sue pecore e le conduce a pascoli freschi e abbondanti: Gesù è venuto per portare la vita alle anime, e darla in misura sovrabbondante. E la vita delle anime consiste essenzialmente in tre supreme realtà: la verità, la grazia, la gloria. Gesù è la verità, perché è il Verbo incarnato, è la “pietra angolare”, come diceva San Pietro ai capi del popolo e agli anziani, sulla quale solamente è possibile costruire l’edificio familiare, sociale, politico: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12). Gesù ci dà la “grazia”, ossia la vita divina per mezzo del Battesimo e degli altri Sacramenti. Mediante la “grazia”, diventiamo partecipi della stessa natura trinitaria di Dio! Mistero immenso, ma di indicibile gioia e consolazione!
Gesù infine ci darà la gloria del paradiso, gloria totale ed eterna, dove saremo amati e ameremo, partecipi della stessa felicità di Dio che è Infinito anche nella gioia! “Ciò che saremo non è stato ancora rivelato – commenta San Giovanni –. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,3);
– il pastore difende le sue pecore; non è come il mercenario che quando arriva il lupo fugge, perché non gli importa nulla delle pecore. Purtroppo sappiamo bene che nel mondo ci sono sempre i mercenari che seminano l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Gesù invece, con la luce della sua parola divina e con la forza della sua presenza sacramentale ed ecclesiale, forma la nostra mente, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e così difende e salva da tante dolorose e drammatiche esperienze;
– il pastore offre perfino la vita per le pecore: Gesù ha realizzato il progetto dell’amore divino mediante la sua morte in croce! egli si è offerto in croce per redimere l’uomo, ogni singolo uomo, creato dall’amore per l’eternità dell’Amore;
– il pastore infine sente il desiderio di ampliare il suo gregge: Gesù afferma chiaramente la sua ansia universale: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). Gesù vuole che tutti gli uomini lo conoscano, lo amino, lo seguano.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
** **  Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno...
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

IL PENSIERO DEL GIORNO

29 GIUGNO 2017



Oggi Gesù ci dice: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).


Gesù: CCC 430: Gesù in ebraico significa: “Dio salva”. Al momento dell’Annunciazione, l’angelo Gabriele dice che il suo nome proprio sarà Gesù, nome che esprime ad un tempo la sua identità e la sua missione. Poiché Dio solo può rimettere i peccati, è lui che, in Gesù, il suo Figlio eterno fatto uomo, “salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Così, in Gesù, Dio ricapitola tutta la sua storia di salvezza a vantaggio degli uomini.

Cristo: CCC 440: Gesù ha accettato la professione di fede di Pietro che lo riconosceva quale Messia, annunziando la passione ormai vicina del Figlio dell’uomo. Egli ha così svelato il contenuto autentico della sua regalità messianica, nell’identità trascendente del Figlio dell’uomo “che è disceso dal cielo” (Gv 3,13), come pure nella sua missione redentrice quale Servo sofferente: “Il Figlio dell’uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Per questo il vero senso della sua regalità si manifesta soltanto dall’alto della croce. Solo dopo la Risurrezione, la sua regalità messianica potrà essere proclamata da Pietro davanti al popolo di Dio: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (At 2,36).

Figlio Unigenito di Dio: CCC 441-442: Figlio di Dio, nell’Antico Testamento, è un titolo dato agli angeli, al popolo dell’elezione, ai figli d’Israele e ai loro re. In tali casi ha il significato di una filiazione adottiva che stabilisce tra Dio e la sua creatura relazioni di una particolare intimità. Quando il Re-Messia promesso è detto “figlio di Dio”, ciò non implica necessariamente, secondo il senso letterale di quei testi, che egli sia più che umano. Coloro che hanno designato così Gesù in quanto Messia d’Israele forse non hanno inteso dire di più. Non è la stessa cosa per Pietro quando confessa Gesù come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), perché Gesù risponde con solennità: “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). Parallelamente Paolo, a proposito della sua conversione sulla strada di Damasco, dirà: “Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani...” (Gal 1,15-16). “Subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio” (At 9,20). Questo sarà fin dagli inizi il centro della fede apostolica professata prima di tutti da Pietro quale fondamento della Chiesa.

Signore: CCC 446-450: Nella traduzione greca dei libri dell’Antico Testamento, il nome ineffabile sotto il quale Dio si è rivelato a Mosè. Da allora Signore diventa il nome più abituale per indicare la stessa divinità del Dio di Israele. Il Nuovo Testamento utilizza in questo senso forte il titolo di “Signore” per il Padre, ma, ed è questa la novità, anche per Gesù riconosciuto così egli stesso come Dio. Gesù stesso attribuisce a sé, in maniera velata, tale titolo allorché discute con i farisei sul senso del Salmo 110, ma anche in modo esplicito rivolgendosi ai suoi Apostoli. Durante la sua vita pubblica i suoi gesti di potenza sulla natura, sulle malattie, sui demoni, sulla morte e sul peccato, manifestavano la sua sovranità divina. Molto spesso, nei Vangeli, alcune persone si rivolgono a Gesù chiamandolo “Signore”. Questo titolo esprime il rispetto e la fiducia di coloro che si avvicinano a Gesù e da lui attendono aiuto e guarigione. Pronunciato sotto la mozione dello Spirito Santo, esprime il riconoscimento del Mistero divino di Gesù. Nell’incontro con Gesù risorto, diventa espressione di adorazione: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). Assume allora una connotazione d’amore e d’affetto che resterà peculiare della tradizione cristiana: “È il Signore!” (Gv 21,7). Attribuendo a Gesù il titolo divino di Signore, le prime confessioni di fede della Chiesa affermano, fin dall’inizio,  che la potenza, l’onore e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche a Gesù, perché egli è di “natura divina” (Fil 2,6) e che il Padre ha manifestato questa signoria di Gesù risuscitandolo dai morti ed esaltandolo nella sua gloria. Fin dall’inizio della storia cristiana, l’affermazione della signoria di Gesù sul mondo e sulla storia comporta anche il riconoscimento che l’uomo non deve sottomettere la propria libertà personale, in modo assoluto, ad alcun potere terreno, ma soltanto a Dio Padre e al Signore Gesù Cristo: Cesare non è “il Signore”. “La Chiesa crede... di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana”.

Vero Dio vero Uomo: CCC 464: L’evento unico e del tutto singolare dell’incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha dovuto difendere e chiarire questa verità di fede contro eresie che la falsificavano.


Paolo VI (Omelia, 29 Settembre 1970)

Io, Paolo, successore di San Pietro, incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto da Roma fine a questo Paese estremamente lontano, se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, di Cristo; la seconda, della vostra salvezza. 
Di Cristo! , io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo: «Guai a me se non proclamassi il Vangelo!» (1Cor. 9,16). Io sono mandato da Lui, da Cristo stesso, per questo. Io sono apostolo, io sono testimonio.
Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l’amore che a ciò mi spinge (Cfr. 2Cor. 5,14). Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (Matth. 16,16); Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura, è il fondamento d’ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita; Egli è l’uomo del dolore e della speranza; è Colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di Lui: Egli è la luce, è la verità, anzi: Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv. 14,6); Egli è il Pane, la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete; Egli è il Pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, Egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore, disgraziato e paziente. Per noi, Egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore ed i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare; anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani.
Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annuncio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega; Egli è il Re del nuovo mondo; Egli è il segreto della storia; Egli è la chiave dei nostri destini; Egli è il mediatore, il ponte, fra la terra e il cielo; Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, e madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra (Cfr. Rom. 10,18), e per tutta la fila dei secoli (Rom. 9,5). Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo! 
E questo facendo io esprimo anche la seconda idea dinamica, che a voi mi conduce; e cioè che Gesù Cristo non è soltanto da celebrare per ciò che Egli è per se stesso, ma Egli è da esaltare e da amare per ciò che Egli è per noi, per ciascuno di noi, per ciascun Popolo e per ciascuna civiltà: Cristo è il nostro Salvatore. Cristo è il nostro supremo benefattore. Cristo è il nostro liberatore. Cristo ci è necessario, per essere uomini degni e veri nell’ordine temporale, e uomini salvati ed elevati all’ordine soprannaturale. 


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
** **  Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che allieti la tua Chiesa con la solennità dei santi Pietro e Paolo,
fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

28 GIUGNO 2017


Oggi Gesù ci dice: «Darò a voi dei pastori secondo il mio cuore, essi vi guideranno con sapienza e dottrina» (Ger 3,15; Cf Antifona).

Bibbia di Gerusalemme (Nota: Ez 34,1-31): L’immagine del re-pastore è antica nel patrimonio letterario dell’Oriente. Geremia l’ha applicata ai re d’Israele, per rimproverarli di avere adempiuto male i loro compiti (Ger 2,8;10,21; 23,1-3), e per annunziare che Dio darà al suo popolo nuovi pastori, che lo guideranno nella giustizia (Ger 3,15; 23,4); tra questi pastori vi sarà un «germoglio» (Ger 23,5-6), il Messia. Ezechiele riprende il tema di Ger 23,1-6 che più tardi sarà anche ripreso da Zc 11,4-17; 13,7. Egli rimprovera ai pastori - qui i re o i capi laici del popolo - i loro crimini (vv 1-10). Il Signore si riprenderà il gregge che essi strapazzano, e farà lui stesso da pastore al suo popolo (cf. Gen 48,15; 49,24; Is 40,11; Sal 80,2; 95,7; 23); è l’annunzio di una teocrazia (vv 11-16): in effetti, al ritorno dall’esilio, la monarchia non verrà più ristabilita. Solo più tardi Jahve darà al suo popolo (cf. Ez 17,22; 21,32) un pastore di sua scelta (vv 23-24), un «principe» (cf. Ez 45,7-8; 45,17, Ez 46,8.10.16-18), nuovo Davide. La descrizione del regno di questo principe (vv 25-31) e il nome di Davide che gli vien dato (vedere 2Sam 7,1+; cf. Is 11,1+, Ger 23,5) suggeriscono una era messianica, in cui Dio stesso, mediante il Messia, regnerà sul suo popolo nella giustizia e nella pace. Si trova, in questo testo di Ezechiele, l’abbozzo della parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) e soprattutto dell’allegoria del buon pastore (Gv 10,11-18) che, confrontata con Ezechiele, appare come una rivendicazione messianica di Gesù. Il buon pastore sarà uno dei temi iconografici più antichi del cristianesimo.


Pastores dabo vobis (n. 4)

Nell’esperienza ecclesiale tipica del sinodo, quella cioè di “una singolare esperienza di comunione episcopale nell’universalità, che rafforza il senso della chiesa universale, la responsabilità dei vescovi verso la chiesa universale e la sua missione, in comunione affettiva ed effettiva attorno a Pietro”, si è fatta sentire, limpida e accurata, la voce delle diverse chiese particolari; e in questo sinodo, per la prima volta, di alcune chiese dell’est: le chiese hanno proclamato la loro fede nel compimento della promessa di Dio: “Vi darò pastori secondo il mio cuore” (Ger 3,15), e hanno rinnovato il loro impegno pastorale per la cura delle vocazioni e per la formazione dei sacerdoti, nella consapevolezza che da queste dipendono l’avvenire della chiesa, il suo sviluppo e la sua missione universale di salvezza.
Riprendendo ora il ricco patrimonio delle riflessioni, degli orientamenti e delle indicazioni che hanno preparato e accompagnato i lavori dei padri sinodali, con questa esortazione apostolica postsinodale unisco alla loro la mia voce di vescovo di Roma e di successore di Pietro e la rivolgo al cuore di tutti i fedeli e di ciascuno di essi, in particolare al cuore dei sacerdoti e di quanti sono impegnati nel delicato ministero della loro formazione. Sì, con tutti i sacerdoti e con ciascuno di loro, sia diocesani sia religiosi, desidero incontrarmi mediante questa esortazione.
Con le labbra e il cuore dei padri sinodali faccio mie le parole e i sentimenti del Messaggio finale del sinodo al popolo di Dio: “Con animo riconoscente e pieno di ammirazione ci rivolgiamo a voi che siete i nostri primi cooperatori nel servizio apostolico. La vostra opera nella chiesa è veramente necessaria e insostituibile. Voi sostenete il peso del ministero sacerdotale e avete il contatto quotidiano con i fedeli. Voi siete i ministri dell’eucaristia, i dispensatori della misericordia divina nel sacramento della penitenza, i consolatori delle anime, le guide dei fedeli tutti nelle tempestose difficoltà della vita. Vi salutiamo con tutto il cuore, vi esprimiamo la nostra gratitudine e vi esortiamo a perseverare in questa via con animo lieto e pronto. Non cedete allo scoraggiamento. La nostra opera non è nostra ma di Dio. Colui che ci ha chiamati e che ci ha inviati rimane con noi per tutti i giorni della nostra vita. Noi infatti operiamo per mandato di Cristo”.


I simboli della Chiesa - Catechismo della Chiesa Cattolica 753-754: Nella Sacra Scrittura troviamo moltissime immagini e figure tra loro connesse mediante le quali la Rivelazione parla del mistero insondabile della Chiesa. Le immagini dell’Antico Testamento sono variazioni di un’idea di fondo, quella del “Popolo di Dio”. Nel Nuovo Testamento tutte queste immagini trovano un nuovo centro, per il fatto che Cristo diventa il “Capo” di questo Popolo, che è quindi il suo Corpo. Attorno a questo centro si sono raggruppate immagini “desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali”. “Così la Chiesa è l’ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo. È pure il gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che sarebbe il pastore e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Pastore buono e il Principe dei pastori, il quale ha dato la sua vita per le pecore.


Gesù è il pastore secondo il cuore di Dio

L’immagine del Buon pastore è una somma di intense realtà: innanzi tutto, il rapporto intimo e personale tra Gesù e ogni seguace è lo stesso rapporto amoroso che intercorre tra lui e il Padre; poi, la sicurezza assoluta della salvezza che egli offre ai suoi discepoli: «Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10,28); e ancora, la sua signoria d’amore; la sua guida: Gesù è il pastore che conduce i suoi discepoli «alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17); la sua presenza costante nella vita del discepolo e della Chiesa, «fino alla fine del mondo» (Mt 28,20); la sua sollecitudine che non conosce sosta: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4); e infine, il suo amore fino al sacrifico estremo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Gesù si definisce il Buon Pastore, «ma egli non si accontenta di parole vaghe e diversamente interpretabili, perciò specifica chiaramente l’entità e la misura della sua bontà in quanto pastore. Il buon pastore è colui che dà la vita per le sue pecore; che ama cioè le sue pecore più di se stesso, ed è disposto a sacrificarsi per il suo gregge. Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri fratelli [Gv 15,13]” (Giorgio Fornasari).
Gesù è il pastore inviato per riunire le pecore disperse d’Israele (Cf. Mt 2,6; 15,24). Ma Giovanni 10,16 - ho altre pecore che non sono di quest’ovile ...- fa intendere che esistono altri ovili, diversi da quello del giudaismo, che un giorno formeranno un solo gregge sotto un solo pastore, Gesù.
Sarà la missione della Chiesa (Cf. GS 92): una missione che superando i confini del popolo eletto raggiungerà ogni uomo sino agli angoli più sperduti della terra. Questo significa che i giudei, come eredi dell’elezione e delle promesse, dovevano ricevere per primi l’offerta della redenzione, ma la salvezza donata da Gesù non poteva interessare solo la nazione ebraica, ma tutto il mondo. Ebrei e pagani, schiavi e liberi, uomini e donne in Cristo costituiscono un unico gregge: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Se Gesù è il Pastore assediato da una banda di malvagi (Cf. Sal 22,17), i discepoli sono un piccolo gregge in mezzo a un branco di lupi: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). I lupi, travestendosi da agnelli (Mt 7,15), si confonderanno nel gregge, uccideranno il Pastore e disperderanno le pecore: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31).
Il mondo allora si rallegrerà. I discepoli saranno afflitti, ma la loro afflizione si cambierà in gioia (Gv 16,20) perché il pastore risorgerà e ricostruirà il suo gregge (Cf. Mt 26,32). Salito al Cielo, Gesù continuerà a guidare il suo gregge fino al giorno in cui si ripresenterà a giudicare le sue pecore (Cf. 1Pt 5,4), separando queste dai capri, e premiando ciascuno secondo i propri meriti (Cf. Mt 25,3-46).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore...


IL PENSIERO DEL GIORNO

27 GIUGNO 2017


Oggi Gesù ci dice: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano» (Mt 7,13).


Le due vie - Giuseppe Barbaglio (I Vangeli): A prima vista l’immagine è la stessa in Luca e in Matteo. In realtà Matteo parla di una porta di città a cui si accede attraverso una strada; nella versione di Luca invece si tratta della porta da varcare per accedere alla sala del banchetto. Di conseguenza anche l’accento appare diverso: Luca insiste sulla decisione necessaria per varcare la soglia che introduce nel regno; per Matteo importante si presenta il cammino faticoso per arrivar all’ingresso della città. In pratica egli costruisce la metafora sullo schema molto conosciuto delle due vie!
Queste sono descritte in termini antitetici: l’una ampia, angusta l’altra; quella conduce alla perdizione, questa alla vita eterna; molti percorrono la prima, pochi la seconda. Non può esserci dubbio in quale senso debba indirizzarsi la scelta dei discepoli del Signore. Con probabilità il terzo evangelista riflette più fedelmente la paro­
la di Gesù, che intendeva lanciare un appello estremo agli ascoltatori perché si decidessero, nella fede e nella conversione, ad accogliere l’offerta della salvezza. La preoccupazione pastorale ha spinto Matteo a creare l’antitesi delle due vie, inserendovi un significato morale. In concreto, nel contesto del discorso della montagna l’immagine della via angusta serve a esprimere l’impegno duro e faticoso richiesto dalla nuova obbedienza insegnata da Cristo. Egli non ha indicato un cammino facile e comodo, percorribile anche dai meno impegnati. Al contrario le esigenze del regno da lui rivelate sono radicali. Matteo esorta la sua chiesa a trovare nuovo slancio di azione: il cammino è in ascesa, ma è anche l’unico che porta alla città di Dio. L’evangelista ha piegato in senso etico un detto di Gesù che interpellava gli uomini per una scelta decisiva, ma si è pur sempre collocato nel quadro del radicalismo delle esigenze che è una prerogativa della predicazione del maestro.


Condanna degli empi - Catechismo Tridentino (Articolo Settimo, 94): Rivolto poi a quelli che staranno alla sua sinistra, fulminerà contro di essi la sua giustizia con queste parole: Via da me, maledetti, al fuoco eterno, preparato per il diavolo ed i suoi angeli (Mt 25,41). Con le prime, “Via da me”, viene espressa la maggiore delle pene che colpirà gli empi, con l’essere cacciati il più possibile lungi dal cospetto di Dio, né li potrà consolare la speranza che un giorno potranno fruire di tanto bene. Questa è dai teologi chiamata pena del danno; per la quale gli empi saranno privati per sempre, nell’inferno, della luce della visione divina. L’altra parola: “maledetti “, aumenterà sensibilmente la loro miseria e calamità. Se mentre sono cacciati dalla presenza di Dio fossero stimati degni almeno di qualche benedizione, questo tornerebbe a grande loro sollievo; ma poiché nulla di simile potranno aspettarsi, che allievi la loro disgrazia, la divina giustizia, cacciandoli giustamente, li colpisce con ogni sua maledizione.
Seguono poi le parole: “al fuoco eterno”; è il secondo genere di pena che i teologi chiamano pena del senso, perché si percepisce con i sensi del corpo, come avviene dei flagelli, delle battiture o di altro più grave supplizio, tra i quali non è a dubitare che il tormento del fuoco provochi il più acuto dolore sensibile. Aggiungendo a tanto male la durata perpetua, se ne deduce che la pena dei dannati rappresenta il colmo di tutti i supplizi. Ciò è meglio spiegato dalle parole che terminano la sentenza: “preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. Siccome la nostra natura è tale che noi più facilmente sopportiamo le nostre molestie, se abbiamo come socio delle nostre disgrazie qualcuno, la cui prudenza e gentilezza ci possano in qualche modo giovare, quale non sarà la miseria dei dannati, cui non sarà mai concesso, in tanti tormenti, separarsi dalla compagnia dei perdutissimi demoni. Tale sentenza giustamente il Signore e Salvatore nostro emanerà contro gli empi, perché questi hanno trascurato tutte le opere di vera pietà: non hanno offerto cibo all’affamato e bevanda all’assetato; non hanno alloggiato l’ospite, vestito l’ignudo, visitato l’infermo e il carcerato.


Beato Giacomo Alberione (I Novissimi meditati innanzi a Gesù Eucaristico): L’esistenza dell’inferno è un articolo della nostra Fede. Diciamo nel Simbolo Atanasiano: «La fede retta insegna che dobbiamo credere e confessare che chi avrà fatto bene andrà alla vita eterna, mentre chi avrà fatto il male andrà nel fuoco eterno. Questa è la fede cattolica, che se qualcuno non la credesse fedelmente e fermamente, senza dubbio si dannerebbe». Si dice nel Vangelo: «Radunerà il Signore il suo grano nel granaio, brucerà la paglia con fuoco inestinguibile. Dal contesto è chiare: il grano rappresenta i giusti, la paglia rappresenta i cattivi. Sant’Ireneo scrive: «Tutti coloro cui il Signore avrà detto: “Allontanatevi da me, o maledetti!” saranno per sempre perduti e tutti coloro, invece, cui avrà detto Gesù Cristo: “Venite, o benedetti, nel regno del Padre mio” saranno per sempre salvi». Tutti i popoli hanno compreso e creduto la esistenza di un inferno eterno. Ammessa la Divina Giustizia, è evidente. infatti, che il male deve venir punito; ed è pure un fatto che questo non accade sempre nella vita presente. Non si vedono talora i buoni perseguitati ed i cattivi in prosperità?
Sia lode a Dio legislatore! Sia gloria eterna alla Bontà che perdona gli umili e contriti di cuore; sia gloria alla Giustizia che punisce gli ostinati che passano all’eternità in peccato.
L’albero se cadrà a destra rimarrà in eterno alla destra: che se invece cadrà alla sinistra rimarrà in eterno alla sinistra. Causa unica di dannazione è il peccato: frutto sia dunque un vivo dolore dei peccati. Una goccia di piacere porta un mare di dolori. Dicono i dannati: Che ci giovò la ricchezza? che ci giovò la gloria mondana? che ci giovò il piacere? Tutto passò come ombra! Rimane eterno l’amarissimo frutto: l’inferno. Abbiamo gustato un po’ di miele, e ne fummo avvelenati per una morte eterna.


Gli alberi di morte (Dialogo della Divina Provvidenza, La dottrina del ponte, 31): Santa Caterina da Siena: Carissima figlia, dinanzi a me tu hai lodato la mia misericordia, perché già lo ti avevo concesso di gustarne e vederne allorché ti dissi: “Son questi, i peccatori, quelli per i quali vi prego che mi preghiate”. Ma devi sapere che la mia misericordia verso di voi è incomparabilmente più grande di quanto tu non veda, perché il tuo vedere è imperfetto e finito, mentre la misericordia mia perfetta e infinita; non si può fare altro paragone se non quello che mette in confronto una cosa finita ad una infinita.
E ho voluto che tu gustassi questa misericordia, ed anche la dignità dell’uomo della quale già ti parlai, affinché tu potessi meglio conoscere la crudeltà e la indegnità degli uomini iniqui che camminano lungo la via dell’acqua tempestosa. Apri bene l’occhio della tua intelligenza: guarda quelli che volontariamente si annegano, e osserva in quanta indegnità sono caduti per le loro colpe.
Innanzitutto essi sono diventati come infermi sin da quando accolsero il peccato mortale concependolo nella loro mente, per generarlo poi nei fatti, così da perdere la vita della grazia.
E come il cadavere non può più usare alcuno dei sentimenti che in vita pur possedeva, né può muoversi da sé e deve esser rimosso da altri, così quelli che sono annegati nel fiume del disordinato amore del mondo sono morti alla grazia. In quanto morti, la loro memoria non conserva alcun ricordo della mia misericordia; l’occhio del loro intelletto non vede la mia verità, né, se la vedesse, la riconoscerebbe, poiché il sentimento è morto; ed è morto in questo senso: che non vede più niente, altro che se stesso, e non ama se non con l’amore della propria sensualità, che è un amore senza vita. Perciò anche la volontà muore alla mia volontà, in quanto non ama più se non cose morte.
Essendo morte queste tre facoltà, tutte le sue opere, quelle esteriori e quelle interiori, sono morte alla grazia; cosi il peccatore non può difendersi dai propri nemici, né aiutarsi con le proprie forze, se non in quanto lo intervengo ad aiutarlo. È ben vero che questo cadavere, al quale è rimasto soltanto il libero arbitrio, può ricevere il mio aiuto mentre vive con il suo corpo mortale, purché me lo chieda; ma non potrà mai ricevere alcun aiuto dalle sole sue forze.
Egli si è reso impotente da se stesso, e volendo padroneggiare il mondo, è diventato schiavo di una cosa che non è, cioè del peccato. Il peccato è un nulla, ed essi si son fatti servi e schiavi del peccato.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
** ** Una goccia di piacere porta un mare di dolori.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la ChiesaDona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore...


IL PENSIERO DEL GIORNO

26 GIUGNO 2017


Oggi Gesù ci dice: «Togli prima la trave dal tuo occhio» (Mt 7,5).

Felipe F. Ramos: Al fondo di questi e di altri proverbi, si trova il principio della retribuzione, basato su una norma di parità: quello che farai a un altro, sarà fatto a te. Richiama l’attenzione la forma passiva in cui sono enunciati tanto il proverbio del giudizio come quello della misura. Chi è colui che giudicherà o che misurerà? Perché sarai giudicato e misurato? In genere, quando compare questa costruzione passiva, il soggetto è Dio: sarai giudicato o misurato da Dio. E quindi i proverbi in questione acquistano un tono paradigmatico. Chi potrà resistere al giudizio o alla misura di Dio su di noi, se egli giudica misura come noi usiamo fare col nostro prossimo?
La Bibbia è profondamente cosciente dello stato di colpevolezza in cui vive ogni uomo; e ne era cosciente anche il giudaismo contemporaneo di Gesù. È di uno dei rabbini di quel tempo la seguente affermazione: «Non giudicare il tuo prossimo, per non trovarti nella stessa situazione di essere giudicato». Questa convinzione raccomandava la dolcezza, la comprensione e la tolleranza.



Rev. D. Jordi POU i Sabater  (Sant Jordi Desvalls, Girona, Spagna)

Con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi

Oggi, il Vangelo mi ha ricordato le parole della Marescialla del libro Il cavaliere della rosa, di Hug von Hofmansthal: «Nel come vi è la grande differenza». Dal come facciamo una cosa cambierà molto il risultato in molti aspetti della nostra vita, soprattutto quello spirituale.
Gesù dice: «Non giudicate per non essere giudicati» (Mt 7,1). Ma Gesù aveva detto pure che dobbiamo correggere il fratello che è in peccato, e perciò è necessario avere fatto prima qualche tipo di giudizio. Lo stesso San Paolo nei suoi scritti giudica la comunità di Corinto e San Pietro condanna di falsità Anania e sua moglie. In seguito a ciò, san Giovanni Crisostomo giustifica: «Gesù non dice che non dobbiamo evitare che un peccatore desista dal peccare, dobbiamo correggerlo, certo, ma non come un nemico che cerca la vendetta, ma come il medico che applica un rimedio». Il giudizio, dunque, sembra che dovrebbe essere con l’intenzione di correggere, mai con l’intenzione di vendetta.
Ma è ancora più interessante quello che dice Sant’Agostino: «Il Signore ci avverte di non giudicare precipitosamente ed ingiustamente (...). Pensiamo, in primo luogo, se noi non abbiamo commesso qualche peccato simile; pensiamo che siamo uomini fragili, e [giudichiamo] sempre con l’intenzione di servire Dio e non noi stessi». Se quando vediamo i peccati dei fratelli pensiamo ai nostri, non ci succederà, come dice il Vangelo, che avendo una trave nell’occhio, pretendiamo cacciare una pagliuzza dall’occhio del nostro fratello (cf. Mt 7,3).
Se siamo ben formati, vedremo le cose buone e le cattive degli altri, quasi in un modo incosciente: da ciò emetteremo un giudizio. Ma il fatto di guardare le mancanze altrui dai punti di vista citati ci aiuterà nel come dobbiamo giudicare: ci aiuterà a non giudicare per giudicare, o per dire qualcosa, o per occultare le nostre mancanze o, semplicemente perché tutti fanno così. E, finalmente, teniamo soprattutto presente le parole di Gesù: «con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,2).


Imitazione di Cristo (Libro II, 2-3)

Non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio

Quando uno riconosce umilmente i suoi difetti, placa agevolmente gli altri e accontenta facilmente quelli che sono in collera con lui. L’umile, Dio lo protegge e lo libera; l’umile, Dio lo ama e lo consola; verso l’uomo umile, egli si china; all’umile concede largamente la sua grazia in abbondanza, lo tira fuori dall’umiliazione e lo innalza alla gloria. All’umile svela i suoi segreti, lo attira dolcemente a sé e lo invita. L’umile, subìto un affronto, non cessa di stare nella pace, perché fa affidamento su Dio e non sul mondo. Se, in primo luogo, manterrai te stesso nella pace, potrai dare pace agli altri. L’uomo di pace è più utile dell’uomo di molta dottrina. L’uomo passionale tramuta in male anche il bene e crede facilmente al male. L’uomo buono e pacifico volge tutto in bene. Colui che sta nella pace non sospetta nessuno. Colui invece che è scontento e sta nel turbamento è agitato da vari sospetti; non è tranquillo lui e non permette agli altri di vivere nella tranquillità.  Spesso dice quello che non dovrebbe dire e tralascia quello che gli converrebbe piuttosto fare. Sta attento a ciò che dovrebbero fare gli altri e trascura i propri doveri.  Comincia dunque ad esercitare il tuo zelo con te stesso. Solo così potrai essere giustamente zelante con il tuo prossimo.


Catechismo della Chiesa Cattolica

Il Giudizio erroneo

1790 L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza. Se agisse deliberatamente contro tale giudizio, si condannerebbe da sé. Ma accade che la coscienza morale sia nell’ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute.

 1791 Questa ignoranza spesso è imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene “quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato”. In tali casi la persona è colpevole del male che commette.

1792 All’origine delle deviazioni del giudizio nella condotta morale possono esserci la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi dati dagli altri, la schiavitù delle passioni, la pretesa ad una malintesa autonomia della coscienza, il rifiuto dell’autorità della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità.

1793 Se - al contrario - l’ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male commesso dalla persona non può esserle imputato. Nondimeno resta un male, una privazione, un disordine. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori.

1794 La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità “sgorga”, ad un tempo, “da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera”. Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** «Non giudicare il tuo prossimo, per non trovarti nella stessa situazione di essere giudicato». Questa convinzione raccomandava la dolcezza, la comprensione e la tolleranza.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore...