1 Maggio 2020

Venerdì III Settimana di Pasqua

At 9,1-20; Sal 116 (117); Gv 6,52-59

Colletta: Dio onnipotente, che ci hai dato la grazia di conoscere il lieto annunzio della risurrezione, fa’ che rinasciamo a vita nuova per la forza del tuo Spirito di amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Ecclesia De Eucharistia - Mistero della fede n. 11: «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito» (1Cor 11,23), istituì il Sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue. Le parole dell’apostolo Paolo ci riportano alla circostanza drammatica in cui nacque l’Eucaristia. Essa porta indelebilmente inscritto l’evento della passione e della morte del Signore. Non ne è solo l’evocazione, ma la ri-presentazione sacramentale. È il sacrificio della Croce che si perpetua nei secoli. Bene esprimono questa verità le parole con cui il popolo, nel rito latino, risponde alla proclamazione del «mistero della fede» fatta dal sacerdote: «Annunziamo la tua morte, Signore!». 
La Chiesa ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore non come un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza. Questa non rimane confinata nel passato, giacché «tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi». 
Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente e «si effettua l’opera della nostra redenzione».Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente. Questa è la fede, di cui le generazioni cristiane hanno vissuto lungo i secoli. Questa fede il Magistero della Chiesa ha continuamente ribadito con gioiosa gratitudine per l’inestimabile dono. Desidero ancora una volta richiamare questa verità, ponendomi con voi, miei carissimi fratelli e sorelle, in adorazione davanti a questo Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia.
Che cosa Gesù poteva fare di più per noi? Davvero, nell’Eucaristia, ci mostra un amore che va fino «all’estremo» (cfr Gv 13,1), un amore che non conosce misura.

Il cannibalismo è una pratica odiosa e disgustosa, e tale verità vale anche per i Giudei che si misero a “discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare»”. L’equivoco nasce purtroppo dalla poca comprensione degli insegnamenti di Gesù, e dalla poca attenzione alle sue parole che rivelano la vera identità del Figlio dell’uomo. Non comprendendo e come usano gli uomini ignoranti e presuntuosi, si irritano “aspramente”. Ma Gesù non è un “uomo” da arrendersi dinanzi a tali provocazioni, e così accresce la durezza e il realismo del suo discorso parlando non solo di mangiare “la carne del Figlio dell’uomo”, ma anche di bere il suo sangue. Per i Giudei quest’ultima proposta, quella di bere il sangue del Figlio dell’uomo, suonava estremamente ributtante e scandalosa in quanto la Legge proibiva severamente, per motivi religiosi, di bere in qualsiasi modo il sangue (cfr. Lv 17,10-14). In poche parole, Gesù è il pane disceso dal cielo, di cui la manna era una pallida idea. Gli ebrei nel deserto avevano mangiato la manna ed erano morti, chi mangia la carne del Figlio dell’uomo e beve il suo sangue avrà la vita eterna. È una chiara allusione al significato redentore e sacrificale dell’Eucarestia.

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,52-59: In quel tempo, i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.

I Giudei si misero a discutere - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 52 Discutevano... i giudei; queste parole richiamano il rilievo espresso dall’evangelista al vers. 41 («mormoravano... i giudei di lui»); la disputa sorta tra gli ascoltatori da occasione a Gesù di chiarire maggiormente la sua affermazione. Come può costui darci la sua carne da mangiare?; i giudei comprendono perfettamente il senso della solenne affermazione di Gesù, ma essi non possono ammetterla perché a loro ripugna il pensiero di mangiare la carne con il sangue.
53 Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo... non avrete in voi la vita; il Maestro non ritira, né attenua la solenne dichiarazione compiuta, ma la accentua più vigorosamente precisando che è necessario mangiare la sua carne e bere il suo sangue. La carne ed il sangue indicano tessere umano compiuto; in tal modo l’Eucaristia richiama l’incarnazione del Verbo ed è in stretta relazione con essa; l’uomo si nutre del Verbo fatto carne. La chiara precisazione di bere il sangue del Figlio dell’uomo era particolarmente urtante per gli ebrei, per i quali vigeva il divieto legale di cibarsi del sangue degli animali (cf. Levitico, 7, 26; 17, 10-14; Atti, 15, 20). «Non avrete in voi la Vita», cioè la vita eterna (cf. verss. 54, 58). La necessità dell’Eucaristia è indicata con una formula analoga a quella con la quale Gesù parla della necessità del battesimo (cf. Giov., 3, 5). Il quarto vangelo mostra un particolare interesse per la vita sacramentaria della Chiesa.
54 Chi mangia la mia carne... ha la vita eterna; è formulato in termini positivi il principio proposto in forma negativa al vers. precedente. L’evangelista usa qui il verbo τρώγω (rodere, masticare, mangiare), che originariamente era detto degli animali ed in seguito fu applicato agli uomini; tale verbo esclude ogni interpretazione metaforica delle parole di Gesù. Al vers. 53 è usato il verbo ἐσθίω. Il cibarsi della carne e del sangue di Cristo è condizione necessaria per avere la vita, per possedere il dono della vita eterna. Io lo risusciterò nell’ultimo giorno; la vita eterna si inizia nella esistenza terrena e trova il suo ultimo e glorioso compimento nella risurrezione finale del corpo. L’insistenza con la quale nel discorso eucaristico si ritorna sui concetti di «vita», «vita eterna», «non morire» rivela un particolare interesse dottrinale. Questa immortalità, causata dall’Eucaristia, rappresenta la restaurazione escatologica del piano divino iniziale, secondo cui l’uomo era immortale (cf. Sapienza, 2, 23); l’immortalità fu perduta per il peccato commesso dall’uomo per istigazione del diavolo (cf. ibid., 2, 24). Sant’Ignazio di Antiochia, riecheggiando questo insegnamento evangelico, chiama l’Eucaristia «il farmaco dell’immortalità» (Efesini, 20, 2).
55 Poiché la mia carne è vero cibo...; l’Eucaristia è un cibo reale, non un alimento metaforico. Molti codici hanno l’avverbio ἀληθῶς, invece dell’aggettivo ἀληθής (la Volgata ha l’avverbio: vere est cibus; vere est potus). L’aggettivo ἀληθής significa «vero» nel senso che tale verità è manifestata dalla rivelazione; i termini «vero» e «verità» nel quarto vangelo si rifanno ad un contesto di rivelazione.

Lo scandalo degli abitanti di Cafarnao - Basilio Caballero (La Parola per ogni Giorno): Con il vangelo di oggi entriamo nella seconda parte del discorso di Gesù sul pane della vita, che spiega e sviluppa l’affermazione conclusiva del brano evangelico proclamato ieri: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Oggi passa in primo piano il tema eucaristico, che continua e completa quello del pane vivo disceso dal cielo. «In quel tempo, i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”». Questa discussione permette a Gesù di tornare sul tema, ma nella risposta di chiarimento Cristo non spiega il modo, né attenua l’affermazione, che per gli abitanti di Cafarnao suonava come un invito all’antropofagia.
Gesù, però, precisa l’effetto di tale cibo: la vita nella pienezza e nella comunione con lui. «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui».
Queste affermazioni si capiscono molto meglio nel contesto dell’ultima cena di Gesù con i suoi apostoli, piuttosto che nell’ambiente della sinagoga di Cafarnao.
Sebbene s’inquadrino perfettamente nel discorso sul pane della vita, « sembra impossibile che le parole dei versetti 51-58, che si riferiscono esclusivamente all’eucaristia, potessero essere capite dalla folla o anche dai discepoli. Sono parole che non collimano con nessuna fase del ministero pubblico di Gesù, a eccezione dell’ultima cena» (R. E. Brown).
Il crudo realismo delle espressioni «mangiare la mia carne e bere il mio sangue», che scandalizza gli abitanti di Cafarnao, esclude qualsiasi simbolismo o spiritualizzazione dei termini «carne» e « sangue». Non ci serve né la visione degli abitanti di Cafarnao, improntata al materialismo, né l’interpretazione metaforica e simbolica dei protestanti, ma la visione «sacramentale» che è quella reale e autentica.

Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda - Stefano Virgulin: Il «sangue di Gesù» indica metaforicamente la morte cruenta di Cristo, di cui sono colpevoli Giuda (Mt 27,4), Pilato (Mt 27,24) e i Giudei (Mt 27,25; At 5,28). Da questo significato derivano anche le frasi «prezzo del sangue» (Mt 27,6) e «campo del sangue» (Mt 26,8).
In senso teologico, «il sangue di Cristo» significa la sua morte in quanto ha un valore salvifico. Gesù accetta liberamente il supplizio della croce, offrendo se stesso al Padre in spirito di obbedienza e di infinito amore per gli uomini (Rm 3,25; 1Pt 1).
Talvolta come pars pro toto la frase «sangue di Cristo» indica tutta l’opera salvifica compiuta da Gesù, non esclusa la sua risurrezione e l’applicazione della salvezza al credente (Ef 1,7; Ap 19,13).
I benefici effetti dellopera salvifica di Cristo sono variamente presentati: remissione dei peccati, redenzione, giustificazione, santificazione, purificazione della coscienza, accesso presso Dio, vittoria sulle potenze del demonio e sulle forze inique (1Gv 1,7; 1Pt 1,19; Rm5,9; Eb 9,14; 10).
La morte sacrificale di Cristo ha un valore profondamente unitivo: essa non solo aduna in un solo corpo le due parti in cui era divisa l’umanità antica, cioè giudei e pagani, ma anche stabilisce la pace tra le potenze celesti e la terra: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo» (Ef 2,13); «Piacque a Dio... per mezzo di lui riconciliare a se tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli›› (Col 1,19-20).
Nel calice eucaristico il sangue di Cristo viene proposto ai fedeli come bevanda nutritiva e sacrificale presentata nel contesto dell’oracolo del servo di JHWH (Mc 14,23; Mt 26,27; Lc 22,20; Gv 6,54-56; 1Cor 10,16s; 11,25-28).
Tra Cristo redentore e il fedele si stabilisce una profonda unione nel ricordo della morte del Signore e nellannuncio del suo ritorno. In 1Cor 11,27 Paolo afferma che comunicandosi indegnamente al pane e al calice del Signore si pecca contro il corpo e il sangue di Cristo. I sinottici e Paolo poi testimoniano la promessa di Gesù che nell’ultima cena, ha promesso di rivedere i suoi discepoli nel suo regno, assisi al banchetto celeste (Mt 26,29 e par; 1Cor 11,26).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Chi  mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui, dice il Signore. (Gv 6,56)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Santifica e rinnova, o Padre, i tuoi fedeli,
che hai convocato a questa mensa,
ed estendi a tutti gli uomini la libertà
e la pace conquistata sulla croce.
Per Cristo nostro Signore.



30 Aprile 2020

Giovedì III Settimana di Pasqua

At 8,26-40; Sal 65 (66); Gv 6,44-51

Colletta: O Dio, che in questi giorni pasquali ci hai rivelato la grandezza del tuo amore, fa’ che accogliamo pienamente il tuo dono, perché, liberi da ogni errore, aderiamo sempre più alla tua parola di verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Redemptor Hominis (Eucarestia e penitenza n.20):  Nel mistero della Redenzione, cioè dell’opera salvifica operata da Gesù Cristo, la Chiesa partecipa al Vangelo del suo Maestro non soltanto mediante la fedeltà alla Parola ed il servizio alla verità, ma parimenti mediante la sottomissione, piena di speranza e di amore, partecipa alla forza della sua azione redentrice, che Egli ha espresso e racchiuso in forma sacramentale, soprattutto nell’Eucaristia. Questo è il centro e il vertice di tutta la vita sacramentale, per mezzo della quale ogni cristiano riceve la forza salvifica della Redenzione, iniziando dal mistero del Battesimo, in cui siamo immersi nella morte di Cristo, per diventare partecipi della sua Risurrezione, come insegna l’Apostolo. Alla luce di questa dottrina, diventa ancor più chiara la ragione per cui tutta la vita sacramentale della Chiesa e di ciascun cristiano raggiunge il suo vertice e la sua pienezza proprio nell’Eucaristia. In questo Sacramento, infatti, si rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del sacrificio, che Egli fece di se stesso al Padre sull’altare della Croce: sacrificio che il Padre accettò, ricambiando questa totale donazione di suo Figlio, che si fece «obbediente fino alla morte», con la sua paterna donazione, cioè col dono della nuova vita immortale nella risurrezione, perché il Padre è la prima sorgente e il datore della vita fin dal principio. Quella vita nuova che implica la glorificazione corporale di Cristo crocifisso, è diventata segno efficace del nuovo dono elargito all’umanità, dono che è lo Spirito Santo, mediante il quale la vita divina, che il Padre ha in sé e che dà al suo Figlio, viene comunicata a tutti gli uomini che sono uniti con Cristo.

L’Eucaristia è il Sacramento più perfetto di questa unione. Celebrando ed insieme partecipando all’Eucaristia, noi ci uniamo a Cristo terrestre e celeste, che intercede per noi presso il Padre; ma ci uniamo sempre mediante l’atto redentore del suo sacrificio, per mezzo del quale Egli ci ha redenti, così che siamo stati «comprati a caro prezzo». Il «caro prezzo» della nostra redenzione comprova, parimenti, il valore che Dio stesso attribuisce all’uomo, comprova la nostra dignità in Cristo. Diventando infatti «figli di Dio», figli di adozione, a sua somiglianza noi diventiamo al tempo stesso «regno di sacerdoti», otteniamo «il sacerdozio regale», cioè partecipiamo a quell’unica e irreversibile restituzione dell’uomo e del mondo al Padre, che Egli, Figlio eterno e insieme vero uomo, fece una volta per sempre. L’Eucaristia è il Sacramento, in cui si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso, incessantemente e sempre in modo nuovo, «rende testimonianza» nello Spirito Santo al nostro spirito che ognuno di noi, come partecipe del mistero della Redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio, quale Egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero della Chiesa.
È verità essenziale, non soltanto dottrinale ma anche esistenziale, che l’Eucaristia costruisce la Chiesa, e la costruisce come autentica comunità del Popolo di Dio, come assemblea dei fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere di unità, di cui furono partecipi gli Apostoli ed i primi discepoli del Signore. L’Eucaristia costruisce sempre nuovamente questa comunità e unità; sempre la costruisce e la rigenera sulla base del sacrificio di Cristo stesso, perché commemora la sua morte sulla Croce, a prezzo della quale siamo stati redenti da Lui. Perciò, nell’Eucaristia tocchiamo, si potrebbe dire, il mistero stesso del Corpo e del Sangue del Signore, come testimoniano le stesse parole al momento dell’istituzione, le quali, in virtù di essa, sono diventate le parole della perenne celebrazione dell’Eucaristia da parte dei chiamati a questo ministero nella Chiesa.
  

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,44-51: In quel tempo, disse Gesù alla folla: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno: Cosa vuol dire che il Padre attira? Forse non è libero l’uomo nel suo andare? L’espressione di Gesù va compresa solo alla luce dell’amore e della fede. La fede è un dono di Dio, ma ha come condizione l’apertura da parte dell’uomo, l’ascolto di Dio: l’uomo, pur consapevole della sua debolezza che non gli permette di giungere a Dio con le sue sole forze, desidera e ama Dio; anela, tende a Lui e fiducioso attende quella grazia divina che «previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità» (DV 5).
Solo chi «ha udito il Padre e ha imparato da lui» si può porre alla sequela del Cristo perché la sequela non è una conquista, ma una grazia.
Avendo cercato di allargare il cuore dei Giudei entro gli ampi spazi della fede, Gesù ritorna sul tema del pane della vita. E mostra ancora una volta se stesso come «il pane vivo, disceso dal cielo».
Solo questo pane preserva l’uomo dalla morte e lo introduce nella vera vita: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Il termine carne (sàrx) che nella Bibbia indica la realtà fragile della persona umana, ora, riferita al corpo di Cristo, rimanda sia al mistero dell’incarnazione, sia alla Passione e alla morte sacrificale «per la vita del mondo», cioè per tutti: «Gesù è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,1-2).
«Le espressioni “per la vita del mondo”, “per voi”, alludono al valore redentivo dell’immolazio- ne di Cristo sulla Croce. Già in alcuni sacrifici dell’Antico Testamento, che erano tipo di quello del Signore, una parte della carne offerta veniva successivamente distribuita come cibo e significava la partecipazione dei presenti al rito sacro [Cf. Es 11,3-4]. Parimenti, quando ci comunichiamo, diveniamo partecipi del sacrificio di Gesù. Perciò durante la liturgia delle Ore nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, la Chiesa canta: “Oh sacra mensa in cui Cristo si fa nostro cibo, si celebra il memoriale della sua Passione, l’anima è colmata di grazia e ci vien dato un pegno della futura gloria” [Antifona del Magnificat, ai secondi Vespri ]» (La Bibbia di Navarra).
 Così si entra nel cuore del mistero dell’Eucaristia.
Il pane eucaristico non è un pane metaforico: il pane che viene donato per la vita eterna è veramente il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio. La presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia sorpassa sia la capacità della nostra intelligenza, sia le nostre conoscenze: che «nell’Eucaristia ci sia il vero corpo e sangue di Cristo non si può percepire per mezzo dei sensi e nemmeno per mezzo dell’intelletto, ma lo si sa per fede, in base all’autorevolissima testimonianza di Dio [....]. Dire che Cristo nell’Eucaristia non c’è veramente, ma c’è per esempio solo in figura o in simbolo, è eresia» (San Tommaso, S. Th., q. 75).

Il mistero della fede - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni, Vol. II): Nel discorso di Cafarnao è prospettato con sufficiente chiarezza il carattere misterioso della fede, perché da una parte essa è presentata come un dono di Dio, dall’altra è proclamata la libertà umana nel processo di adesione alla persona del Verbo incarnato.
Il Cristo giovanneo dichiara esplicitamente che può andare verso di lui solo chi è attirato dal Padre (Gv 6,44). Anzi Gesù, nel brano finale che descrive la reazione dei discepoli alle sue parole di rivelazione, dichiara che può credere nel Figlio di Dio solo chi ha ricevuto questo dono dal Padre (Gv 6,65). Inoltre in Gv 8,43 egli dice anche ai suoi avversari che essi non possono ascoltare la sua parola divina, ossia da soli sono incapaci di fare il salto della fede. In questo sermone sul pane di vita, però, è affermato che Dio chiama tutti alla salvezza per mezzo del Figlio suo e che vuole ammaestrare tutti per condurli al Cristo (Gv 6,45). La fede quindi è un dono, è una grazia che il Padre vuol concedere a tutti gli uomini.
Il carattere di favore divino, proprio della fede, non sopprime la libertà umana nell’accogliere o nel rigettare questa grazia celeste. In realtà il quarto evangelista non è determinista, perché sottolinea molto la responsabilità dell’uomo nel rifiuto della fede. Giovanni infatti presenta l’incredulità del mondo, già giudicato e condannato per questa sua scelta, come un preferire le tenebre alla luce (Gv 3,19). L’uomo perciò è responsabile di questo suo atteggiamento religioso. Anzi il nostro agiografo parla dell’incredulità come di un rifiuto a voler andare verso il Verbo incarnato (Gv 5,40). Si tratta quindi di un libero atto di volontà.
Nel discorso di Cafarnao, parimenti è insinuata la libertà dell’uomo nel credere in Gesù. Il Maestro presenta la fede come l’unica opera che l’uomo deve compiere (Gv 6,29), anzi rimprovera i galilei di non credere, nonostante abbiano visto il Rivelatore in persona, operatore di segni straordinari (Gv 6,36). In realtà la fede è un andare verso il Cristo (Gv 6,35), ascoltando l’insegnamento del Padre e lasciandosi ammaestrare da lui (Gv 6,45). Espressioni simili dicono che l’uomo deve fare la verità (Gv 3,21), ossia deve far propria la rivelazione del Verbo incarnato, deve mostrarsi docile alla voce di Dio, interiorizzando la sua parola. Quindi la fede implica il movimento della volontà e perciò presuppone la responsabilità dell’uomo, pur essendo dono di Dio.
In un altro contesto Gesù domanda ai suoi avversari, per quale ragione non credono a colui che rivela loro la verità, ossia comunica loro la parola salvifica di Dio (Gv 8,46). In realtà i giudei increduli, nell’opposizione al Verbo incarnato e nei loro propositi omicidi, vogliono eseguire i desideri del loro padre, il diavolo, il primo omicida del mondo (Gv 8,44).
La fede quindi, per il nostro evangelista, è una realtà misteriosa, perché dono divino, che coinvolge la responsabilità dell’uomo. Nessuno può credere, se non ha ricevuto questa grazia dal Padre celeste; ciò nonostante la fede, o l’incredulità, non sopprime la libertà umana: la creatura infatti può accettare o rifiutare questo favore divino. In realtà il Salvatore invita tutti alla fede, però non costringe nessuno ad accogliere il suo appello.

Comunione con Cristo e con il Padre: Richard Gutzwiller (Meditazioni su Giovanni): Tutti i sacramenti della Chiesa hanno una relazione con la nuova vita donata da Dio. Il Battesimo la conferisce, la Cresima la stabilizza, la Penitenza la restituisce a chi l’ha perduta, l’Ordinazione sacerdotale dà la capacità di donarla agli altri, il Matrimonio congiunge due vite, naturali e soprannaturali, per la generazione naturale e soprannaturale, l’Unzione degli infermi rafforza la vita naturale ed assicura l’eterna. Al vertice sta l’autentico Sacramento di vita, il cibo vivificante della carne di Cristo, la bevanda vivificante del sangue di Cristo. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui». Nella santa Comunione l’uomo si unisce a Cristo e Cristo si unisce a chi si nutre di lui. È questo un processo di assimilazione, che indicato simbolicamente dal mangiare e dal bere, sarà consumato nella realtà invisibile di un’unione soprannaturale. La corrente di vita ha la sua scaturigine nel Padre: «Come il Padre che vive ha mandato me, ed io vivo per il Padre, così chi mangia me, vivrà anch’egli per me». La generazione del Figlio dal Padre è comunicazione di vita. Ricevere il Figlio, mangiando la sua carne ed il suo sangue, significa partecipare a questa comunicazione di vita. Così si completa l’unità vitale: dal Padre attraverso Cristo si passa all’uomo, dall’uomo attraverso Cristo si torna al Padre. Quel pane non ha solo un’efficacia transitoria come la manna, ma chi ne mangia vivrà in eterno. «Non come la manna che mangiarono i vostri padri e morirono». La vera manna è Cristo: chi ne mangia non muore più, perché - anche se muore nel suo elemento esterno, corporalmente - ha pur sempre in sé una vita, che non può esser distrutta dalla morte e per di più sarà risuscitato anche nel suo elemento esterno corporalmente, nell’ultimo giorno.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. (Vangelo)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Per questa comunione al tuo sacrificio donaci, Signore,
un servizio perseverante nella tua volontà,
perché cerchiamo con tutte le forze il regno dei cieli
e annunziamo al mondo il tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.




29 Aprile 2020

Santa Caterina da Siena Festa

1Gv 1,5-2,2; Salmo Responsoriale 102; Mt 11,25-30

Santa Caterina da Siena, Vergine: «Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana [o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero]. La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi» (Avvenire)

Colletta: O Dio, che in santa Caterina da Siena, ardente del tuo spirito di amore, hai unito la contemplazione di Cristo crocifisso e il servizio della Chiesa, per sua intercessione concedi a noi tuoi fedeli, partecipi del mistero di Cristo, di esultare nella rivelazione della sua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 

Paolo VI (Mirabilis in Ecclesia Deus): Secondo l’insegnamento di Caterina, al primo posto bisogna mettere la potenza del sangue di Cristo e la missione della Chiesa: mediante quel sangue prezioso si è specialmente manifestata la verità del Padre (Lett. 102) e da parte di Cristo la volontà di compierla; e ancora è mostrata la via della dottrina di Cristo, aperta a tutti, che ognuno può percorrere «nel sangue della stessa verità incarnata» (Dial., c. 135). Si ha così questo: negli scritti di Caterina l’umanità di Cristo è collocata proprio al centro di tutta la pietà cristiana, insieme con le verità di fede che nutrono la carità, come sono l’Eucaristia, le sofferenze di Cristo e il suo preziosissimo sangue. La Chiesa, poi, per Caterina, non è altro che Cristo (Lett. 171), poiché nella carità diventa una cosa sola con Cristo, come il Padre e il Figlio sono una cosa sοla (cfr. Gv 17,21). Il suo impegno per la Chiesa e per il Sommo Pontefice fu così straordinario e singolare, da farle offrire la vita a Dio come vittima per essi (cfr. Lett. 371), e questa determinazione fu così ferma, che nei durissimi anni del grande scisma Occidentale contribuì molto col suo prestigio ad aumentare l’amore verso il Corpo Mistico di Cristo. La Vergine Senese considerò sempre il Romano Pontefice cοme «il dolce Cristo in terra» (Lett. 196), al quale si deve sempre amore e obbedienza; e chi non obbedisce a questo Cristo terrestre, che è una cosa sola cοl Cristo celeste (cfr. Lett. 207), non partecipa al frutto del Sangue del Figlio di Dio. Quello poi che Caterina insegna della comunione che passa tra ognuno di noi e gli altri membri del Corpo mistico, e anche del sacro ordine dei Sacerdoti i quali prestano la loro opera a Cristo» come «ministri del sangue» (Dial., c. 117) e infine quello che dice riguardo a tutti i fedeli di Cristo, tutto ciò è perfettamente conforme a quanto insegna il Concilio Vaticano II (cfr. Cost. Lumen Gentium n. 23).

Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno tre temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio. Il terzo tema è quello del giogo di Gesù che è dolce e sopportabile a differenza di quello imposto dai Farisei, insopportabile perché reso pesante da minuziose norme di fatto impraticabili.

Dal Vangelo secondo Matteo 11,25-30: In quel tempo, Gesù disse:  «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra... - L’espressione Signore del cielo e della terra, evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale [Mt 13,11], rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,26-29).
... nessuno conosce il Figlio... La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
... nessuno conosce il Padre se non il Figlio... Gesù è l’unico rivelatore dei misteri divini, in quanto il Padre ne ha comunicato a lui, il Figlio, la conoscenza intera. Da questa affermazione si evince che Gesù è uguale al Padre nella natura e nella scienza, è Dio come il Padre, di cui è il Figlio Unico.
Venite a me... Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di leggi e precetti meramente umani (Mt 15,9); una giustizia ipocrita, ma strisciante da sempre in tutte le religioni. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono stanchi e oppressi, in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, le condizioni che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno, senza infingimenti o accomodamenti: «Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”» (Lc 9,23). È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre stoltezza o scandalo (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti, anche cristiani, tendono a porre al centro di tutta la loro vita, spesso disordinata, le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o avvinti dai loro gusti e programmi, tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità capricciosa di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
Gesù è mite e umile di cuore: è la via maestra per tutti i discepoli, è la via dell’annichilimento (Cf. Fil 2,5ss), dell’incarnarsi nel tempo, nella storia, nel quotidiano dei fratelli, non come maestri arroganti o petulanti, ma come servi (Cf. 1Cor 9,22).

… imparate da me, che sono mite e umile di cuore - C. Spic e M. F. Lacan - «Mettetevi alla mia scuola, perché io sono mite ed umile di Cuore» (Mt 11,29). Gesù, che così parla, è la rivelazione suprema della mitezza di Dio (Mi 12,18ss); è la fonte della nostra, quando proclama: «Beati i miti» (Mt 5,4).
La mitezza di Dio. - L’Antico Testamento canta l’immensa e clemente bontà di Dio (Sal 31,20; 86,5), manifestata nel suo governo dell’universo (Sap 8,1; 15,1), e ci invita a gustarla (Sal 34,9). Più dolci del miele sono la parola di Dio, la sua legge (Sal 119,103; 19,11; Ez 3,3), la conoscenza della sua sapienza (Prov 24,13; Eccli 24,20) e la fedeltà alla sua legge (Eccli 23, 27). Dio nutre il suo popolo con un pane che soddisfa tutti i gusti; rivela in tal modo la sua dolcezza (Sap 16,20s), dolcezza che egli fa gustare al popolo di Cui è lo sposo diletto (Cant 2,3), dolcezza che il Signore Gesù finisce di rivelarci (Tito 3, 4) e di farci gustare (1Piet 2,3).
Mitezza ed umiltà. - Mosè è il modello della vera mitezza, virtù che non è debolezza, ma umile sottomissione a Dio, fondata sulla fede nel suo amore (Num 12,3; Eccli 45,4; 1,27; cfr. Gal 5,22s). Questa umile mitezza caratterizza il «resto» che Dio salverà, ed il re che darà la pace a tutte le nazioni (Sof 3,12; Zac 9,9s = Mt 21,5). Questi miti, sottomessi alla sua parola (Giac 1,20ss), Dio li dirige (Sal 25,9), li sostiene (Sal 147,6), li salva (Sal 76,10); dà loro il trono dei potenti (Eccli 10,14) e fa loro godere la pace nella sua terra (Sal 37,11 = Mt 5,4).
Mitezza e carità.- Colui Che è docile a Dio, è mite verso gli uomini, specialmente verso i poveri (Eccli 4,8). La mitezza è il frutto dello Spirito (Gal 5,23) ed il segno della presenza della sapienza dall’alto (Giac 3,13. 17). Sotto il suo duplice aspetto di calma mansuetudine (gr. pràytes) e di indulgente moderazione (gr. epieikìi.), la mitezza caratterizza Cristo (2Cor 10,1), i suoi discepoli (Gal 6,1; Col 3,12; Ef 4,2) ed i loro pastori (1Tim 6,11; 2Tim 2,25). Essa è l’ornamento delle donne cristiane (1Piet 3,4) e fa la felicità dei loro focolari (Eccli 36,23). Il vero cristiano, anche nella persecuzione (1Piet 3,16), mostra a tutti una mitezza serena (Tito 3,2; Fil 4,5); attesta in tal modo che il «giogo del Signore è dolce» (Mt 11,30), essendo quello dell’amore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno. (Cfr. Mt 11,25)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, questo cibo spirituale
che fu nutrimento e sostegno
di santa Caterina nella vita terrena,
comunichi a noi la tua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.




28 Aprile 2020

Martedì III Settimana di Pasqua

At 7,51-8,1a; Sal 30 (31); Gv 6,30-35

Colletta: O Dio, che apri la porta del tuo regno agli uomini rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo, accresci in noi la grazia del Battesimo, perché liberi da ogni colpa possiamo ereditare i beni da te promessi. Per il nostro Signore Gesù Cristo ...

Ecclesia De Eucharistia 25. Il culto reso all’Eucaristia fuori della Messa è di un valore inestimabile nella vita della Chiesa. Tale culto è strettamente congiunto con la celebrazione del Sacrificio eucaristico. La presenza di Cristo sotto le sacre specie che si conservano dopo la Messa - presenza che perdura fintanto che sussistono le specie del pane e del vino - deriva dalla celebrazione del Sacrificio e tende alla comunione, sacramentale e spirituale. Spetta ai Pastori incoraggiare, anche con la testimonianza personale, il culto eucaristico, particolarmente le esposizioni del Santissimo Sacramento, nonché la sosta adorante davanti a Cristo presente sotto le specie eucaristiche.  
È bello intrattenersi con Lui e, chinati sul suo petto come il discepolo prediletto (cfr Gv 13,25), essere toccati dall’amore infinito del suo cuore. Se il cristianesimo deve distinguersi, nel nostro tempo, soprattutto per l’«arte della preghiera», come non sentire un rinnovato bisogno di trattenersi a lungo, in spirituale conversazione, in adorazione silenziosa, in atteggiamento di amore, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento? Quante volte, miei cari fratelli e sorelle, ho fatto questa esperienza, e ne ho tratto forza, consolazione, sostegno! 
Di questa pratica ripetutamente lodata e raccomandata dal Magistero, numerosi Santi ci danno l’esempio. In modo particolare, si distinse in ciò sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che scriveva: «Fra tutte le devozioni, questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi». L’Eucaristia è un tesoro inestimabile: non solo il celebrarla, ma anche il sostare davanti ad essa fuori della Messa consente di attingere alla sorgente stessa della grazia. Una comunità cristiana che voglia essere più capace di contemplare il volto di Cristo, nello spirito che ho suggerito nelle Lettere apostoliche Novo millennio ineunte e Rosarium Virginis Mariae, non può non sviluppare anche questo aspetto del culto eucaristico, nel quale si prolungano e si moltiplicano i frutti della comunione al corpo e al sangue del Signore

Dal Vangelo secondo Giovanni 6,30-35: In quel tempo, la folla disse a Gesù: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

Io sono il pane della vita - Io sono il pane della vita - La folla sazia del pane miracoloso (Cf. Gv 6,1ss), affascinata dalla parola del Maestro (Cf. Lc 19,48), conquistata dalla dolcezza di Gesù (Cf. Mt 11,28-30), si mette alla ricerca del giovane Rabbi. Un entusiasmo non gradito, così invece di accoglienza trova un rimprovero: «Gesù rimprovera al popolo, che lo cerca, la incomprensione del miracolo come segno in cui leggere mediante la fede la rivelazione della sua persona. La loro comprensione è ancora solo naturale, materiale» (Giuseppe Segalla).
Al rimprovero segue una esortazione: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna. Queste parole allargano gli angusti spazi spirituali del giudaismo: il pane, alimento che perisce, dà soltanto una vita che muore, il pane che il Figlio dell’uomo darà agli uomini spalanca le porte dell’eternità. L’eternità insegnata da Cristo era certamente una categoria religiosa assai lontana dalla teologia dei sadducei e dei farisei, anche se quest’ultimi, a differenza dei primi, credevano nella risurrezione.
Il Figlio dell’uomo darà questo pane perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo. Forse è un riferimento al Battesimo ricevuto da Giovanni nel fiume Giordano: potrebbe riferirsi alla voce del Padre che rivela al mondo Gesù come Figlio suo prediletto (Cf. Mt 3,17), oppure allo Spirito Santo disceso su di lui appena battezzato (Cf. Mt 3,16;  Rom 4,11), potenza di Dio per effettuare i «segni» (Cf. Mt 12,28; At 10,38; Ef 1,13.30; 2Cor 1,22).
Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? I giudei ammettono la loro ignoranza: comprendono la necessità di lavorare per avere il pane terreno, comprendono che devono darsi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna, ma non conoscono le condizioni che Dio pone per concederlo. Qui gioca molto la loro mentalità legalista, credono che Dio ponga un prezzo ai suoi doni e credono di poterlo pagare osservando qualche regola o precetto. Praticamente, una sorta di baratto, così come erano avvezzi a credere e a insegnare a motivo di una imperfetta educazione religiosa.
La correzione non tarda ad arrivare. L’amore di Dio e i suoi doni sono gratuiti. L’opera che Gesù vuole è unica: credere in lui.
Ma chi è Gesù perché possano credere in lui? Per i giudei non basta la moltiplicazione dei pani, ed è poca cosa che in un convito nuziale abbia mutato l’acqua in vino, per credere in lui ora vogliono qualcosa di più. Se vuole accreditarsi come Messia rinnovi i prodigi dell’esodo. Come Mosè, Gesù dia al popolo da mangiare un pane dal cielo. Questo è il segno tangibile che i giudei chiedono, perché vedano e possano credere in lui.
«La risposta di Gesù è tagliente: la loro fede [dei giudei] è illusoria. Soltanto suo Padre dà il vero pane del cielo. La manna è cosa del passato; il pane di Dio è presente, una comunicazione permanente di vita che egli dona al  mondo. Questo pane scende dal cielo, come la manna pioveva dall’alto, ma senza cessare; e non si limita a dar vita a un popolo, ma all’umanità intera. Dato che è Gesù a dare questo pane [Gv 6,27], si afferma qui la comunicazione continua della vita di Dio all’uomo attraverso Gesù» (J. Mateos - J. Barreto).
Gesù sottolinea che il datore del pane del cielo è Dio e non Mose e chiamandolo Padre mio si prepara ad identificarsi con il pane di Dio.
A queste parole, i giudei mostrano allegrezza, felici di aver trovato un tesoro senza la necessità di lavorare, e così chiedono di ricevere il pane del cielo. Poiché hanno omesso la condizione posta dal giovane Rabbi, e siccome Gesù non accetta le scorciatoie, ribadisce che soltanto lui è il pane della vita e per riceverlo bisogna credere in lui. Questa è l’unica condizione posta dal Padre e dal Figlio perché l’uomo non abbia più a soffrire la fame e la sete. La risposta di Gesù si oppone nettamente a quanto dice di se stessa la Sapienza: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,21).
Solo Gesù, pane della vita, può soddisfare pienamente l’uomo, nell’anima e nel corpo: risuscitandolo certamente dalla morte e aprendolo alla contemplazione della luce della Trinità.

La manna - Peter Weimar (Manna in Prontuario della Bibbia): Alimento prodigioso degli israeliti durante la traversata del deserto (Es 16; Nm 11,6-9). Quando il popolo mormora per la fame, secondo Es 16 gli vengono date manna e quaglie, mentre secondo Nm 11 esso riceve le quaglie soltanto quando è nauseato della manna. La manna era granulosa e minuta, come la rugiada: aveva l’aspetto di semi di coriandolo, bianca a giallastra, e aveva il sapore di una focaccia con miele. Veniva macinata a pestata, bollita, e se ne facevano focacce (Es 16,14.31; Nm 11,7s). Ogni giorno doveva essere raccolto il fabbisogno giornaliero; quella che, contro il divieto di Mosè, veniva conservata fino al giorno dopo, imputridiva. Poiché il sabato la manna non cadeva, il giorno prima si doveva raccoglierne il doppio. A perenne ricordo di questo evento, si doveva esporre nel santuario davanti a JHWH un omer di manna. Il nome manna viene spiegato con la domanda degli israeliti: “che cos’è?" (ebr. man hu). La manna proviene dal cosiddetto tamarisco della manna nella penisola del Sinai; dalle sue foglie, punte dalla cocciniglia, cadono delle gocce sul terreno. Questo alimento naturale, ma sconosciuto e strano per gli israeliti, fu per loro un segno della particolare guida di Dio nell’esodo dall’Egitto: JHWH stesso aiuta il suo popolo, ragion per cui la manna è chiamata anche “pane del cielo” (Es 16,4; cf. Sal 78,24; 105,40) e “pane degli angeli” (Sal 78,25, cf. Sap 16,20). L’alimentazione con la manna è al tempo stesso una chiara motivazione dell’ordinamento del sabato. In contrapposizione all’attesa giudaica della manna quale cibo del tempo escatologico, Gesù definisce se stesso il pane vero (Gv 6,32.48). La manna è prefigurazione dell’eucaristia (1Cor 10,3s) e della beatitudine (Ap 2,17). 

I nostri padri hanno mangiato la manna: Marc François Lacan (Dizionario di Teologia Biblica): La manna e il vero pane di Dio - Cristo, nel deserto, conferma vivendola la lezione del Vecchio Testamento: «l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,14 par.; cfr. Dt 8,3). Rinnova questo insegnamento nutrendo il popolo di Dio con un pane miracoloso. Questo pane che sazia il popolo (Mt 14,20; 15,37 par.; cfr. Sal 78,29) suscita un entusiasmo senza rapporto con la fede Che Gesù esige (Gv 6,14s); i discepoli non comprendono meglio della folla il senso del dono e del miracolo; quanto agli increduli, Farisei e Sadducei, essi esigono in questo momento «un segno che venga dal cielo» (Mt 16,1-4 par.; cfr. Gv 6,30 s; Sal 78,24s). Ora, il vero pane «venuto dal cielo» non è la manna che lasciava morire, bensì Gesù stesso (Gv 6,32s) che si riceve mediante la fede (6,35-50): è la sua carne, data «per la vita del mondo» (6,51-58). Anche Paolo vede questo «alimento spirituale» prefigurato dalla manna del deserto (1Cor 10,3s). A buon diritto quindi la liturgia eucaristica riprende le immagini bibliche che concernono la manna. Con la partecipazione al pane misterioso del pasto eucaristico, apparentemente sempre le stesso come la manna, il cristiano risponde ad un segno di Dio ed attesta la propria fede nella sua parola discesa dal cielo; perciò, fin d’ora, egli è «nutrito con il pane degli angeli, divenuto il pane dei viandanti» (Lauda Sion), che soddisfa tutti i loro bisogni e risponde a tutti i loro gusti, durante il nuovo esodo del popolo di Dio; più ancora, il credente è già vincitore nella lotta che deve sostenere durante il suo viaggio, perché è già nutrito del pane di Dio stesso e vive della sua vita eterna (Gv 6,33.54.57s; Ap 2,17).

Il vero pane celeste non è qualcosa ma è Qualcuno - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): Gli Ebrei avevano mangiato il pane miracoloso moltiplicato da Gesù, non erano ancora riusciti a capire lo scopo del prodigio. Esso era destinato soprattutto a mostrare che, oltre il pane materiale, c’era un pane superiore e che questo pane era Cristo. Essi ricordavano Mosè. Questi aveva liberato il popolo guidandolo fuori dall’Egitto. Aveva ottenuto da Dio la manna per il popolo. Gli ascoltatori di Gesù, secondo quanto si attendeva in quel tempo dal Messia, volevano che anche lui ripetesse un fatto simile, cioè facesse cadere il pane dal cielo e così lo avrebbero considerato il nuovo Mosè, il nuovo liberatore dalla schiavitù e dall’oppressione straniera. Ma Gesù fece una sostanziale rettifica. Quello di Mose in realtà non era il pane vero venuto dal cielo. Pane del cielo, infatti, significa un cibo che dà la vera vita divina, mentre quello serviva solo a conservare la vita fisica. Il vero pane celeste non è qualcosa, ma è Qualcuno. È colui che il Padre ha inviato dal cielo per dare la vita al mondo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Il vero pane celeste non è qualcosa ma è Qualcuno.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, guarda la tua Chiesa,
che hai nutrito alla mensa dei santi misteri,
e guidala con mano potente,
perché cresca nella perfetta libertà
e custodisca la purezza della fede.
Per Cristo nostro Signore.