1 AGOSTO 2019

SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, VESCOVO DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA

Es 40,16-21.34-38; Sal 83 (84); Mt 13,47-53 


Colletta: O Dio, che proponi alla tua Chiesa modelli sempre nuovi di vita cristiana, fa’ che imitiamo l’ardore apostolico del santo vescovo Alfonso Maria de’ Liguori nel servizio dei fratelli, per ricevere con lui il premio riservato ai tuoi servi fedeli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La parabola della rete, simile alla parabola della zizzania, rimanda il lettore al giudizio finale quando i buoni saranno separati dai cattivi: i primi entreranno nel regno di Dio, i reprobi andranno «nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,31-46). Se è vero che nella fase terrena del regno i cattivi si mescoleranno ai buoni, la zizzania al grano, è anche vero che alla fine dei tempi tutti dovremo comparire «davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10).
Il detto, che conclude il racconto evangelico, è da applicare ai responsabili delle comunità. Lo scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è colui che conosce sia l’insegnamento di Gesù, il nuovo, sia la Thorà (la Legge e i profeti), l’antico, interpretati e completati dal nuovo. In questo modo, non si abolisce l’insegnamento degli scribi, un patrimonio pur sempre prezioso, ma è la fede in Cristo a dargli una ricchezza nuova.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,47-53: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Terminate queste parabole, Gesù partì di là.

La parabola della rete - Felipe F. Ramos (Il Vangelo secondo Matteo): La parabola della rete gettata in mare descrive una scena ricavata dalla vita di ogni giorno presso il mare di Galilea. La rete gettata in mare si è riempita di pesci. La tirano a terra e comincia la selezione. Il centro di gravità della parabola non è tanto nella rete quanto piuttosto nella selezione che si fa dopo la pesca, una selezione che ha scarso fondamento nella realtà, perché praticamente tutti i pesci del mare di Galilea sono commestibili. Questo particolare è stato introdotto nella parabola per orientarci nella direzione in cui dobbiamo cercare l’insegnamento. La parabola della rete è eminentemente escatologica: descrive le realtà che avranno luogo negli ultimi giorni, nell’ultimo giorno. Prima, la selezione non è possibile. Buoni e cattivi devono convivere e coesistere fino alla fine (la parabola è sulla stessa linea di quella della zizzania). La convivenza e la coesistenza devono durare sino alla fine, come i pesci di tutte le specie stanno insieme nella rete fino a che non giunge la selezione. Anche nel regno di Dio vi è un’ultima fase: quella della selezione. Solo allora si manifesterà con assoluta chiarezza la vera comunità dei figli di Dio, libera dalla schiavitù, libera da ogni male, libera da coloro che confessano Cristo con le labbra, col cuore lontano da lui, libera dai puritanismi farisaici che non sono conciliabili con lo spirito del cristianesimo e approfittano di esso. E tutti quelli che non appartengono alla vera comunità dei figli di Dio saranno esclusi dalla vita e subiranno la sorte dei pesci di cui ci parla la parabola.

Una rete gettata nel mare - Giuseppe Barbaglio (Il Vangelo di Matteo): Non è difficile distinguere in questa parabola di Matteo il racconto della pesca dalla spiegazione che segue. Al centro del racconto sta il fatto della presenza nella rete di ogni genere di pesci, che vengono poi selezionati con cura. È evidente il parallelismo con la parabola della gramigna. In ambedue i casi c’è mescolanza: mescolanza inevitabile nel momento in cui la rete viene tirata su dall’acqua, come nel tempo della semina e della crescita del grano e della gramigna. Siamo dunque autorizzati ad attribuire anche questa narrazione parabolica alla situazione di impazienza messianica provocata da Cristo. Come non c’è dubbio che in essa il Signore abbia voluto dire che il tempo della sua presenza, benché realmente messianico, non era ancora il momento della separazione del giudizio ultimo. Invece la spiegazione allegorica appartiene con probabilità alla creatività di Matteo, di cui presenta le caratteristiche letterarie e la tematica teologica del giudizio. L’interesse infatti è stato trasportato dal presente, che Gesù volle qualificare come tempo di commistione di buoni e cattivi, alla futura e definitiva separazione propria del tempo finale. Ma con un’accentuazione particolare sulla condanna dei malvagi. Si è già accennato sopra alla preoccupazione pastorale che spingeva il primo evangelista a presentare queste descrizioni apocalittiche. Per lui il discorso sul futuro ultimo, cioè sul giudizio e la condanna eterna, vale come giustificazione dell’ammonimento ai credenti perché siano fedeli all’attuale impegno etico della vita cristiana. Non sembra esagerato definirlo un tentativo di speculazione escatologica per dare una base alla catechesi morale.

Li getteranno nella fornace ardente - Nei Vangeli l’Inferno non è una minaccia per convincere i riottosi a mettersi in riga, ma è la terribile possibilità, triste e reale, di un esito tragicamente negativo della vita umana. Sui reprobi e sugli impenitenti incombe realmente una tremenda prospettiva: la «fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,50). Gesù insiste sulla bontà, sulla misericordia e sulla paternità di Dio, tuttavia i Vangeli, in modo sufficiente, ci offrono la certezza che Gesù, per quanto riguarda l’Inferno, spesso ha usato un linguaggio inequivocabile, scevro da qualsiasi falsa interpretazione; anche se con parole dure, ma senza mezzi termini, ha ricordato ai recidivi la triste possibilità di andare a finire in questo luogo di pena e di tortura (Cf. Mt 5,29ss; 10,28; 23,15.33; Mc 9,47; Lc 12,5).
La parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro è considerata un testo classico per la dottrina sull’Inferno: anche se qualche «esegeta moderno invita a stare maggiormente al rigore delle regole per l’interpretazione delle parabole e del genere letterario apocalittico», pur tuttavia, «il pensiero di Gesù va ricavato dall’insieme delle sue affermazioni» (Pio Joerg). Per cui lecitamente si può affermare che Gesù in modo chiaro, incontestabile, ha insegnato la dottrina della retribuzione subito dopo la morte. A questa segue il giudizio di Dio che sarà di eterna condanna per i cattivi o di eterna beatitudine per i buoni. E va messo in evidenza che la via che conduce all’Inferno è ampia e spaziosa (Cf. Mt 7,13) e spesso si ci va a finire per cose estremamente stupide, come nel caso del ricco epulone.
Un uomo, certamente non malvagio, che amava godersi la vita passando da un banchetto ad un altro e al quale si può addebitare una sola colpa: quella di non aver dato un tozzo di pane al povero Lazzaro. In modo concreto, aveva il prosciutto in bocca e sugli occhi. All’Inferno si soffrono due pene. La prima è la pena del danno che consiste: «nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1035). La seconda è la pena dei sensi: i castighi vengono sentiti «con i sensi del corpo. Tra questi, quella del fuoco richiama certamente il dolore più grande dei sensi. Le figure bibliche del fuoco infernale servono a far comprendere che l’Inferno è il luogo del castigo più doloroso» (Catechismo Romano). Dio non destina nessuno ad andare né al Paradiso, né all’Inferno. Quest’ultima “destinazione” è «la conseguenza di una avversione volontaria a Dio [un peccato mortale], in cui si persiste sino alla fine» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1037). O, come diceva san Prospero d’Aquitania, ciò che salva «è un dono per i salvati; ciò che fa cadere in rovina è colpa di chi cade».
È urgente allora scoprire la pazienza di Dio, il quale non vuole «che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (1Pt 3,9) e portare a termine, anche con sacrifici e rinunce, il progetto di Dio, il quale consiste nell’essere «predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rom 8,29).

… dove sarà pianto e stridore di denti: Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento” Così ricorda santa Teresa d’Avila nel racconta la sua “discesa da viva” nel tenebroso regno di Satana. E nel conoscere questa esperienza, si deve dire che l’Inferno non è il bau bau di un papà arrabbiato per tenere sotto la coperta i bambini monelli né tanto meno ci si può consolare che sia vuoto. È lì, reale, con mille tentacoli pronto a divorare l’incauto che troppo vicino si accosta alla sua bocca. Pochi, forse, conoscono la tragica vicenda di Costantino Sacardino, del figlio Bernardino, e dei fratelli Pellegrino e Girolamo dei Tedeschi condannati a morte con l’accusa di aver imbrattato delle immagini sacre. La condanna, all’impiccagione e poi al rogo, venne letta nella basilica di San Petronio ed eseguita il 21 dicembre 1622. Tra le cose che ebbe a dire il povero sventurato, si annota questa affermazione: «Babioni quelli che lo credono [l’Inferno] [...]. Li principi vogliano farlo credere, per far a suo modo, ma […] hormai tutta la colombaia ha aperto gli occhi». Santa Teresa d’Avila che babiona non era e che aveva avuto il privilegio (se si può dire così) di visitare la Geenna ebbe a scrivere che l’Inferno è «il luogo che puzza e dove non c’è amore». E annotava ancora: “Sentir parlare dell’inferno è niente. Vero è che io l’ho meditato poche volte perché la via del timore non è fatta per me, ma è certo che quanto si medita sui tormenti dell’inferno, su quello che i demoni fanno patire, o che si legge nei libri, non ha nulla a che fare con la realtà, perché totalmente diversa, come un ritratto messo a confronto con l’oggetto ritrattato. Quasi neppure il nostro fuoco si può paragonare con quello di laggiù. Rimasi spaventatissima e lo sono tuttora mentre scrivo, benché siano già passati quasi sei anni, tanto da sentirmi agghiacciare dal terrore qui stesso dove sono. Mi accade intanto che quando sono afflitta da qualche contraddizione o infermità, basta che mi ricordi di quella visione perché mi sembrino subito da nulla persuadendomi che ce ne lamentiamo senza motivo. Questa fu una delle più grandi grazie che il Signore m’abbia fatto, perché mi ha giovato moltissimo non meno per non temere le contraddizioni e le pene della vita che per incoraggiarmi a sopportarle, ringraziando il Signore d’avermi liberata da mali così terribili ed eterni, come mi pare di dover credere» (Teresa d’Avila, Libro della Vita, Cap. 32). Puzza e odio, odori e sentimenti che già germinano a partire da questa povera vita terrena.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Mi accade intanto che quando sono afflitta da qualche contraddizione o infermità, basta che mi ricordi di quella visione [dell’Inferno] perché mi sembrino subito da nulla persuadendomi che ce ne lamentiamo senza motivo.  (Santa Teresa).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che nel vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori
hai dato alla tua Chiesa un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi al tuo popolo di partecipare assiduamente a questo mistero,
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.



31 Luglio 2019

SANT’IGNAZIO DI LOYOLA, SACERDOTE - MEMORIA

Es 34,29-35; Sal 98 (99); Mt 13,44-46 

Dal Martirologio: Memoria di sant’Ignazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.

Colletta: O Dio, che a gloria del tuo nome hai suscitato nella Chiesa sant’Ignazio di Loyola, concedi anche a noi, con il suo aiuto e il suo esempio, di combattere la buona battaglia del Vangelo, per ricevere in cielo la corona dei santi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Una pagina da scrivere nel cuore, per meditarla ogni giorno. Il Vangelo ci mette sulla strada della gioia, del beato possesso, della perfetta beatitudine, ma per muovere i passi su questa via occorre rinunciare a tutti i beni della terra. Anelare al Cielo, Voi che siete risorti attendete alle cose di lassù (Col 3,1), non è alienarsi dal diuturno impegno a promuovere nel consesso umano il bene, la verità, l’onestà nelle relazioni. Tutt’altro, il discepolo di Gesù sa che se vuole andare in Paradiso deve faticare senza posa affinché il rugoso volto della terra diventi sempre più luminoso, perché rifletta la bontà di Dio e la bellezza del suo volto. Ma conquistare il Cielo, oltre che faticare onestamente in questo mondo, richiede di essere prudenti come i serpenti e semplici come le colombe (Mt 10,16). Ed è il messaggio che ci suggerisce il Vangelo. Nel racconto evangelico l’uomo agisce di astuzia: trovato il tesoro avrebbe potuto portarselo a casa, ma se scoperto l’avrebbero accusato di furto, e allora, ricorre a un sotterfugio: nasconde il tesoro, e compra il campo senza palesare al padrone la presenza del tesoro. Un’azione poco onesta, che poco si sposa con la prudenza e con la semplicità, ma Gesù non ci sta suggerendo di essere disonesti, bensì ci dice di essere pronti a tutto pur di venire in possesso del tesoro. L’uomo vende tutto, noi siamo disposti a vendere tutto? Ma a bene chiarire le cose, in verità due sono i tesori nascosti: Gesù e il Regno dei Cieli, e sono consequenziali, soltanto conquistando il primo tesoro che è Gesù, l’uomo troverà il secondo tesoro che è il Paradiso. Ma in verità i due tesori si fondono insieme: Gesù è il nostro Paradiso, e il nostro Paradiso è Gesù.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,44-46: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.  Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

La parabola - Catechismo della Chiesa Cattolica 546: Gesù chiama ad entrare nel Regno servendosi delle parabole, elemento tipico del suo insegnamento. Con esse egli invita al banchetto del Regno, ma chiede anche una scelta radicale: per acquistare il Regno, è necessario «vendere» tutto; le parole non bastano, occorrono i fatti. Le parabole sono come specchi per l’uomo: accoglie la Parola come un terreno arido o come un terreno buono? Che uso fa dei talenti ricevuti? Al centro delle parabole stanno velatamente Gesù e la presenza del Regno in questo mondo. Occorre entrare nel Regno, cioè diventare discepoli di Cristo per «conoscere i misteri del regno dei cieli» (Mt 13,11). Per coloro che rimangono «fuori» (Mc 4,11), tutto resta enigmatico.

Va, vende tutti i suoi averi e compra la perla di grande valore - Senza voler forzare i testi, possiamo trovare un filo comune che li lega ed è l’impossibilità per l’uomo di riuscire nella vita senza il dono Dio e senza una decisione per Dio: una decisione radicale, ma anche gioiosa come sottolinea la parabola del tesoro nascosto in un campo. In questo modo vengono smentiti gli «spensierati di Sion»: i giullari del Vangelo facile e i buontemponi dell’ottimismo a tutti i costi (Am 6,1-7). Scriveva il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, morto impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945: «La grazia a buon mercato è nemica mortale della Chiesa; oggi, nella nostra lotta, si impone la grazia che costa... La grazia facile è quella di cui disponiamo in proprio. È la predicazione del perdono senza il pentimento, è il battesimo senza disciplina ecclesiastica, la Cena santa senza la confessione dei peccati, l’assoluzione senza confessione personale.
La grazia a buon mercato è la grazia non avallata dall’obbedienza, la grazia senza la croce, la grazia che astrae da Gesù Cristo vivente e incarnato».
Il Vangelo, inoltre, vuole sottolineare la scaltrezza, l’avvedutezza dell’uomo del tesoro nascosto in un campo e del mercante: due uomini capaci di capire e ben valutare la fortuna loro capitata inaspettatamente tra le mani, in questo modo diventano l’immagine del vero discepolo che sa comprendere l’inestimabile valore del regno di Dio. Il discepolo, proprio perché cerca le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio e non pensa alle cose della terra (Col 3,1-2), è in grado di ben valutare i tesori celesti per il cui possesso è pronto a cavarsi gli occhi della testa, a ridursi in povertà e far gettito anche della propria vita.
A leggere bene il Vangelo si comprende allora con chiarezza che l’insegnamento delle parabole sta nell’incalcolabile valore del tesoro scoperto e nel sacrificio che il suo acquisto richiede.

La parabola del tesoro - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Un tesoro nascosto nel campo; l’immagine è verosimile per un paese che ha conosciuto invasioni e fughe. Il susseguirsi incalzante degli atti (trova, tiene celato, va, vende, acquista) dà una particolare vivezza alla parabola. Nella presentazione dell’immagine tutto converge in un punto: lasciare e vendere ogni cosa per acquistare un grande tesoro. La parabola è d’immediata intelligenza: chi trova il regno dei cieli deve lasciare tutto per acquistarlo. Non bisogna forzare i particolari descrittivi; l’immagine non considera la moralità dell’acquisto di un tesoro nascosto in un terreno d’altri senza dir nulla al padrone.

La parabola della perla preziosa - Wolfgang Trilling: Anche questa parabola fa coppia con la precedente ed esprime la stessa cosa. La parola perla risveglia in noi sia l’immagine della preziosità, sia della bellezza senza macchia: il regno di Dio non è soltanto il massimo valore, ma anche il bene più bello e perfetto che ci sia dato di conseguire.
Il dato nuovo, nei confronti della parabola del tesoro, è che qui si tratta di un uomo che va in cerca di perle preziose. Nel caso del tesoro nel campo si poteva pensare a uno che, casualmente, vi inciampa e poi ne trae le conseguenze; alcuni, infatti, possono avere incontrato Gesù, in circostanze fortuite, ed essere stati da lui soggiogati, senza avere inizialmente l’intenzione di trovare il «tesoro». Qui, invece, si può pensare a uno che cerca la verità, come Nicodemo che si reca da Gesù di notte (cf. Gv 3,lss.). Si parla di un commerciante di gioielli che non si era ancora imbattuto in una perla così bella e preziosa. Senza pensarci due volte, vende tutto, l’inventario completo della sua mercanzia, per acquistare la perla. Per esperienza sa che essa vale il sacrificio. Il cuore dell’uomo è inquieto finché non trova «la perla di grande valore». Ma quando la trova è pronto a sacrificare tutto per quest’unico bene. Gesù non riduce di un ette il prezzo qui richiesto, ma mostra l’aspetto allettante del bene della salvezza, capace di suscitare in noi la gioia per averla «trovata». Quando «troviamo la perla», dobbiamo cercare di rimanere nell’incontenibile gioia iniziale; nel tempo della ricerca non possiamo riposarci finché non la «troviamo».

… poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo … trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra - Felipe F. Ramos: I due protagonisti vendono tutto quello che hanno per acquistare rispettivamente il tesoro o la perla. Da questo denominatore comune, si volle dedurre che l’insegnamento fondamentale delle due parabole va configurato nella dedizione incondizionata che il regno richiede. Questo però non è il primo intento di queste parabole. Le parole decisive per orientarci nell’interpretazione del loro messaggio sono le seguenti; pieno di gioia (v. 44), la gioia straordinaria che inonda l’uomo a ogni scoperta sensazionale, gioia che lancia l’uomo al possesso d’un bene di fronte al quale tutti gli altri perdono ogni valore. Per avere questo bene, nessuno sforzo e nessuna rinunzia gli paiono eccessivi. Tutto impallidisce di fronte al valore del regno, quando è stato scoperto nella sua pienezza, e nessuna cosa può essere paragonata con esso. La buona novella affascina l’uomo che la scopre e non intende perderla per nulla al mondo, esattamente come il fellah che trova il tesoro o il mercante di perle che ne trova una di valore eccezionale. Nessuno dei due compra per vendere nuovamente o per speculare su quello che ha comprato. Hanno trovato quello che riempie la loro vita e le dà un senso. Così avviene quando si è trovato il regno: l’unica cosa che può dare un senso alla vita.

Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa  - Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo (Omelia 1 agosto 2007): Il Vangelo che ci è stato annunciato è un pressante invito ad accogliere il mistero del regno dei cieli. Le due parabole sottolineano la decisione del contadino e del mercante di vendere ogni cosa per puntare tutto sul tesoro che hanno scoperto. Nel primo caso si tratta di un contadino che casualmente lo trova nel campo dove sta lavorando. Non essendo di sua proprietà deve acquistarlo se vuole entrare in possesso del tesoro. Di qui la decisione di rischiare tutti i suoi averi per non perdere l’occasione davvero eccezionale. Il protagonista della seconda parabola è un ricco trafficante di preziosi che da esperto conoscitore ha individuato nel bazar una perla di raro valore. Anche lui decide di puntare tutto su quella perla, al punto da vendere tutte le altre. Di fronte a queste scoperte, per ambedue inaspettate, la scelta è chiara e decisa. Certamente si tratta di vendere tutto quello che si possiede, ma l’acquisto è impareggiabile. Si chiede un “sacrificio”, come ad esempio suggerisce il Vangelo nell’episodio del giovane ricco, ma il guadagno è enormemente superiore. Il “Regno dei cieli” vale questo sacrificio. Del resto quante altre volte siamo pronti a vendere tutto, anche l’anima, pur di possedere quello che ci interessa! Il problema è se davvero ci interessa il Signore e la sua amicizia, e se riusciamo a comprendere la gioia e la pienezza di vita che ci viene “inaspettatamente” presentata, come fu per quel contadino e per quel mercante.

L’interpretazione delle parabole - D. Sesbouè (Dizionario di Teologia Biblica): Se ci si pone [nel] contesto biblico ed orientale in cui Gesù parlava, e si tiene conto della sua volontà di insegnamento progressivo, diventa più facile interpretare le parabole. La loro materia sono i fatti umili della vita quotidiana, ma anche, e forse soprattutto, i grandi avvenimenti della storia sacra. I loro temi classici, facilmente reperibili, sono già pregni di significato per il loro sfondo di VT, al momento in cui Gesù se ne serve. Nessuna inverosimiglianza deve stupire nei racconti composti con libertà ed interamente ordinati all’insegnamento; il lettore non deve essere urtato dall’atteggiamento di taluni personaggi presentati per evocare un ragionamento a fortiori od a contrario (ad es. Lc  6,1-8; 18,1-5). Ad ogni modo bisogna anzitutto mettere in luce l’aspetto teocentrico, e più precisamente cristocentrico, della maggior parte delle parabole. Qualunque sia la misura esatta dell’allegoria, in definitiva il personaggio centrale deve per lo più evocare il Padre Celeste (Mt 21,28; Lc 15,11), o Cristo stesso - sia nella sua missione storica (il «seminatore» di Mt 13,3.24.31 par.), sia nella sua gloria futura (il «ladro» di Mt 24,43; il «padrone» di Mt 25,14; lo «sposo» di Mt 25,1); e quando ve ne sono due, sono il Padre ed il Figlio (Mt 20,1-16; 21,33.37; 22,2). Infatti l’amore del Padre testimoniato agli uomini con l’invio del suo Figlio è la grande rivelazione portata da Gesù. A questo servono le parabole che mostrano il compimento perfetto che il nuovo regno dà al disegno di Dio sul mondo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** A leggere bene il Vangelo si comprende allora con chiarezza che l’insegnamento delle parabole sta nell’incalcolabile valore del tesoro scoperto e nel sacrificio che il suo acquisto richiede.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, il sacrificio che ci hai dato la gioia di celebrare
nel ricordo di sant’Ignazio di Loyola,
orienti tutta la nostra vita alla lode perenne del tuo nome.
Per Cristo nostro Signore.



30 Luglio 2019

Martedì XVII Settimana T. O.

Es 33,7-11; 34,5-9.28; Sal 102 (103); Mt 13,36-43 

Colletta: O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Una verità scomoda: la zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. Una verità che forse abbiamo cercato di mimetizzare, o di addolcire, oppure di cancellare dalla nostra povera vita. Nel mondo, quindi, si aggirano i figli del Maligno per seminare la zizzania, per diffondere discordie, guerre, liti…, ma in modo più subdolo, con grande fantasia diabolica, per spacciare la menzogna come verità, e delitti abominevoli, come l’aborto, come conquiste sociali.
“Proprio nel caso dell’aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di «interruzione della gravidanza», che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell’opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita. La gravità morale dell’aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla” (Evangelium vitae 58).
Eppure c’è chi ha sbandierato tale abominevole delitto come “segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita.” (Evangelium vitae 17).
E sempre nel mondo, inquieto, si aggira il diavolo come “leone ruggente cercando chi divorare” (1Pt 5,8). E anche qui il mondo ha cercato di minimizzare, di far passare come favole l’inferno, il diavolo, il giudizio di Dio…, in modo maldestro i sapientoni di questo mondo hanno cercato di cassare l’atto di dolore reo di contenere una parola scomoda: ho meritato i tuoi castighi, per certi soloni Dio non castiga, è sempre buono, è misericordia, perdona tutti e tutto, e così tutto è lecito. In questo modo il diavolo è diventato il bau bau per tenere buoni bambini e sciocchi. Come ci suggerisce Paolo VI, il “male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni” (Paolo VI, Udienza Generale 15 Novembre 1972).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,36-43: In quel tempo, Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

La parabola della zizzania è esclusiva di Matteo, e la spiegazione, di chiara comprensione, è rivolta esclusivamente ai discepoli: “Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo»” (Mt 13,36). Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo, il campo è il mondo, il seme buono sono i figli (semitismo = sudditi) del Regno, la zizzania sono i figli del Maligno. Il seme buono, il grano, è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi danno frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno (Mt 13,23). La zizzania, presente nello stesso campo - che è il mondo - rappresenta i figli Maligno che non sono gli atei, i miscredenti, gli agnostici, i sodali di altre religioni, ma sono coloro che ascoltano ma non accolgono sul serio la parola di Gesù. Il nemico che l’ha seminata è il diavolo – dal greco: dia attraverso ballo metto. Propriamente, mettersi di traverso, separare, mettere in mezzo, frapporre una barriera, creare fratture. Il nemico è colui che crea un impedimento, colui che mette il dubbio, che non fa portare frutto. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli che separeranno i buoni dai cattivi. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo, rimanda al giudizio universale (cfr. Mt 25).

Il nemico … il diavolo - Catechismo degli Adulti 382: I demòni hanno come capo Satana. La sua forza distruttiva e il suo influsso nella storia sono indicati dalla Bibbia in termini impressionanti: «il principe di questo mondo» (Gv 12,31); «il grande drago, il serpente antico... che seduce tutta la terra» (Ap 12,9); «omicida fin da principio... e padre della menzogna» (Gv 8,44), «colui che della morte ha il potere» (Eb 2,14); il «maligno» che domina «tutto il mondo» (1Gv 5,19). Bisogna dunque vedere in lui una persona, malvagia e potente che, attraverso un’illusione di vita, organizza sistematicamente la perdizione e la morte.
Si può riconoscere un suo influsso particolare nella forza della menzogna e dell’ateismo, nell’atteggiamento diffuso di autosufficienza, nei fenomeni di distruzione lucida e folle. Ma tutta la storia, a cominciare dal peccato primordiale, è inquinata e stravolta dalla sua azione nefasta. Secondo la concezione biblica, le varie forme di male sono in qualche modo riconducibili a lui e ai demòni suoi complici. La Chiesa ritiene che «tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, che durerà... fino all’ultimo giorno».
Così inquietante è la forza del male, che alcune dottrine religiose hanno immaginato l’esistenza di un dio malvagio, indipendente e concorrenziale rispetto al Dio del bene. La Chiesa rifiuta questo modo di vedere. Tuttavia non minimizza il mistero del male, riducendolo alle deficienze della natura o alla colpa dell’uomo, ma vi scorge «un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore».

Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco... B. Renaud e X. LÉON Dufour (Dizionario di Teologia Biblica): 1. Gesù - Annunciato come il vàgliatore che getta la paglia nel fuoco (Mt 3,10) e battezza nel fuoco (3,11s), Gesù, pur rifiutando la funzione di giustiziere, ha mantenuto i suoi uditori nell’attesa del fuoco del giudizio, riprendendo il linguaggio classico del VT. Egli parla della «Geenna del fuoco» (5,22), del fuoco in cui saranno gettati la zizzania improduttiva (13,40; cfr. 7,19) ed i sarmenti (Gv 15,6): sarà un fuoco che non si spegne (Mc 9,43s), in cui «il loro verme» non muore (9,48), vera fornace ardente (Mt 13,42.50). Null’altro che un’eco solenne del VT (cfr. Lc 17,29). 2. I primi cristiani hanno conservato questo linguaggio, adattandolo a situazioni diverse. Paolo se ne serve per dipingere la fine dei tempi (2Tess 1,8); Giacomo descrive la ricchezza marcia, arrugginita, consegnata al fuoco distruttore (Giac 5,3); la lettera agli Ebrei mostra la prospettiva terribile del fuoco che deve divorare i ribelli (Ebr 10,27). Altrove è evocata la conflagrazione ultima, in vista della quale «cieli e terra sono tenuti in serbo» (2Piet 3,7.12). La fede deve essere purificata in funzione di questo fuoco escatologico (1Piet 1,7), e così pure l’opera apostolica (1Cor 3,15) e l’esistenza cristiana perseguitata (1Piet 4,12-17). 3. L’Apocalisse conosce i due aspetti del fuoco: quello delle teofanie e quello del giudizio. Dominando la scena, il figlio dell’uomo appare con gli occhi fiammeggianti (Apoc 1,14; 19,12). Da un lato, ecco la teofania: è il mare di Cristallo mescolato a fuoco (15,2). Dall’altro, ecco il castigo: il lago di fuoco e di zolfo per il demonio (20,10), il che è la seconda morte (20,14s),

… raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali - Angelo Lacellotti (Matteo):  tutti gli scandali: la purificazione della Chiesa da tutti i fautori «di scandali», cioè dagli operatori d’iniquità, la cui fine era annunziata dai profeti per gli ultimi tempi (cf Sof 1,3; Sal 37.1; Ml 3,19), non potrà mai avvenire prima del giudizio escatologico, in cui ci sarà la separazione definitiva tra i «giusti» i «benedetti del Padre» e i reprobi i «maledetti»; i primi per entrare nel regno del Padre loro (v. 43), i secondi per ricevere il «castigo eterno» (25,32.34.41.46).

… li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti - Catechismo della Chiesa Cattolica 1034: Gesù parla ripetutamente della «geenna», del «fuoco inestinguibile», che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe: «Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno [...] tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente» (Mt 13,41-42), ed egli pronunzierà la condanna: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41).
1035 La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, «il fuoco eterno». La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.
1036 Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14). «Siccome non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove ci sarà pianto e stridore di denti».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. (Vangelo)
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, nostro Padre, che ci hai dato la grazia
di partecipare al mistero eucaristico,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che questo dono del suo ineffabile amore
giovi sempre per la nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.



29 Luglio 2019

Santa Marta - Memoria

1Gv 4,7-16; Sal 33 (34); Gv 11,19-27 oppure Lc 10,38-42


Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, il tuo Figlio fu accolto come ospite a Betania nella casa di santa Marta, concedi anche a noi di esser pronti a servire Gesù nei fratelli, perché al termine della vita siamo accolti nella tua dimora. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Il miracolo della risurrezione di Lazzaro è l’ultimo «segno» compiuto da Gesù prima della sua morte. In un contesto di dolore, di profonda commozione, di speranza e di incredulità, la risurrezione di colui che Gesù ama (Gv 11,3.16) è il segno e l’anticipazione della risurrezione stessa di Cristo.
Quando Gesù arriva a Betania, Lazzaro è morto da quattro giorni. Marta sembra rimproverare il Maestro, se tu fossi stato qui ..., ma nella richiesta c’è qualcosa che va al di là dell’umana speranza, l’insperabile: lei è certa che, nonostante la decomposizione organica del corpo, Gesù può operare un miracolo: Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà, anche quella di risuscitare ora Lazzaro.
Gesù comprende appieno la richiesta, ma rimanda la donna alla comune fede nella risurrezione dei morti. Marta, che forse sperava in un qualcosa di straordinario, si acquieta e accetta l’evidenza dei fatti: Lazzaro è morto, so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno. Di rimando, Gesù, inaspettatamente, spazza via qualsiasi equivoco o dubbio: Io sono la risurrezione e la vita, così come Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,35s), la luce del mondo (Gv 8,12), la via, la verità e la vita (Gv 14,6). Gesù è venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10): Marta accoglie la rivelazione, crede e professa la sua fede: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo.
«L’uomo cerca in tutti i modi la vita fisica [...]. Ma la sorgente della sua vita è Cristo. Solo Cristo è colui che gli darà vita dopo questa vita [...]. Ma Cristo è anche la fonte della vita eterna, di quella vita dello spirito senza la quale a nulla varrebbe avere la vita del corpo» (Giovanni Unterberger).

Dal Vangelo secondo Giovanni 11,19-27: In quel tempo, molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Tuo fratello risorgerà - Bruno Maggioni (Il Vangelo di Giovanni)): All’affermazione di Gesù: Tuo fratello risorgerà (v. 23), Marta riafferma la sua fede nella risurrezione, una risurrezione opera di Dio, rimandata però a un lontano futuro. Nella risposta di Gesù vi è una duplice correzione, indispensabile perché la fede di Marta possa dirsi cristiana. Primo: la risurrezione passa attraverso Gesù (Io sono la risurrezione). Secondo: la risurrezione è una realtà presente, non soltanto futura. È una realtà possibile già ora nella fede. Marta è dunque invitata ad approfondire la propria fede nella risurrezione e a renderla cristiana. La risposta di Marta deve essere letta in questa direzione: essa crede che Gesù è il Figlio di Dio che viene nel mondo. Potrebbe sembrare una risposta fuori tema. In realtà va al nocciolo della questione: è perché il Figlio è venuto che la vita, il riscatto dalla morte e il germe della risurrezione sono qui, nel nostro mondo. La vita di Dio non è più al di fuori del nostro mondo perché il Figlio è venuto fra di noi. Sempre per capire la fede a cui Marta è invitata si noti il gioco morte-vita. Si tratta di credere che, al di là delle apparenze, della esperienza della morte, l’unica realtà che sembra vera (e nella parola morte comprendiamo anche le nostre debolezze, le nostre incapacità di amare e i nostri peccati) vi è la vittoria di Cristo, il suo amore che salva. Gesù non dice soltanto Io sono la vita, ma anche la risurrezione. Vi è in questo l’idea del passaggio, del mutamento radicale. È, se vogliamo, l’idea di conversione, ma posta in termini più radicali e precisi: di impotenza assoluta e di cambiamento totale. Soprattutto viene sottolineato il fatto che la vita non è annientata neppure dalla morte, ma anzi si serve addirittura di essa.

Io sono la risurrezione e la vita - Bibbia di Gerusalemme nota a Gv 11,25: Nei 23-26, Giovanni utilizza un procedimento letterario classico per lui (2,19+), per dare insegnamento sulla risurrezione. Marta comprende il verbo - risorgere - (v 23) nel senso dell’escatologia giudaica ereditata da Dn 12,2: alla morte l’uomo discende nello sceol 16,33+), come un’ombra priva di vita ma risusciterà nell’ultimo giorno. Gesù rettifica questa idea nel senso di un’escatologia già realizzata: lui stesso è la risurrezione (v. 25). Chi crede in lui non morirà in eterno (v 26; cf. 8,51), è già passato dalla morte alla vita (5,24; 1Gv 3,14), è già risuscitato in Cristo grazie alla vita nuova che è in lui (Rm 6,1-11; Col 2,12-13; 3,1). La morte come la concepiva Daniele è abolita. Questa visione nuova suppone una distinzione fra l’anima, che non muore, e il corpo, che si corrompe nella terra. [...] - vivrà: nei versetti 25-26 abbiamo una nuova  utilizzazione della formula «Io sono» per introdurre una definizione di Cristo (6,35+). Ma qui la risposta di Cristo sembra troppo complessa (opporre per esempio 8,12), con una ripresa redazionale costituita dall’espressione «crede in me». Il testo primitivo doveva avere semplicemente: «chi crede in me […] non morirà in eterno» Questa affermazione (cf. la prima parte della nota) sembra contraddetta dall’esperienza umana, da cui la glossa.

Io sono la risurrezione e la vita - Evangelium vitae, 29: «Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti nel mondo contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di un’impotenza insuperabile: il bene non potrà mai avere la forza di vincere il male! È questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso ciascun credente, è chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo “il Verbo della vita” [1Gv 1,1]. Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un’illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù. All’apostolo Tommaso, e in lui a ogni uomo, Gesù si presenta con queste parole: “Io sono la via, la verità e la vita” [Gv 14,6]. È la stessa identità indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” [Gv 11,25-26]. Gesù è il Figlio che dall’eternità riceve la vita dal Padre [cfr. Gv 5,26] ed è venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo dono: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” [Gv 10,10]. È allora dalla parola, dall’azione, dalla persona stessa di Gesù che all’uomo è data la possibilità di “conoscere” la verità intera circa il valore della vita umana; è da quella “fonte” che gli viene, in particolare, la capacità di “fare” perfettamente tale verità [cfr. Gv 3,21], ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana. In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell’Antico Testamento, ed anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza “dal principio”, ossia dalla creazione stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana. Come scrive il Concilio Vaticano II, Cristo “con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna”».

Il vangelo della risurrezione nella predicazione apostolica - J. Radermakers e P. Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): Fin dal giorno della Pentecoste, la risurrezione diventa il centro della predicazione apostolica, perché in essa si rivela l’oggetto fondamentale della fede cristiana (Atti 2,22-35). Questo vangelo di Pasqua è innanzitutto la testimonianza resa ad un fatto: Gesù è stato crocifisso ed è morto; ma Dio lo ha risuscitato e per mezzo suo apporta agli uomini la salvezza. Questa è la catechesi dì Pietro ai Giudei (3,14s) e la sua confessione dinanzi al sinedrio (4,10), l’insegnamento di Filippo all’eunuco etiope (8,35), quello di Paolo ai Giudei (13,33; 17,3) ed ai pagani (17,31) e la sua confessione dinanzi ai suoi giudici (23,6...). Non è altro che il contenuto stesso dell’esperienza pasquale. Un punto importante è sempre notato a proposito di questa esperienza: la sua conformità con le Scritture (cfr. 1Cor 15,3s). Da una parte, la risurrezione di Gesù compie le promesse profetiche: promessa dell’esaltazione gloriosa del Messia alla destra di Dio (Atti 2,34; 13,32s), della glorificazione del servo di Jahve (Atti 4,30; Fil 2,7ss), della intronizzazione del figlio dell’uomo (Atti 7,56; cfr. Mt 26,64 par.). Dall’altra parte, per tradurre questo mistero che è fuori dell’esperienza storica comune, i testi della Scrittura forniscono un insieme di espressioni che ne abbozzano i diversi aspetti: Gesù è il santo che Dio strappa alla corruzione dell’Ade (Atti 2,25-32; 13,35ss; cfr. Sal 16,8-11); è il nuovo Adamo sotto i cui piedi Dio ha posto ogni cosa (1Cor 15,27; Ebr 1,5-13; cfr. Sal 8); è la pietra rigettata dai costruttori e diventata pietra angolare (Atti 4,11; cfr. Sal 118,22)... Cristo glorificato appare in tal modo come la chiave di tutta la Scrittura, che lo concerneva in anticipo (cfr. Lc 24,27.44 ss).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La comunione al corpo e sangue del tuo unico Figlio ci liberi,
o Padre, dagli affanni delle cose che passano, perché
sull’esempio di santa Marta collaboriamo con entusiasmo
all’opera del tuo amore, per godere in cielo la visione del tuo volto.
Per Cristo nostro Signore.