1 AGOSTO 2019
SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, VESCOVO DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA
Es 40,16-21.34-38; Sal 83 (84); Mt 13,47-53
Colletta: O Dio, che proponi alla tua Chiesa modelli sempre nuovi di vita cristiana, fa’ che imitiamo l’ardore apostolico del santo vescovo Alfonso Maria de’ Liguori nel servizio dei fratelli, per ricevere con lui il premio riservato ai tuoi servi fedeli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
La parabola della rete, simile alla parabola della zizzania, rimanda il lettore al giudizio finale quando i buoni saranno separati dai cattivi: i primi entreranno nel regno di Dio, i reprobi andranno «nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,31-46). Se è vero che nella fase terrena del regno i cattivi si mescoleranno ai buoni, la zizzania al grano, è anche vero che alla fine dei tempi tutti dovremo comparire «davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10).
Il detto, che conclude il racconto evangelico, è da applicare ai responsabili delle comunità. Lo scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è colui che conosce sia l’insegnamento di Gesù, il nuovo, sia la Thorà (la Legge e i profeti), l’antico, interpretati e completati dal nuovo. In questo modo, non si abolisce l’insegnamento degli scribi, un patrimonio pur sempre prezioso, ma è la fede in Cristo a dargli una ricchezza nuova.
Dal Vangelo secondo Matteo 13,47-53: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Terminate queste parabole, Gesù partì di là.
La parabola della rete - Felipe F. Ramos (Il Vangelo secondo Matteo): La parabola della rete gettata in mare descrive una scena ricavata dalla vita di ogni giorno presso il mare di Galilea. La rete gettata in mare si è riempita di pesci. La tirano a terra e comincia la selezione. Il centro di gravità della parabola non è tanto nella rete quanto piuttosto nella selezione che si fa dopo la pesca, una selezione che ha scarso fondamento nella realtà, perché praticamente tutti i pesci del mare di Galilea sono commestibili. Questo particolare è stato introdotto nella parabola per orientarci nella direzione in cui dobbiamo cercare l’insegnamento. La parabola della rete è eminentemente escatologica: descrive le realtà che avranno luogo negli ultimi giorni, nell’ultimo giorno. Prima, la selezione non è possibile. Buoni e cattivi devono convivere e coesistere fino alla fine (la parabola è sulla stessa linea di quella della zizzania). La convivenza e la coesistenza devono durare sino alla fine, come i pesci di tutte le specie stanno insieme nella rete fino a che non giunge la selezione. Anche nel regno di Dio vi è un’ultima fase: quella della selezione. Solo allora si manifesterà con assoluta chiarezza la vera comunità dei figli di Dio, libera dalla schiavitù, libera da ogni male, libera da coloro che confessano Cristo con le labbra, col cuore lontano da lui, libera dai puritanismi farisaici che non sono conciliabili con lo spirito del cristianesimo e approfittano di esso. E tutti quelli che non appartengono alla vera comunità dei figli di Dio saranno esclusi dalla vita e subiranno la sorte dei pesci di cui ci parla la parabola.
Una rete gettata nel mare - Giuseppe Barbaglio (Il Vangelo di Matteo): Non è difficile distinguere in questa parabola di Matteo il racconto della pesca dalla spiegazione che segue. Al centro del racconto sta il fatto della presenza nella rete di ogni genere di pesci, che vengono poi selezionati con cura. È evidente il parallelismo con la parabola della gramigna. In ambedue i casi c’è mescolanza: mescolanza inevitabile nel momento in cui la rete viene tirata su dall’acqua, come nel tempo della semina e della crescita del grano e della gramigna. Siamo dunque autorizzati ad attribuire anche questa narrazione parabolica alla situazione di impazienza messianica provocata da Cristo. Come non c’è dubbio che in essa il Signore abbia voluto dire che il tempo della sua presenza, benché realmente messianico, non era ancora il momento della separazione del giudizio ultimo. Invece la spiegazione allegorica appartiene con probabilità alla creatività di Matteo, di cui presenta le caratteristiche letterarie e la tematica teologica del giudizio. L’interesse infatti è stato trasportato dal presente, che Gesù volle qualificare come tempo di commistione di buoni e cattivi, alla futura e definitiva separazione propria del tempo finale. Ma con un’accentuazione particolare sulla condanna dei malvagi. Si è già accennato sopra alla preoccupazione pastorale che spingeva il primo evangelista a presentare queste descrizioni apocalittiche. Per lui il discorso sul futuro ultimo, cioè sul giudizio e la condanna eterna, vale come giustificazione dell’ammonimento ai credenti perché siano fedeli all’attuale impegno etico della vita cristiana. Non sembra esagerato definirlo un tentativo di speculazione escatologica per dare una base alla catechesi morale.
Li getteranno nella fornace ardente - Nei Vangeli l’Inferno non è una minaccia per convincere i riottosi a mettersi in riga, ma è la terribile possibilità, triste e reale, di un esito tragicamente negativo della vita umana. Sui reprobi e sugli impenitenti incombe realmente una tremenda prospettiva: la «fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13,50). Gesù insiste sulla bontà, sulla misericordia e sulla paternità di Dio, tuttavia i Vangeli, in modo sufficiente, ci offrono la certezza che Gesù, per quanto riguarda l’Inferno, spesso ha usato un linguaggio inequivocabile, scevro da qualsiasi falsa interpretazione; anche se con parole dure, ma senza mezzi termini, ha ricordato ai recidivi la triste possibilità di andare a finire in questo luogo di pena e di tortura (Cf. Mt 5,29ss; 10,28; 23,15.33; Mc 9,47; Lc 12,5).
La parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro è considerata un testo classico per la dottrina sull’Inferno: anche se qualche «esegeta moderno invita a stare maggiormente al rigore delle regole per l’interpretazione delle parabole e del genere letterario apocalittico», pur tuttavia, «il pensiero di Gesù va ricavato dall’insieme delle sue affermazioni» (Pio Joerg). Per cui lecitamente si può affermare che Gesù in modo chiaro, incontestabile, ha insegnato la dottrina della retribuzione subito dopo la morte. A questa segue il giudizio di Dio che sarà di eterna condanna per i cattivi o di eterna beatitudine per i buoni. E va messo in evidenza che la via che conduce all’Inferno è ampia e spaziosa (Cf. Mt 7,13) e spesso si ci va a finire per cose estremamente stupide, come nel caso del ricco epulone.
Un uomo, certamente non malvagio, che amava godersi la vita passando da un banchetto ad un altro e al quale si può addebitare una sola colpa: quella di non aver dato un tozzo di pane al povero Lazzaro. In modo concreto, aveva il prosciutto in bocca e sugli occhi. All’Inferno si soffrono due pene. La prima è la pena del danno che consiste: «nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1035). La seconda è la pena dei sensi: i castighi vengono sentiti «con i sensi del corpo. Tra questi, quella del fuoco richiama certamente il dolore più grande dei sensi. Le figure bibliche del fuoco infernale servono a far comprendere che l’Inferno è il luogo del castigo più doloroso» (Catechismo Romano). Dio non destina nessuno ad andare né al Paradiso, né all’Inferno. Quest’ultima “destinazione” è «la conseguenza di una avversione volontaria a Dio [un peccato mortale], in cui si persiste sino alla fine» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1037). O, come diceva san Prospero d’Aquitania, ciò che salva «è un dono per i salvati; ciò che fa cadere in rovina è colpa di chi cade».
È urgente allora scoprire la pazienza di Dio, il quale non vuole «che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (1Pt 3,9) e portare a termine, anche con sacrifici e rinunce, il progetto di Dio, il quale consiste nell’essere «predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rom 8,29).
… dove sarà pianto e stridore di denti: “Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento” Così ricorda santa Teresa d’Avila nel racconta la sua “discesa da viva” nel tenebroso regno di Satana. E nel conoscere questa esperienza, si deve dire che l’Inferno non è il bau bau di un papà arrabbiato per tenere sotto la coperta i bambini monelli né tanto meno ci si può consolare che sia vuoto. È lì, reale, con mille tentacoli pronto a divorare l’incauto che troppo vicino si accosta alla sua bocca. Pochi, forse, conoscono la tragica vicenda di Costantino Sacardino, del figlio Bernardino, e dei fratelli Pellegrino e Girolamo dei Tedeschi condannati a morte con l’accusa di aver imbrattato delle immagini sacre. La condanna, all’impiccagione e poi al rogo, venne letta nella basilica di San Petronio ed eseguita il 21 dicembre 1622. Tra le cose che ebbe a dire il povero sventurato, si annota questa affermazione: «Babioni quelli che lo credono [l’Inferno] [...]. Li principi vogliano farlo credere, per far a suo modo, ma […] hormai tutta la colombaia ha aperto gli occhi». Santa Teresa d’Avila che babiona non era e che aveva avuto il privilegio (se si può dire così) di visitare la Geenna ebbe a scrivere che l’Inferno è «il luogo che puzza e dove non c’è amore». E annotava ancora: “Sentir parlare dell’inferno è niente. Vero è che io l’ho meditato poche volte perché la via del timore non è fatta per me, ma è certo che quanto si medita sui tormenti dell’inferno, su quello che i demoni fanno patire, o che si legge nei libri, non ha nulla a che fare con la realtà, perché totalmente diversa, come un ritratto messo a confronto con l’oggetto ritrattato. Quasi neppure il nostro fuoco si può paragonare con quello di laggiù. Rimasi spaventatissima e lo sono tuttora mentre scrivo, benché siano già passati quasi sei anni, tanto da sentirmi agghiacciare dal terrore qui stesso dove sono. Mi accade intanto che quando sono afflitta da qualche contraddizione o infermità, basta che mi ricordi di quella visione perché mi sembrino subito da nulla persuadendomi che ce ne lamentiamo senza motivo. Questa fu una delle più grandi grazie che il Signore m’abbia fatto, perché mi ha giovato moltissimo non meno per non temere le contraddizioni e le pene della vita che per incoraggiarmi a sopportarle, ringraziando il Signore d’avermi liberata da mali così terribili ed eterni, come mi pare di dover credere» (Teresa d’Avila, Libro della Vita, Cap. 32). Puzza e odio, odori e sentimenti che già germinano a partire da questa povera vita terrena.
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Mi accade intanto che quando sono afflitta da qualche contraddizione o infermità, basta che mi ricordi di quella visione [dell’Inferno] perché mi sembrino subito da nulla persuadendomi che ce ne lamentiamo senza motivo. (Santa Teresa).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
O Dio, che nel vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori
hai dato alla tua Chiesa un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi al tuo popolo di partecipare assiduamente a questo mistero,
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.
hai dato alla tua Chiesa un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi al tuo popolo di partecipare assiduamente a questo mistero,
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.