1 Settembre 2018

Sabato XXI Settimana T. O.

Oggi Gesù ci dice: “Vi do un comandamento nuovo, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 1,34 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 25,14-30: Tutto è dono, tutto è grazia, così anche l’essere chiamati da Dio per far incrementare il suo Regno di “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17) è pura liberalità. I cristiani sono i servi ai quali il padrone, Gesù, lascia la cura di far fruttificare i suoi doni per lo sviluppo del suo regno, e che dovranno rendergli conto della propria gestione. L’indolente sarà punito severamente: il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Con l’incarnazione del Verbo (Gv 1,14) non vi sono più campi neutri, l’uomo è obbligato a scegliere: o stare con Cristo o schierasi contro di lui (Mt 12,30), e alla fine, per la sua scelta, o attraverserà le porte del Regno di Dio, per sedersi alla destra del Padre (Ef 2,6), oppure sarà punito severamente, sarà gettato fuori nelle tenebre, nello stagno di fuoco (Ap 20,15).

Come risulta chiaramente dal testo, tutta la parabola si concentra sul comportamento del terzo servo: quello che nasconde il talento sotto terra e per questo viene rimproverato e condannato dal padrone. Trafficare i talenti comporta dei rischi, il rischio di bruciare in operazioni commerciali tutto il patrimonio ricevuto in affidamento, ma vi è la possibilità di accrescerlo. Con i doni di Dio bisogna rischiare. Il servo infingardo non ha perso nulla, ma non ha guadagnato nulla. Poteva depositarlo in banca e ritirare a tempo debito gli interessi. Una precauzione che l’avrebbe messo al riparo dall’ira del suo padrone. Il fatto paradossale del servo pigro che viene spogliato dell’unico talento e dato a chi ne aveva dieci «indica che i poteri conferiti ai discepoli aumentano quando sono esercitati bene e diminuiscono quando non lo sono. Il castigo per questo tipo di infedeltà è severo quanto quello inflitto per mancanze più positive; è l’espulsione nelle tenebre esteriori» (John L. MacKenzie).
La «parabola dei talenti» sembra suggerire che la non risposta ai doni di Dio sia dettata dalla paura. È come se l’uomo avesse paura di Dio. Come, in un Giardino, si era nascosto dietro una siepe perché si era scoperto nudo, così, ora, nasconde sotto terra i semi della salvezza: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Ma forse nasconde i doni di Dio sotto terra perché non diventino Parole di Dio che possano parlare al suo cuore, alla sua mente e sopra tutto alla sua coscienza. La possibilità che il seme diventi Parola di Dio ha scatenato nel servo infingardo, tardo di mente e di cuore, la paura, la paura di Dio. Così, la paura ha finito per paralizzare, complessare, bloccare il servo malvagio. La paura della reazione del padrone esigente ha ucciso la sua semplicità, la sua purezza, la sua creatività... un vero e proprio suicidio: «... gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi» (Mt 27,5). La paura ha impedito al servo dell’unico talento di fare il calcolo delle probabilità e lo ha bloccato nell’immobilismo fissandolo per sempre in una eternità buia senza luce, salato col fuoco (Cf. Mc 9,49), dov’è pianto e stridore di denti.

Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni - (Ascolta la Parola, parte quarta): [...] la liturgia odierna richiama la nostra attenzione su un altro aspetto della comune attesa escatologica: il senso di «responsabilità» per i molteplici «doni» ricevuti e per le «funzioni» che ognuno è chiamato a svolgere. È a Dio che dobbiamo rendere conto dei doni che egli ci ha dato perché li sapessimo utilizzare per il bene nostro e altrui.
Più che sulle nostre «colpe», vorrei dire che Dio ci giudicherà sullo «spreco» che avremo fatto dei suoi «talenti», per usare la terminologia evangelica. La «colpa» più grande, in fin dei conti, è sempre quella di far rimanere «infruttiferi» i suoi doni di amore e di grazia. Anche quando è «commissione», il peccato è sempre, e prima di tutto, un’«omissione», cioè l’aver «mancato» a un appuntamento di grazia.
È quanto in maniera evidente ci insegna la notissima parabola dei «talenti», riferitaci da s. Matteo. In s. Luca corrisponde l’analoga parabola delle «dieci mine», distribuite ciascuna a dieci servi diversi (Lc 19,11-27). Una «mina» corrispondeva a un sessantesimo di talento: perciò, in rapporto a Matteo, il valore del denaro affidato ai servi è molto minore. In un certo senso, anche la loro «responsabilità» diminuisce. Matteo, pertanto, proprio adoperando lo sfondo di cifre più alte, tende a rendere anche più drammatica la situazione del servo infingardo. Da tutto l’insieme si ha la sensazione che la parabola, secondo la redazione matteana, corrisponda meglio all’originale: Luca avrebbe cambiato certi dettagli per rispondere alle esigenze dei suoi lettori, per i quali avrebbe introdotto anche una specie di appendice con il particolare del pretendente al regno (19,12. 14.17.19.27). In Luca, d’altra parte, la parabola non è situata in un contesto escatologico, ma piuttosto morale-esortativo. In Matteo, invece, ha un marcato senso «escatologico», come risulta dalla sua collocazione nel discorso escatologico, e soprattutto da certi elementi descrittivi. Ad esempio, si mette in evidenza che il padrone, il quale era partito per un viaggio, «dopo molto tempo tornò e volle regolare i conti con loro» (v. 19). Anche il premio dato ai servi diligenti, come il castigo riservato al servo indolente, rimandano a una sentenza che appare definitiva: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò eredità sul molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone [...]. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (w. 21.23.30). Il «molto tempo» dell’assenza del padrone (v. 19) allude alla fremente attesa «escatologica» della prima generazione cristiana, che rischiava, per il ritardo della «parusia», di tramutarsi in delusione, addirittura in una specie di «disarmo» morale.

Bene, servo buono e fedele: Felipe F. Ramos (Vangelo di Matteo): La ricompensa descritta nella parabola comporta un chiaro riferimento alla realtà religiosa. Prendi parte alla gioia del tuo padrone. Questo premio concesso ai due servi fedeli per la loro attiva fedeltà alle consegne del loro signore significa evidentemente la vita eterna. E colui che parla così dev’essere necessariamente il Figlio dell’uomo nella sua qualità di giudice. E solo perché si tratta di realtà soprannaturali, i talenti raddoppiati sono considerati come poco: «sei stato fedele nel poco...». Il terzo servo lascia improduttivo il capitale del suo signore e in più ragiona in modo insolente nel tentativo di discolparsi. Non ha osato correre il rischio. Il talento non ha fruttificato nelle sue mani, ma può restituirlo integro. Il suo signore gli risponde duramente. Ha deluso le speranze che aveva riposte in lui. Anche lui era cosciente del rischio, ma contava sulla diligenza fedele e laboriosa del suo servo. La sua indolenza è la ragione unica per cui il talento che gli aveva affidato è rimasto improduttivo. Subito dopo abbiamo due incongruenze: il signore ordina - e non ci è detto a chi sono indirizzati i suoi ordini - che gli sia tolto il talento e che sia dato a colui che ne ha dieci. D’altra parte, la parabola suppone che i primi due servi abbiano già consegnato i loro talenti al loro signore. Sono due particolari che tentano di mettere in rilievo, in primo luogo, la condanna del servo inutile appunto per la sua indolenza e, in più, la norma di retribuzione seguita dal giudice divino: «a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha», norma d’azione indicata già altre volte dal Signore (13.12; Mc 4.25) e che fu messa qui dall’evangelista Matteo come riassunto dell’insegnamento della parabola.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): vv. 28-29 Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13,12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.
v. 30 Sia gettato fuori, nelle tenebre; fuori dalla gioia e dalla luce della sala del convito celeste (cf. verss. 21,23) vi è il luogo di condanna e di pena (cf. 8,12; 22,13). La parabola dei talenti, come le due precedenti, tratta del rendiconto che ciascuno deve dare a Dio al termine della vita. Essa quindi non va applicata a ciò che avverrà alla fine dei tempi, ma al termine dell’esistenza di ciascuno. I servitori rappresentano le anime alle quali Gesù affida il compito di far fruttificare i doni di natura e di grazia in ordine allo sviluppo del suo regno. Questi servi devono rendere conto del modo con il quale hanno impiegato e fruttificato i doni ricevuti da Dio al momento della morte e del giudizio particolare.

La Parola di Dio suggerisce una realtà molto elementare: la morte “è segnata dal giudizio di Dio [giorno del Signore] che segna non l’affermazione d’Israele sui suoi nemici, ma la separazione di coloro che camminano nella luce da coloro che vanno in rovina dietro le tenebre del peccato” (Giuseppe D’Anna).
La morte, incontro eterno con la Luce, abbraccio misericordioso con il giusto Giudice, metterà a nudo il nostro cuore, svelerà i nostri pensieri. La morte, dolce epifania dell’eterno destino dell’uomo, è via che conduce alla gioia senza fine oppure strada che conduce all’eterna disperazione. Il ricordo del tempo transitorio, “passa la scena di questo mondo” (1Cor 7,31), la memoria di un tempo che si fa breve, aiuta il cuore a riscoprire la bellezza della vita come comunione con Dio.
I novissimi, pietosi amici, che ricordano alla nostra vanagloria di abbassarsi, sono fedele memoria al nostro cuore ad essere piccoli, umili, specchio terso in cui si riflettono i nostri vizi e le nostre virtù. Le ultime realtà possiedono questo volto pietoso, ma allo stesso tempo sono vigorose spinte a cambiare vita, ad uniformarci alla Legge di Dio qualora ci si accorgesse di esserci allontanati dalla casa del Padre. Se manca la meditazione sul nostro ultimo destino si piomba in una aberrante autodeterminazione, che è stoltezza e insipienza di giudizio e di orientamento.
Purtroppo la morte per molti, anche per tanti credenti, oggi è un tabù. Oggi siamo meno preparati psicologicamente a morire. Ma in verità la morte restituisce, riconsegna all’uomo quella libertà che il peccato gli aveva rubato. La morte quando diventa meta agognata, desiderata (cf. Fil 1,21.23), fa vivere in pienezza la vita anche quando questa volge al declino. La morte non è altro che un “tempo eterno” lungamente, oculatamente, preparato nel “tempo transeunte”.
Si vede, così, con lucidità e con realismo, la parabola umana; il suo nascere, il suo mettere radici, il suo sfiorire. La nascita, la vita, la morte, non devono essere separati perché l’una è compagna dell’altra, l’una spiega l’altra. In una ottica cristiana allora la nascita è il tempo del dono, la vita il tempo del suo trafficarlo, la vecchiaia, l’autunno, la vendemmia, il tempo del raccolto.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Non è degno del premio celeste chi non sente la responsabilità di far crescere il regno. L’inattività del servo malvagio, alla fine della vita, sarà giudicata con severità.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



31 Agosto 2018

Venerdì XXI Settimana T. O.

 
Gesù ci dice: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo. ” (Lc 21,36 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 25,1-13: Il cuore della parabola delle dieci vergini è la vigilanza: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. Ma al di là di questa indicazione, le vergini rappresentano le anime cristiane nell’attesa dello sposo, il Cristo. Anche se egli ritarda, la lampada della vigilanza deve restare pronta. Il dolce dormire è preludio di una rovinosa tragedia: alla fine della vita, al nostro continuo bussare, lo Sposo risponderà: «In verità io vi dico: non vi conosco». Non possiamo farci illusioni: «Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo.» (Gal 6,7-9).

Felipe F. Ramos: La parabola si riferisce alla seconda venuta di Cristo e descrive la situazione di coloro che vivono, nella speranza, il tempo intermedio fra la risurrezione e la parasta del Signore (per la precisione del significato di «parusia», conviene ricordare quello, che abbiamo detto nel commento a 24,4-13). Il contesto nel quale Matteo ha inquadrato la parabola mette in chiara evidenza la sua intenzione; e, come se questa non fosse abbastanza chiara, aggiunge le parole finali: «Vigilale, perché non sapete il giorno né l’ora» (v. 13). Per comprendere questa parabola, dobbiamo partire dal presupposto che il regno dei cieli non è paragonato a dieci vergini, ma alla celebrazione solenne d’un banchetto nuziale, solennità che è messa in evidenza all’ultimo momento. È un banchetto nel quale la fine del mondo e il giudizio finale hanno un ruolo decisivo anche se, naturalmente, non esclusivo (ma ora si fa riferimento a quel momento). Per questo il regno può essere paragonato alla sala del banchetto nella quale entrano le vergini sagge. L’introduzione della parabola potrebbe dunque essere questa: «Avviene del regno dei cieli quello che avviene di dieci vergini... invitate a un banchetto nuziale».

Presso gli Ebrei le nozze venivano celebrate di notte. Il buio della notte era rischiarato da torce e da lampade ad olio portate dagli invitati. La sposa, nella casa del padre, in compagnia di giovani non maritate, attendeva la venuta dello sposo. Nel racconto di Gesù lo sposo arrivò in ritardo, per cui l’olio delle lampade incominciò a scarseggiare. Solo coloro che avevano portato olio in abbondanza furono in grado di rifornire le lampade e di accogliere lo sposo.
Le dieci vergini sono presentate con un aggettivo, cinque sono dette stolte, insensate, moraì; e cinque sagge, accorte, frónimoi.
L’aggettivo moròs, nella terminologia biblica, non indica soltanto lo sciocco, ma anche l’empio che è così insensato da opporsi alla legge di Dio e giunge fino a negare l’esistenza di Dio. Ecco perché nella sacra Scrittura, il «concetto di stolto acquista il significato di empio, bestemmiatore [passi tipici sono: Sal 14,1 e 53,2; però anche Sal 74,18.22; Gb 2,10; Is 32,5s; cf. Sir 50,26]. Lo stolto si ribella a Dio, distrugge in pari tempo la comunità umana: fa mancare il necessario agli affamati [Is 32,6], accumula ricchezze ingiuste [Ger 17,11] e calunnia il suo prossimo [Sal 39,9]. Anche nella letteratura sapienziale posteriore, dove il concetto è meno duro, rimane il senso della colpevolezza» (J. Goetzmann). Se accettiamo anche questa sfumatura, allora le cinque vergini stolte della parabola non sono soltanto delle sempliciotte, o ragazzotte sprovvedute, ma veri e propri oppositori della legge divina; sono coloro che non entrano nel Regno di Dio a motivo della loro empietà e così l’accusa contro i farisei si fa più pesante: essi sono religiosi nelle parole, ma empi perché di fatto ribelli alla volontà divina, «dicono e non fanno» (Mt 23,3), e tanto stolti da respingere la proposta di salvezza che Dio fa loro nella persona del suo Figlio unigenito.
La parabola nel mettere in evidenza l’incertezza del tempo della venuta gloriosa del Cristo, vuole instillare nei cuori degli uomini la necessità della vigilanza, senza fidarsi di calcoli in base ai segni dei tempi: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo e né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36).
Questa venuta improvvisa deve indurre gli uomini ad assumere un serio atteggiamento di vigilanza e un comportamento saggio al quale nessuno può sottrarsi se non vuole essere escluso dal regno di Dio. Poi, alla vigilanza e al comportamento saggio va aggiunto il timore: «Comportatevi con timore nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,17-19). Se Cristo Gesù, «nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), per salvarci si è annichilito nel mistero dell’Incarnazione, se è morto su una croce come un volgare malfattore, «è segno che la nostra anima è assai preziosa e dobbiamo perciò affaticarci “con timore e tremore per la nostra salvezza”, per non distruggere in noi l’opera della grazia di Dio. Tutto infatti viene dalla “grazia”: la redenzione di Cristo è opera di grazia e anche l’accettazione della redenzione da parte nostra è opera di grazia, poiché è Dio stesso colui “che opera in noi il volere e l’agire” secondo i suoi disegni di benevolenza e di amore» (Settimio Cipriani).
Le vergini, le stolte e le sagge, non sopportando il tedio dell’attesa vengono colte dal sonno al quale cedono ben volentieri. Questo particolare suggerisce che il progetto di Dio, «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10), andrà a buon fine, lo voglia o non lo voglia l’uomo e sarà svelato all’intelligenza degli uomini quando Dio vorrà, anche senza il loro apporto. Gesù aveva suggerito la stessa cosa nella parabola del seme che spunta da solo anche mentre il contadino dorme (Mc 4,26): c’è, quindi, nella crescita e nella diffusione del Regno di Dio una componente che non dipende dall’uomo. Il regno di Dio porta in sé un principio di sviluppo, una forza segreta che lo condurrà al pieno compimento.


Ecco lo Sposo - Lo Sposo è il Redentore del mondo - Giovanni Paolo II (Omelia, 11 novembre 1984): “Il regno è simile a dieci vergini, che ... uscirono incontro allo sposo” (Mt 25,1). Chi è questo sposo? La figura dello Sposo, che parla d’amore disinteressato, è profondamente inscritta nei Libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. È l’amore col quale Dio “dona se stesso”. Non solo rivela se stesso nei numerosi e differenti doni del creato ma Egli stesso diventa il Dono per l’uomo che vive nella comunità del Popolo di Dio: il Dono per la vita eterna in Dio. Il popolo d’Israele ha conosciuto questa verità su Dio nell’Antica Alleanza, soprattutto mediante l’insegnamento dei Profeti. Questa verità su Dio alla fine è stata rivelata in Gesù Cristo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito...” (Gv 3,15). E il Figlio ha realizzato questo amore del Padre mediante il suo Vangelo. E infine lo ha realizzato mediante la Croce e la Risurrezione. Nella Croce e nella Risurrezione l’amore misericordioso di Dio per tutta l’umanità ha assunto una potenza redentrice. Lo Sposo, di cui si parla nella parabola odierna, è il Redentore del mondo. Nella potenza del suo amore redentore Gesù Cristo è diventato lo Sposo della Chiesa, lo Sposo di ogni anima umana nella grande, interpersonale comunità del Popolo di Dio.

Giuseppe Barbaglio: Il racconto non si attarda a descrivere il cerimoniale delle nozze. Non menziona neppure la sposa. L’attenzione è concentrata sul comportamento delle dieci fanciulle che attendono il corteo dello sposo. Di esse cinque sono dette sagge, le altre stolte, in quanto le prime, a differenza delle compagne, si procurarono l’olio di riserva per alimentare le lampade. Soltanto questo elemento le distingue. Di fatto tutte dormirono nella lunga attesa. Non si tratta dunque di vegliare. La loro saggezza è consistita nell’essere pronte ed equipaggiate per seguire con le lampade accese lo sposo nella sala del banchetto nuziale.
Se ora ci domandiamo in che cosa consisteva per la chiesa di Matteo l’essere pronti ad andare incontro al Signore nel giorno della sua venuta finale, la risposta emerge dalla duplice analogia di questa parabola con la parte terminale del discorso della montagna. Le fanciulle sagge e stolte trovano l’esatta corrispondenza nei due costruttori di casa della parabola omonima, dove si dice che la saggezza dell’uno e la stoltezza dell’altro dipendono dall’agire o meno in conformità della parola di Cristo (7,24.26). Inoltre la risposta dello sposo alle stolte risuona negli stessi termini della condanna inflitta nel giudizio finale ai credenti che nella liturgia hanno acclamato Gesù come loro Signore e sono stati dotati di carismi straordinari, ma non hanno fatto la volontà del Padre (7,21-23). La comunità cristiana deve dunque prepararsi al futuro salvifico con il compimento fedele delle esigenze di Dio rivelate da Cristo. La vigilanza non consiste in una attesa inerte e contemplativa, ma si incarna nel fare, nell’attuare opere concrete che traducano in atto il volere di Dio, cioè la sua suprema esigenza di amore. Ma l’obbedienza ai comandamenti di Dio e alle parole di Gesù vuol dire amare il prossimo come amiamo noi stessi (7,12). Dunque la verifica dell’autentica speranza cristiana avviene ora sul piano prassistico, nel compiere gesti di amore. La carità esprime nell’oggi il dinamismo della speranza. Le evita così di degenerare in una fuga dal presente, nell’esilio da questo mondo, nella evasione dalle responsabilità attuali della storia, in un quietismo di comodo.

Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): La parabola termina con un monito solenne e grave che ricalca il pensiero espresso in Mt., 24,50. La parabola, che racchiude vari elementi allegorici (parabola allegorizzante), presenta, sotto l’immagine di dieci giovani fanciulle destinate ad una festa nuziale, le anime credenti in attesa dello sposo che deve venire a cercarle all’ora della morte. Lo sposo è Gesù. Le giovani, anche se lo sposo tarda, devono trovarsi vigilanti e provviste. Durante la notte della vita terrena la lampada della vigilanza deve rimanere accesa o, almeno, in condizione di essere subito ravvivata appena giunge il momento dell’arrivo dello sposo. Le anime che sono pronte saranno ammesse alla festa nuziale (immagine della beatitudine celeste), le altre invece saranno irrimediabilmente escluse. La bellezza dottrinale della parabola consiste nella scelta di un’immagine suggestiva e ricca di senso. La vita dell’uomo è una trepida attesa dello sposo; il principio che illumina l’esistenza umana è la certezza di essere destinati ad una festa nuziale. L’elevatezza di queste concezioni è sentita in modo arcano da alcune anime che fanno della propria vita una continua preparazione a questo incontro con lo sposo e danno alla parabola un’attualità perenne. Le stesse idee sono espresse da Luca con altre immagini (cf. Lc., 12,35-38; 13,25).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...






30 Agosto 2018

Giovedì XXI Settimana T. O.

 
Gesù ci dice: “Vegliate e tenetevi pronti, perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.” (Mt 24,42a.44 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 24,42-51: Al discorso che annunzia la fine di Gerusalemme e l’ultima venuta del Cristo alla fine del mondo, l’evangelista Matteo unisce tre parabole che riguardano la fine ultima degli individui. La prima mette in scena un servo incaricato di una missione e giudicato in base al modo in cui ha adempiuto il suo compito. La stoltezza del servo malvagio va colta nel suo ragionare: poiché il mio padrone tarda, posso darmi ai bagordi e infrangere ogni regola di fedeltà, di obbedienza, di buona educazione. Ma il padrone arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, e lo punirà. Da qui la sana raccomandazione di Gesù: Vegliate... tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo. La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà: “Perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà.” (1Pt 1,13; 1Ts 5,6-8; 1Pt 4,7; 5,8).

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): vv. 45-47 Matteo, al discorso su la rovina di Gerusalemme e su l’inaugurazione del regno messianico (la Chiesa), fa seguire tre parabole (24,45;51, 25,1-13; 25,14-30) che si riferiscono al destino finale dell’individuo. È probabile che la parabola del servo (24,45-51), pronunziata in altra circostanza, sia stata posta da Matteo nell’attuale contesto per un motivo di analogia; infatti nell’esortazione alla vigilanza (24,42-44) e nella parabola del servo custode della casa si parla di una venuta improvvisa del padrone. Ma nel primo caso la venuta riguarda una collettività, nel secondo un individuo, come appare manifestamente dal passo parallelo di Luca (cf. Lc., 12,41-42). Il servo fedele è la persona di fiducia che presiede al governo della casa e che adempie con esattezza il proprio dovere. Alla venuta del padrone è promosso di carica per il fedele compimento della sua mansione ed è proposto all’amministrazione di tutti gli averi del suo signore. Questo servo fedele rappresenta il servitore a cui Gesù ha affidato un posto di responsabilità (cf. Lc., 12,41) ed al quale egli chiede ragione dell’operato al termine della vita.
Il discepolo che si è mostrato fedele nel compimento del suo ufficio nel regno messianico, verrà associato nel cielo a Gesù glorioso; anche dal cielo egli continuerà ad essere utile nel governo del regno che è sulla terra (cf. Mt., 19,28; 25,21).
vv. 48-51 La parabola presenta un quadro opposto al precedente. Un’altra persona che presiede al governo della casa, sfrutta l’assenza del padrone per agire da despota e per condurre una vita licenziosa abusando dei beni affidatigli. Il mio padrone tarda; è un’espressione generica che non richiama necessariamente la venuta del metaforico padrone alla fine del mondo; essa indica semplicemente l’assenza del padrone di casa o il disinteresse per quella vigilanza che il servo dovrebbe avere in virtù della mansione di fiducia ricevuta dal suo signore. Lo farà squartare (διχοτομήσει), non è facile stabilire il senso esatto di questo verbo; preso alla lettera significa: lo dividerà in due parti; l’antichità greco-romana e la Bibbia non ignorano questo supplizio (cf. 1Samuele, 15,33; Geremia, 34,18-19; Daniele, 13,55.59; Ebrei, 11,37). La forma verbale può essere intesa in senso metaforico: lo separerà dagli altri, lo condannerà. La sorte degli ipocriti; il termine (ipocriti) fa pensare agli Scribi ed ai Farisei che hanno rigettato il regno (cf. 23,13 segg.). Luca ha: empi, infedeli (Lc., 12,46). Per il pianto ed il fremito dei denti, cf. 8,11-13; l’espressione indica una condanna personale (cf. 22,13) e sarà ripresa in Mt., 25,30

Vegliate - Catechismo della Chiesa Cattolica 1041 - Il messaggio del giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini “il momento favorevole, il giorno della salvezza” (2 Cor 6,2). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giustizia del regno di Dio. Annunzia la “beata speranza” (Tt 2,13) del ritorno del Signore il quale “verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto” (2 Ts 1,10)

Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà: Essere vigilanti non significa darsi all’ozio, ma semplicemente non farsi prendere la mano dalla carriera, dal successo, dal denaro per dare spazio alle cose di Dio e a quelle dello spirito.
Le occupazioni, che spesso diventano preoccupazioni, a lungo andare, appesantendo il cuore, fanno sprofondare l’uomo in un cupo sonno colpevole, il quale, in questo stato confusionale, non sentendo i passi di Dio nella sua vita, si avvia inesorabilmente verso un destino di morte e di distruzione.
... se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro... L’immagine del Figlio dell’uomo paragonato a un ladro notturno che entra in casa per rubare rende ancora più efficace il tema della vigilanza continua.
L’immagine del ladro è usata frequentemente nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù (Cf. 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Il padrone di casa che non vigila potrebbe perdere tutti i suoi beni, così il cristiano addormentato può perdere tutto se stesso all’appuntamento supremo.
In contrasto «con l’apocalittica giudaica, che si prefiggeva di calcolare in anticipo il giorno del giudizio, Gesù ne afferma il carattere sconosciuto e inaspettato e perciò raccomanda la vigilanza... L’attesa per la venuta improvvisa del Signore non costituisce per il credente un motivo di ansia o di paura. L’essenziale è esser trovati vigilanti e pronti per accogliere il Salvatore, senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni e dagli interessi mondani, che sono cose secondarie e contingenti» (A. Poppi).
In un’ottica tutta cristiana, la repentinità della venuta del Figlio dell’uomo ha un ruolo importante e decisivo nella vita del cristiano tanto da animarla profondamente anche negli impegni più banali.
Infatti a nutrire la vigilanza saranno le virtù teologali tanto necessarie al discepolo per conquistare il regno: la speranza certa della venuta di Gesù; la fede nella indefettibilità della parola del Maestro; la carità che bruciando il cuore lo sospinge a cercare le «cose di lassù» (Col 3,2).

Parabola del servo fedele o infedele - Catechismo della Chiesa Cattolica 1021: La morte pone fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo (2Tm 1,9-10). Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro (Lc 16,22) e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone (Lc 23,43) così come altri testi del Nuovo Testamento (2 Cor 5,8; Fil 1,23; Eb 9,27; 12,23) parlano di una sorte ultima dell’anima (Mt 16,26) che può essere diversa per le une e per le altre.

La retribuzione - Catechismo della Chiesa Cattolica 1051: Ogni uomo riceve nella sua anima immortale la propria retribuzione eterna fin dalla sua morte, in un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti.

Dalla morte al giudizio - Antonio M. Gentili:  [...] La morte, per quanto rimanga sempre un evento traumatico, rivela sia pure parzialmente il suo mistero e si fa amica di una vita virtuosa. E in questo senso che sant’Ignazio, nei suoi Esercizi, racconta di compiere le proprie scelte di vita «come se mi trovassi in punto di morte» (Esercizi, 186, cf 340). Si tratta di assumere “ora” il comportamento che “allora” avrei voluto tenere! Quello che Ignazio afferma sulla morte lo ripete per il giudizio: «Immaginando e considerando come mi troverò il giorno del giudizio, penserò a come allora vorrei aver deliberato circa la cosa presente, e la regola che allora vorrei aver seguito l’adotterò adesso, per potermi trovare allora con grande piacere e gioia» (Esercizi, 187, cf 341). Piacere e gioia nel giorno del giudizio! E una delle non poche perle che incontriamo nel dettato così scarno del testo ignaziano. Il che significa affrontare il giudizio di Dio in modo positivo, poiché ce ne siamo appropriati in anticipo e lo abbiamo fatto nostro. Infatti il giudizio di Dio non è un punto di vista estraneo e arbitrario sulla nostra vita e il nostro operare, ma viene a coincidere con quanto di meglio l’uomo può volere per sé. Il giudizio di Dio, così ripetutamente lo hanno fissato le non poche esperienze di premorte di cui è ricca la letteratura (si pensi ai testi di Moody su “la vita oltre la vita”), e infatti una luce sfolgorante che permette all’animo umano di avere una visione fulminea e perfetta di come si è operato nell’intero arco della vita. Si potrebbe dire che il giudizio di Dio mi rivela a me stesso come sono. In questo senso l’esercizio spirituale, incentrato sull’ascolto della parola e sull’introspezione, che mi rivela consonanze e dissonanze tra quanto Dio mi dice e quanto io sento, penso e opero, è un vivere in anticipo il giudizio divino e renderlo efficace nell’esistenza quotidiana, Queste veloci annotazioni sottolineano una volta in più, se ce ne fosse bisogno, che l’esercizio spirituale non si esaurisce in una dotta esposizione di principi, ma deve rivolgersi in esperienza vissuta. Giacché è questo che l’uomo oggi cerca: un messaggio che si incarni nella sua vita e lo conduca a progressive integrazioni fra le quali primeggia certamente il mistero binomio morte-giudizio.

Giuseppe Barbaglio: La conclusione dell’esistenza cristiana sta nell’unione indistruttibile con il Signore, nell’eterna comunione di vita con Cristo (1Tess. 5,10). Davanti a questa prospettiva l’apostolo brucia dal de­siderio di morire per raggiungere il Signore ed essere insieme con Cristo (Fil. 1,23), e di abitare presso il Signore (2Cor. 5,8).
Il destino ultimo del cristiano consiste nell’inalienabile comunione con il suo Signore. Senza l’angustia della possibilità della rottura.
Nel pacifico e sereno possesso di Cristo. Nel clima di un’intima familiarità e di una gioia pura, espresse dall’immagine della partecipazione al banchetto celeste, di cui quello eucaristico è segno: «Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt. 26,29).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Immaginando e considerando come mi troverò il giorno del giudizio, penserò a come allora vorrei aver deliberato circa la cosa presente, e la regola che allora vorrei aver seguito l’adotterò adesso, per potermi trovare allora con grande piacere e gioia» (SantIgnazio di Loyola, Esercizi, 187, cf 341).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...






29 Agosto 2018

Martirio di san Giovanni Battista - Memoria

 
Gesù ci dice: “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” (Mt 5,10 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Marco 16,17-29: La morte cruenta di Giovanni Battista, uomo giusto e santo, fedele al suo mandato e messo a morte per la sua libertà di parola, fa presentire l’arresto e la condanna ingiusta di Gesù. Giovanni Battista muore per la malvagità di una donna e la debolezza di un sovrano, ma la sua morte non è uno dei tanti fatti di cronaca che da sempre fanno parte della storia umana, è invece una Parola che Dio rivolge a tutti gli uomini: morire per la Verità è farsi discepolo del Cristo, ed è offrire la propria vita per la salvezza degli uomini: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando” (Gv 15,12-14).

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): L’accenno alla decapitazione del Battista offre a Marco l’opportunità per narrare come avvenne la morte del Precursore. L’evangelista ricorda i motivi di carattere privato che hanno trascinato il tetrarca al suo gesto sanguinario. Marco, che aveva accennato fugacemente all’arresto del Battista all’inizio della vita pubblica di Gesù (cf. Mc., 1,14), ora precisa maggiormente i fatti, facendo entrare in scena una donna ambiziosa, accecata dalla passione e follemente bramosa di vendetta, la quale aveva atteso il momento opportuno per indurre il tetrarca ad accondiscendere all’insaziabile odio nutrito da lungo tempo contro colui che pubblicamente aveva denunziato lo scandalo della corte.
Per il racconto di Marco, 6,17-29 si veda il commento al passo parallelo di Matteo,14, 3-12. La narrazione di Marco è assai più particolareggiata di quella di Matteo, poiché scopre le astuzie femminili alle quali ricorse Erodiade per attuare il suo piano di vendetta.
Dai verss. 19-20 risulta il differente atteggiamento di Erode Antipa e della sua tirannica amante davanti all’austera figura del Precursore; questa era decisa a sbarazzarsi del prigioniero, quello invece era incerto, poiché si sentiva soggiogato dalla superiorità morale del Battista. Marco soltanto ci trasmette queste notizie di carattere privato.
Restava molto perplesso (ἠπόρει); molti codici hanno ἐποίει: faceva, (da questi manoscritti deriva la lettura della Volgata: et audito eo multa faciebat). Per il verbo ἀπορεῖν si è pensato che esso abbia un senso particolare, attestato dalla grecità classica, cioè: porre delle questioni; in questo caso il passo evangelico andrebbe così tradotto: «(Erode) lo ascoltava, gli poneva molte questioni e lo ascoltava volentieri»; questo senso del verbo ἀπορεῖν quantunque attestato in Platone ed Aristotele, non sembra convenire al versetto di Marco, perché esso è usato in passi in cui si tratta di discussioni dialettiche.
Vers. 21: Fece un banchetto ai suoi grandi...; Antipa aveva convocato tre categorie di persone: i grandi, cioè i membri dell’amministrazione civile, gli ufficiali superiori dell’esercito ed infine i notabili della tetrarchia (Galilea e Perea).
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XVIII, 5, 2) afferma che Erode fece sopprimere Giovanni perché temeva che la popolarità suscitata dal Precursore fosse causa di sedizione. Da questa notizia delle Antichità Giudaiche alcuni critici concludono che il racconto degli evangelisti, che parlano di un convito e di un ballo a corte, sia una storiella inventata da essi. Per un’esposizione chiara ed esauriente del problema rinviamo il lettore all’opera di M. J. Lagrange: L’évangile de Jésus Christ, Parigi 1948, pp. 200-207. Riportiamo le parole con le quali l’autore citato conclude la sua indagine storica: «Lungi dal contraddirsi i due documenti (Vangelo di Marco e Antichità Giudaiche) si completano nel modo più soddisfacente. Una vaga ragione di stato poté essere la spiegazione più semplice dell’assassinio per uno storico (Giuseppe Flavio) insufficientemente informato. La vera causa ha il suo punto d’appoggio nel carattere che Giuseppe stesso ha tracciato del tetrarca, amministratore prudente ed amico di tutti, quando non era traviato dalla moglie o vinto dal vino. Possiamo quindi con tutta sicurezza mettere la morte del Battista tra i fatti le cui circostanze palesi o nascoste ci sono meglio conosciute».

Vivere il Vangelo “sine glossa”: Giovanni Paolo II (Angelus, 29 Agosto 2004): Nell’Enciclica Veritatis splendor, ricordando il sacrificio di Giovanni Battista (cfr. n. 91), notavo che il martirio è “un segno preclaro della santità della Chiesa” (n. 93). Esso infatti “rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale” (ibid.). Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però “una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici” (ibid.). Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo “sine glossa”. L’eroico esempio di Giovanni Battista fa pensare ai martiri della fede che lungo i secoli hanno seguito coraggiosamente le sue orme. In modo speciale, mi tornano alla mente i numerosi cristiani, che nel secolo scorso sono stati vittime dell’odio religioso in diverse nazioni d’Europa. Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa.

San Giovanni Battista martire della verità: Benedetto XVI (Udienza Generale, 29 Agosto 2012): Nei Vangeli risalta molto bene il suo ruolo [di Giovanni Battista] in riferimento a Gesù. In particolare, san Luca ne racconta la nascita, la vita nel deserto, la predicazione, e san Marco ci parla della sua drammatica morte nel Vangelo di oggi. Giovanni Battista inizia la sua predicazione sotto l’imperatore Tiberio, nel 27-28 d.C., e il chiaro invito che rivolge alla gente accorsa per ascoltarlo, è quello a preparare la via per accogliere il Signore, a raddrizzare le strade storte della propria vita attraverso una radicale conversione del cuore (cfr Lc 3,4). Però il Battista non si limita a predicare la penitenza, la conversione, ma, riconoscendo Gesù come «l’Agnello di Dio» venuto a togliere il peccato del mondo (Gv 1,29), ha la profonda umiltà di mostrare in Gesù il vero Inviato di Dio, facendosi da parte perché Cristo possa crescere, essere ascoltato e seguito. Come ultimo atto, il Battista testimonia con il sangue la sua fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare, compiendo fino in fondo la sua missione. San Beda, monaco del IX secolo, nelle sue Omelie dice così: San Giovanni Per [Cristo] diede la sua vita, anche se non gli fu ingiunto di rinnegare Gesù Cristo, gli fu ingiunto solo di tacere la verità. (cfr Om. 23: CCL 122, 354). E non taceva la verità e così morì per Cristo che è la Verità. Proprio per l’amore alla verità, non scese a compromessi e non ebbe timore di rivolgere parole forti a chi aveva smarrito la strada di Dio [...].
Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita. 

Sac Dolindo Ruotolo (I Quattro Vangeli): Erode s’era invaghito di Erodiade, ma questa s’era invaghita del regno di lui e dei maggiori vantaggi che sperava alla sua corte; astuta e maligna, fingeva un amore che era invece senso e calcolo, e la sua degna figlia la seguiva in questa via.
L’unico ostacolo ai suoi progetti totalitari di asservire a sé il corrotto monarca era Giovanni, ed ella credette giunto il momento di disfarsene. Si può supporre che, ascoltando la promessa giurata del tetrarca, avesse fatto capire alla figlia di consultarla prima di rispondere; si può anche supporre che la figlia avesse intuito il desiderio materno; certo il consultarsi rivelò tra loro o un’intesa o un’identità desolante di venale interesse.
La donna indispettita o adirata perde ogni senso di pudore nell’ambiente nel quale si trova; diventa come isolata in se stessa, non sa pensare neppure che ci può essere chi l’ascolta la biasima, va dritto al suo scopo prescindendo da qualunque conseguenza; non ragiona, è terribile, pur sembrando fredda e magari ponderata.
Erodiade era come belva in agguato; la sua ira era vigilante per dare il balzo felino e colpire il suo nemico; non badò alla festa, al banchetto, ai convitati, all’orrore di ciò che faceva domandare: pensò solo che non doveva farsi sfuggire l’occasione propizia, e disse alla figlia di domandare la testa di Giovanni. La figlia si mostrò degna della madre, e non si contentò di domandare la morte del Battista, ma, per timore che Erode cambiasse idea, volle che subito, all’istante, le fosse portata la testa del profeta in un piatto, sapendo con ciò di far cosa graditissima alla madre, od obbedendo ad una sua esplicita ingiunzione.
Erode si turbò e si rattristò perché non avrebbe voluto far morire Giovanni ma pensò che non poteva venir meno alla parola data, e gli sembrò di sminuire il prestigio suo innanzi ai convitati; perciò allora stesso mandò un carnefice a decapitar il santo nel carcere, e gli ordinò di portarne il capo alla fanciulla, la quale lo diede alla madre. È terribile il considerare l’eccesso cui può giungere l’umana perfidia, ed è raccapricciante il pensare al momento nel quale il carnefice portò nel banchetto la testa insanguinata del Battista. Quegli occhi vitrei parlavano ancora, e quel sangue sparso rimproverava al tetrarca e ad Erodiade il loro delitto.

I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro - Rinaldo Fabris (Vangelo di Marco): Il terzo atto, la sepoltura di Giovanni a opera dei discepoli, conclude il dramma presentato con ricchezza di particolari e finezza psicologica. La vivacità del racconto, assieme alla somiglianza con i precedenti letterari biblici, fa intuire che la prima preoccupazione di Marco non è di offrire un resoconto dei fatti, ma di far emergere alcuni temi. Il Battista, uomo «giusto e santo», cfr. At 3,14, messo a morte per la sua libertà di parola e la fedeltà al suo mandato, fa presentire l’arresto e la condanna ingiusta di Gesù. La vicenda di Giovanni si conclude con la sepoltura; la sua risurrezione non è altro che una diceria popolare. Mentre la vicenda di Gesù non termina con la sua morte e sepoltura, 15,46, ma continua nell’annuncio gioioso della sua risurrezione, 16,1-8.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però “una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici” (Giovanni Paolo II).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che a Cristo tuo Figlio hai dato come precursore, nella nascita e nella morte, san Giovanni Battista, concedi anche a noi di impegnarci generosamente nella testimonianza del tuo Vangelo, come egli immolò la sua vita per la verità e la giustizia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...




28 Agosto 2018


Martedì XXI Settimana T. O.

 
Gesù ci dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono.” (Gv 10,27 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 23,23-26: A volte, per tante ragioni, ci convinciamo ad adempiere a certi riti cultuali, sacrifici, o digiuni, ma spesso sono fatti senza amore, senza anima e quello che è peggio a scapito dei precetti più elementari di giustizia sociale e d’amore del prossimo. Come i farisei del Vangelo, lo abbiamo fatto solo per crederci in regola con Dio e con la nostra coscienza. I sentimenti che devono ispirare il culto devono essere impastati di obbedienza, di ringraziamento, di sincera contrizione. Ad accogliere gli insegnamenti dei farisei significa far scivolare tutto, la liturgia, il canto liturgico, la vita di ogni giorno, in un asfissiante formalismo che voterà alla morte per consunzione l’anima. Sarà il Nuovo Testamento a  dare le formule definitive: “Viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,21-24; Lc 11,41-42).

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti - Gaudium et spes 43: Il Concilio esorta i cristiani, cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura , pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno. A loro volta non sono meno in errore coloro che pensano di potersi immergere talmente nelle attività terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la quale consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali. La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo. Contro questo scandalo già nell’Antico Testamento elevavano con veemenza i loro rimproveri i profeti e ancora di più Gesù Cristo stesso, nel Nuovo Testamento, minacciava gravi castighi. Non si crei perciò un’opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge - Giuseppe Barbaglio (Il Vangelo di Matteo): La quarta invettiva (23-24) mostra un altro volto dell’atteggiamento farisaico di fronte alle esigenze divine messe per iscritto nella legge mosaica. Lo zelo per pratiche minuziose e supererogatorie, come il pagamento della decima su verdure insignificanti, quali la menta, l’anéto e il cumìno, coesisteva con la negligenza verso i comandamenti più importanti, cioè la giustizia, la misericordia e la fedeltà. La loro cecità spirituale trova espressione in un proverbio popolare che parla di capovolgimento di valori; essi con somma diligenza scolano le bevande per timore di essere contaminati dal moscerino, ma poi inghiottono il cammello. Fedeli nel piccolo, si dimostrano infedeli nel grande.

… trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà - Papa Francesco (Udienza Generale, 10 Settembre 2014): Un buon educatore punta all’essenziale. Non si perde nei dettagli, ma vuole trasmettere ciò che veramente conta perché il figlio o l’allievo trovi il senso e la gioia di vivere. È la verità. E l’essenziale, secondo il Vangelo, è la misericordia. L’essenziale del Vangelo è la misericordia. Dio ha inviato suo Figlio, Dio si è fatto uomo per salvarci, cioè per darci la sua misericordia. Lo dice chiaramente Gesù, riassumendo il suo insegnamento per i discepoli: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Può esistere un cristiano che non sia misericordioso? No. Il cristiano necessariamente deve essere misericordioso, perché questo è il centro del Vangelo. E fedele a questo insegnamento, la Chiesa non può che ripetere la stessa cosa ai suoi figli: «Siate misericordiosi», come lo è il Padre, e come lo è stato Gesù. Misericordia.

La fedeltà - Bruno Liverani - Giuseppe Barbaglio (Fedeltà, Sche de Bibliche Pastorli, Vol III): In genere, fedeltà traduce il termine ‘emet  ‘emunah (radice ‘nm), il cui significato fondamentale sembra essere quello di stabilità, sicurezza. In tal senso, la fedeltà e la consistenza degli impegni che Dio pone e l’infallibile efficacia delle sue promesse. Ma la parola che rende più profondamente l significato biblico è hesed (radice hsd), che noi normalmente si trova tradotta coi termini di misericordia bontà, ecc., ma che esprime propriamente la lealtà al patto concluso con il partner. Nel Nuovo Testamento il nostro tema è espresso dalla stessa terminologia del motivo della fede: pistis, pisteuó, pistos. [...].  La fedeltà è anche l’atteggiamento fondamentale che regola i rapporti umani nella comunità. L’uomo di ‘’emet è colui che si oppone alla menzogna, che parla sempre con lealtà, mantiene la parola data e usa rispetto verso il prossimo (Sal 15,1-5). Fedeltà è anche sinonimo di giustizia, osservanza delle giuste norme che ne regolano l’amministrazione pubblica; perciò è la qualità tipica dell’autorità, che la praticherà con particolare riguardo per i deboli (Pro 29,14). Fedele, inoltre, è l’uomo leale e degno di fiducia, che merita la stima di coloro che gli hanno affidato un determinato compito (Dn 6,5). Anche nei rapporti interpersonali è fondamentale il binomio hesed e ‘emet. Esse costituiscono l’atteggiamento che ci si attende dall’altro, una volta stabilito un rapporto di reciproco aiuto (Gs 2,12-14), e definiscono anche i legami personali più profondi come quelli che intercorrono tra padre e figlio (Gn 47,29).

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Quinta invettiva: il formalismo farisaico. I Farisei avevano una cura meticolosa per non incorrere nella impurità legale (cf. Mc., 7,4), ma non avevano in pari tempo la stessa cura di evitare la sordidezza morale ed interiore. Prescrizioni ben determinate dovevano essere osservate per la purificazione (lavaggio) rituale degli utensili di cucina ed i Farisei distinguevano tra la parete interna ed esterna delle coppe e dei piatti; Gesù, servendosi del loro stesso linguaggio, oppone all’impurità legale dei recipienti l’impurità morale del contenuto; i piatti possono essere in condizione di purità legale, ma il loro contenuto non è sempre la conseguenza o la causa di bontà interiore; infatti possono essere consumati in piatti e coppe legalmente puri frutti di rapine e cibi abbondanti che fomentano l’intemperanza. (I quali) all’interno son pieni di rapina e d’intemperanza; alcuni codici latini e la Volgata hanno: voi (cioè: gli Scribi ed i Farisei) siete pieni di rapina...; questa lettura s’ispira a Lc., 11,39 ed al vers. 28 del presente capitolo. Intemperanza; vari codici hanno altro sostantivo: ingiustizia, impurità, cupidigia. Fariseo cieco, purifica prima l’interno della coppa; molti codici aggiungono: e del piatto. Gesù richiama l’ordine obiettivo dei valori; bisogna preoccuparsi che l’interno (το ἐντός) sia moralmente puro, poiché esso trasmetterà la necessaria purità a tutto ciò che tocca.

L’ottavo comandamento - Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2464: L’ottavo comandamento proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri. Questa norma morale deriva dalla vocazione del popolo santo ad essere testimone del suo Dio il quale è verità e vuole la verità. Le offese alla verità esprimono, con parole o azioni, un rifiuto di impegnarsi nella rettitudine morale: sono profonde infedeltà a Dio e, in tal senso, scalzano le basi dell’Alleanza.

Vivere nella verità - Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 2467-2470: L’uomo è naturalmente proteso alla verità. Ha il dovere di rispettarla e di attestarla: “A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, . . . sono spinti dalla loro stessa natura e tenuti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità conosciuta e ordinare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità”.
La verità in quanto rettitudine dell’agire e del parlare umano è detta veracità, sincerità o franchezza. La verità o veracità è la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall’ipocrisia.
“Sarebbe impossibile la convivenza umana se gli uomini non avessero confidenza reciproca, cioè se non si dicessero la verità”. La virtù della verità dà giustamente all’altro quanto gli è dovuto. La veracità rispetta il giusto equilibrio tra ciò che deve essere manifestato e il segreto che deve essere conservato: implica l’onestà e la discrezione. Per giustizia, “un uomo deve onestamente manifestare a un altro la verità”.
Il discepolo di Cristo accetta di “vivere nella verità”, cioè nella semplicità di una vita conforme all’esempio del Signore e rimanendo nella sua verità. “Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità” (1Gv 1,6 ).

Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8,32): Giovanni Paolo II (Omelia, 21 Febbraio 1979): Questa frase attesta soprattutto l’intimo significato della libertà, alla quale ci libera Cristo. Liberazione significa trasformazione interiore dell’uomo, che è conseguenza della conoscenza della verità. La trasformazione è dunque un processo spirituale, in cui l’uomo matura “nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24). L’uomo così maturo internamente diventa rappresentante e portavoce di tale “giustizia e santità vera” nei diversi ambiti della vita sociale. La verità ha importanza non solo per la crescita della umana consapevolezza, approfondendo in questo modo la vita interiore dell’uomo; la verità ha anche un significato e una forza profetica. Essa costituisce il contenuto della testimonianza e richiede una testimonianza. Troviamo questa forza profetica della verità nell’insegnamento di Cristo. Come profeta, come testimone della verità, Cristo ripetutamente si oppone alla non-verità; lo fa con grande forza e decisione e spesso non esita a biasimare il falso. Rileggiamo accuratamente il Vangelo; vi troveremo non poche espressioni severe, per es. “sepolcri imbiancati” (Mt 23,27), “guide cieche” (Mt 23,16), “ipocriti” (Mt 23,13.15.23.25.27.29), che Cristo pronuncia, consapevole delle conseguenze che lo aspettano.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  L’essenziale, secondo il Vangelo, è la misericordia.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Suscita sempre nella tua Chiesa, Signore, lo spirito che animò il tuo vescovo Agostino, perché anche noi, assetati della vera sapienza, non ci stanchiamo di cercare te, fonte viva dell’eterno amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...