1 Settembre 2018
Sabato XXI Settimana T. O.
Oggi Gesù ci dice: “Vi do un comandamento nuovo, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 1,34 - Acclamazione al Vangelo).
Dal Vangelo secondo Matteo 25,14-30: Tutto è dono, tutto è grazia, così anche l’essere chiamati da Dio per far incrementare il suo Regno di “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17) è pura liberalità. I cristiani sono i servi ai quali il padrone, Gesù, lascia la cura di far fruttificare i suoi doni per lo sviluppo del suo regno, e che dovranno rendergli conto della propria gestione. L’indolente sarà punito severamente: il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Con l’incarnazione del Verbo (Gv 1,14) non vi sono più campi neutri, l’uomo è obbligato a scegliere: o stare con Cristo o schierasi contro di lui (Mt 12,30), e alla fine, per la sua scelta, o attraverserà le porte del Regno di Dio, per sedersi alla destra del Padre (Ef 2,6), oppure sarà punito severamente, sarà gettato fuori nelle tenebre, nello stagno di fuoco (Ap 20,15).
Come risulta chiaramente dal testo, tutta la parabola si concentra sul comportamento del terzo servo: quello che nasconde il talento sotto terra e per questo viene rimproverato e condannato dal padrone. Trafficare i talenti comporta dei rischi, il rischio di bruciare in operazioni commerciali tutto il patrimonio ricevuto in affidamento, ma vi è la possibilità di accrescerlo. Con i doni di Dio bisogna rischiare. Il servo infingardo non ha perso nulla, ma non ha guadagnato nulla. Poteva depositarlo in banca e ritirare a tempo debito gli interessi. Una precauzione che l’avrebbe messo al riparo dall’ira del suo padrone. Il fatto paradossale del servo pigro che viene spogliato dell’unico talento e dato a chi ne aveva dieci «indica che i poteri conferiti ai discepoli aumentano quando sono esercitati bene e diminuiscono quando non lo sono. Il castigo per questo tipo di infedeltà è severo quanto quello inflitto per mancanze più positive; è l’espulsione nelle tenebre esteriori» (John L. MacKenzie).
La «parabola dei talenti» sembra suggerire che la non risposta ai doni di Dio sia dettata dalla paura. È come se l’uomo avesse paura di Dio. Come, in un Giardino, si era nascosto dietro una siepe perché si era scoperto nudo, così, ora, nasconde sotto terra i semi della salvezza: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Ma forse nasconde i doni di Dio sotto terra perché non diventino Parole di Dio che possano parlare al suo cuore, alla sua mente e sopra tutto alla sua coscienza. La possibilità che il seme diventi Parola di Dio ha scatenato nel servo infingardo, tardo di mente e di cuore, la paura, la paura di Dio. Così, la paura ha finito per paralizzare, complessare, bloccare il servo malvagio. La paura della reazione del padrone esigente ha ucciso la sua semplicità, la sua purezza, la sua creatività... un vero e proprio suicidio: «... gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi» (Mt 27,5). La paura ha impedito al servo dell’unico talento di fare il calcolo delle probabilità e lo ha bloccato nell’immobilismo fissandolo per sempre in una eternità buia senza luce, salato col fuoco (Cf. Mc 9,49), dov’è pianto e stridore di denti.
Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni - (Ascolta la Parola, parte quarta): [...] la liturgia odierna richiama la nostra attenzione su un altro aspetto della comune attesa escatologica: il senso di «responsabilità» per i molteplici «doni» ricevuti e per le «funzioni» che ognuno è chiamato a svolgere. È a Dio che dobbiamo rendere conto dei doni che egli ci ha dato perché li sapessimo utilizzare per il bene nostro e altrui.
Più che sulle nostre «colpe», vorrei dire che Dio ci giudicherà sullo «spreco» che avremo fatto dei suoi «talenti», per usare la terminologia evangelica. La «colpa» più grande, in fin dei conti, è sempre quella di far rimanere «infruttiferi» i suoi doni di amore e di grazia. Anche quando è «commissione», il peccato è sempre, e prima di tutto, un’«omissione», cioè l’aver «mancato» a un appuntamento di grazia.
È quanto in maniera evidente ci insegna la notissima parabola dei «talenti», riferitaci da s. Matteo. In s. Luca corrisponde l’analoga parabola delle «dieci mine», distribuite ciascuna a dieci servi diversi (Lc 19,11-27). Una «mina» corrispondeva a un sessantesimo di talento: perciò, in rapporto a Matteo, il valore del denaro affidato ai servi è molto minore. In un certo senso, anche la loro «responsabilità» diminuisce. Matteo, pertanto, proprio adoperando lo sfondo di cifre più alte, tende a rendere anche più drammatica la situazione del servo infingardo. Da tutto l’insieme si ha la sensazione che la parabola, secondo la redazione matteana, corrisponda meglio all’originale: Luca avrebbe cambiato certi dettagli per rispondere alle esigenze dei suoi lettori, per i quali avrebbe introdotto anche una specie di appendice con il particolare del pretendente al regno (19,12. 14.17.19.27). In Luca, d’altra parte, la parabola non è situata in un contesto escatologico, ma piuttosto morale-esortativo. In Matteo, invece, ha un marcato senso «escatologico», come risulta dalla sua collocazione nel discorso escatologico, e soprattutto da certi elementi descrittivi. Ad esempio, si mette in evidenza che il padrone, il quale era partito per un viaggio, «dopo molto tempo tornò e volle regolare i conti con loro» (v. 19). Anche il premio dato ai servi diligenti, come il castigo riservato al servo indolente, rimandano a una sentenza che appare definitiva: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò eredità sul molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone [...]. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (w. 21.23.30). Il «molto tempo» dell’assenza del padrone (v. 19) allude alla fremente attesa «escatologica» della prima generazione cristiana, che rischiava, per il ritardo della «parusia», di tramutarsi in delusione, addirittura in una specie di «disarmo» morale.
Bene, servo buono e fedele: Felipe F. Ramos (Vangelo di Matteo): La ricompensa descritta nella parabola comporta un chiaro riferimento alla realtà religiosa. Prendi parte alla gioia del tuo padrone. Questo premio concesso ai due servi fedeli per la loro attiva fedeltà alle consegne del loro signore significa evidentemente la vita eterna. E colui che parla così dev’essere necessariamente il Figlio dell’uomo nella sua qualità di giudice. E solo perché si tratta di realtà soprannaturali, i talenti raddoppiati sono considerati come poco: «sei stato fedele nel poco...». Il terzo servo lascia improduttivo il capitale del suo signore e in più ragiona in modo insolente nel tentativo di discolparsi. Non ha osato correre il rischio. Il talento non ha fruttificato nelle sue mani, ma può restituirlo integro. Il suo signore gli risponde duramente. Ha deluso le speranze che aveva riposte in lui. Anche lui era cosciente del rischio, ma contava sulla diligenza fedele e laboriosa del suo servo. La sua indolenza è la ragione unica per cui il talento che gli aveva affidato è rimasto improduttivo. Subito dopo abbiamo due incongruenze: il signore ordina - e non ci è detto a chi sono indirizzati i suoi ordini - che gli sia tolto il talento e che sia dato a colui che ne ha dieci. D’altra parte, la parabola suppone che i primi due servi abbiano già consegnato i loro talenti al loro signore. Sono due particolari che tentano di mettere in rilievo, in primo luogo, la condanna del servo inutile appunto per la sua indolenza e, in più, la norma di retribuzione seguita dal giudice divino: «a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha», norma d’azione indicata già altre volte dal Signore (13.12; Mc 4.25) e che fu messa qui dall’evangelista Matteo come riassunto dell’insegnamento della parabola.
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): vv. 28-29 Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13,12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.
v. 30 Sia gettato fuori, nelle tenebre; fuori dalla gioia e dalla luce della sala del convito celeste (cf. verss. 21,23) vi è il luogo di condanna e di pena (cf. 8,12; 22,13). La parabola dei talenti, come le due precedenti, tratta del rendiconto che ciascuno deve dare a Dio al termine della vita. Essa quindi non va applicata a ciò che avverrà alla fine dei tempi, ma al termine dell’esistenza di ciascuno. I servitori rappresentano le anime alle quali Gesù affida il compito di far fruttificare i doni di natura e di grazia in ordine allo sviluppo del suo regno. Questi servi devono rendere conto del modo con il quale hanno impiegato e fruttificato i doni ricevuti da Dio al momento della morte e del giudizio particolare.
La Parola di Dio suggerisce una realtà molto elementare: la morte “è segnata dal giudizio di Dio [giorno del Signore] che segna non l’affermazione d’Israele sui suoi nemici, ma la separazione di coloro che camminano nella luce da coloro che vanno in rovina dietro le tenebre del peccato” (Giuseppe D’Anna).
La morte, incontro eterno con la Luce, abbraccio misericordioso con il giusto Giudice, metterà a nudo il nostro cuore, svelerà i nostri pensieri. La morte, dolce epifania dell’eterno destino dell’uomo, è via che conduce alla gioia senza fine oppure strada che conduce all’eterna disperazione. Il ricordo del tempo transitorio, “passa la scena di questo mondo” (1Cor 7,31), la memoria di un tempo che si fa breve, aiuta il cuore a riscoprire la bellezza della vita come comunione con Dio.
I novissimi, pietosi amici, che ricordano alla nostra vanagloria di abbassarsi, sono fedele memoria al nostro cuore ad essere piccoli, umili, specchio terso in cui si riflettono i nostri vizi e le nostre virtù. Le ultime realtà possiedono questo volto pietoso, ma allo stesso tempo sono vigorose spinte a cambiare vita, ad uniformarci alla Legge di Dio qualora ci si accorgesse di esserci allontanati dalla casa del Padre. Se manca la meditazione sul nostro ultimo destino si piomba in una aberrante autodeterminazione, che è stoltezza e insipienza di giudizio e di orientamento.
Purtroppo la morte per molti, anche per tanti credenti, oggi è un tabù. Oggi siamo meno preparati psicologicamente a morire. Ma in verità la morte restituisce, riconsegna all’uomo quella libertà che il peccato gli aveva rubato. La morte quando diventa meta agognata, desiderata (cf. Fil 1,21.23), fa vivere in pienezza la vita anche quando questa volge al declino. La morte non è altro che un “tempo eterno” lungamente, oculatamente, preparato nel “tempo transeunte”.
Si vede, così, con lucidità e con realismo, la parabola umana; il suo nascere, il suo mettere radici, il suo sfiorire. La nascita, la vita, la morte, non devono essere separati perché l’una è compagna dell’altra, l’una spiega l’altra. In una ottica cristiana allora la nascita è il tempo del dono, la vita il tempo del suo trafficarlo, la vecchiaia, l’autunno, la vendemmia, il tempo del raccolto.
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Non è degno del premio celeste chi non sente la responsabilità di far crescere il regno. L’inattività del servo malvagio, alla fine della vita, sarà giudicata con severità.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...