1 Giugno 2018

Venerdì Feria VIII settimana «per annum»

Oggi Gesù ci dice: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Abbiate fede in Dio!» (Vangelo)

Dal Vangelo secondo Marco 11,11-25: Il fico che non porta frutto simboleggia Israele, ma anche ogni cristiano che arido nelle opere rimane senza frutti per la vita eterna. Israele non è più la fonte di salvezza per gli uomini, il regno di Dio è aperto a tutti i popoli. Con questo racconto Marco vuol affermare l’universalità della casa di Dio.

Due gesti profetici - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Gesù è entrato in Gerusalemme, e nel vangelo di Marco inizia la sezione dedicata all’attività del Salvatore nella città santa, prima della sua passione. Oggi vediamo due gesti profetici del Signore: la maledizione di un fico e la cacciata dei mercanti dal tempio. Segue una conclusione nella quale, partendo dal fatto del fico inaridito, Gesù parla del potere della fede e dell’efficacia della preghiera, che deve essere preceduta dal perdono fraterno. Conclusione che appartiene a un altro contesto della tradizione sinottica.
I due gesti di Gesù sono segni profetici del giudizio di Dio già in atto, e si riferiscono al popolo d’Israele e alle sue autorità, simbolizzati nel fico senza frutto, anche se con molte foglie e nel culto del tempio, pieno di ritualismi ma vuoto di religiosità. Alcuni autori vedono nell’episodio del fico maledetto la messa in scena della parabola del fico sterile (Lc 13,6-9).
Gesù cerca un frutto sul fico quando non è tempo di fichi. Particolare che conferma il carattere di segno dell’episodio. Non è l’infruttuosità del fico che lo interessa, ma quella del popolo israelita, che non ha scuse dopo tante attenzioni e avvertimenti di Dio; perciò è arrivato il momento del suo giudizio di condanna, come prova l’episodio della purificazione del tempio (cfr. Lc 19,45ss) I venditori e i cambiavalute del tempio, vendendo animali per il sacrificio (buoi, pecore e colombe) e cambiando le monete grecoromane con denaro ebraico per il pagamento dell’imposta del tempio, prestavano un servizio necessario. Spesso, però, i pellegrini venivano sfruttati e con questo commercio la casa di Dio aveva smesso di essere casa di preghiera per tutti i popoli, diventando un covo di banditi, dice Gesù citando i profeti Isaia e Geremia.

Gesù insegna a pregare - Catechismo della Chiesa Cattolica

2607 Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare. Il cammino teologale della nostra preghiera è la sua preghiera al Padre. Ma il Vangelo ci offre un esplicito insegnamento di Gesù sulla preghiera. Come un pedagogo, egli ci prende là dove siamo e, progressivamente, ci conduce al Padre. Rivolgendosi alle folle che lo seguono, Gesù prende le mosse da ciò che queste già conoscono della preghiera secondo l’Antica Alleanza e le apre alla novità del Regno che viene. Poi rivela loro tale novità con parabole. Infine, ai suoi discepoli, che dovranno essere pedagoghi della preghiera nella sua Chiesa, parlerà apertamente del Padre e dello Spirito Santo.

2608 Fin dal Discorso della montagna, Gesù insiste sulla conversione del cuore: la riconciliazione con il fratello prima di presentare un’offerta sull’altare, l’amore per i nemici e la preghiera per i persecutori, la preghiera al Padre “nel segreto” (Mt 6,6), senza sprecare molte parole, il perdono dal profondo del cuore nella preghiera, la purezza del cuore e la ricerca del Regno. Tale conversione è tutta orientata al Padre: è filiale.

2609 Il cuore, deciso così a convertirsi, apprende a pregare nella fede. La fede è un’adesione filiale a Dio, al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo. È diventata possibile perché il Figlio diletto ci apre l’accesso al Padre. Egli può chiederci di “cercare” e di “bussare”, perché egli stesso è la porta e il cammino.

2610 Come Gesù prega il Padre e rende grazie prima di ricevere i suoi doni, così egli ci insegna questa audacia filiale: “Tutto quello che domandate nella preghiera,abbiate fede di averlo ottenuto”(Mc 11,24). Tale è la forza della preghiera: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), con una fede che non dubita. Quanto Gesù è rattristato dalla “incredulità” (Mc 6,6) dei discepoli e dalla “poca fede” (Mt 8,26) dei suoi compaesani, tanto si mostra pieno di ammirazione davanti alla fede davvero grande del centurione romano e della cananea.

2611 La preghiera di fede non consiste soltanto nel dire: “Signore, Signore”, ma nel disporre il cuore a fare la volontà del Padre (Mt 7,21). Gesù esorta i suoi discepoli a portare nella preghiera questa passione di collaborare al Disegno divino.

2612 In Gesù “il Regno di Dio è molto vicino”; esso chiama alla conversione e alla fede, ma anche alla vigilanza. Nella preghiera, il discepolo veglia attento a colui che È e che Viene, nella memoria della sua prima Venuta nell’umiltà della carne e nella speranza del suo secondo Avvento nella Gloria. La preghiera dei discepoli, in comunione con il loro Maestro, è un combattimento, ed è vegliando nella preghiera che non si entra in tentazione.

La forza della fede - Ortensio Da Spinetoli (I Quattro Vangeli): Il disseccamento del fico secondo Mt avvenne, sull’istante, appena Gesù lo maledisse; invece Mc scrive che i discepoli se ne accorsero il mattino seguente, cioè al martedì. Mc ha staccato la maledizione del fico (vv. 12-14) dal disseccamento (vv. 20-21) e ha inserito tra i due momenti la purificazione del tempio, formando una cornice molto significativa, in quanto il fico sterile simboleggia l’infedeltà dei giudei. Il brano seguente, vv. 23-25, raggruppa alcuni detti di Gesù sulla forza della fede c sulla preghiera, la cui efficacia dipende da due condizioni: una sconfinata fiducia nell’aiuto di Dio e il perdono verso i fratelli. Il gesto simbolico della maledizione del fico offre a Mc l’opportunità di impartire una parenesi importante alla comunità cristiana sulla necessità di una fede incrollabile nella potenza di Dio.
La si ottiene soltanto mediante la preghiera fiduciosa e sincera, la quale presuppone il perdono delle colpe dei fratelli.
Questi detti sono inseriti in questo contesto in modo redazionale, perché se ne conosce un ‘altra collocazione in Mt (17,20) e Lc (17.6) in dipendenza dalla fonte Q, con sfumature diverse. In Mc. comunque il disseccamento miracoloso del fico diventa un esempio per illustrare la potenza della fede e della preghiera.
[...]
v. 25 «Quando state (ritti] pregando, perdonate se avete qualcosa contro qualcuno ...». Secondo l’usanza ebraica, la preghiera veniva fatta stando in piedi.
Chi prega deve innanzitutto riconoscere la propria miseria e situazione di peccato. L’esaudimento dipende unicamente dalla bontà del Padre celeste, che viene incontro con premura alle sue creature. Dio ama tutti, anche i peccatori. Pertanto, è necessario che colui che lo invoca imiti la sua bontà, perdonando le colpe dei fratelli, prima di rivolgersi a lui. I doni che egli ci elargisce non dipendono dai nostri meriti, ma provengono dalla sua liberalità. Anche nella sesta petizione del Padre nostro e nel passo successivo, in parte parallelo al presente v. marciano, viene ribadita la stessa esigenza del perdono (Mc 6,12.14-15), una condizione indispensabile per l’esaudimento della preghiera.
Mc indirizza queste esortazioni alla comunità cristiana, per ravvivare la sua adesione di fede a Cristo.
Al momento della redazione finale del suo vangelo, il tempio probabilmente era già stato distrutto e la chiesa era ormai consapevole di costituire il vero tempio del Dio vivente, la «casa di preghiera per tutte le nazioni» (v. 17). Perciò alla preghiera comunitaria, radicata in una fiducia illimitata in lui, vissuta in unione profonda con i fratelli (cf. Mt 18,19), veniva attribuita un’efficacia particolare e una funzione essenziale per la sua esistenza e per la sua crescita.

San Giustino Martire - Benedetto XVI (Udienza Generale 21 Marzo 2007): Nel complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per questo di «empietà» e di «ateismo». In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia, condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui come diabolici «depistaggi» nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione pagana e ai suoi falsi miti. «La nostra filosofia...»: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il Vescovo Melitone di Sardi (citato in Eusebio, Storia Eccl. 4,26,7).
Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione - ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini - dalla verità dell’essere. Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit - Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (La velazione delle vergini 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo».
In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione - come pure nel dialogo interreligioso -, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo - e così concludo - le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: «Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire» (Dial. 7,3).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai donato al santo martire Giustino una mirabile conoscenza del mistero del Cristo, attraverso la sublime follia della Croce, per la sua intercessione allontana da noi le tenebre dell’errore e confermaci nella professione della vera fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



31 Maggio 2018

Visitazione della Beata Vergine Maria


Oggi Gesù ci dice: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza. Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome è sublime» (Salmo Responsoriale).  

Dal Vangelo secondo Luca 1,39-56: Il racconto della visitazione vuole suggerire una stupenda verità: Maria è l’arca della Nuova alleanza. Questa affermazione può essere colta se accostiamo il racconto della visita di Maria ad Elisabetta con la narrazione del trasporto dell’arca dell’alleanza da Baalà di Giuda a Gerusalemme (2Sam 6,1ss). Vi sono molti punti in comune. I due viaggi hanno come scenario la regione di Giuda e in entrambi gli episodi hanno luogo manifestazioni di gioia: del popolo e di Davide, di Elisabetta e del bambino che portava in grembo. La presenza dell’arca in casa di Obed-Edom e la presenza di Maria in casa di Zaccaria. Lo stesso religioso timore invade Davide ed Elisabetta. Il primo esclama: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?” e la seconda: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”. Infine tre mesi sostò l’arca in casa di Obed-Edom, così come Maria nella casa di Elisabetta. Se Luca  ha veramente usato il testo veterotestamentario come canovaccio, allora veramente possiamo di dire che da sempre Maria è stata pensata come l’arca dell’alleanza nuova ed eterna di Dio con l’uomo. Maria è la prima Cristofora, e non ha mai smesso di portare Cristo agli uomini, come non prorompere in grida di gioia?: Rallégrati... il Signore ha revocato la tua condanna... Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura... Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia (I Lettura).

Maria modello e maestra: Paolo VI (Marialis cultus, 21): Modello di tutta la Chiesa nell’esercizio del culto divino, Maria è anche, evidentemente, maestra di vita spirituale per i singoli cristiani. Ben presto i fedeli cominciarono a guardare a Maria per fare, come lei, della propria vita un culto a Dio e del loro culto un impegno di vita. Già nel IV secolo, sant’Ambrogio, parlando ai fedeli, auspicava che in ognuno di essi fosse l’anima di Maria per glorificare Dio: Dev’essere in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore, dev’essere in ciascuno il suo spirito per esultare in Dio. Maria, però, è soprattutto modello di quel culto che consiste nel fare della propria vita un’offerta a Dio: dottrina antica, perenne, che ognuno può riascoltare, ponendo mente all’insegnamento della Chiesa, ma anche porgendo l’orecchio alla voce stessa della Vergine, allorché essa, anticipando in sé la stupenda domanda della preghiera del Signore: Sia fatta la tua volontà (Mt 6,10), rispose al messaggero di Dio: Ecco la serva del Signore: sia fatto di me secondo la tua parola (Lc 1,38). E il «sì» di Maria è per tutti i cristiani lezione ed esempio per fare dell’obbedienza alla volontà del Padre la via e il mezzo della propria santificazione.

L’anima mia...: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 6 novembre 1996): Ispirandosi alla tradizione veterotestamentaria, col cantico del Magnificat Maria celebra le meraviglie compiute in lei da Dio. Il cantico è la risposta della Vergine al mistero dell’Annunciazione: l’angelo l’aveva invitata alla gioia, ora Maria esprime l’esultanza del suo spirito in Dio salvatore. La sua gioia nasce dall’aver fatto l’esperienza personale dello sguardo benevolo rivolto da Dio a lei, creatura povera e senza influsso nella storia. Con l’espressione Magnificat, versione latina di un vocabolo greco dello stesso significato, viene celebrata la grandezza di Dio, che con l’annuncio dell’angelo rivela la sua onnipotenza, superando attese e speranze del popolo dell’Alleanza e anche i più nobili desideri dell’anima umana. Di fronte al Signore, potente e misericordioso, Maria esprime il sentimento della propria piccolezza: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1,47-48). Il termine greco “tapéinosis” è probabilmente mutuato dal cantico di Anna, madre di Samuele. In esso sono indicate l’“umiliazione” e la “miseria” di una donna sterile (cfr. 1Sam 1,11), che affida la sua pena al Signore. Con simile espressione Maria rende nota la sua situazione di povertà e la consapevolezza di essere piccola davanti a Dio che, con decisione gratuita, ha posato lo sguardo su di Lei, umile ragazza di Nazaret, chiamandola a divenire la Madre del Messia.

Maria si alzò e andò in fretta - Benedetto XVI: (Discorso, 31 Maggio 2010): Nella Vergine Maria che va a visitare la parente Elisabetta riconosciamo l’esempio più limpido e il significato più vero del nostro cammino di credenti e del cammino della Chiesa stessa. La Chiesa è per sua natura missionaria, è chiamata ad annunciare il Vangelo dappertutto e sempre, a trasmettere la fede ad ogni uomo e donna, e in ogni cultura.
«In quei giorni - scrive l’evangelista san Luca - Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc1,39). Quello di Maria è un autentico viaggio missionario. È un viaggio che la conduce lontano da casa, la spinge nel mondo, in luoghi estranei alle sue abitudini quotidiane, la fa arrivare, in un certo senso, sino ai confini da lei raggiungibili. Sta proprio qui, anche per tutti noi, il segreto della nostra vita di uomini e di cristiani. La nostra, come singoli e come Chiesa, è un’esistenza proiettata al di fuori di noi. Come era già avvenuto per Abramo, ci è chiesto di uscire da noi stessi, dai luoghi delle nostre sicurezze, per andare verso gli altri, in luoghi e ambiti diversi. È il Signore che ce lo chiede: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra» (At 1,8). Ed è sempre il Signore che, in questo cammino, ci mette accanto Maria quale compagna di viaggio e madre premurosa. Ella ci rassicura, perché ci ricorda che con noi c’è sempre il Figlio suo Gesù, secondo quanto ha promesso: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
L’evangelista annota che «Maria rimase con lei (con la parente Elisabetta) circa tre mesi» (Lc 1,56). Queste semplici parole dicono lo scopo più immediato del viaggio di Maria. Aveva saputo dall’Angelo che Elisabetta aspettava un figlio e che era già al sesto mese (cfr Lc 1,36). Ma Elisabetta era anziana e la vicinanza di Maria, ancora molto giovane, poteva esserle utile. Per questo Maria la raggiunge e rimane con lei circa tre mesi, per offrirle quella vicinanza affettuosa, quell’aiuto concreto e tutti quei servizi quotidiani di cui aveva bisogno. Elisabetta diventa così il simbolo di tante persone anziane e malate, anzi, di tutte le persone bisognose di aiuto e di amore. E quante ce ne sono anche oggi nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nelle nostre città! E Maria - che si era definita «la serva del Signore» (Lc 1,38) - si fa serva degli uomini. Più precisamente, serve il Signore che incontra nei fratelli.
La carità di Maria, però, non si ferma all’aiuto concreto, ma raggiunge il suo vertice nel donare Gesù stesso, nel “farlo incontrare”. È ancora san Luca a sottolinearlo: «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo» (Lc 1,41). Siamo così al cuore e al culmine della missione evangelizzatrice. Siamo al significato più vero e allo scopo più genuino di ogni cammino missionario: donare agli uomini il Vangelo vivente e personale, che è lo stesso Signore Gesù. E quella di Gesù è una comunicazione e una donazione che – come attesta Elisabetta – riempie il cuore di gioia: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Gesù è il vero e unico tesoro che noi abbiamo da dare all’umanità. È di Lui che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno profonda nostalgia, anche quando sembrano ignorarlo o rifiutarlo. È di Lui che hanno grande bisogno la società in cui viviamo, l’Europa, il mondo intero.
A noi è affidata questa straordinaria responsabilità. Viviamola con gioia e con impegno, perché la nostra sia davvero una civiltà in cui regnano la verità, la giustizia, la libertà e l’amore, pilastri fondamentali e insostituibili di una vera convivenza ordinata e pacifica. Viviamo questa responsabilità rimanendo assidui nell’ascolto della Parola di Dio, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr At 2,42). Sia questa la grazia che insieme questa sera domandiamo alla Vergine Santissima.

Papa Francesco (31 Maggio 2013): Maria si mise in viaggio e «andò in fretta…» (cfr Lc 1,39). Domenica scorsa sottolineavo questo modo di fare di Maria: nonostante le difficoltà, le critiche che avrà ricevuto per la sua decisione di partire, non si ferma davanti a niente. E qui parte “in fretta”. Nella preghiera, davanti a Dio che parla, nel riflettere e meditare sui fatti della sua vita, Maria non ha fretta, non si lascia prendere dal momento, non si lascia trascinare dagli eventi. Ma quando ha chiaro che cosa Dio le chiede, ciò che deve fare, non indugia, non ritarda, ma va “in fretta”. Sant’Ambrogio commenta: “la grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze”.  L’agire di Maria è una conseguenza della sua obbedienza alle parole dell’Angelo, ma unita alla carità: va da Elisabetta per rendersi utile; e in questo uscire dalla sua casa, da se stessa, per amore, porta quanto ha di più prezioso: Gesù; porta il suo Figlio. A volte, anche noi ci fermiamo all’ascolto, alla riflessione su ciò che dovremmo fare, forse abbiamo anche chiara la decisione che dobbiamo prendere, ma non facciamo il passaggio all’azione. E soprattutto non mettiamo in gioco noi stessi muovendoci “in fretta” verso gli altri per portare loro il nostro aiuto, la nostra comprensione, la nostra carità; per portare anche noi, come Maria, ciò che abbiamo di più prezioso e che abbiamo ricevuto, Gesù e il suo Vangelo, con la parola e soprattutto con la testimonianza concreta del nostro agire. Ascolto, decisione, azione.

Grandi cose...: CCC 273-274: Soltanto la fede può aderire alle vie misteriose dell’onnipotenza di Dio. Per questa fede, ci si gloria delle proprie debolezze per attirare su di sé la potenza di Cristo. Di questa fede il supremo modello è la Vergine Maria: ella ha creduto che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37) e ha potuto magnificare il Signore: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e santo è il suo nome” (Lc 1,49). “La ferma persuasione dell’onnipotenza divina vale più di ogni altra cosa a corroborare in noi il doveroso sentimento della fede e della speranza. La nostra ragione, conquistata dall’idea della divina onnipotenza, assentirà, senza più dubitare, a qualunque cosa sia necessario credere, per quanto possa essere grande e meravigliosa o superiore alle leggi e all’ordine della natura. Anzi, quanto più sublimi saranno le verità da Dio rivelate, tanto più agevolmente riterrà di dovervi assentire”.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata: CCC 148-149: La Vergine Maria realizza nel modo più perfetto l’obbedienza della fede. Nella fede, Maria accolse l’annunzio e la promessa a Lei portati dall’angelo Gabriele, credendo che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37), e dando il proprio consenso: “Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Elisabetta la salutò così: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45). Per questa fede tutte le generazioni la chiameranno beata.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  La visitazione di Maria è la visita di Dio al suo popolo (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica 717).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, che nel tuo disegno di amore hai ispirato alla beata Vergine Maria, che portava in grembo il tuo Figlio, di visitare sant’Elisabetta, concedi a noi di essere docili all’azione del tuo Spirito, per magnificare con Maria il tuo santo nome. Per il nostro Signore Gesù...

30 Maggio 2018

Mercoledì VIII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).  

Dal Vangelo secondo Marco 10,32-45: Gesù libera gli uomini donandosi per loro. Tutti i cristiani, senza equivoci e ipocrisie, sono chiamati a compartecipare al suo gesto oblativo, nel servizio reciproco e nella testimonianza. I discepoli, come Gesù, devono incamminarsi per l’irto cammino della Croce sempre pronti a rispondere a chiunque domandi loro ragione della speranza che è in essi (cf. 1Pt 3,15). Il calice nella tradizione biblica, tra i tanti significati, indica la coppa dell’ira di Dio che giudica gli empi (Sal 75,9), il popolo infedele (Is 51,17), l’umanità peccatrice (Ger 25,15-18; Ez 23,32-34). Il battesimo è la passione dolorosa nella quale sarà immerso senza riserve il Figlio di Dio. Gesù, solidale con l’umanità peccatrice, berrà la coppa dell’ira divina fino all’ultima goccia (Mt 14,36) e si farà obbediente alla volontà salvifica del Padre «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).

Cosa volete che io faccia per voi - Il racconto evangelico odierno è posto tra il terzo annuncio della passione (Mc 10,32-34) e la guarigione del mendicante cieco Bartimeo, figlio di Timeo (Mc 10,46-52). Mentre cupe nubi, foriere di morte, si addensano sinistramente sul capo di Gesù, i discepoli fanciullescamente sembrano essere occupati unicamente a guadagnarsi i primi posti. I figli di Zebedeo, appàiono i più risoluti in questa ricerca.
Giacomo e Giovanni, conosciuti come i «figli del tuono» (Mc 3,17), quelli che avrebbero voluto incenerire i samaritani colpevoli di non aver accolto Gesù (Lc 9,54), sembrano bene intenzionati a scavalcare gli altri Apostoli pur di arrivare ai primi posti del comando. La richiesta è perentoria: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Una rivendicazione che pretende inequivocabilmente un assenso.
In quanto era sentire comune che i giusti, accanto al Figlio dell’uomo, avrebbero preso parte al giudizio finale (cf. Mt 19,28 ), i figli di Zebedeo, chiedono questa dignità regale e giudiziaria, ma evidentemente senza rendersi conto delle conseguenze della loro domanda. Gesù, che «sapeva quello che c’è in ogni uomo» (Gv 2,25), sembra stare al gioco. Vuole che dai loro cuori esca tutto il pus, la rogna nauseabonda del comando che rodeva il loro cervello.
Così invita i due fratelli a bere il suo calice e a ricevere il suo battesimo. In questo modo, chiedendo di associarsi alla sua Passione, ma senza pretendere altro, cerca di correggere la loro mentalità ancora carnale. Nell’invitarli a bere il calice della sua amara passione e a immergersi nel suo battesimo di sangue: esige la «disponibilità al martirio e la costanza nella persecuzione che può essere anche mortale. Il discepolo non ha alternativa per giungere alla gloria; egli deve sapere che il calice e il battesimo offertigli sono la sorte di Gesù [“il calice che io bevo ... il battesimo con cui io sono battezzato”], non un destino privo di senso, voluto da una potenza senza volto» (Luigi Pinto).
Con faccia tosta a dir poco, Giacomo e Giovanni, rispondono che lo possono. La risposta non tarda ad arrivare come una secchiata di acqua gelida: sì, morirete ammazzati per la fede, ma sedere alla destra del Cristo è «per coloro per i quali è stato preparato». Questa affermazione non è determinismo. Nulla è scritto, nel senso di predeterminato (cf. Rom 8,29). La salvezza è un dono di Dio e viene accordata ai discepoli, ma non per la via dei privilegi e della grandezza umana: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla sovrana volontà di Dio.
I primi a sedersi «uno alla sua destra e uno alla sinistra» (Lc 15,27) saranno i due ladroni, crocifissi con il Cristo. Ancora una volta si scompagina il solito sentire umano.
«Gli altri dieci si sdegnarono». Una nota che mette in luce una realtà fin troppo scomoda: nel gruppo apostolico serpeggiavano divisioni, liti, manie di grandezza ... La risposta di Gesù va in questo senso. La vera grandezza sta nel servire, nell’occupare gli ultimi posti come il Figlio dell’uomo. Una risonanza di questo insegnamento è nel racconto della lavanda dei piedi (Gv 13,1ss). Con questo detto «non si condanna di aspirare ai posti di responsabilità né si insegna paradossalmente che per raggiungere tali posti bisogna farsi servi e schiavi di tutti, ma più semplicemente si vuol dire che nell’ambito della comunità cristiana i chiamati al comando devono adempiere al loro mandato con spirito di servizio, facendosi tutto a tutti e guardando solo al bene degli altri [cf. 1Cor 9,19-23; 2Cor 4,5]» (A. Sisti).
Per Gesù servire vuol dire essere obbediente alla volontà del Padre fino alla morte, senza sconti e ripiegamenti, come il Servo di Iahvè, che si fa solidale con il peccato degli uomini. Affermando che è venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti», il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte. Donandosi alla morte per la salvezza degli uomini e per la loro liberazione dalla schiavitù del peccato, Gesù offre alla Chiesa un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella storia.

La carità del servizio - Ortensio da Spinetoli (I Quattro Vangeli): Forse il presente racconto apoftegmatico rispecchia una situazione di conflittualità nella chiesa, per la ricerca di privilegi e di cariche onorifiche da parte di qualcuno. Lc trasferisce il diverbio tra i Dodici nel corso dell’ultima cena (22,24-27), ma in modo autonomo da Marco. Ciò dimostra la dipendenza di entrambi gli evangelisti da una tradizione preesistente. Comunque, Marco ha riallacciato questo episodio a quello precedente della richiesta dei figli di Zebedeo mediante le parole ­chiave «volere» (vv. 35,43-44), «sapere» (vv. 38.42).
In entrambe le pericopi viene messo in risalto che la sequela raggiunge il culmine nel dono della vita a imitazione di Gesù (vv. 38 e 45).
v. 41 Lo sdegno degli altri dieci discepoli contro Giacomo e Giovanni per la loro richiesta non si collega bene con il v. 40. Gesù aveva già respinto la richiesta dei due fratelli. Quindi si tratta di un aggancio redazionale, per proporre l’insegnamento di Gesù circa un problema scottante nella comunità cristiana.
v. 42 Gli abusi dei capi delle nazioni vengono descritti con distacco ironico e si riferiscono alla situazione della Palestina dominata dai romani e dai discendenti di Erode, intenti ai propri interessi e bramosi soltanto di accrescere il loro potere anziché il benessere della popolazione.
vv. 43-44 Lo statuto per la comunità è centrato sul principio del servizio. Gesù ripropone quasi testualmente la regola dell’umiltà, pronunciata dopo il secondo annuncio della passione (9,35), ma accentuando laspetto comunitario del servizio fraterno: chi vuole diventare grande, deve farsi servitore (diakonos): chi vuole essere il primo deve diventare schiavo (doulos) di tutti. I due detti sono stilati seconde un perfetto parallelismo sintetico, che sottolinea in modo plastico la necessità del servizio disinteressato ai fratelli da parte di coloro che sono costituiti in autorità.

Servire - C. AUGRAIN e M.-F. LACAN: SERVIRE DIO SERVENDO GLI UOMINI - Gesù ricorre agli stessi termini della legge e dei profeti (M t 4, 10; 9, 13) per ricordare che il servizio di Dio esclude ogni altro culto e che, in ragione dell’amore che lo ispira, dev’essere integrale. Precisa il nome del rivale che può creare ostacolo a questo servizio: il denaro, il cui servizio rende ingiusti (Lc 16,9), ed il cui amore l’apostolo, eco del maestro, dirà che è un culto idolatrico (Ef 5,5). Bisogna scegliere: «Nessuno può servire a due padroni ... non potete servire a Dio e al denaro» (Mt 6,24 par.). Se si ama l’uno, si avrà odio e disprezzo per l’altro.
Perciò la rinuncia alle ricchezze è necessaria a chi vuole seguire Gesù, servo di Dio (Mt 19,21).
1. Il servizio di Gesù. - Inviato da Dio per coronare l’opera dei servi del Vecchio Testamento (Mt 21,33... par.), il Figlio diletto viene a servire.
Fin dall’infanzia afferma che deve occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,49). Il corso di tutta la sua vita sta sotto il segno di un «bisogna» che esprime la sua dipendenza ineluttabile dalla volontà del Padre (Mt 16,21 par.; Le 24,26); ma, dietro questa necessità del servizio che lo conduce alla croce, Gesù rivela l’amore che, solo, gli dà la sua dignità ed il suo valore: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e che agisco come il Padre mi ha ordinato» (Gv 14,30).
Servendo Dio, Gesù salva gli uomini di cui ripara il rifiuto di servire, e rivela loro come il Padre vuole essere servito: vuole che essi si dedichino al servizio dei loro fratelli come ha fatto Gesù stesso, loro Signore e maestro: «II figlio dell’uomo non è venuto per essere servito. ma per servire e dare la sua vita» (Mc 10.45 par.): «Io vi ho dato l’esempio ... il servo non è maggiore del padrone» (Gv 13, 15 s): «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).
2. La grandezza del servizio cristiano - I servi di Cristo sono anzitutto i servi della parola (Atti 6,4; Lc 1,2), coloro che annunciano il vangelo, compiendo così un servizio sacro (Rom 15,16; Col 1,23; Fil 2,22), «in tutta umiltà», e, se occorre, «nelle lacrime ed in mezzo alle prove» (Atti 20.19).
Quanto a coloro che servono la comunità, su immagine dei Sette scelti dagli apostoli (Atti 6,1-4), Paolo insegna loro a quali con. dizioni questo servizio sarà degno del Signore (Rom 12,7.9-13). D’altronde, tutti i cristiani per mezzo del battesimo sono passati dal servizio del peccato e della legge, che era una schiavitù, al servizio della giustizia e di Cristo, che è la libertà (Gv 8,31-36; Rom 6-7; cfr. 1Cor 7,22; Ef 6,6). Essi servono Dio come figli e non come schiavi (Gal 4), perché lo servono nella novità dello spirito (Rom 7,6). La grazia, che li ha fatti passare dalla condizione di servi a quelli di amici di Cristo (Gv 15,15), permette loro di servire cosi fedelmente il loro Signore da essere certi di partecipare alla sua gioia (Mt 25,14-23; Gv 15,10s).

Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Il nostro atteggiamento deve essere analogo a quello di Cristo: servire Dio e gli altri con visione assolutamente soprannaturale, senza nulla attendersi a compenso del nostro servizio; servire perfino chi non gradisce il servizio che gli viene prestato. Questo atteggiamento cristiano entrerà certamente in conflitto con i criteri umani. Tuttavia l’orgoglio del cristiano, che si riconosce in Cristo, consisterà appunto nel servire. Servendo gli altri, il cristiano partecipa della missione di Cristo e attinge così la sua dignità vera: «Questa dignità si esprime nella disponibilità a servire, secondo l’esempio di Cristo, che “non è venuto per essere servito, ma per servire”. Se dunque alla luce di questo atteggiamento di Cristo si può veramente “regnare” soltanto “servendo”, in pari tempo il “servire” esige una tale maturità spirituale che bisogna proprio definirlo un “regnare”. Per poter degnamente ed efficacemente servire gli altri, bisogna saper dominare se stessi, bisogna possedere le virtù che rendano pos­sibile questo dominio» (Redemptor hominis, n. 21). 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** L’orgoglio del cristiano, che si riconosce in Cristo, consiste nel servire.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Concedi, Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la tua volontà nella giustizia e nella pace, e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo...




29 Maggio 2018

Martedì VIII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Riceverete in questo tempo cento volte tanto insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (Vangelo).  

Dal Vangelo secondo Marco 10,28-31: Per comprendere la pericope evangelica di oggi, non dobbiamo dimenticare il Vangelo che è stato proclamato ieri. Un giovane ricco imbevuto di mentalità farisaica pensava di acquistare la salvezza osservando pedissequamente la Legge, ma il cuore gli suggeriva che questo non bastava e così chiede lumi a Gesù. La risposta è lapidaria: “«Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Il giovane non accetta questa condizione e si allontana “scuro nel volto” e triste nel cuore. A questo fatto e al sermone di Gesù sulla ricchezza, “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”, gli apostoli mostrano tutto il loro sconcerto. E a questo punto che si colloca la domanda di Pietro: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». La risposta di Gesù ancora una volta non offre sconti sulla vita cristiana, è vero che promette una “famiglia allargata”, ma anche pene e persecuzioni, ma quello che è difficile da digerire e forse l’ultima  promessa: in terra lotta e sudore, il premio soltanto quando si  supereranno i confini della vita terrena.

Una domanda ovvia - Basilio Caballero (Una Parola per ogni giorno): Questo testo evangelico continua il tema di ieri. A nome dei compagni, lapostolo Pietro vuole trarre conseguenze personali da ciò che Gesù ha detto riguardo alla sequela e al totale distacco dai beni: «Ecco, abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Secondo Matteo aggiunge: «Che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19,27). Rispondendo a questa domanda Gesù promette per il presente una ricompensa centuplicata e per il futuro la vita eterna.
Ma bisogna capire le parole di Gesù: «In verità dico: non cè nessuno; che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto..: insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». Questo centuplo «già al presente è più qualitativo che quantitativo. Dopo la rinuncia affetti familiari e ai possedimenti materiali, il discepolo troverà nella comunità del regno, nella comunità dei fratelli nella fede, relazioni personali e anche sostegno materiale molto più gratificanti dei piccoli possedimenti ai quali ha rinunciato. Fino a cento volte tanto: iperbole che sottolinea la sproporzione generosa della ricompensa.
Linciso «insieme a persecuzioni » è esclusivo di Marco. Sarebbe un tocco di realismo - forse unaggiunta posteriore - che allude alla precoce esperienza delle persecuzioni annunciate da Gesù ai suoi. Daltra parte, questa limitazione a tanta prosperità promessa serve a ricordare che con la sequela di Cristo il discepolo è lontano dallaver risolto tutti i problemi. Imbarcarsi con lui nellavventura del regno comporta essere disposto ad affrontare le burrasche che accompagnano ogni percorso nella vita.
In un modo o nellaltro, la croce è unita alla sequela di Cristo sulla strada del regno di Dio, come disse ri­petutamente Gesù. Ma è anche sicura la vita eterna nel futuro, a completamento di una liberazione già iniziata con il distacco e la povertà! In questo modo il discepolato cristiano non è un sentiero oscuro verso la morte, ma verso la vita; non è solitaria povertà, ma fecondità umana e guadagno presente e futuro. I discepoli, che adesso stanno nella categoria degli ultimi, passeranno un giorno a quella dei primi.
 
Ecco, noi abbiamo lasciato tutto - Nel cuore dell’uomo, qualche volta, si annida la tentazione di “commercializzare” tutto. In un mondo come il nostro che vola sulle ali degli affari, del commercio o del denaro, quello di trasformare tutto in un “business” è ormai un’idea fissa. Spesso nel dare si cela la segreta speranza di ricevere qualcosa in contraccambio. In questa trappola può finire anche il dono di sé a Dio: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”.
Dio non è da meno, ma certamente nel segno opposto. Il Signore, in questo senso, è un perdente: nell’intrattenersi con gli uomini ci ha rimesso sempre e l’ultima vicenda, quella del Calvario, la dice lunga. Al contrario, con grande magnanimità, ricompensa anche i più piccoli sforzi compiuti dall’uomo, ma quest’ultimo non sempre riceve quello che spesso si aspetta dal suo Creatore.
L’uomo crede di poter ricevere oro o argento, salute o bellezza, ma non comprende che sono beni caduchi, temporanei, che conducono spesso alla disperazione, all’egoismo o alla violenza, così come la sete del comando o l’ingordigia insaziabile del potere: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (Gc 4,1-2).

Un cuore occupato dalla brama di possedere...: Francesco (Angelus, 2 Marzo 2014): Un cuore occupato dalla brama di possedere è un cuore pieno di questa brama di possedere, ma vuoto di Dio. Per questo Gesù ha più volte ammonito i ricchi, perché è forte per loro il rischio di riporre la propria sicurezza nei beni di questo mondo, e la sicurezza, la definitiva sicurezza, è in Dio. In un cuore posseduto dalle ricchezze, non c’è più molto posto per la fede: tutto è occupato dalle ricchezze, non c’è posto per la fede. Se invece si lascia a Dio il posto che gli spetta, cioè il primo, allora il suo amore conduce a condividere anche le ricchezze, a metterle al servizio di progetti di solidarietà e di sviluppo, come dimostrano tanti esempi, anche recenti, nella storia della Chiesa. E così la Provvidenza di Dio passa attraverso il nostro servizio agli altri, il nostro condividere con gli altri. Se ognuno di noi non accumula ricchezze soltanto per sé ma le mette al servizio degli altri, in questo caso la Provvidenza di Dio si rende visibile in questo gesto di solidarietà. Se invece qualcuno accumula soltanto per sé, cosa gli succederà quando sarà chiamato da Dio? Non potrà portare le ricchezze con sé, perché - sapete - il sudario non ha tasche! È meglio condividere, perché noi portiamo in Cielo soltanto quello che abbiamo condiviso con gli altri. 


Vocazione dei discepoli e vocazione dei cristiani - J. Guillet: Se Gesù, per suo conto, non sente la chiamata di dio, in compenso moltiplica le chiamate a seguirlo; la vocazione è il mezzo mediante il quale egli raggruppa attorno a sé i Dodici (Mc 3,13), ma fa sentire anche ad altri un’analoga chiamata (Mc 10,21; Lc 9,59-62); e tutta la sua predicazione ha qualcosa che comporta una vocazione; una chiamata a seguirlo in una via nuova di cui egli possiede il segreto: «Chi vuol venire dietro di me ...» (Mt 16,24; cfr. Gv 7,17). E se «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», si è perché l’invito al regno è una chiamata personale, alla quale taluni rimangono sordi (Mt 22,1-14).
La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione. La prima predicazione di Pietro a Gerusalemme è un appello ad Israele, simile a quello dei profeti, e cerca di suscitare un passo personale: «Salvatevi da questa generazione perversa! ,. (Atti 2,40). Per Paolo c’è un parallelismo reale tra lui, «apostolo per vocazione», e i cristiani di Roma o di Corinto «santi per vocazione» (Rom 1,1.7; 1Cor 1,1s). Per rimettere i Corinzi nella verità, egli li riporta alla loro chiamata, perché essa costituisce la comunità di Corinto cosi com’è: «Considerate la vostra chiamata, non ci sono molti sapienti secondo la carne» (1Cor 1,26). Per dar loro una regola di condotta in questo mondo la cui figura passa, li impegna a rimanere ciascuno «nella condizione in cui l’ha trovato la sua chiamata» (7,24). La vita cristiana è una vocazione perché è una vita nello Spirito, perché lo Spirito è un nuovo universo, perché «si unisce al nostro spirito» (Rom 8, 16) per farci sentire la parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale.
Poiché la vocazione cristiana è nata dallo Spirito, e poiché lo Spirito è uno solo che anima tutto il corpo di Cristo, in seno a quest’unica vocazione c’è «diversità di doni... di ministeri... di operazioni», ma in questa varietà di carismi non c’è infine che un solo corpo ed un solo Spirito (1 Cor 12,4-13).
Poiché la Chiesa, la comunità dei chiamati, è essa stessa la Ekklesia, «la chiamata», come è la Eklektè, «l’eletta» (2Gv 1), tutti coloro che in essa sentono la chiamata di Dio rispondono, ognuno al suo posto, all’unica vocazione della Chiesa che sente la voce dello sposa e gli risponde: «Vieni, o Signore Gesù» (Apoc 22,20).

In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo - Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Queste parole del Signore trovano il loro adempimento specialmente in coloro che per vocazione divina abbracciano il celibato, rinunziando a formare una famiglia in terra. Dicendo “a causa mia e a causa del vangelo” Gesù indica che il suo esempio e le esigenze della sua dottrina conferiscono pienezza di significato a questo stile di vita: «È, dunque, il mistero della novità di Cristo, di tutto ciò che egli è e significa, è la somma dei più alti ideali dell’evangelo e del Regno, è una particolare manifestazione della grazia, che scaturisce dal mistero pasquale del Redentore. a rendere desiderabile e degna la scelta della verginità da parte dei chiamati dal Signore Gesù, con l’intento di partecipare non soltanto al suo ufficio sacerdotale, ma di dividere anche con lui il suo stesso stato di vita» (Sacerdotalis caelibatus, 11.23).

Per Filium: sulle orme di Cristo -Vita Consecrata 18: Il Figlio, via che conduce al Padre (cfr Gv 14,6), chiama tutti coloro che il Padre gli ha dato (cfr Gv 17,9) ad una sequela che ne orienta l’esistenza. Ma ad alcuni - le persone di vita consacrata, appunto - Egli chiede un coinvolgimento totale, che comporta l’abbandono di ogni cosa (cfr Mt 19,27), per vivere in intimità con Lui e seguirlo dovunque Egli vada (cfr Ap 14,4).
Nello sguardo di Gesù (cfr Mc 10,21), «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), irradiazione della gloria del Padre (cfr Eb 1,3), si coglie la profondità di un amore eterno ed infinito che tocca le radici dell’essere.
La persona, che se ne lascia afferrare, non può non abbandonare tutto e seguirlo (cfr Mc 1,16-20; 2,14; 10,21.28). Come Paolo, essa considera tutto il resto «una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù», a confronto del quale non esita a ritenere ogni cosa «come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» ( Fil 3,8). La sua aspirazione è di immedesimarsi con Lui, assumendone i sentimenti e la forma di vita. Questo lasciare tutto e seguire il Signore (cfr Lc 18,28) costituisce un programma valido per tutte le persone chiamate e per tutti i tempi.
I consigli evangelici, con i quali Cristo invita alcuni a condividere la sua esperienza di vergine, povero e obbediente, richiedono e manifestano, in chi li accoglie, il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui. Vivendo «in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità», i consacrati confessano che Gesù è il Modello in cui ogni virtù raggiunge la perfezione. La sua forma di vita casta, povera e obbediente, appare infatti il modo più radicale di vivere il Vangelo su questa terra, un modo - si può dire - divino, perché abbracciato da Lui, Uomo-Dio, quale espressione della sua relazione di Figlio Unigenito col Padre e con lo Spirito Santo. È questo il motivo per cui nella tradizione cristiana si è sempre parlato della obiettiva eccellenza della vita consacrata. Non si può inoltre negare che la pratica dei consigli costituisca un modo particolarmente intimo e fecondo di prendere parte anche alla missione di Cristo, sull’esempio di Maria di Nazaret, prima discepola, la quale accettò di mettersi al servizio del disegno divino con il dono totale di se stessa. Ogni missione inizia con lo stesso atteggiamento espresso da Maria nell’annunciazione: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno i primi” (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Concedi, Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la tua volontà nella giustizia e nella pace, e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo...