1 Luglio 2019

Lunedì della XIII Settimana T. O.

Gn 18,16-33; Sal 102 (103); Mt 8,18-22

Colletta:  O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Gesù aveva operato dei miracoli: aveva guarito un lebbroso (Mt 8,1-4), il servo di un centurione romano (Mt 8,5-13), la suocera di Pietro (Mt 8,14-15), e nel chiudere la faticosa giornata gli avevano portato molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati (Mt 8,16). Eventi portentosi che erano avvenuti sotto gli occhi di innumerevoli testimoni e quindi non potevano passare inosservati, e da qui la fama di Gesù, come taumaturgo, volava di bocca in bocca, raggiungendo anche i paesi più lontani della Palestina. Molto probabilmente lo scriba e il discepolo furono spinti a fare la richiesta di seguire Gesù perché stupefatti da ciò che avevano visto con i loro occhi e udito con le loro orecchie. Ma si accorgeranno ben presto che non è facile seguire Gesù, non è una allegra scampagnata, le esigenze sono quasi al di là delle forze umane: al primo viene richiesta la povertà piena, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo; al secondo la rinuncia totale, anche degli affetti più cari: Seguimi, lascia che i morti seppelliscano i loro morti. In verità, Gesù, con le sue risposte, sta svelando ai due richiedenti il loro cuore: il primo, prima o poi, dinanzi alle radicali esigenze evangeliche avrebbe abbandonato il cammino, il secondo se non si fosse deciso di recidere le radici che lo tenevano avvinghiato al suo mondo sarebbe rimasto per sempre morto dentro. Parole, quelle di Gesù, che indicano la via per la sequela cristiana: povertà, radicalità, novità di vita, universalità, primato di Dio, mettere al centro della propria vita Gesù, e soltanto lui. Questa è l’unica via per mettersi dietro al Maestro e solo con lo sguardo fisso a Gesù, senza volgersi indietro o titubare, si è degni di entrare nel Regno dei Cieli.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 8,18-22: In quel tempo, vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

Le volpi hanno le loro tane - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Tutti noi abbiamo una casa, o almeno aspiriamo ad averla. Il bisogno di sicurezza nell’intimità della casa ci è connaturale. Nonostante la nostra irrequietezza, il nostro cambiar sede e viaggiare - per scelta o per necessità - desideriamo sempre avere un luogo preciso dove tornare; aspiriamo a una patria, a una terra dove vivere. Perfino gli animali hanno una dimora fissa, oggetto, per istinto, delle loro continue cure.
Con Gesù è diverso! Quando è partito da Nazaret ha rinunciato alla sicurezza della casa. Non abitare in una casa propria è nota essenziale della sua nuova vita; non si allontana per breve tempo da un luogo ben preciso, per farvi poi ritorno; al contrario tutta la sua vita è un peregrinare: «Non ha dove posare il capo».
Questa scelta non dipende unicamente dalla sua vocazione di annunziare ovunque il me saggio della salvezza, ma è parte essenziale della sua spoliazione, della sua vita di «servo» che si dona totalmente e rinuncia, di conseguenza, anche al calore e all’intimità di un focolare. Prima di prendere una decisione - per non restare delusi - dobbiamo entrare in questa mentalità del Maestro, qualora egli ci prenda in parola.

Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo - Santi Grasso (Il Vangelo di Matteo): La risposta paradossale di Gesù di stile sapienziale, è tesa ad indicare come la sua sorte non sia nemmeno paragonabile a quella delle volpi e degli uccelli (Sal 84,4. 104,12.17), ma stia sotto il segno dell’incertezza che coinvolge anche chi lo segue. Egli traccia il profilo della sequela, caratterizzata dall’insicurezza e dallo sradicamento. Per la prima volta in Matteo, parla di sé attraverso il personaggio del Figlio dell’uomo. Il primo vangelo usa questo appellativo, che non è mai contenuto di professione di fede, in maniera frequente e regolare (30 volte), ponendolo esclusivamente sulle labbra di Gesù con verbi alla terza persona singolare. Il racconto non è interessato a riportare l’esito dell’incontro, ma a mettere in luce come qualsiasi discepolo sia chiamato a condividere con il Figlio dell’uomo un futuro che è sotto il segno dell’incognita.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; la risposta di Gesù ha una formulazione che tende al paradosso; essa va illuminata con il principio stabilito da Gesù in Mt., 10, 37. Cristo non è senza pietà, né senza cuore; egli vuole semplicemente stabilire la gerarchia dei valori: anche i più sacri doveri umani sono subordinati alle esigenze divine, com’è quella dell’apostolato. Il detto, studiato nel contesto, trova la sua esatta spiegazione. Il Maestro sta per attraversare il lago con la barca; in questa circostanza un discepolo gli chiede di restare per seppellire il proprio padre; Gesù lo avverte che, data l’imminenza del viaggio, le necessità dell’apostolato non vanno posposte ai doveri della pietà verso i propri cari. I morti seppelliscano i morti; il termine morti ripetuto ha una diversa accezione: nel primo caso ha senso metaforico, indica cioè coloro che non vivono, né sentono i supremi interessi di Dio e dell’anima, nel secondo ha un senso proprio. Chi non vive per il regno rimanga a seppellire i propri morti.

Il “Figlio dell’uomo” - Jean Delorme: La tradizione giudaica. - L’apocalittica giudaica posteriore al libro di Daniele ha ripreso il simbolo del figlio d’uomo, ma interpretandolo in modo strettamente individuale e accentuandone gli attributi trascendenti. Nelle parabole di Enoch (la parte più recente del libro), è un essere misterioso, dimorante presso Dio, possessore della giustizia e rivelatore dei beni della salvezza, tenuti in serbo per la fine dei tempi; allora egli siederà sul suo trono di gloria, giudice universale, salvatore e vendicatore dei giusti, che vivranno presso di lui dopo la loro risurrezione. Gli vengono attribuiti alcuni dei tratti del messia regale e del servo di Jahve (egli è l’eletto di giustizia, cfr. Is 42,1), ma non si parla a suo riguardo di sofferenza ed egli non ha una origine terrena. Benché la data delle parabole di Enoch sia discussa, esse rappresentano uno sviluppo dottrinale che doveva essere acquisito in taluni ambienti giudaici prima del ministero di Gesù. D’altronde l’interpretazione di Dan 7 ha lasciato tracce nel libro IV di Esdra e nella letteratura rabbinica. La fede in questo salvatore celeste che sta per rivelarsi prepara l’uso evangelico dell’espressione «figlio dell’uomo». 
Nei vangeli, «figlio dell’uomo» (espressione greca ricalcata su una aramaica, che si sarebbe dovuto tradurre «figlio d’uomo») si trova settanta volte. A volte è solo l’equivalente del pronome personale «io» (cfr. Mt 5,11 e Lc 6,22; Mt 16,13-21 e Mc 8,27-31). Il grido di Stefano che vede «il figlio dell’uomo in piedi alla destra di Dio» (Atti 7,56) può indicare che questa concezione era viva in certi ambienti della Chiesa nascente. Ma la loro influenza non è sufficiente a spiegare tutti gli usi evangelici di questa espressione. Il fatto che essa compaia esclusivamente sulla bocca di Gesù presuppone che la si sia ritenuta una delle sue espressioni tipiche, mentre la fede postpasquale lo designava con altri titoli. A volte Gesù non si identifica esplicitamente con il figlio dell’uomo (Mt 16,27; 24,30 par.); ma altrove è chiaro che parla di se stesso (Mt 8,20 par.; 11,19; 16,13; Gv 3,13s; 12,34). È possibile che abbia scelto l’espressione a motivo della sua ambiguità: suscettibile di un senso banale («l’uomo che io sono»), essa racchiudeva pure una netta allusione all’apocalittica giudaica.

Seguimi: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 ottobre 1987): Gesù chiama a seguire lui personalmente. Questa chiamata sta, si può dire, al centro stesso del Vangelo. Da una parte Gesù rivolge questa chiamata, dall’altra sentiamo gli evangelisti parlare di uomini che lo seguono, e anzi, di alcuni di essi che lasciano tutto per seguirlo. Pensiamo a tutte quelle chiamate di cui ci hanno trasmesso notizie gli evangelisti: “Uno dei discepoli gli disse: Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre. Ma Gesù gli rispose: Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti” (Mt 8,21-22): modo drastico di dire: lascia tutto, subito, per me. Così nella redazione di Matteo. Luca aggiunge la connotazione apostolica di questa vocazione: “Tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9,60). Un’altra volta, passando accanto al banco delle imposte, disse e quasi impose a Matteo, che ci attesta il fatto: “Seguimi. Ed egli si alzò e lo segui” (Mt 9,9; cfr. Mc 2,13-14). Seguire Gesù significa spesso lasciare non solo le occupazioni e recidere i legami che si hanno nel mondo, ma anche staccarsi dalla condizione di agiatezza in cui ci si trova, e anzi dare i propri beni ai poveri. Non tutti si sentono di fare questo strappo radicale: non se la sentì il giovane ricco, che pure fin dalla fanciullezza aveva osservato la Legge e forse cercato seriamente una via di perfezione. Ma “udito questo (cioè l’invito di Gesù), se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19,22; cfr. Mc 10,22). Altri, invece, non solo accettano quel “Seguimi”, ma, come Filippo di Betsaida, sentono il bisogno di comunicare ad altri la loro convinzione di aver trovato il Messia (Gv 1,43ss.). Lo stesso Simone si sente dire fin dal primo incontro: “Tu ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). L’evangelista Giovanni annota che Gesù “fissò lo sguardo su di lui”: in quello sguardo intenso vi era il “Seguimi” più forte e accattivante che mai. Ma sembra che Gesù, data la vocazione tutta speciale di Pietro (e forse anche il suo naturale temperamento) voglia far maturare gradualmente la sua capacità di valutare e accettare quell’invito. Il “Seguimi” letterale per Pietro verrà infatti dopo la lavanda dei piedi in occasione dell’ultima cena (cfr. Gv 13,36), e poi, in modo definitivo, dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade (Gv 21,19).

Maestro, ti seguirò dovunque tu vada: Benedetto XVI (Angelus, 27 giugno 2010): [...] Gesù [...], mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che “il Figlio dell’uomo – cioè Lui, il Messia – non ha dove posare il capo”, vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr. Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: “Seguimi”, chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr. Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce “camminare secondo lo Spirito” (cfr. Gal 5,16). “Cristo ci ha liberati per la libertà!” - scrive l’Apostolo - e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «“Seguimi” non è un’indicazione precisa. È un: “Fidati e vedrai!”» (Don Marco Pedron).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.




 30 GIUGNO 2019 - XIII Domenica T. O.

1Re 19,16b.19-21; Salmo 15 (16); Gal 5,1.13-18;  Lc 9,51-62

Colletta: O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura - I due libri dei Re presentano, nell’insieme, la storia d’Israele durante la monarchia. Abbracciano il periodo che va dalla vecchiaia e morte di Davide (circa 970 a.C.) fino alla deportazione in Babilonia (587 a.C.). Il profeta Elia chiama Eliseo (in ebraico Dio ha soccorso) come suo successore gettando su di lui il proprio mantello. Il mantello «simbolizza la personalità e i diritti del suo proprietario. Il mantello di Elia inoltre ha una efficacia miracolosa [2Re 2,8]. Elia acquista così un diritto su Eliseo, che non può sottrarsi. Distruggendo l’aratro e i buoi, Eliseo sottolinea la rinunzia al suo primo stato» (Bibbia di Gerusalemme). Le gesta del profeta Eliseo sono raccontate nel secondo libro dei Re a partire dal secondo capitolo.

Salmo Responsoriale - «Fuggiamo da quaggiù. Puoi fuggire con l’animo anche se sei trattenuto col corpo: puoi essere qui ed essere insieme presente al Signore se l’anima tua a lui si unisce, se cammini con lui nei tuoi pensieri, se segui con la fede e non solo apparentemente le sue vie, se ti rifugi in lui. È infatti rifugio e fortezza, come dice Davide: In te mi rifugiai e non fui ingannato (Sal 76,3). Dio è dunque il nostro rifugio. Ma egli è nei cieli e sopra i cieli: lassù dobbiamo fuggire: là vi è pace, là vi è riposo da ogni fatica, là si banchetta nel grande sabato, come disse Mosè: I sabati saranno per voi giorno di banchetto sulla terra (Lv 25,5). È un banchetto pieno di letizia e tranquillità riposare in Cristo, contemplare la sua beatitudine» (Sant’Ambrogio).

II Lettura - Ai cristiani provenienti dal giudaismo e ancora osservanti della legge mosaica, Paolo dice che se si ritornasse alla circoncisione, si rinuncerebbe alla libertà che dà la fede in Cristo (Cf. Rom 6,15). In questo senso la legge e la fede non sono più conciliabili. Anche per quanto riguarda la carità vanno allargati i confini e superata la legge di Mosè: per i credenti il prossimo è ogni membro della famiglia umana ormai identificato a Cristo stesso (Cf. Mt 25,31ss.; Lc 10,29-37). Anche per l’Apostolo il secondo comandamento include necessariamente il primo. Infine, il cristiano, poiché è guidato dallo Spirito e vive secondo lo Spirito, non è più portato a soddisfare i desideri della carne: solo così può gustare in pienezza la libertà che Cristo gli ha donato.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Luca 9,51-62: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

Gesù prese la ferma decisione... - Gesù è diretto a Gerusalemme, la città santa, dove si deve compire il suo destino di dolore e di gloria. L’espressione i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto oltre i giorni dell’assunzione di Gesù (Cf. At 1,2) ricorda anche i giorni della passione, morte e resurrezione.
La frase prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, in greco letteralmente suona egli indurì il volto per andare a Gerusalemme, un modo di dire semitico (Cf. Ger 21,10; Ez 6,2; 21,2) con cui l’evangelista Luca vuole sottolineare la risolutezza di Gesù nell’affrontare il suo destino di morte che lo attende a Gerusalemme: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50). La stessa espressione la troviamo in Isaia 50,7 quando si sottolinea la missione del Servo sofferente: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».
Il percorso più rapido che dalla Galilea porta a Gerusalemme prevede l’attraversamento della regione dei Samaritani, i quali, sempre molto mal disposti verso i Giudei (Cf. Gv 4,9), si rifiutano di accogliere Gesù. Da qui l’inimmaginabile reazione degli apostoli Giacomo e Giovanni.
La richiesta dei «figli del tuono» (Mc 3,17) cavalca l’onda di un messianismo terreno e ricorda 2Re 1,10-12 in cui Elia, per due volte, chiama il fuoco dal cielo per incenerire i suoi nemici.
La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto dura: si voltò e li rimproverò. Il verbo che Luca usa è epitimao che significa, letteralmente, vincere con un comando, minacciare, usato da Gesù negli esorcismi. In questo modo il senso della richiesta e del rimprovero si fanno più chiari.
In sostanza, come Satana, Giacomo e Giovanni propongono a Gesù un messianismo trionfalistico che sottende il rifiuto della croce. A questa proposta Gesù si oppone con forza. È lo stesso rimprovero che aveva mosso a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23).
In questa cornice vengono introdotte le tre vocazioni che sono accomunate da un’unica radicale esigenza: lasciare tutto. Bisogna comunque ammettere che Gesù tale radicalità non l’ha richiesta a tutti i discepoli. Non a tutti chiese l’abbandono dei beni (Cf. Lc 8,13). Per esempio non lo chiese a Zaccheo (Lc 19,1-10). Non a tutti chiese la rinuncia al matrimonio (Mt 19,3-12).

Tre vocazioni - In tre scene l’evangelista Luca racchiude la storia di tre vocazioni. Nella prima scena è un uomo a prendere l’iniziativa e Gesù con la sua risposta, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, vuole sottolineare che egli «è profugo e ramingo, peggio degli animali, perché è rifiutato dai suoi compaesani, dai samaritani e infine dai giudei; è ricercato da Erode come pericoloso [Cf. 13,31-33]. La sua vera povertà è l’insicurezza, la situazione precaria in cui si trova, privo di alleanze e di protezioni. Il discepolo che si mette al suo seguito deve sapere che condividerà questo destino in cui non è possibile avere una stabilità o un insediamento protettivo nelle strutture mondane» (Rinaldo Fabris).
Nella seconda e nella terza chiamata le esigenze vocazionali si fanno più radicali: neppure i legami filiali e gli obblighi più sacri, come la sepoltura del padre, possono ritardare la risposta dell’uomo.
Gesù è più esigente del profeta Elia (Cf. I Lettura): per chi vuol farsi discepolo del Cristo tutto deve passare in secondo piano, nessuna cosa al mondo può distrarlo dalla proclamazione del Regno di Dio. Tantomeno, una volta imboccata la strada del discepolato, è possibile tornare indietro.
Gesù «si dimostra assai più esigente dell’antico profeta: egli non vuole solo coraggio e prontezza nel raccogliere l’invito-comando suo, ma esige anche fermezza e costanza nel portare avanti il proprio impegno, senza operare sconti e senza rimpianti o pentimenti. Egli non vuole discepoli nostalgici!» (Carlo Guidelli).
Alla luce della proposta dei figli di Zebedeo, l’insegnamento di Gesù suona come monito anche per chi è già entrato a fare parte del suo entourage.

Vocazione dei discepoli e vocazione dei cristiani - Jacques Guillet: Se Gesù, per suo conto, non sente la chiamata di Dio, in compenso moltiplica le chiamate a seguirlo; la vocazione è il mezzo mediante il quale egli raggruppa attorno a sé i Dodici (Mc 3,13), ma fa sentire anche ad altri un’analoga chiamata (Mc 10,21; Lc 9,59-62); e tutta la sua predicazione ha qualcosa che comporta una vocazione; una chiamata a seguirlo in una via nuova di cui egli possiede il segreto: «Chi vuol venire dietro di me...» (Mt 16,24; cfr. Gv 7,17). E se «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», si è perché l’invito al regno è una chiamata personale, alla quale taluni rimangono sordi (Mt 22,1-14). La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione. La prima predicazione di Pietro a Gerusalemme è un appello ad Israele, simile a quello dei profeti, e cerca di suscitare un passo personale: «Salvatevi da questa generazione perversa!» (Atti 2,40). Per Paolo c’è un parallelismo reale tra lui, «apostolo per vocazione», e i cristiani di Roma o di Corinto «santi per vocazione» (Rom 1,1.7; 1Cor 1,1s). Per rimettere i Corinzi nella verità, egli li riporta alla loro chiamata, perché essa costituisce la Comunità di Corinto così Com’è: «Considerate la vostra chiamata, non ci sono molti sapienti secondo la carne» (1Cor 1,26). Per dar loro una regola di condotta in questo mondo la cui figura passa, li impegna a rimanere ciascuno « nella condizione in Cui l’ha trovato la sua chiamata » (7,24). La vita cristiana è una vocazione perché è una vita nello Spirito, perché lo Spirito è un nuovo universo, perché «si unisce al nostro spirito» (Rom 8,16) per farci sentire la parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale.
Poiché la vocazione cristiana è nata dallo Spirito, e poiché lo Spirito è uno solo che anima tutto il corpo di Cristo, in seno a quest’unica vocazione c’è «diversità di doni... di ministeri... di operazioni...», ma in questa varietà di carismi non c’è infine che un solo corpo ed un solo Spirito (1Cor 12,4-13). Poiché la Chiesa, la Comunità dei chiamati, è essa stessa la Ekklesìa, «la chiamata», come è la Eklektè, «l’eletta» (2 Gv 1), tutti coloro che in essa sentono la chiamata di Dio rispondono, ognuno al suo posto, all’unica vocazione della Chiesa che sente la voce dello sposo e gli risponde: «Vieni, o Signore  Gesù!» (Apoc 22,20).

Perfectae Caritatis 1: Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli evangelici vollero seguire Cristo con maggiore libertà ed imitarlo più da vicino, e condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio. Molti di essi, sotto l’impulso dello Spirito Santo, vissero una vita solitaria o fondarono famiglie religiose che la Chiesa con la sua autorità volentieri accolse ed approvò. Cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose, che molto ha contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia atta ad ogni opera buona e preparata al suo ministero per l’edificazione del corpo di Cristo (cfr. Ef 4,12), ma attraverso la varietà dei doni dei suoi figli appaia altresì come una sposa adornata per il suo sposo (cfr. Ap 21,2), e per mezzo di essa si manifesti la multiforme sapienza di Dio (cfr. Ef 3, 10).
In tanta varietà di doni, tutti coloro che, chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici, ne fanno fedelmente professione, si consacrano in modo speciale al Signore, seguendo Cristo che, casto e povero (cfr. Mt 8,20; Lc 9,58), redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,8). Così essi, animati dalla carità che lo Spirito Santo infonde nei loro cuori (cfr. Rm 5,5) sempre più vivono per Cristo e per il suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). Quanto più fervorosamente, adunque, vengono uniti a Cristo con questa donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa ed il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.



  



29 GIUGNO 2019

SANTI PIETRO E PAOLO, APOSTOLI – SOLENNITÀ 

I Lettura At 12,1-11; Salmo Responsoriale: Dal Salmo 33 (34); 2Tm 4,6-8.17-18; Lc 16,13-19

Colletta: O Dio, che allieti la tua Chiesa con la solennità dei santi Pietro e Paolo, fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo..

Il primato di Pietro è un potere per il bene della Chiesa, e poiché deve durare sino alla fine dei tempi, sarà trasmesso a coloro che gli succederanno nel corso dei secoli. Inferi, alla lettera «Ade» (in ebraico sheol), designa il soggiorno dei morti (Cf. Num 16,33). Le potenze degli inferi, «evocano le potenze del Male che, dopo aver trascinato gli uomini nella morte del peccato, li incatena definitivamente nella morte eterna. Seguendo il suo Signore, morto, “disceso agli inferi” [1Pt 3,19] e risuscitato [At 2,27.31], la Chiesa avrà la missione di strappare gli eletti all’impero della morte, temporale ed eterna, per farli entrare nel regno dei cieli [Cf. Col 1,3; 1Cor 15,26; Ap 6,8; 20,13]» (Bibbia di Gerusalemme).

Vangelo - Dal vangelo secondo Mt 16,13-19: In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa: Cesarea di Filippo è l’antica città di Paneas al nord della Palestina, sulle pendici del monte Ermon. Quando Augusto nel 20 a.C. consegnò la regione al governo di Erode il grande, questi vi eresse un tempio in onore dell’imperatore romano. La costruzione della cittadina è da attribuire a Filippo, figlio di Erode, che la chiamò Cesarea in onore di Tiberio Cesare e vi si aggiungeva “di Filippo” per distinguerla da Cesarea marittima. Vi era adorato il Dio Pan, una divinità dalla sembianza caprina. In questa località che grondava di imperio e rimandava a sovrani che si autoproclamavano dèi, Gesù manifesta ai suoi discepoli la sua identità divina.

Ma voi, chi dite che io sia?: Per Giovanni Papini «Gesù non interroga per sapere, ma perché i suoi fedeli, finalmente sappiano anch’essi [...] il suo vero nome». Ed è Simone, primo tra i Dodici e primo tra i cristiani, a esprimere in termini umani la realtà soprannaturale del figlio di Maria: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». Un’espressione che spesso si trova nell’Antico Testamento (Cf. Gs 3,10; Sal 42,3; 84,3; Os 2,1) ed esprime la presenza operante di Dio.
La risposta di Pietro pone almeno una domanda: egli intendeva professare la divinità di Gesù oppure si riferiva soltanto alla sua messianicità? Se si propende per quest’ultima soluzione, si restituisce alla espressione il semplice senso messianico che essa ha nell’Antico Testamento. Sulla base della risposta del Cristo, né carne né sangue te lo hanno rivelato, si può invece pensare che Pietro abbia voluto professare la divinità del suo Maestro: un’illuminazione che veniva dall’alto e non era frutto di investigazione umana.
La risposta di Gesù a questa professione di fede ha una portata di notevolissima importanza. In primo luogo, egli proclama: «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».
Il termine semitico che traduce Chiesa, ekklêsia, significa assemblea. La «Chiesa» nell’Antico Testamento è la comunità del popolo eletto (Cf. Dt 4,10; At 7,38). Nei vangeli non appare che due volte e designa la nuova comunità che Gesù stava per fondare e che egli presenta come una realtà non solo stabile, ma indistruttibile: «[...] le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». La locuzione, invece, è frequente nelle lettere paoline. Per la Bibbia di Gerusalemme, Gesù usando «il termine “Chiesa” parallelamente all’espressione “regno dei cieli” (Mt 4,17), sottolinea che questa comunità escatologica comincerà già sulla terra mediante una società organizzata di cui stabilisce il capo». E il capo è Simon-Pietro, il pescatore.

La Chiesa è edificata su Simone, che a motivo di questo ruolo riceve qui il nome di Pietro. Il mutamento del nome sta a indicare la nuova missione di Simon Pietro: egli sarà la roccia, quindi elemento di coesione, di unità e di stabilità. A questo punto, Gesù indica i poteri conferiti a Simon Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Il senso di questa immagine, nota alla sacra Scrittura e all’antico Oriente, suggerisce l’incarico affidato a un unico personaggio di sorvegliare ed amministrare la casa. Nel mandato di Simon Pietro, il potere di legare e di sciogliere implica il perdono dei peccati, ma la sua comprensione non va limitata a questo significato: esso, infatti, comprende tutta un’attività di decisione e di legislazione, nella dottrina come nella condotta pratica, che coincide con l’amministrazione della Chiesa in generale.
Sempre per la Bibbia di Gerusalemme, l’esegesi cattolica «ritiene che queste promesse eterne valgano non soltanto per la persona di Pietro, ma anche per i suoi successori; sebbene tale conseguenza non sia esplicitamente indicata nel testo, è tuttavia legittima in ragione dell’intenzione manifesta che ha Gesù di provvedere all’avvenire della sua Chiesa con una istituzione che la morte di Pietro non può rendere effimera».
Luca (22,31s) e Giovanni (21,15s) sottolineano che il primato di Pietro, sempre per mandato divino, deve essere esercitato particolarmente nell’ordine della fede e che tale primato lo rende capo, non solo della Chiesa futura, ma già degli altri Apostoli. Infine, c’è da sottolineare che la professione petrina avviene nella regione di Cesarea di Filippo. Possiamo dire che non è «ricordato a caso il quadro geografico: la confessione del Messia e l’investitura di Pietro avvengono fuori dalla Palestina, in un territorio pagano. Le future direzioni della salvezza sono ormai chiare» (Ortensio Da Spinetoli).          

Pietro - Paul  Lamarche: [Il] primato di Pietro è fondato sulla sua missione, espressa in parecchi testi evangelici.
a) Mt 16,13-23. - Nuovo Abramo, cava da cui vengono estratte pietre viventi (Cf. Is 51,1ss e Mt 3,9), fondamento sul quale Cristo edifica la propria comunità escatologica, Pietro riceve una missione di cui deve beneficiare tutto il popolo. Contro le forze del male, che sono potenze di morte, la Chiesa edificata su Pietro ha l’assicurazione della vittoria. Così la missione suprema di radunare gli uomini in una comunità, in cui ricevono la vita beata ed eterna, è affidata a Pietro, che ha riconosciuto in Gesù il Figlio del Dio vivente. Come in un corpo una funzione vitale non può fermarsi, così nella Chiesa, organismo vivente e vivificatore, bisogna che Pietro, in un modo o nell’altro, sia sempre presente per comunicare senza sosta ai fedeli la vita di Cristo.
b) Lc 22,31s e Atti. - Alludendo senza dubbio al suo nome, Gesù annuncia a Pietro che dovrà «confermare» i suoi fratelli, dopo essersi ravveduto del suo rinnegamento; la sua fede, grazie alla preghiera di Cristo, non verrà meno. Questa è appunto la missione di Pietro, descritta da Luca negli Atti: egli sta alla testa del gruppo riunito nel cenacolo (Atti 1,13); presiede all’elezione di Mattia (1,15); giudica Anania e Safira (5,1-11); in nome degli altri apostoli, che sono con lui, proclama alle folle la glorificazione messianica di Cristo risorto ed annunzia il dono dello Spirito (2,14-36); invita al battesimo tutti gli uomini (2,37-41), compresi i «pagani» (10,1-11,18) ed ispeziona tutte le Chiese (9,32). Come segni del suo potere sulla vita, in nome di Gesù guarisce gli ammalati (3,1-10) e risuscita un morto (9,36-42). D’altra parte, il fatto che Pietro sia tenuto a giustificare la sua condotta in occasione del battesimo di Cornelio (11,l-18), lo svolgimento del concilio di Gerusalemme (15,1-35), nonché le allusioni di Paolo nella lettera ai Galati (Gal 1,28 - 2,14), rivelano che nella direzione, in gran parte collegiale, della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo aveva una posizione importante ed il suo accordo era fondamentale. Ma questi fatti e la loro relazione, lungi dal creare ostacolo al primato ed alla missione di Pietro, ne illuminano il senso profondo. Di fatto l’autorità di Giacomo non ha le stesse radici, né la stessa espressione di quella di Pietro: è a titolo particolare che questi ha ricevuto, con tutto quello che ciò comporta, la missione di trasmettere una regola di fede integra (Cf. Gal 1,18), ed è il depositario delle promesse di vita (Mt 16,18s).
c) Gv 21. - In forma solenne, e forse giuridica, Cristo risorto per tre volte affida a Pietro la cura di tutto il gregge, agnelli e pecore. Questa missione deve essere intesa alla luce della parabola del buon pastore (Gv 10,1-28). Il buon pastore salva le sue pecore, raccolte in un sol gregge (10,16; 11,52), e queste hanno la vita in abbondanza; egli dà anche la propria vita per le sue pecore (10,11); perciò Cristo, annunziando a Pietro il suo futuro martirio, aggiunge: «Seguimi». Egli deve camminare sulle orme del suo maestro, non soltanto dando la vita, ma comunicando la vita eterna alle sue pecore, affinché non periscano mai (10,28). «Seguendo» Cristo, roccia, pietra vivente (1Pt 2,4), pastore che ha il potere di ammettere nella Chiesa, cioè di salvare dalla morte i fedeli e di comunicare loro la vita divina, Pietro, inaugurando una funzione essenziale alla Chiesa, è veramente il «vicario» di Cristo. Questa è la sua missione e la sua grandezza.

Paolo, Apostolo dei Gentili - Xavier Léon- Dufour: L’esistenza di Paolo conferma, a modo suo, ciò che Gesù aveva lasciato intendere in terra. mandando i Settantadue oltre ai Dodici. Dal cielo il risorto manda Paolo oltre ai Dodici; attraverso questa missione apostolica, la natura dell’apostolato potrà essere precisata.
L’ambasciatore di Cristo. - Quando ripete con insistenza di essere stato «chiamato» come apostolo (Rom l, l; Gal 1,15) in una visione apocalittica del risorto (Gal 1,16; l Cor 9,l; 15,8; cfr. Atti 9,5.27) Paolo manifesta che una vocazione particolare fu all’origine della sua missione. Apostolo, egli è un « inviato», non degli uomini (anche se apostoli essi stessi), ma di Gesù personalmente. Ricorda soprattutto questo fatto quando rivendica la sua autorità apostolica: «Per incarico di Cristo siamo ambasciatori; è come se Dio esortasse a mezzo nostro» (2Cor 5,20); «la parola che vi abbiamo predicata non è parola d’uomo, ma parola di Dio» (lTess 2,13). Beati coloro che lo hanno «accolto come un angelo di Dio, come il Cristo Gesù» (Gal 4,14). Infatti gli apostoli sono i «cooperatori di Dio» (lCor 3,9; lTess 3,2). Più ancora: attraverso di essi si compie il ministero della gloria escatologica (2 Cor 3,7-11). Ed affinché l’ambasciatore non storni a suo profitto questa potenza divina e questa gloria, l’apostolo è un uomo disprezzato dal mondo; eccolo perseguitato, consegnato alla morte, affinché la vita sia data agli uomini (2Cor 4,7 - 6,10; cfr. 1Cor 4,9-13).
In concreto, l’autorità apostolica si esercita a proposito della dottrina, del ministero e della giurisdizione. Paolo fa spesso appello alla sua autorità dottrinale, che ritiene capace di lanciare l’anatema su chiunque annunciasse un vangelo diverso dal suo (Gal 1,8s). Paolo sa di poter delegare ad altri i suoi stessi poteri, come quando ordina Timoteo imponendogli le mani (1Tim 4,14; 2 Tim 1,6), atto che questi potrà compiere a sua volta (1Tim 5,22). Infine questa autorità si esercita mediante una reale giurisdizione sulle Chiese che Paolo ha fondato o che gli sono affidate: egli giudica e stabilisce sanzioni (1Cor 5,3ss; 1 Tim 1,20), regola tutto al momento dei suoi passaggi (1Cor 11,34; 2 Cor 10,13-16; 2 Tess 3,4), sa esigere l’obbedienza della comunità (Rom 15,18; 1Cor 14,37; 2 Cor 13,3), al fine di mantenere la comunione (1Cor 5,4). Questa autorità non è tirannica (2Cor 1,24), è un servizio (1 Cor 9,19), quello di un pastore (Atti 20,28; 1Piet 5,2-5) che sa all’occorrenza rinunziare ai propri diritti (1 Cor 9, 12); lungi dal pesare sui fedeli, egli li ama teneramente come un padre, come una madre (1Tess 2,7-12) e dà loro l’esempio della fede (1Tess 1,6; 2Tess 3,9; 1 Cor 4,16).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.   (cfr. Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Concedi, Signore, alla tua Chiesa,
che hai nutrito alla mensa eucaristica,
di perseverare nella frazione del pane
e nella dottrina degli Apostoli,
per formare nel vincolo della tua carità
un cuor solo e un’anima sola.
Per Cristo nostro Signore.





VENERDÌ 28 GIUGNO 2019

SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

I Lettura Ez 34,11-16; Salmo Responsoriale: Dal Salmo 22 (23); Rm 5,5b-11; Lc 15,3-7

Colletta: O Dio, pastore buono, che manifesti la tuo onnipotenza nel perdono e nella compassione, raduna i popoli dispersi nella notte che avvolge il mondo, e ristorali al torrente della grazia che sgorga dal Cuore del tuo Figlio, perché sia festa grande nell’assemblea dei santi sulla terra e nel cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

La parabola della pecora perduta fa parte di un trittico che raccoglie la parabola del moneta ritrovata e la parabola del figlio prodigo o del Padre misericordioso. È il quindicesimo capitolo del Vangelo di Luca, che bene è indicato come il “Vangelo della misericordia”. I tratti della parabola della pecora perduta e ritrovata da mettere in evidenza sono tre: il primo, la pecora che si perde, non sappiamo se era una pecora “buona o cattiva”, non sappiamo se si era allontanata consapevolmente, sappiamo soltanto che il pastore “l’ha perduta”. Negligenza, distrazione da parte del pastore? Non lo sappiamo, ma conosciamo l’amore del pastore, che nonostante tutto si mette sulle tracce della “sua pecora”, finché la trova. E qui, gli ultimi due tratti. Innanzi tutto la gioia, la gioia del pastore, la gioia di aver trovato la pecora perduta, una gioia da condividere. Il pastore gioisce perché ha trovato la “sua pecora”, e questo mette in risalto l’amore grande del pastore nei confronti della sue pecore: nessuno potrà rubargliele dalle sue mani, E poi, la gioia che esplode nel cielo, una gioia contagiosa quella del pastore, condivisa da coloro che già sono ben protetti nel recinto del Cielo. I giusti condividono la gioia del pastore, e possiamo pensare che abbiano condiviso l’ansia della ricerca, forse queste due note rivelano il vero volto del “giusto”.

Vangelo - Dal vangelo secondo Luca 15,3-7: In quel tempo, Gesù disse ai farisei e agli scribi questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».          

Gesù disse ai farisei e agli scribi questa parabola - Le parabole della misericordia divina (c. 15) - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Luca è l’evangelista della misericordia e della gioia messianica. Nel presente capitolo raggiunge un vertice dottrinale, on la rivelazione sublime del cuore di Dio. Nel contesto conviviale in casa di un esponente dei farisei, nella sezione precedente, Gesù aveva proposto ai discepoli e alle folle le esigenze per partecipare al banchetto del regno di Dio, dal quale nessuno deve considerarsi escluso, nonostante la vita passata peccaminosa e vissuta nella lontananza da lui. Ora cambia scenario: Gesù è presentato a mensa con i pubblicani e i peccatori. I farisei, che restano sullo sfondo, si scandalizzano per questo suo comportamento tollerante e brontolano.
Gesù narra tre parabole per giustificare il suo atteggiamento, che corrispondeva alla volontà di Dio. Il messaggio che unifica l'intero capitolo è costituito dalla proclamazione della misericordia sconfinata di Dio e della gioia traboccante in cielo per la conversione dei peccatori. Anche nel discorso della pianura era indicata come norma essenziale per la condotta del discepolo la misericordia: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (6,36). Ora viene ribadito lo stesso tema, congiunto a quello della gioia messianica per la conversione del peccatore e il suo ritorno nella casa paterna.

Rallegratevi … - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Così vi sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito...; espressione iperbolica spinta intenzionalmente fino al paradosso; con essa si vuole far comprendere in qualche modo all’ascoltatore l’intensa gioia che prova Dio nell’accogliere un’anima che ritorna a Lui. Questo modo di parlare dei sentimenti di Dio (antropomorfismi o, più precisamente, antropopatismi) si fonda sopra un’osservazione psicologica: una mamma sembra che ami un figlio malato più degli altri che sono sani, non perché effettivamente lo ami più degli altri, ma perché verso il figlio malato mostra più tenerezza e ha maggiori attenzioni di quelle che usa verso gli altri figli. Il ritorno di un peccatore costituisce per Iddio l’occasione di una gioia così intensa, quale Egli non prova con i giusti che Gli sono rimasti sempre docili e fedeli. L’insegnamento che deriva da un confronto così appropriato e suggestivo consiste nell’assicurare il credente che Dio ama ancora il peccatore, lo ricerca con premura paterna, gli offre delle grazie, ne attende il ritorno con ansia e prova una gioia intensa nel riaverlo. Oltre a questo insegnamento fondamentale che fluisce naturalmente dalle descrizioni della scena, la parabola richiama una seconda idea che deriva dalle premesse poste dall’evangelista nella formula introduttiva e che ha una sua importanza nel presente contesto (cf. verss. 1-2). La parabola contiene un rimprovero per i Farisei, poiché rileva che il loro atteggiamento nei confronti dei «peccatori» (cf. vers. 1) è ben lontano da quello che mostra Dio verso i medesimi; il Signore ama, cerca i peccatori e se ne rallegra per il ritorno; i Farisei invece li disprezzano sdegnosamente evitando di avvicinarli per paura di contaminarsi. In Matteo la presente parabola si trova in un altro contesto ed illustra un aspetto dottrinale differente (cf. Mt., 18, 10-14).

La devozione al Cuore di Gesù risale al Medioevo. Si sviluppa particolarmente in Francia ed in Germania. I missionari gesuiti portano il culto in America: in Brasile, nell’anno 1585, sorge la prima chiesa dedicata al Cuore di Gesù. San Giovanni Eudes, avendo ricevuto il permesso dal vescovo di Rennes, introduce la festa del Cuore di Gesù in tutte le case della sua Congregazione nell’anno 1670; la festa viene celebrata il 31 agosto. Le altre diocesi di Francia, alcune d’Italia e di Germania seguono l’esempio del vescovo di Rennes. Le rivelazioni di santa Maria Margherita Alacoque (Verosvres, 22 luglio 1647-Paray-le-Monial, 17 ottobre 1690) influiscono maggiormente sulla diffusione della festa. Sarà Pio IX, nel 1856, ad estendere la festa su tutta la Chiesa; Leone XIII, consacra al Cuore di Gesù tutto il genere umano, Pio X, raccomanda di farlo ogni anno. Il Cuore di Gesù, trafitto dalla lancia del soldato, rimane per sempre il simbolo del grande ed inconcepibile amore di Dio verso l’uomo. Dio è amore. Lui ci ha amati per primo ed ha mandato il suo Figlio per salvarci. Non c’è amore più grande che dare la propria vita per qualcuno - disse Gesù - ed ha messo in pratica infatti queste parole. Dal costato trafitto di Cristo nasce la Chiesa. Dal costato trafitto di Cristo scorre sangue ed acqua, simbolo dei due Sacramenti: Battesimo ed Eucaristia. La chiave di lettura di tutta la storia della salvezza e della redenzione compiuta da Cristo è l’amore. Rendendo oggi il culto al Cuore di Gesù, ci rendiamo più che mai conto che «l’amore non è amato». Perciò dobbiamo desiderare che i nostri cuori siano infiammati dal fuoco dell’amore di Dio, e vedendo quanti rimangono indifferenti alla chiamata del Signore, dobbiamo riparare alla loro mancanza di amore.

Il cuore del Verbo incarnato - Catechismo della Chiesa Cattolica 478: Gesù ci ha conosciuti e amati, tutti e ciascuno, durante la sua vita, la sua agonia e la sua passione, e per ognuno di noi si è offerto: il Figlio di Dio «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (GaI2,20). Ci ha amati tutti con un cuore umano. Per questo motivo, il sacro cuore di Gesù, trafitto a causa dei nostri peccati e per la nostra salvezza, «praecipuus consideratur index et symbolus [ ... ] illius amoris, quo divinus Redemptor aeternurn Patrem hominesque universos continenter adamat - è considerato il segno e simbolo principale [ ... ] di quell'infinito amore, col quale il Redentore
divino incessantemente ama l’eterno Padre e tutti gli uomini».

Sacratissimo Cuore di Gesù: Giovanni Paolo II (Angelus, 27 giugno 1982): Il mese di giugno è, in modo particolare, dedicato alla venerazione del Cuore divino. Non soltanto un giorno, la festa liturgica che di solito cade in giugno, ma tutti i giorni. Con ciò si collega la devota prassi di recitare o cantare quotidianamente le litanie al sacratissimo Cuore di Gesù. È la preghiera meravigliosa, integralmente concentrata sul mistero interiore di Cristo: Dio-Uomo. Le litanie al Cuore di Gesù attingono abbondantemente alle fonti bibliche e, nello stesso tempo, rispecchiano le più profonde esperienze dei cuori umani. Nello stesso tempo, sono preghiera di venerazione e di dialogo autentico. Parliamo in esse del cuore e, nello stesso tempo, permettiamo ai cuori di parlare con questo unico Cuore, che è “fonte di vita e di santità” e “desiderio dei colli eterni”. Con il Cuore che è “paziente e di grande misericordia” e “generoso verso tutti quelli che lo invocano”. Questa preghiera, recitata e meditata, diventa una vera scuola dell’uomo interiore: la scuola del cristiano.  La solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù ci ricorda soprattutto i momenti in cui questo Cuore è stato “trafitto dalla lancia” e, mediante questo, aperto in modo “visibile” all’uomo e al mondo. Recitando le litanie - e in genere venerando il Cuore divino- impariamo il mistero della Redenzione in tutta la sua divina ed insieme umana profondità. Contemporaneamente, diventiamo sensibili al bisogno di Riparazione. Cristo apre verso di noi il suo Cuore perché nella sua riparazione ci uniamo con lui per la salvezza del mondo. Il parlare del Cuore trafitto pronuncia tutta la verità del suo Vangelo e della Pasqua. Cerchiamo di capire sempre meglio questo parlare. Impariamolo.

Pio XII  (Haurietis Aquas, Sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù): È altresì vivissimo Nostro desiderio che quanti si gloriano del nome di cristiani e intrepidamente combattono per stabilire il Regno di Cristo nel mondo, stimino l’omaggio di devozione al Cuore di Gesù come vessillo di unità, di salvezza e di pace. E, però, nessuno pensi che con tale ossequio venga arrecato alcun pregiudizio alle altre forme di pietà, con le quali il popolo cristiano, sotto l’alta direzione della Chiesa, onora il Redentore divino. Al contrario, una fervida devozione verso il Cuore di Gesù alimenterà e promuoverà specialmente il culto alla sacratissima Croce, come pure l’amore verso l’augustissimo Sacramento dell’altare. E in verità possiamo asserire - ciò che del resto è anche mirabilmente illustrato dalle rivelazioni, di cui Gesù Cristo volle favorire Santa Geltrude e Santa Margherita Maria - che nessuno capirà davvero il Crocifisso, se non penetra nel suo Cuore. Né si potrà facilmente comprendere l’amore che ha spinto il Salvatore a farsi nostro spirituale alimento, se non coltivando una speciale devozione verso il Cuore Eucaristico di Gesù, il quale ci ricorda appunto, come ben si esprimeva il Nostro Predecessore di felice memoria Leone XIII, «l’atto di suprema dilezione col quale il Nostro Redentore, profondendo tutte le ricchezze del suo Cuore allo scopo di stabilire tra noi la sua dimora sino alla fine dei secoli istituì l’adorabile Sacramento dell’Eucaristia». E, infatti, «l’Eucaristia non è da stimarsi una particella minima del suo Cuore, tanto grande essendo stato l’amore del suo Cuore, col quale ce l’ha donata».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Gesù ci ha amati tutti con un cuore umano.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Questo sacramento del tuo amore, o Padre,
ci attiri verso il Cristo tuo Figlio,
perché, animati dalla stessa carità,
sappiamo riconoscerlo nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.

 



27 GIUGNO 2019

GIOVEDÌ DELLA XII SETTIMANA T. O.

I Lettura Gen 15,1-12.17-18; Salmo Responsoriale: Dal Salmo 105 (106); Mt 7,21-26

Colletta: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Gesù al termine del lungo discorso evangelico (Cf. Mt 5-7), con il quale ha esposto lo spirito nuovo del regno di Dio, pone la folla e i suoi discepoli dinanzi alle loro concrete responsabilità: essere suoi seguaci comporta unicamente una vita pienamente donata all’Amore e agli uomini, liberamente compiacente a fare la volontà di Dio. Per entrare nel regno dei cieli non serve a nulla vantare amicizie o parentele con il Cristo oppure operare prodigi nel suo nome. La salvezza non sta nel fare miracoli, nel parlare lingue sconosciute o esorcizzare i diavoli, ma nel fare la volontà del Padre.

Vangelo - Dal vangelo secondo Matteo 7,21-26: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande». Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi.

Il lasciapassare per il regno di Dio - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Il vangelo di oggi conclude il discorso della montagna, che abbiamo continuato a leggere dal lunedì della decima settimana. Oggi Gesù indica una condizione indispensabile per entrare nel regno: compiere la volontà di Dio. Questo è il contrassegno che ci fa riconoscere come figli suoi e discepoli di Gesù. Non basta professare Cristo solo a parole come Signore glorioso e risorto dai morti; bisogna aggiungervi il compimento della volontà del Padre. Solo così la nostra giustizia, santità e fedeltà saranno maggiori di quelle degli scribi e dei farisei, come desiderava Gesù. Per illustrare la necessità di questa fede pratica, la fede che ci salva, la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), Gesù racconta la parabola delle due case, una costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia. Il vero discepolo di Cristo è l’uomo saggio che costruisce sul la roccia dura, quello falso è l’uomo stolto che edifica la sua casa sulla sabbia instabile. Il primo ascolta e osserva la parola del Signore, il secondo l’ascolta, ma non la mette in pratica. Di qui la sua rovina e la sua esclusione, perché la fede senza le opere è sterile, anzi è morta (Gc 2,17.20). «Le opere sono amore e non buone ragioni», dice il proverbio. «Osservare i comandamenti» è ancora in vigore, anche se arricchito con un più ampio sostrato biblico. Dio non comincia mai esigendo, ma dando. L’imperativo morale cristiano è fondato sull’indicativo del dono di Dio, che ci fa figli suoi, donne e uomini nuovi attraverso il battesimo in Cristo morto e risorto. Prima viene sempre l’amore di Dio; poi, logicamente, ci è chiesta una risposta personale con la conversione del cuore e la fedeltà quotidiana al Signore. In questo modo uniremo fede e opere, credo e condotta, ed eviteremo un ostacolo frequente, causa di discredito e di testimonianza cristiana negativa: il divorzio tra la fede e la vita da parte di chi si professa credente e praticante.

La falsa religiosità - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): La voce del falso profeta risuona qualche volta nel cuore dello stesso cristiano. Egli cerca di illudersi di essere seguace di Cristo, mentre in realtà è solo un «ciarlatano», come tale è il profeta che parla senza un incarico. Per entrare nel regno, ottenere cioè la salvezza, non basta stare a ripetere solennemente e pomposamente il nome del Signore, ma occorre convertirsi e fare penitenza, come ha già ricordato più sopra (3,8; 4,17); ora aggiunge che bisogna, prima di tutto, compiere la volontà di Dio, cioè quello che egli comanda a ciascuno (cfr. Mt. 5,17-19). La volontà, è il disegno salvifico di Dio, ma si estende anche alle esigenze pratiche della vita quotidiana. Fare la volontà del Padre è la sintesi della spiritualità vetero-neotestamentaria. Quel che Gesù e la chiesa esigono dai fedeli è una pietà fattiva, operosa, impegnata. Non bastano le buone parole, la buona fede, le buone aspirazioni; non sufficiente camminare per la via spaziosa con il pensiero verso il regno, invocando di tanto in tanto o anche frequentemente il nome del Signore, per aver parte alla salvezza. Se durante la vita si è vissuti fuori del regno, senza rapporti di reale sudditanza con il sovrano, alla fine egli rifiuterà di riconoscere per suoi sudditi questi suoi nascosti adoratori. Possono aver fatto miracoli, la condanna che li attende è inevitabile. Quando avverrà questo dialogo? Tutto fa pensare che si tratti di un momento dell’ultimo giudizio, sia per la somiglianza con Mt. 25,36, che per la moltitudine indistinta che è in scena, come per la forma categorica o definitiva della condanna: «Allontanatevi da me», cui si potrebbe aggiungere: «nel fuoco eterno», riprendendo l’idea sottintesa in 7,19 e chiaramente espressa alla fine della grande sintesi escatologica (Mt. 25,41). Il discorso della montagna si va chiudendo con un tono minaccioso. È l’ultima carta, l’alternativa della perdizione, che ogni predicatore gioca con il suo uditorio. Se fallisce anche questa non c’è più nulla da fare e da sperare.

… ha costruito la sua casa - J. Blunck (Fondamento in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, EDB): Il Nuovo Testamento ha themélios (fondamento) 16 volte; l’uso del termine vi è generalizzato e senza differenze sostanziali rispetto all’uso del greco profano. Il verbo compare 6 volte; hedráios (saldo, resistente) ricorre tre volte in Paolo (1Cor 7,37; 15,58; Col 1,23) e hedráioma una volta sola in 1Tm 3,15 (con lo stesso significato di themélios). Luca usa themélios esclusivamente in senso letterale, per indicare le fondamenta di un edificio (6,48s; 14,29; At 16,26). In Eb 11,10; Ap 21,14.19 si parla delle fondamenta della futura città di Dio. Paolo invece adopera e verbo e sostantivo, soltanto in senso traslato … L’immagine della casa e della costruzione (oikos e oikodomê) viene usata in qualche caso sporadico come metafora per indicare la consistenza e il valore della vita che l’uomo si plasma (Mt 7,24s). Se egli pone a suo fondamento la parola di Gesù, si può dire che è saldamente fondato. Ciò vale soprattutto per la comunità, la chiesa: essa è un «edificio spirituale» (1Pt 2,5; Ef 2,20-22; 1Tm 3,15), che Gesù vuole personalmente costruire con la sua parola e il suo Spirito. Come per l’edificio materiale, così anche per la chiesa il fondamento è di primaria importanza. Tale fondamento è il Cristo (1Cor 3,11). «Tutta la realtà e la verità che si può pensare della giustificazione e della fede e del loro rapporto scambievole, tutto questo ha origine in lui e da lui proviene» (K. Barth). È su questa base che Paolo ha posto la comunità e su questo fondamento si deve continuare a costruire. Comunque si costruisca, Cristo dev’essere sempre il fondamento. E dal momento che di questo fondamento gli uomini hanno notizia soltanto attraverso la predicazione degli apostoli e dei profeti, anche costoro possono essere chiamati themélios, restando sempre chiaro che «Cristo è la pietra d’angolo» (Ef 2,20). È in questo senso che Pietro viene chiamato la «pietra» su cui si edifica la comunità (Mt 16,18). Tutta la vita della chiesa dipende quindi da ciò che Dio ha fatto in Cristo e ha fatto annunciare dagli apostoli; non sarà più chiesa se riterrà fondamentali altre cose (come il sangue e la razza).

Per Gesù, la discrasia tra il dire e il fare pone gli uomini nella condizione di andare incontro a un giudizio avverso: in «quel giorno», nel giorno del giudizio, coloro che conoscendo la volontà di Dio, non avranno disposto o agito secondo la sua volontà (Cf. Lc 12,47), saranno condannati al «fuoco eterno» (Mt 25,41; Cf. Mt 18,8). I falsi profeti e i carismatici millantatori sono «condannati dal giudice non per la mancanza di opere buone: hanno parlato profeticamente, hanno portato gli uomini a Dio, hanno vinto satana secondo lo stile della vittoria di Cristo su di lui [Mt 12,28]; hanno fatto meraviglie ... ma non hanno compiuto la volontà di Dio. Per questo, coloro che si presentano con questa arroganza davanti a Dio sono chiamati operatori di “iniquità”» (Felipe F. Ramos).
Non entreranno nel regno dei cieli: Matteo ama l’espressione “regno dei cieli”, oppure “Padre che è nei cieli” per rispettare gli Ebrei, in gran parte lettori del suo Vangelo, che seguono pedissequamente il comandamento del Signore di non pronunciare il suo Nome invano.
Fare la volontà di Dio è compiere ciò che Dio Padre chiede ai suoi figli attraverso la vita di ogni giorno: lavoro, famiglia, professione, impegni sociali, politici ... una vita sinceramente cristiana, seria e impegnata, fortemente radicata nella concretezza del quotidiano, non con la testa tra le nuvole di gratificanti sogni.
Il brano evangelico si conclude con l’immagine della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia, con la quale Gesù pone il discepolo in modo immediato dinanzi al suo libero discernimento: egli può costruire la sua salvezza come può costruire la sua eterna rovina. In Ez 13,1-16, la furia degli elementi della natura sta ad indicare l’ira di Dio che si abbatte rovinosamente su tutto quanto era stato costruito dai falsi profeti (Cf. Mt 7,15-20): «Di’ a quegli intonacatori di mota: Cadrà! Scenderà una pioggia torrenziale, una grandine grossa, si scatenerà un uragano ed ecco, il muro è abbattuto ... Perciò dice il Signore Dio: Con ira scatenerò un uragano, per la mia collera cadrà una pioggia torrenziale, nel mio furore per la distruzione cadrà grandine come pietre; demolirò il muro che avete intonacato di mota, lo atterrerò e le sue fondamenta rimarranno scoperte; esso crollerà e voi perirete insieme con esso e saprete che io sono il Signore» (Ez 13,11-14).
L’evangelista Matteo, ponendo il fare la volontà di Dio e l’ascolto delle parole di Gesù come condizione per entrare nel regno dei cieli, crea volutamente un «nesso strettissimo tra l’insegnamento di Gesù e la volontà del Padre, manifestata nella sua forma definitiva non dalla Torah, bensì dal vangelo. In questo emerge la novità della concezione della salvezza in Matteo, il quale, benché in sintonia con la mentalità pragmatica dei giudei insista sul “fare” più che sull’ascolto della parola, ripone il conseguimento della vita eterna nell’obbedienza all’insegnamento di Gesù» (Angelico Poppi).
Gesù mette al centro del suo insegnamento l’uomo e lo riveste con il manto regale della libertà, un dono squisitamente divino che di lì a poco gli avrebbe elargito dall’alto di una croce.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La voce del falso profeta risuona qualche volta nel cuore dello stesso cristiano. Egli cerca di illudersi di essere seguace di Cristo, mentre in realtà è solo un «ciarlatano», come tale è il profeta che parla senza un incarico.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che ci hai rinnovati
con il corpo e sangue del tuo Figlio,
fa’ che la partecipazione ai santi misteri
ci ottenga la pienezza della redenzione.
Per Cristo nostro Signore.