1 DICEMBRE 2019

I DOMENICA DI AVVENTO - Anno A

  Is 2,1-5; Sal 121 (122); Rm 13,11-14a; Mt 24,37-44

Colletta: O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo ...

Prima Lettura - Nel momento in cui il profeta Isaia pronuncia le parole ricordate dalla prima lettura, il Tempio di Gerusalemme è ancora in piedi, ma l’intima cerchia dei discepoli fedeli, ai quali Isaia si rivolge, sa che il ruolo di questo Tempio è finito e che sarà distrutto. Pur essendo un tempo di crisi, Isaia preconizza per il popolo eletto, e per l’umanità intera, un tempo di pace: il Tempio di Dio accoglierà molti popoli ai quali verrà offerto il dono della salvezza e della pace. È un oracolo ripreso implicitamente da Gesù quando afferma alla Samaritana che la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22) e da Luca quando afferma che nel nome di Gesù «saranno predicati a tutti popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (Lc 24,47). Anche l’invito venite, camminiamo nella luce del Signore sarà un tema molto caro agli autori neotestamentari.

Salmo Responsoriale - “Tutte le tribù che Dio ha fatto uscire dall’Egitto si recano a Gerusalemme per rendere testimonianza al Dio d’Israele e per un rendimento di grazie… Questo raduno a Gerusalemme era, infatti, il momento più importante per far conoscere la legge, la Scrittura, la storia dei patriarchi e per riunire una comunità nella carità” (Origene).

Seconda Lettura - Poiché il giorno è vicino, san Paolo invita i cristiani a gettare le opere delle tenebre (orge, ubriachezze, lussurie, impurità, litigi, gelosie..., una lista di peccati che rappresentano il “sonno della coscienza”), e a vestire le armi della luce: amore, carità, pazienza, temperanza, gioia... L’Apostolo, in questo brano, sviluppa la nota antitesi luce-tenebre. Da un lato c’è la luce, con le sue opere di luce, dall’altra parte c’è il buio, simbolo del male, con le sue opere tenebrose. Inoltre, san Paolo invita i cristiani a rivestirsi di Cristo e a non lasciarsi prendere dai desideri della carne (Rom 13,14). Rivestirsi di Cristo significa vivere in comunione con lui, abbandonarsi a lui ed esporsi ai raggi benefici della luce divina.

Vangelo - Con il brano evangelico di questa I Domenica di Avvento ha inizio lo sviluppo del tema della vigilanza che si specificherà nelle parabole del servo fidato e prudente (24,45-51), delle dieci vergini (25,1-13) e dei talenti (25,13-30). Di fronte alla certezza del giudizio divino (24,30; 25,31ss) e all’incertezza del tempo (24,44; 25,13; 1Ts 5,1-6) una sola esortazione è possibile: Vegliate! (25,13; 24,42; Lc 21,34-36).

Dal Vangelo secondo Matteo 24,37-44: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli - ... come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano... Nel giudizio negativo di Gesù, non viene condannato il mangiare o il bere (bisogni primari del genere umano) o il matrimonio, ma l’insipienza di quegli uomini che non seppero tenere in alta considerazione altri valori (la comunione con Dio, la salvezza ...) per i quali valeva la pena occuparsi al pari di quelli materiali. Drogati dal soddisfare unicamente i loro primari bisogni non si accorsero che accanto alla storia umana c’era una storia parallela, quella di Dio, che doveva essere accolta anche con il digiuno, la sobrietà, la penitenza e la temperanza.
... due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via... Nel giorno del giudizio di Dio non vi sarà alcuna discriminazione: chi sarà vigilante nell’attesa verrà portato via, cioè sarà accolto nel regno; il secondo, che non è pronto ad accogliere il Figlio dell’uomo, sarà lasciato, cioè sarà abbandonato alla sua sorte di morte e di solitudine. In situazioni apparentemente identiche si compie il discernimento di Dio e la divisione degli uomini in base al giudizio divino.
Gli uomini, quando verrà il Figlio dell’uomo, saranno impegnati nelle loro attività di ogni giorno: la venuta del Signore «irrompe nel quotidiano. Questo ci dice che le azioni di tutti i giorni, quelle che si ritengono le più comuni, e al limite insignificanti, acquistano un senso in quanto momenti di un cammino orientato all’avvento del Signore» (Adrian Schenker - Rosario Scognamiglio).
Essere vigilanti non significa darsi all’ozio, ma semplicemente non farsi prendere la mano dalla carriera, dal successo, dal denaro per dare spazio alle cose di Dio e a quelle dello spirito.
Le occupazioni, che spesso diventano preoccupazioni, a lungo andare, appesantendo il cuore, fanno sprofondare l’uomo in un cupo sonno colpevole, il quale, in questo stato confusionale, non sentendo i passi di Dio nella sua vita, si avvia inesorabilmente verso un destino di morte e di distruzione.
... se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro... L’immagine del Figlio dell’uomo paragonato a un ladro notturno che entra in casa per rubare rende ancora più efficace il tema della vigilanza continua. L’immagine del ladro è usata frequentemente nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù (Cf. 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Il padrone di casa che non vigila potrebbe perdere tutti i suoi beni, così il cristiano addormentato può perdere tutto se stesso all’appuntamento supremo.
In contrasto «con l’apocalittica giudaica, che si prefiggeva di calcolare in anticipo il giorno del giudizio, Gesù ne afferma il carattere sconosciuto e inaspettato e perciò raccomanda la vigilanza... L’attesa per la venuta improvvisa del Signore non costituisce per il credente un motivo di ansia o di paura. L’essenziale è esser trovati vigilanti e pronti per accogliere il Salvatore, senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni e dagli interessi mondani, che sono cose secondarie e contingenti» (A. Poppi).
In un’ottica tutta cristiana, la repentinità della venuta del Figlio dell’uomo ha un ruolo importante e decisivo nella vita del cristiano tanto da animarla profondamente anche negli impegni più banali.
Infatti a nutrire la vigilanza saranno le virtù teologali tanto necessarie al discepolo per conquistare il regno: la speranza certa della venuta di Gesù; la fede nella indefettibilità della parola del Maestro; la carità che bruciando il cuore lo sospinge a cercare le «cose di lassù» (Col 3,2).

Come furono i giorni di Noè - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Il diluvio venne perché tutta l’umanità era corrotta; qui però non si parla di corruzione, ma di una normale vita umana, che si viveva allora come oggi. Ci preoccupiamo delle necessità della vita, del mangiare e del bere, senza sospetto e timore. La vita procede per la sua via normale. È appunto il modo di vivere normale non quello corrotto ed empio - che qui viene accentuato; non quindi un giudizio punitivo, ma la fulmineità con cui questa «vita normale» viene improvvisamente troncata.
I contemporanei di Noè non sapevano nulla del cataclisma imminente, e non ne avevano alcun timore. Soltanto lui ne era conoscenza, e preparava il salvataggio della sua famiglia tra gli scherni e le derisioni dei concittadini. Solo quando era ormai troppo tardi, furono sopraffatti dallo spavento e coloro che si ritenevano sicuri vennero travolti. Altrettanto improvvisamente può cambiare la nostra vita, e il pensare umano si rivela stoltezza, e la stoltezza di Noè è saggezza divina.
Nella vita dell’uomo si sperimenta in diversi modi come il proprio edificio, costruito sulla roccia, possa cadere come un castello di carta. Il discepolo deve fare continuamente i conti con l’imprevisto e non cullarsi nella sicurezza; soprattutto se ha davanti agli occhi del cuore la venuta del suo Signore e lo aspetta ce speranza. La vita dell’uomo sicuro di sé è pesante e fiacca, la vita dell’uomo vigile è dinamica e piena di tensione vitale.

“La Chiesa ogni anno festeggia il ricordo della venuta al mondo del Figlio di Dio nel corpo umano, e attraverso la lettura dei profeti dispone i fedeli per questo giorno. Non lo fa soltanto per ricordare la realtà passata, il fatto storico, la lunga attesa del popolo eletto per la venuta del Messia. Cristo è venuto sulla terra, ha annunziato la buona novella della salvezza, ha compiuto la redenzione dell’uomo, ha riempito della nuova vita coloro che credono in lui, li ha fatti partecipare all’amore del Padre e ha dato loro la caparra della gloria futura. L’umanità ha visto la salvezza, è stata predetta dai profeti «la pienezza dei tempi».
Il tempo di preparazione al Natale deve servirci da introduzione per capire il mistero della presenza di Cristo in mezzo a noi. Il Signore è venuto, il Signore è presente, ma bisogna sentire il bisogno della salvezza che proviene dal Signore, comprendere l’inconcepibile amore di Dio, accogliere i doni del cielo.
La Chiesa, nei giorni dell’Avvento, si rende conto del «già» della salvezza, ma attende il «non ancora» che deve venire. Cristo è venuto, ma la Chiesa pellegrinante nel tempo attende il ritorno del Signore. Aspettare il ritorno di Cristo come i servi che aspettano il ritorno del padrone, vegliare per aprirgli appena sarà venuto e avrà bussato, andargli incontro con le lampade accese, ecco l’atteggiamento dell’Avvento.
Isaia e Giovanni il Battista, queste le due grandi figure dell’Avvento. La voce dei profeti e la voce del grande Precursore del Signore continuano a risuonare nella Chiesa, perché bisogna continuamente preparare la via al Signore e bisogna continuamente gridare: Convertitevi! Coraggio, non abbiate paura! Il Signore ha vinto il male, ma l’uomo rimane ancora nella sua schiavitù. La luce è venuta nel mondo, ma l’uomo può ancora amare le tenebre. Cristo ci ha fatti nuove creature, ma noi possiamo continuare a vivere secondo i desideri dell’uomo vecchio.
Cristo si fece uomo nel seno della Vergine Maria: Lei, Immacolata Vergine, coll’annuncio dell’angelo accoglie il Verbo Eterno, viene riempita dallo Spirito Santo e diventa il tempio di Dio. Il Verbo prese carne da Maria Vergine ed abitò in mezzo a noi. Le parole di Maria: «Avvenga di me secondo la tua parola», dovrebbero farsi preghiera dell’Avvento nel discepolo di Cristo, poiché vivere pienamente l’Avvento significa accogliere Cristo come Maria.” (La Bibbia e i Padri della Chiesa - [i Padri vivi]).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Il tempo di preparazione al Natale deve servirci da introduzione per capire il mistero della presenza di Cristo in mezzo a noi”.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La partecipazione a questo sacramento,
che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita,
ci sostenga, Signore, nel nostro cammino
e ci guidi ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.



30 Novembre 2019

Sabato XXXIV Settimana T. O.

SANT’ANDREA, APOSTOLO – FESTA

 Rm 10,9-18; Salmo 18 (19); Mt 4,18-22

Dal Martirologio: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono.

Colletta: Dio onnipotente, esaudisci la nostra preghiera nella festa dell’apostolo sant’Andrea; egli che fu annunziatore del Vangelo e pastore della tua Chiesa, sia sempre nostro intercessore nel cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini»: in questa frase vi è tutto l’avvenire degli Apostoli, e la loro missione: trarre fuori dai gorghi del peccato gli uomini sedotti dal mondo, dalla carne e da satana. Simone chiamato Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono convocati autorevolmente da Gesù ed essi rispondono alla chiamata con generosità lasciando immantinente lavoro, beni, affetti... La dedizione immediata di questi apostoli è ben messa in evidenza dal Vangelo: Simone e Andrea subito lasciarono le reti e seguirono il Maestro, e allo stesso modo, Giacomo e Giovanni subito lasciarono la barca e il padre andando dietro al giovane Rabbi. Dio «passa e chiama. Se non gli rispondi immediatamente, può proseguire il cammino e allontanarsi da noi. Il passo di Dio è rapido; sarebbe triste se restassimo indietro, attaccati a molte cose che sono di peso e d’impaccio» (Bibbia di Navarra)

Dal Vangelo secondo Matteo 4,18-22: In quel tempo, mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedèo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

La chiamata di Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello avviene lungo il mare di Galilea: altro nome del lago di Genesaret (o Tiberiade), situato nella parte settentrionale della valle del Giordano.
Simone, chiamato Pietro. Il nome di Pietro, qui anticipato, sarà dato a Simone da Gesù in occasione della sua “confessione” (Cf. Mt 16,18). Nel mondo antico, soprattutto nella mentalità biblica, v’era la tendenza di trovare sempre un significato funzionale ai nomi delle persone o anche delle cose. Imporre il nome o cambiare il nome stava ad indicare il potere di potere di chi prendeva tale iniziativa. Adamo che era stato posto nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse (Gen 2,15), impone nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, segno indubbio di esercizio di sovranità (Gen 2,19-20), Abram da Dio sarà chiamato Abraham, per significare che tutti i popoli saranno benedetti in lui, loro padre (Gen 17,5). Giacobbe sarà chiamato Israele, perché ha lottato con Dio (Gen 48,20), così Simone sarà chiamato Pietro perché sarà la pietra sulla quale Gesù edificherà e renderà salda la sua Chiesa (Mt 16,18).
E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». L’immagine usata dall’evangelista Matteo per indicare la futura missione degli Apostoli si radica nelle credenze del tempo. Era sentire comune credere che il mare fosse il regno delle potenze infernali, trarre fuori gli uomini dal mare assumeva quindi il significato profondo di liberare gli uomini dal peccato; liberare gli uomini dal potere di Satana sarà appunto la missione specifica degli Apostoli prima, della Chiesa dopo.
Nella chiamata di Simone e Andrea, suo fratello, vi è una novità sorprendente: infatti, a differenza «dei discepoli dei maestri ebrei che scelgono il loro maestro, qui è Gesù che sceglie quelli che vuole che lo seguano. C’è una forza e un’autorità misteriosa in lui se basta questo semplice invito a seguirlo per ottenere da parte dei discepoli una risposta pronta e l’altrettanto immediata rinuncia a tutto [Cf. Anche Mc 1,16-20]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli, Ed. Paoline).
La scuola di Gesù non vuole trasmettere nozioni o scibile umano, ma vuole creare una comunione di vita tra il Maestro e i discepoli: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» (Mc 3,13; Cf. Gv 1,39).

Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini - Claude Tassin (Vangelo di Matteo): L’espressione «pescatori di uomini» del v. 19 richiama la rete del pescatore o del cacciatore. In Ab 1,14-15 e Ger 16,16, quest’immagine rappresenta il giudizio di Dio che raggiunge colui che credeva di sfuggirgli. Matteo però interpreta senza dubbio Ger 16,14-21 come una profezia ottimistica del raduno degli ebrei dispersi e della conversione dei pagani; egli può anche pensare in anticipo alla parabola della rete (Mt 13,47): insomma, l’espressione «pescatori di uomini» annuncia in qualche modo la missione cristiana. L’evangelista insisterà ora su un punto: ci si può definire missionari nella misura in cui si è discepoli. Qui Gesù chiama dei discepoli che, nel corso di questa sezione, ascolteranno il Maestro e lo vedranno all’opera. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni erano figure considerevoli per la seconda generazione di cristiani; ma, suggerisce Matteo, si venera la loro memoria perché essi in primo luogo sono stati discepoli, chiamati gratuitamente dall’araldo del regno dei cieli.

Gesù vide due fratelli… - Pastores dabo vobis 36: «Chiamò quelli che volle ed essi andarono da lui». Questo «andare», che s’identifica con il «seguire» Gesù, esprime la risposta libera dei alla chiamata del Maestro. Così è stato di Pietro e di Andrea: «E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono». Identica è stata l’esperienza di Giacomo e di Giovanni. Così sempre: nella vocazione risplendono insieme l’amore gratuito di Dio e l’esaltazione più alta possibile della libertà dell’uomo: quella dell’adesione alla chiamata di Dio e dell’affidamento a lui.
In realtà, grazia e libertà non si oppongono tra loro. Al contrario, la grazia anima e sostiene la libertà umana, liberandola dalla schiavitù del peccato, sanandola ed elevandola nelle sue capacità di apertura e di accoglienza del dono di Dio. E se non si può attentare all’iniziativa assolutamente gratuita di Dio che chiama, neppure si può attentare all’estrema serietà con la quale l’uomo è sfidato nella sua libertà. Così al «vieni e seguimi» di Gesù il giovane ricco oppone un rifiuto, segno - sia pure negativo - della sua libertà: «Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni».
La libertà, dunque, è essenziale alla vocazione, una libertà che nella risposta positiva si qualifica come adesione personale profonda, come donazione d’amore, o meglio come ri-donazione al Donatore che è Dio che chiama, come oblazione. «La chiamata - diceva Paolo VI - si commisura con la risposta. Non vi possono essere vocazioni, se non libere; se esse non sono cioè offerte spontanee di sé, coscienti, generose, totali... Oblazioni, diciamo: qui sta praticamente il vero problema... È la voce umile e penetrante di Cristo, che dice, oggi come ieri, più di ieri: vieni. La libertà è posta al suo supremo cimento: quello appunto dell’oblazione, della generosità, del sacrificio».
L’oblazione libera, che costituisce il nucleo intimo e più prezioso della risposta dell’uomo a Dio che chiama, trova il suo incomparabile modello, anzi la sua radice viva nell’oblazione liberissima di Gesù Cristo, il primo dei chiamati, alla volontà del Padre: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà”».

Venite dietro a me - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Il discepolato di Gesù non rappresentava una novità in Israele. Anche i rabbini erano circondati da numerosi discepoli. Ma la cosa sorprendente nelle chiamate di Gesù consisteva nella libera scelta dei suoi discepoli. Non erano i discepoli che sceglievano il maestro, ma era Gesù che li chiamava alla sua sequela in modo perentorio. Egli sceglie chi vuole, all’improvviso, mentre uno è intento alle occupazioni più ordinarie della vita, nel proprio ambiente di lavoro. Gesù obbliga il discepolo a lasciare ogni cosa, a unirsi strettamente a lui per condividere la sua vita insieme con altri fratelli, in modo da formare una nuova famiglia spirituale, plasmata dall’ascolto della sua parola. Da questa sequela scaturisce una profonda comunione di vita, che dispone il discepolo a unirsi al Maestro sulla via della sofferenza e della croce, il percorso necessario per giungere alla salvezza. I discepoli, inoltre, sono chiamati per essere i collaboratori di Gesù nella proclamazione del regno di Dio, diventando così «pescatori di uomini» (v. 19b). Si tratta di una immagine del linguaggio escatologico, connessa con l’opera e la funzione di Gesù quale giudice universale (cf. Ez 47,1-12). Come i pescatori «raccolgono» i pesci, così i discepoli sono associati all’attività di Gesù per la raccolta escatologica degli uomini (cf. A. Sand, p. 118). La chiamata dei primi discepoli, i prototipi di coloro che ascoltano la parola di Dio, il nucleo germinale della comunità messianica, è molto simile alle vocazioni profetiche nell’Antico Testamento. Infatti, è Dio stesso che li sceglie per costituirli suoi araldi, anche se lo fa per bocca del suo inviato, Gesù Cristo, il Profeta definitivo. Si osservi come Mt anticipi qui il soprannome di Simone, «detto Pietro» (v. 18), che da nome funzionale è presto divenuto nella chiesa nome proprio.

Consacrati come Cristo per il Regno di Dio - Vita consecrata 22: La vita consacrata «più fedelmente imita e continuamente rappresenta nella Chiesa»,per impulso dello Spirito Santo, la forma di vita che Gesù, supremo consacrato e missionario del Padre per il suo Regno, ha abbracciato ed ha proposto ai discepoli che lo seguivano (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,10-11; Gv 15,16). Alla luce della consacrazione di Gesù, è possibile scoprire nell’iniziativa del Padre, fonte di ogni santità, la sorgente originaria della vita consacrata. Gesù stesso, infatti, è colui che «Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza» (At 10,38), «colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10,36). Accogliendo la consacrazione del Padre, il Figlio a sua volta si consacra a Lui per l’umanità (cfr Gv 17,19): la sua vita di verginità, di obbedienza e di povertà esprime la sua filiale e totale adesione al disegno del Padre (cfr Gv 10,30; 14,11). La sua perfetta oblazione conferisce un significato di consacrazione a tutti gli eventi della sua esistenza terrena. Egli è l’ obbediente per eccellenza, disceso dal cielo non per fare la sua volontà, ma la volontà di Colui che lo ha mandato (cfr Gv 6,38; Eb 10,5.7). Egli rimette il suo modo di essere e di agire nelle mani del Padre (cfr Lc 2,49). In obbedienza filiale, adotta la forma del servo: «Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo [...], facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di Croce» (Fil 2,7-8). È in tale atteggiamento di docilità al Padre che, pur approvando e difendendo la dignità e la santità della vita matrimoniale, Cristo assume la forma di vita verginale e rivela così il pregio sublime e la misteriosa fecondità spirituale della verginità. La sua piena adesione al disegno del Padre si manifesta anche nel distacco dai beni terreni: «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). La profondità della sua povertà si rivela nella perfetta oblazione di tutto ciò che è suo al Padre. Veramente la vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli. Essa è vivente tradizione della vita e del messaggio del Salvatore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La partecipazione al tuo sacramento, Signore,
ci fortifichi e ci dia la gioia di portare in noi,
sull’esempio di sant’Andrea apostolo, i patimenti del Cristo,
per partecipare alla gloria della risurrezione.
Per Cristo nostro Signore.



29 Novembre 2019

Venerdì XXXIV Settimana T. O.

 Dn 7,2-14; Sal da Dn 3,75-81; Lc 21,29-33


Colletta: Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza, ottengano in misura sempre più abbondante i doni della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La similitudine del fico vuole insegnare all’uomo ad essere più accorto, a saper leggere i segni dei tempi: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,56-57). È un invito alla vigilanza, lo stesso invito che Gesù rivolgerà a Pietro, a Giacomo e a Giovanni nell’orto del Getsemani (cfr. Mc 14,34.37.38). Questi eventi sono così vicini che «non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute». Queste parole di Gesù, che dai più vengono riferite alla distruzione del tempio di Gerusalemme, si realizzeranno alla lettera appena quarant’anni dopo questo annuncio quando le truppe romane raderanno la città santa al suolo. L’affermazione - Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno - ribadisce l’evidente eternità e immutabilità divina della Parola di Dio (cfr. Is 51,6): «Le parole di Cristo, che traggono origine dall’eternità, possiedono tale forza e tale potere da durare per sempre» (Sant’Ilario)

Dal Vangelo secondo Luca 21,29-33: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:  «Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

Osservate la pianta di fico… - Alois Stöger (Vangelo secondo Luca): Quando, nella crisi finale del mondo, il Figlio dell’uomo verrà, i fedeli si solleveranno. Allora si potrà dire con tutta verità che il regno di Dio è vicino. Chi afferma questo prima di quel tempo, è un ingannatore (21, 8) e non dice la verità. In quel tempo infatti non ci sarà bisogno d’un messaggero che annunci l’approssimarsi del regno, perché ciascuno se ne accorgerà da sé per i fatti che potrà osservare. Un breve paragone delucida questo particolare. Quando il fico e gli altri alberi germogliano, ognuno capisce da sé che l’inverno è passato e l’estate è vicina. In Palestina non c’è primavera; l’estate scaccia l’inverno. Nessun uomo, che abbia senno, ha bisogno di essere aiutato a capire che l’estate è vicina quando germogliano gli alberi.
La comparsa del Figlio dell’uomo, la redenzione e il regno di Dio sono intimamente uniti fra loro. « Poi viene la fine, allorché il Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver annientato ogni principato, potestà e forza (che s’oppongono a Dio). Infatti egli deve regnare finché non abbia posto sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici... Infatti tutte le cose Dio ha posto sotto i suoi piedi... Quando poi tutte le cose saranno state sottomesse a lui, allora anche il Figlio si sottometterà a colui che tutto gli ha sottomesso, affinché Dio sia tutto in tutti» (1Cor. 15, 24-28).

Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno - Javer Pikaza: Analizzata storicamente, questa sentenza può riflettere la voce di Gesù il quale, con gli apocalittici del suo tempo, avrebbe supposto che la fine del mondo fosse vicina. Potrebbe anche essere l’avvertimento di qualche gruppo della Chiesa che cercava di conservare nella comunità l’entusiasmo escatologico. Per noi, oggi, è difficile precisare la sua origine e il suo senso originale. Però, sullo sfondo della morte e della risurrezione di Gesù, questa sentenza diviene per noi del tutto luminosa.
Affermare che non passerà questa generazione prima che avvenga la fine significa, in primo luogo, una vicinanza « qualitativa ». Non vuol dire che Dio si manifesti temporalmente domani. Vuol dire che, in ogni giorno della vita, siamo disponibili alla fine e circondati dal mistero fondamentale del divino. Evidentemente, quando i tempi divengono duri, quando l’autorità politica mostra il suo volto più perverso, deve accendersi la speranza che viene la fine del mondo (la parusia di Gesù nella storia). Però, quello che importa è sapere che, in tutti i momenti (nei buoni e nei cattivi), la verità della passione, della croce e della Pasqua di Gesù ci fornisce un solido fondamento interiore, ci offre una speranza e ci afferma che il mondo (e la nostra vita) è realtà che si sta esaurendo internamente.

Il cielo e la terra passeranno…: Giovanni Paolo II (Angelus, 26 gennaio 1997): Non poche persone, riflettendo sulla situazione del nostro mondo, manifestano smarrimento e talora persino angoscia. Le sconvolge la constatazione di comportamenti individuali o di gruppo che rivelano una sconcertante assenza di valori. Il pensiero va naturalmente a fatti di cronaca anche recenti, che destano in chi li osserva con attenzione un raggelante senso di vuoto. Come non interrogarsi sulle cause, e come non sentire il bisogno di qualcuno che ci aiuti a decifrare il mistero della vita, consentendoci di guardare con speranza verso il futuro? Nella Bibbia, gli uomini che hanno questa missione vengono detti profeti. Sono uomini che non parlano a nome proprio, ma a nome di Dio, mossi dal suo Spirito. Anche Gesù apparve come profeta agli occhi dei suoi contemporanei, che, impressionati, riconobbero in Lui un “profeta potente in opere e in parole” (Lc 24,19). Con la sua vita, e soprattutto con la sua morte e risurrezione, egli si accreditò quale profeta per eccellenza, essendo il Figlio stesso di Dio. È quanto afferma la Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Il mistero del Profeta di Nazaret non cessa di interpellarci. Il suo messaggio, consegnato nei Vangeli, resta nel volgere dei secoli e dei millenni sempre attuale. Egli stesso ha detto: “I cieli e la terra passeranno, le mie parole non passeranno” (Mc 13,31). In Gesù, Figlio suo incarnato, Dio ha detto la parola definitiva sull’uomo e sulla storia, e la Chiesa la ripropone con sempre nuova fiducia, sapendo che essa è l’unica parola capace di dare senso pieno alla vita dell’uomo. Non di rado la profezia di Gesù può risultare scomoda, ma è sempre salutare! Cristo è segno di contraddizione (Lc 2,34), proprio perché tocca l’animo in profondità, obbliga chi lo ascolta a mettersi in questione, chiede la conversione del cuore.

Ma le mie parole non passeranno: Benedetto XVI (Omelia, 15 Novembre 2009): L’espressione “il cielo e la terra” è frequente nella Bibbia per indicare tutto l’universo, il cosmo intero. Gesù dichiara che tutto ciò è destinato a “passare”. Non solo la terra, ma anche il cielo, che qui è inteso appunto in senso cosmico, non come sinonimo di Dio. La Sacra Scrittura non conosce ambiguità: tutto il creato è segnato dalla finitudine, compresi gli elementi divinizzati dalle antiche mitologie: non c’è nessuna confusione tra il creato e il Creatore, ma una differenza netta. Con tale chiara distinzione, Gesù afferma che le sue parole “non passeranno”, cioè stanno dalla parte di Dio e perciò sono eterne. Pur pronunciate nella concretezza della sua esistenza terrena, esse sono parole profetiche per eccellenza, come afferma in un altro luogo Gesù rivolgendosi al Padre celeste: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato” (Gv 17,8). In una celebre parabola, Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr. Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr. Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione che si manifesta già ora in una vita buona, animata dalla carità, e alla fine produrrà la risurrezione della carne. Ecco la potenza della Parola di Cristo

È vicino - A parte i santi, i beati e i servi di Dio, la vigilanza non è più pane quotidiano per molti credenti (cfr. Sap 2,6-7; Is 22,13; 1Cor 15,32). Eppure il Vangelo è zeppo di quei moniti che invitano l’uomo a saper leggere i segni dei tempi e ad essere vigilanti (cfr. Mt 25,13; Mc 13,33-34; Lc 12,37). Anche Paolo ritorna spesso sul tema della vigilanza: «... il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte... Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,2.6). Una saggia esortazione da mettere urgentemente in atto perché due eventi ineluttabili incombono sull’uomo: la morte e la fine del mondo. Due eventi lontani nel tempo l’uno dall’altro, ma che coincidono perfettamente tra loro perché con la morte si va già incontro al giudizio e il giudizio di Dio, alla fine del mondo, ratificherà la sentenza emanata nel giorno della fine dell’esistenza. Se poi si è miscredenti e non si vuol credere al giudizio universale, resta come verità inoppugnabile la morte dell’uomo e sarebbe da stolti credere che all’uomo spetti lo stesso destino delle bestie (Qo 3,18-22). Anche se non conosciamo il tempo né l’ora della fine del mondo, già «è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi [cfr. 1Cor 10,11]. La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora [cfr. 2Pt 3,13], la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio [cfr. Rom 8,19-22]» (LG 48). Da qui l’imperativo a vegliare perché non sappiamo in quale giorno il Signore verrà (Mt 24,42), di indossare l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno malvagio (cfr. Ef 6,11-13) e di sforzarsi di essere in tutto graditi al Signore (cf. 2Cor 5,9). Proprio perché non conosciamo il giorno né l’ora, «bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena [cfr. Eb 9,27], di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati [cfr. Mt 25,31-46], e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri [cfr. Mt 25,26], di andare al fuoco eterno [cfr. Mt 25,41], nelle tenebre esteriori dove “ci sarà pianto e stridore dei denti” [Mt 22,13 e 25,30]. Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male” [2Cor 5,10], e alla fine del mondo “usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna” [Gv 5,29]» (LG 48).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questi santi misteri
ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita,
non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.



28 Novembre 2019

Giovedì XXXIV Settimana T. O.

 Dn 6,12-28; Sal da Dn 3,68-74; Lc 21,20-28


Colletta: Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza, ottengano in misura sempre più abbondante i doni della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Il 21mo capitolo del Vangelo di Luca registra due eventi che coinvolgeranno drammaticamente il popolo eletto e l’umanità: la rovina di Gerusalemme e la manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo.
L’evangelista Luca, seguendo una delle sue fonti, aveva già parlato del ritorno glorioso di Gesù alla fine dei tempi (Cf 17,22-37). Qui, come Marco che egli segue e combina con un’altra fonte, tratta della distruzione di Gerusalemme, senza rimenarvi la fine del mondo come fa l’evangelista Matteo (Cf Mt 24,1; Lc 19,44).

Dal Vangelo secondo Luca 21,20-28: «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano verso i monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia. In quei giorni guai alle donne che sono incinte e a quelle che allattano, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti. Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». 

Due eventi terrificanti, la distruzione della città santa, Gerusalemme, e i segni spaventosi premonitori della venuta del Figlio dell’uomo. La distruzione della città santa si avvererà nell’anno 70 ad opera delle legioni romane, ma la realtà supererà per nefandezze e atrocità quanto ricordato dall’evangelista Luca. Tra i tanti crimini, Giuseppe Flavio ricorda di una donna di nome Maria che per non morire di fame si ciba delle carni del proprio figlio: «[Maria] Afferrò il bambino lattante che aveva seco e gli rivolse queste parole: “Povero figlioletto, a quale sorte dovrei cercare di preservarti in mezzo alla guerra, alla fame, alla rivoluzione? “Dai romani non possiamo attenderci che la schiavitù, se pure riusciremo a vivere fino al loro arrivo, ma la fame ci consumerà prima di finire schiavi, mentre infine i ribelli sono un flagello più tremendo degli altri due.  E allora, sii tu cibo per me, per i ribelli furia vendicatrice, e per l’umanità la tua storia sia quell’unica che ancora mancava fra le tante sventure dei giudei”.  Così disse e, ucciso il figlio, lo mise a cuocere; una metà ne mangiò, mentre l’altra la conservò in un luogo nascosto. Ben presto arrivarono i banditi e, fiutando quell’odore esecrando, la minacciarono di ucciderla all’istante se non avesse mostrato ciò che aveva preparato. Ella rispose di averne conservata una bella porzione anche per loro e presentò i resti del bambino: un improvviso brivido percorse quegli uomini paralizzandoli, ed essi restarono impietriti a una tal vista. “Questo è il mio bambino” disse la donna “e opera mia è questa. Mangiatene, perché anch’io ne ho mangiato.» (Guerra Giudaica Libro VI: 205-210). 
Orrore e lutti che non possono essere consolati né da lacrime né da lamenti, la carneficina perpetrata dai romani è da addebitare unicamente alla crudeltà dell’uomo.
Il secondo evento sarà terribile per i peccatori, per coloro che perseverano nel male, per coloro che bestemmiano lo Spirito Santo: “Perciò io vi dico: qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non verrà perdonata.” (Mt 12,31)
Ma il risvolto per gli uomini che hanno atteso la venuta del Figlio dell’uomo sarà molto diverso. non vi saranno catene, deportazioni, distruzioni, ma luce, pace, felicità, perfetta comunione, gioia: “ Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,3-4).

Entrambi gli eventi, la distruzione del tempio di Gerusalemme e la beata venuta di Gesù, saranno preceduti da segni premonitori. Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle e sulla terra angoscia di popoli... Il genere letterario qui adoperato dall’evangelista è quello apocalittico corrente nell’ambiente semitico (Cf Is 13,9-10; 34,4; Ger 4,23-26; Ez 32,7s; Am 8,9; Mi 1,3-4; Gl 2,10; 3,4; 4,15).
Il Figlio dell’uomo verrà con grande potenza e gloria, tutti lo vedranno e sarà un evento di liberazione per i credenti e di condanna per gli empi.
Anche se Luca tralascia il giudizio universale (Cf. Mt 25,31-46), il giudizio di condanna degli empi è implicito nel racconto. Solo chi avrà perseverato nella fede si salverà (Cf Lc 21,19).
Mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra, i «cristiani non dovranno spaventarsi per gli sconvolgimenti cosmici finali, ma dopo tante sofferenze, persecuzioni e oppressioni che li hanno schiacciati, potranno finalmente drizzarsi e alzare con sicurezza le loro teste, essendo quello “il segnale della realizzazione della loro speranza”» (Angelico Poppi).

Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti… - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): L’evangelista, in sintonia con la tradizione ecclesiale primitiva, considera la distruzione di Gerusalemme come castigo di Dio per il rifiuto del Messia. I pagani «divengono strumento del giudizio punitivo di Dio» (Ernst, II, p. 779); essi profanano il tempio con la loro presenza, segnando l’inizio di una nuova epoca della storia, «il tempo delle nazioni» (v. 24), che saranno aggregate alla comunità messianica, fondata da Cristo. Le nella sua rielaborazione non elimina la prospettiva escatologica del ritorno del Signore, ma lo distingue più chiaramente dalla distruzione di Gerusalemme, un avvenimento ormai appartenente alla storia passata. L’impronta apocalittica giudaica del testo marciano risulta profondamente trasformata in funzione del cammino storico della chiesa. «Da apocalittico, il discorso si fa parenetico: Gesù non comunica qualche segreto ad eletti sulla fine dei tempi, ma esorta i discepoli a vivere eventi e prove con fedeltà e nella vigilanza» (Rosse, p. 790). Luca riafferma che anche Gesù ignora il giorno della parusia, ma insiste sulla necessità della vigilanza perseverante per tale evento, che è decisivo per la salvezza di ciascuno. Nonostante la dura lezione storica della caduta di Gerusalemme, l’evangelista lungi dal conferire un tono minaccioso al discorso, incoraggia i credenti a perseverare nelle tribolazioni, che rientrano come componente inevitabile della sequela del Messia crocifisso, per essere conformati alle sue sofferenze e resi partecipi della sua gloria. «La sua parenesi è evidentemente legata a una Cristologia, a una immagine di Gesù, Figlio dell’uomo, considerato più nella sua funzione di Salvatore che nell’esercizio della funzione temibile di giudice supremo» (Dupont, le trois…, p. 142).

Dal testo lucano si evincono due riflessioni. Innanzi tutto, la liberazione, inaugurata sul monte Calvario e già garantita dal dono dello Spirito, raggiungerà il suo compimento soltanto nella parusia, con la liberazione dalla morte mediante la resurrezione dei corpi (Cf Rm 8,23). Non vi sono quindi paradisi terreni. Infine, prima «della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il pellegrinaggio sulla terra, svelerà il “Mistero di iniquità” sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè del pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del Messia venuto nella carne» (CCC 675).
Dunque, il «Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo Giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa» (CCC 677).

Un sereno distacco - Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1182: La trascendenza del Regno impedisce di adagiarsi sugli obiettivi raggiunti e stimola una riforma continua, un rinnovamento creativo incessante. Anzi, accanto alla serietà dell’impegno, esige un sereno distacco. «Il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1Cor 7,29-31). La famiglia, il lavoro, la cultura, la politica sono importanti: nessuna indifferenza nei loro confronti. Ma non sono tutto: perciò il cristiano vi partecipa con misura e all’occorrenza sa anche tirarsi fuori. La partecipazione non significa assolutizzazione; la rinuncia non significa disprezzo.
Dio dona questi beni come preparazione a un bene più grande, ma con la morte, e spesso anche prima, li toglie, perché vuol donare se stesso e attirare a sé il desiderio dell’uomo. Occorre rimanere sempre disponibili, non lasciarsi mai imprigionare da valori parziali: «Venga la grazia e passi questo mondo». L’impegno storico stesso cessa di essere autentico, quando assorbe tutte le energie: basti pensare come diventa totalitaria e pericolosa la politica elevata a messianismo.
La speranza cristiana non perde di vista i limiti e la provvisorietà delle conquiste economiche, sociali, politiche e culturali. Accanto al lavoro promuove la festa, per contemplare e celebrare il significato supremo della vita. Conferisce valore all’azione, ma più ancora alla sofferenza, in cui la persona non solo mantiene la sua dignità, ma può crescere umanamente e fare dono di se stessa a Dio e ai fratelli.
n. 1183: Sapendo di preparare il regno di Dio con il suo impegno storico, il cristiano agisce con grande serietà e nello stesso tempo con sereno distacco. «Affrettiamoci a compiere ogni opera buona. Imitiamo in ciò il Creatore e Signore di tutte le cose che gioisce delle sue opere».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questi santi misteri
ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita,
non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.



27 Novembre 2019

Mercoledì XXXIV Settimana T. O.

 Dn 5,1-6.13-14.16-17.23-28; Salmo da Dn 3,62-67; Lc 21,12-19

Colletta: Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza, ottengano in misura sempre più abbondante i doni della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

“In molte epoche e in molti luoghi i cristiani sono stati oggetto di odio, di persecuzioni e di sterminio; hanno sperimentato però la consolante promessa del Redentore: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,18-19). Non si tratta certo di salvare la vita fisica. Basta leggere gli Acta Martyrum per convincersi che ai grandi testimoni di Cristo e ai confessori della fede non è stata risparmiata la vita terrena. Andavano incontro alla morte con grande coraggio, consapevoli che accettando di morire per Cristo in realtà si avvicinavano alla pienezza di quella vita divina da Cristo comunicata all’uomo nel mistero pasquale.” (Giovanni Paolo II (Omelia,19 novembre 1995).

Dal Vangelo secondo Luca 21,12-19: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Gesù aveva suggerito alcuni “segni” che avrebbero accompagnato la fine dei “tempi”. Tra questi vi sarà la persecuzione contro la Chiesa che darà ai discepoli occasione di dare testimonianza. La persecuzione comunque è volta al tentativo di cancellare il nome di Gesù.
La consegna alle sinagoghe e alle prigioni è forse un espediente per sottolineare la matrice religiosa e statale-temporale della persecuzione contro i discepoli del Risorto. Il termine testimonianza è desunto dal greco martyrion da cui viene la parola martirio e va inteso come atto del testimoniare la propria fede fino al sacrifico della vita. All’annuncio della persecuzione a motivo della fede (Cf. Gv 15,20), si accompagna la promessa dell’assistenza divina: il discepolo deve guardare al martirio con estrema serenità in quanto ha la certezza che nemmeno un capello del suo capo perirà.
Questa parola di Gesù è un proverbio noto nell’Antico Testamento (Cf. 1Sam 14,45; 2Sam 14,1; 1Re 1,52), a cui Luca fa più volte riferimento (Cf. Lc 12,7; At 27,34).
L’essere cristiani pone nella condizione di essere perseguitati, calunniati, odiati per il nome di Cristo, anche dal padre o dal fratello. Il martirio, affrontare la morte per la fede, per il cristiano non è un incidente di percorso o qualcosa di molto improbabile, infatti, il «Battesimo impegna i cristiani a partecipare con coraggio alla diffusione del Regno di Dio, cooperandovi se necessario col sacrificio della stessa vita» (Benedetto XVI).
Essere cristiani non significa non subire alcun danno o offesa, ma che ogni sofferenza verrà ricompensata e niente andrà perduto, neppure un capello. Essere discepoli di Cristo è una scelta che riserva un calice amaro: è il prezzo della verità.
Il mondo del male, coalizzato contro i cristiani, potrà fare a pezzi i loro corpi, ma essi non devono temere perché sono già nella gioia del possesso del regno dei cieli (Mt 5,11-12).
«Gesù chiama alla gioia, paradossalmente, i discepoli vittime di ogni angheria. Essi pagano un prezzo alto l’adesione a Cristo. Ma grande sarà anche la ricompensa celeste ed escatologica. Nessuna meraviglia per questo destino di persecuzione, perché già i profeti sono stati perseguitati; così sarà dei discepoli di Gesù» (G. B.).
Che i profeti e i discepoli di Gesù siano accomunati al suo destino di persecuzione è attestato da Luca 11,49-50: «Per questo la sapienza di Dio ha detto: “Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno”, perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo».
Una comunanza di morte che con la sua lunga scia di sangue ha lambito ben duemila anni di storia cristiana! Il cristiano sa attendere con pazienza la venuta del suo Salvatore. Sa essere paziente imitando la pazienza di Dio. Sa essere perseverante nella fede perché la perseveranza è la porta della salvezza. La perseveranza è la carta di identità del cristiano e allo stesso tempo la carta vincente: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

La gioia della sofferenza: l’avvento cristiano - Maria Ignazia Danieli (Persecuzione in Schede Bibliche Pastorali): Leggiamo in Matteo: «Godete e rallegratevi, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt. 5,12a): il primo verbo usato, khairo, gioire, essere gioiosi, è quello impiegato più frequentemente per esprimere il sentimento che si prova in una situazione favorevole; il secondo termine, agalliao, ha un uso più direttamente riserbato al giudaismo e al cristianesimo, e designa non soltanto la gioia che si prova intimamente, ma una gioia che si esteriorizza e si manifesta: sembra cioè che i due vocaboli convergano ad esprimere la completezza della gioia. I cristiani dunque sono chiamati a gioire nel momento stesso in cui soffrono da parte di quelli che li circondano: questo è un tema proprio del cristianesimo primitivo (Cf. 1Pt. 4,12 ss.; Giac. 1,2.12; Ebr. 10,32-36; Rom. 5,3-5; 2Cor. 4,17; 8,2): “Considerate letizia perfetta, o miei fratelli, quando subite prove d’ogni genere... Beato l’uomo che sopporta la prova, perché una volta approvato riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano…” (Giac. 1,2.12)
Il paradosso cristiano della gioia nella sofferenza viene dalla immersione nella vita stessa di Gesù: Lui è stato respinto e messo a morte, pur tuttavia è il Cristo fedele, umile, risuscitato dopo le sue sofferenze innocenti, quale hanno predetto i profeti. Nel Cristo la rivolta dell’«empio» contro il creatore, di cui parlava il salterio, si denuncia apertamente: ogni discepolo dovrà tenerne conto (Cf. Lc. 14,26-33) e non credersi al di sopra del suo maestro: «Un discepolo non è più del maestro, né un servo più del suo padrone... Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più chiameranno così i familiari!» (Mt. 10,24-25).
Attraverso le persone dei cristiani, la persecuzione ha di mira la persona viva del Cristo risuscitato. È Gesù che Saulo perseguita a Gerusalemme e Damasco (Atti 9,1ss); è il suo corpo - la chiesa - in particolare gli apostoli, che sono colpiti a causa di lui.
La chiesa è chiamata in causa per il suo annuncio del Cristo e per questo non deve rattristarsi (cf. 1Pt. 4,15-16): essa sa bene che i suoi persecutori sono alle prese non con lei, ma con il Signore onnipotente, e per questo deve pregare per loro (Mt. 5, 44; Rom. 12,14), pronta ad accoglierli senza timore e senza trionfo nella sua comunione di salvezza (Atti 9,10-17). Vi è poi un altro elemento a fondamento della gioia cristiana nella persecuzione: Gesù parla di «ricompensa grande nei cieli». Bisogna intendere bene il senso di questa «ricompensa» (alla lettera «misthós» = salario): certo con nessuna opera l’uomo si acquisisce dei meriti in senso stretto presso Dio; le sofferenze non conferiscono un diritto alla beatitudine, ma sono un «titolo» in virtù della predilezione di cui Dio si compiace di circondare quelli che soffrono (Cf. 1Pt. 1,4-5). La ricompensa promessa ai perseguitati è nei cieli, presso Dio, assegnata da lui, «preparata prima» (Cf. Mt. 10,40; Mt. 20,23; 25,34; 1Cor. 2,9; 1Pt. 1,5) e tenuta come «in riserva» per gli eletti (Cf. 1Pt. 1,4; Col. 1,5).

Mario Galizzi (Vangelo secondo Luca): I cristiani [...] si sforzarono di imitare Gesù. Come Gesù cercarono di fare del tempio un luogo di preghiera e di annunzio del Vangelo, ma il rifiuto si fece presto sentire. Arrestarono Pietro e Giovanni e li gettarono in prigione (At 4,3), così fecero pure con Stefano (At 6,12) e più tardi con Paolo (At 21,27-36). Ovunque nel mondo gli ebrei cercarono di impedire la diffusione del Vangelo e trascinarono i suoi annunciatori davanti ai governatori e ai re (At 12,1-5; 19,12-13; ce. 24.27). Ma sia di fronte alla sinagoga, cioè ai tribunali ebraici, sia davanti ai governatori e ai re, i discepoli trovarono - come disse Gesù - una buona occasione per dare la loro bella testimonianza. Nessuno riusciva a controbatterli. Davvero Gesù dava loro bocca e sapienza, cioè quella saggezza che viene dallo Spirito, dono di Gesù (12,11-12; 21,15). E alcuni (quanti?) furono pure uccisi, emarginati, radiati dalla società come Stefano e Giacomo (7,58-60; 12,1); altri fuggendo continuavano a diffondere la parola di Dio (At 8,1). Gesù sin dall’inizio ha continuato e continua a coinvolgere i suoi discepoli nel suo destino per la salvezza del mondo; ed essi, benché traditi e odiati da tutti, anche dagli amici e parenti (21,16-17; vedi 12,52-53), amano perdere la loro vita in questo mondo per poi riaverla, come Gesù (21,19 = 17,33; 9,24; vedi 9,25-26; 12,8-10), nella vita eterna.
La pagina di Luca non è solo una profezia, e non è neppure soltanto un documento del passato, ma un annunzio valido in ogni tempo. Come Gesù, prima di essere il Signore che viene, è passato attraverso la passione (17,24-25), cosi ogni cristiano mentre attende il suo ritorno.

Salvifici doloris n. 25: Cristo non nascondeva ai propri ascoltatori la necessità della sofferenza. Molto chiaramente diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, ... prenda la sua croce ogni giorno», ed ai suoi discepoli poneva esigenze di natura morale, la cui realizzazione è possibile solo a condizione di «rinnegare se stessi». La via che porta al Regno dei cieli è «stretta ed angusta», e Cristo la contrappone alla via «larga e spaziosa», che peraltro «conduce alla perdizione». Diverse volte Cristo diceva anche che i suoi discepoli e confessori avrebbero incontrato molteplici persecuzioni, ciò che - come si sa - è avvenuto non solo nei primi secoli della vita della Chiesa sotto l’impero romano, ma si è avverato e si avvera in diversi periodi della storia e in differenti luoghi della terra, anche ai nostri tempi.
Ecco alcune frasi di Cristo su questo tema: «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza. Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa: io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime».
Il Vangelo della sofferenza parla prima in diversi punti della sofferenza «per Cristo», «a causa di Cristo», e ciò fa con le parole stesse di Gesù, oppure con le parole dei suoi Apostoli. Il Maestro non nasconde ai suoi discepoli e seguaci la prospettiva di una tale sofferenza, anzi la rivela con tutta franchezza, indicando contemporaneamente le forze soprannaturali, che li accompagneranno in mezzo alle persecuzioni e tribolazioni «per il suo nome».
Queste saranno insieme quasi una speciale verifica della somiglianza a Cristo e dell’unione con lui.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questi santi misteri
ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita,
non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.