1 Gennaio 2017

Pensiero del giorno


2Tm 1,9: Dio ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia.

Scorrendo il Concilio Vaticano II si possono cogliere chiare indicazioni per quanto riguarda la vocazione cristiana.
Innanzi tutto, la vocazione dell’uomo è di una grandezza somma (GS 3). È chiamato a una vita superiore (GS 10), ma «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo [...]. Cristo [...] rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22).
Poi, come ci suggerisce la Gaudium et spes, la ragione più alta della dignità umana «consiste nella sua vocazione al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo creatore» (19). Dio è un Dio che continuamente parla all’uomo, lo chiama, gli rivolge l’invito a vivere in intimità con lui: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. ... Rimanete nel mio amore» (Gv 14,23; 15,9).
Tutti gli uomini sono chiamati a questa «unione con Cristo luce del mondo [...]: da lui siamo, per lui viviamo, verso di lui tendiamo» (LG 3). Solo chi «segue Cristo, uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (GS 41), perché soltanto il Cristo «Signore è il fine della storia umana, “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà”, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (GS 45). Solo Cristo è la Via perfetta che conduce l’uomo al Padre, per Cristo abbiamo accesso al Padre in un solo Spirito (LG 4).
«Tutti gli uomini sono chiamati a fare parte del nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando uno e unico, deve estendersi a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si compia il disegno della volontà di Dio, che in principio creò la natura umana una, e decise di raccogliere alla fine in unità i suoi figli dispersi [Gv 11,52]» (LG 13). Gli uomini chiamati da Dio vengono impiegati come pietre vive per la costruzione di un «edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo ... [essi sono] stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui» (1Pt 2,5.9).
Accanto alla vocazione personale, c’è la vocazione di un popolo, scelto per la salvezza di tutte le nazioni: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).
Brevi considerazioni che richiamano l’esortazione dell’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso: «Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,1-3). Parole che fanno eco a quelle dell’apostolo Pietro: «Quindi, fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai. Così infatti vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 1,10-11).
Un cammino vocazionale da percorrere nella fede e non nella visione; nella fedeltà e in umiltà.
Un percorso con una meta da vertigini: la conquista del Regno e della beatitudine eterna, completezza di una vocazione iniziata nella povertà del tempo e maturata nella ricchezza dell’eternità.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che in Cristo, agnello pasquale e luce delle genti, chiami tutti gli uomini a formare il popolo della nuova alleanza, conferma in noi la grazia del Battesimo con la forza del tuo Spirito, perché tutta la nostra vita proclami il lieto annunzio del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


31 Dicembre 2016

Pensiero del giorno


1Cor 7,29-31: Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!


Paolo non è un misogino, né tantomeno disprezza le realtà terresti e non invita «alla indifferenza circa le realtà terrestri. Vuole evitare che ci si insabbi e che si dimentichi il loro carattere relativo in rapporto al Cristo e al suo regno che viene» (Bibbia di Gerusalemme).
Quindi, la sua considerazione è nell’alveo della transitorietà del mondo, perché «passa la figura di questo mondo!» (1Cor 7,31). E non è il tentativo di imporre il Paradiso a discapito del mondo.
Anche per il Concilio Vaticano II «la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni cristiani, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell’attuazione di essi» (GS 21).
Per cui ogni cristiano «deve impegnarsi a compiere bene i propri doveri», infatti sbagliano «coloro che, sapendo che qui non abbiamo una cittadinanza stabile ma cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno» (GS 43).
Il progresso non si oppone al Vangelo, anzi è di grande importanza per il regno di Dio: se «l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente», così «benché si debba accuratamente distinguere il progresso dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio» (Gs 39).
La spiritualità del cristiano non è disincarnata; è seme di speranza, di gioia, di affabilità. Seme gettato nel grande solco che è il mondo, perché si riconcili con Dio e porti frutto a suo tempo a gloria della santissima Trinità.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, che governi il cielo e la terra, ascolta con bontà le preghiere del tuo popolo e dona ai nostri giorni la tua pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


30 Dicembre 2016

Pensiero del giorno

Gv 1,14: Il Verbo si fece carne...

Logos, verbo, è un termine presente nel linguaggio filosofico, nel quale assume una risonanza particolare. Il primo a usare il termine logos fu Eraclito nel VI secolo a. C. il quale gli attribuisce i significati di “legge universale del cosmo” e al tempo stesso di “ragione” umana che comprende tale legge e di “parola” che la esprime.
Nello stoicismo, che si sviluppò dopo il IV secolo a. C., il logos è concepito come la ragione che ordina il mondo, la cui dimensione fisica è rappresentata dal fuoco.
Per Piotino il logos è la funzione di principio attivo e formativo del mondo, emanato direttamente dall’Intelletto divino. Mentre per il filosofo Filone d’Alessandria il logos è un’entità intermedia posta tra Dio e la creazione e corrisponde alla Parola di Dio o intelligenza divina immanente al mondo. Gli autori neotestamentari superano queste speculazioni filosofiche: il Logos è una Persona.
Gesù è Dio, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre (Credo), la seconda persona della Trinità fatta carne che per noi e per la nostra salvezza discese dal cielo (Credo): “alla presenza invisibile e temibile di Dio nella tenda o nel tempio dell’antica alleanza (Es 25,8; cf. Nm 35,34), alla presenza spirituale della sapienza in Israele mediante la legge (Sir 24,7-22; Bar 3,36-4,4), succede, mediante l’incarnazione del Verbo, la presenza personale e sensibile di Dio tra gli uomini” (Bibbia di Gerusalemme). Una presenza che non è stata spezzata dalla morte del Verbo umanato; una presenza che non si è dissolta con il ritorno del Verbo nel seno del Padre; una presenza “personale e sensibile” che continua nei secoli, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Gesù, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli (Credo), è l’«irradiazione» della gloria luminosa del Padre (Es 24,16; Eb 1,3), Luce da Luce (Credo). Ed è l’«impronta» (Eb 1,3) della sua sostanza, come l’impronta esatta lasciata da un sigillo (Gv 14,9).
Gesù è il Verbo di Dio (Ap 19,13). La Parola del Padre: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1 -2). È la Parola per mezzo della quale tutte le cose sono state create (Credo) quelle “nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Col 1,16).
Gesù è il Verbo della vita (1Gv 1,1), il Verbo incarnato, che possiede in tutta la sua pienezza la vita che comunica agli uomini: Egli è venuto perché gli uomini abbiano la vita e “l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Gesù dona la vita eterna (Gv 3,16.3,36; 5,40; 6,33.35.48.51; 14,6; 20,31) con munificenza (Ap 7,17; Mt 25,29; Lc 6,38).
Gesù è “la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1Gv 1,2).
Gesù, Parola del Padre, è la gioia e la letizia del cuore dell’uomo (Ger 15,16). La gioia cristiana ha le sue radici nel cuore trafitto del Risorto. La gioia cristiana ha il suo fondamento “in quello che esclude le cause di tristezza, nella garanzia del perdono di ogni colpa, nell’esclusione della minaccia di una morte definitiva, di una necessità irrimediabile. In definitiva, nella comunione con Dio che supera tutte le cause che si oppongono a una gioia profonda e duratura” (Felipe F. Ramos).
Per noi cristiani “per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui” (1Cor 8,6).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, che nella nascita del tuo Figlio hai stabilito l’inizio e la pienezza della vera fede, accogli anche noi come membra del Cristo, che compendia in sé la salvezza del mondo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



29 Dicembre 2016

Pensiero del giorno

Atti 13,52: I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

La gioia è un dono di Dio (Sal 43,4) ed è causata dai suoi doni, dalla sua legge, dal suo perdono, dalle sue promesse, dalla sua presenza (Is 9,2; Sal 4,8; 13,6; 32,1; 119,14; 126,2-3). Per la sacra Scrittura, Dio è sorgente di ogni gioia; infatti, la gioia, che scaturisce da tutto ciò che non viene da Dio ed a lui non è diretto, passa e si trasforma in tristezza.
Nell’Antico Testamento le esortazioni alla gioia sono molto frequenti. Essa accompagna i vari momenti della vita del popolo d’Israele: dal momento del raccolto (Is 9,2), della vendemmia (Is 16,10), della festa per il matrimonio (Ger 7,34; 16,9) a quello per le vittorie militari (1Sam 18,6; 2Cr 20,27; Est 8,16; 9,17).
Tutte le feste religiose vengono celebrate nella gioia (Ne 8,12; 2Cr 30,21; Esd 6,22) che è un elemento costitutivo del culto (Lev 23,40; Dt 16,11; 1Re 1,40; 2Cr 23,18).
Nell’epoca dell’esilio, lontani dalla terra dei padri, è impossibile avere gioia (Sal 13,7; 14,7; 126,2; Is 61,10). Invece, essa esplode al ritorno dall’esilio (Is 35,10; 51,11; Ger 31,13; 33,11).
In Isaia la gioia avrà una dimensione universale: tutti i popoli ascenderanno gioiosi verso Gerusalemme, guidati dalla sua luce (60,1-5), per adorare il Signore Dio ed essere istruiti nella sua legge (2,2-3), gustando così la «letizia perenne» (61,7) del Signore (66,10-14).
«La gioia d’Israele è diventata gioia di tutti i popoli nell’attesa degli ultimi tempi che inizieranno con il gioioso avvento del Regno messianico (Zac 9,9). Con la nascita di Cristo le profezie si adempiono e il regno messianico viene inaugurato nella gioia, il Vangelo di Luca ci trasmette in modo particolare quel clima di gioia, che la venuta del Salvatore ha diffuso tra gli uomini» (G. Manzoni).
Nel Nuovo Testamento la gioia del credente si manifesta soprattutto in Gesù Cristo, nel suo amore (Mt 25,21; Lc 10,20; Gv4,36; 15,9; Rom 12,12; 2Cor 7,1) e nel suo perdono (Lc 19,6). Gesù dà la vita per i suoi amici, perché la loro gioia sia piena (Gv 15,9ss): attraverso la croce, Gesù torna al Padre (Gv 14,28) e la tristezza dei discepoli ben presto sarà trasformata in una grande gioia che nessuno potrà loro strappare.
Inopinatamente il frutto più bello della croce è la gioia. Il discepolo di Cristo è nella gioia quando partecipa alle sofferenze del suo Signore (1Pt 4,13), e sa gioire anche nelle afflizioni, nelle sofferenze patite per Gesù Cristo e nel martirio (Mt 5,12; 2Cor 13,9; 1Pt1,8; 4,13; 2Gv 12; Eb 10,34; 12,1-2). San Paolo gioisce delle sofferenze che sopporta per i cristiani perché completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24). Così, paradossalmente, per i cristiani, la croce stessa diventa causa di gioia: «Noi incontriamo l’espressione della gioia più pura, più ardente, là dove la croce di Gesù viene abbracciata con l’amore più fedele presso i martiri, ai quali lo Spirito santo ispira, al culmine stesso della prova, un’attesa appassionata della venuta dello sposo» (Paolo VI).
Esiste un particolare rapporto tra la gioia e lo Spirito Santo (At 13,52; Rom 14,17). La gioia è frutto dello Spirito Santo e viene ricordata subito dopo l’amore (Gal 5,22). La gioia, poi, «sembra venire equiparata alla fede [Fil 1,25], è in stretto rapporto con la speranza [Rom 12,12] e con la pace [Rom 14,17]. In questo modo la gioia è per il cristiano il frutto della redenzione; assieme alla pace e alla libertà è un elemento essenziale della realtà salvifica. Ha il suo fondamento nel fatto che l’uomo nella grazia di Cristo è stato redento dalla perdizione del peccato e della morte. La speranza cristiana si orienta verso la gioia piena nell’eternità» (Christa Breuer).
Così per il cristiano la gioia è un imperativo improrogabile e un atteggiamento irrinunciabile.
«Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Fil 4,4-7).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Essere tristi è segno di te, o Signore un segno che ci manchi;
e noi neppure lo sappiamo;
la mancanza di gioia è segno della tua assenza;
uomini o chiese senza gioia sono uomini o chiese senza di te, Signore.
Dio, fonte della gioia, guida i nostri passi sulla tua via,
perché possiamo giungere dove tu ci attendi, e là finalmente cantare solo canti di Gioia.

David Maria Turoldo (Il filo, febbraio 1999)



28 Dicembre 2016

Pensiero del giorno


Mc 13,37: Ciò che dico a voi, lo dico a tutti.


Con queste parole crolla un mito: l’ingannevole pensare di chi ha sempre creduto che i cristiani possono essere divisi in due fasce, da una parte i santi, ai quali sono rivolte tutte le parole del Cristo, e dall’altra parte i poveri, comunissimi mortali che devono arrancare e quindi a loro è rivolta solo una porzione di parole.
Così essi, i comunissimi mortali, quelli che sono stanchi di non camminare, come alludeva argutamente don Alessandro Pronzato, sono dispensati di osservare i precetti evangelici, tra questi quello di affidarsi alla Provvidenza (Mt 6,25-34).
Possono e devono lavorare fino allo sfinimento, anche in nero, perché i tempi sono difficili, e, quindi, possono accumulare, costruire nuovi e più spaziosi magazzini per raccogliervi tutti i loro beni (Lc 12,13-21). A loro è permesso anche la scappatella, perché solo per i perfetti è questa parola di Gesù: «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,27-28). E ancora, la sequela. Non tutti, ma solo i santi possono abbracciare con gioia la croce e seguire fino in fondo il Cristo. E solo i perfetti possono vivere questa parola: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38). Questo precetto draconiano di Gesù può essere vissuto solo dai probi mentre i comunissimi mortali devono pensare ai figli e ai figli dei figli: dolci e adorabili nipotini che ti rubano la vecchiaia; amabili frugoletti che ti tarpano le ali dello zelo pastorale; che ti ingrigiscono la vita e, soprattutto, ti fanno diventare egoista perché nel tuo piccolo mondo esistono solo loro, i tuoi cari nipotini, dimenticando che vi sono al mondo milioni di bambini che elemosinano le tue carezze e anche il tuo pane. Adorabili nipotini che ti condannano ad un eterno, poco esaltante mestiere, quello del baby-sitter. Sei diventato un povero tullulù e non lo vuoi ammettere.
Guai, infine, a parlare della morte e di quella reale possibilità che si chiama Inferno. Chi lo fa è senza dubbio un terrorista. Una obiezione questa che nasconde un terribile inganno. Ma una volta tanto proviamo «a ragionare: [...]; se esiste il rischio di prendere un’infezione, è opportuno avvisarlo. E se esiste l’Inferno, che è il massimo rischio e la massima infezione, non è per tutti un sacrosanto dovere dirlo e ricordarlo, affinché ognuno rifugga da questa eventualità irreparabile? Appare, a questo punto, tanto banale l’osservazione di Leonardo Sciascia: “L’Inferno c’è, se ci credi”. No, fratello! L’Inferno c’è anche se tu non ci credi: l’Inferno è una possibilità della tua libertà» (ANGELO COMASTRI, Come andremo a finire?).
Allora, oggi gridiamolo a tutti: Cristo verrà, verrà anche se non ci crediamo.
E quando verrà tutti dovremo “comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2Cor 5,10). Quindi, non facciamoci «illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,7-8).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli. Per il nostro Signore...


27 Dicembre 2016


Pensiero del giorno
  

1Cor 4,9: Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte.

San Paolo pur approvando il principio che l’operaio evangelico ha diritto al suo salario (Mt 10,10; 1Cor 9,1ss), per sue particolari convinzioni, vi rinunziò (1Cor 9,15) accettando, per sostenersi, il duro lavoro di fabbricatore di tende (Atti 18,3), una precauzione che lo metterà al sicuro da polemiche e da sospetti (2Cor 11,7-8). Un mestiere gravoso che non ostacolò affatto la sua febbrile attività di evangelizzatore. Un’altra nota di rilievo saranno le innumerevoli fatiche e i travagli che accompagneranno il suo ministero apostolico, senza dimenticare le persecuzioni scatenate dagli Ebrei, le catene, le prigionie e i processi che culmineranno con la condanna capitale per decapitazione, così come vuole la tradizione. Le lettere scritte da Paolo alle comunità cristiane custodiscono i dettagli di quanto egli dovette subire o sopportare per il Vangelo.
Una nota la troviamo nella prima lettera ai cristiani di Corinto: «Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, siete già diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi» (4,8-13).
Poi al sesto capitolo della seconda lettera ai Corinzi: «Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero, con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; come sconosciuti, eppure notissimi; come moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (vv. 3-10).
Sfidando i sedicenti apostoli che si vantavano di operare cose strabilianti, l’apostolo, quasi con stizza, scrive ai Corinzi: «Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi - lo dico da stolto - oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,21-28).
Certamente questi particolari non dicono tutto sui patimenti sopportati da Paolo. Forse qualcuno penserà a una esagerazione poetica! Purtroppo per l’Apostolo furono la prosa e il pane di ogni giorno.
Ai Galati, seccato perché facilmente passavano dal Vangelo a pratiche superstiziose o alla inutile osservanza di tradizioni umane, scrive: « Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo [...] D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (6,14-17).
Una vita spesa interamente, senza sconti, per il Vangelo; una vita da imitare; una vita che rimprovera la nostra congenita pigrizia.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nel tuo Figlio sei venuto a cercare e a salvare chi era perduto, rendici degni della tua chiamata:porta a compimento ogni nostra volontà di bene, perché sappiamo accoglierti con gioia nella nostra casa per condividere i beni della terra e del cielo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


26 Dicembre 2016

Pensiero del giorno


Mt 22,36-39: Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose [Gesù]: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso.


La legge mosaica numerava 613 norme, 248 positive e 365 proibizioni. In questa selva di comandamenti, era di capitale importanza statuire una gerarchia per stabilire un primo ed un ultimo. In questo senso va compresa la domanda che venne posta a Gesù, il quale nel rispondere salda due precetti, il primo tratto dal libro del Deuteronomio (6,5), il secondo dal libro del Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore » (19,18).
Quest’ultimo brano descrive l’orizzonte strettamente etnico che l’amore verso il prossimo aveva per l’israelita: l’amore del prossimo prendeva senso dalla solidarietà che doveva legare nell’unità del popolo tutti i discendenti di Israele.
Ma Gesù, saldando i due precetti, voleva far comprendere ben altro al suo interlocutore; una sfumatura che il dottore della legge certamente non sapeva cogliere ed era la Persona del Cristo: Colui che gli stava dinanzi non era venuto per abolire la Legge o i Profeti, ma per dare compimento (Mt 5,7). Praticamente i comandamenti mosaici devono essere letti alla luce della sua Persona e del suo insegnamento: soltanto se si opera questa operazione, allora, la risposta di Gesù, anche per noi cristiani, diventa dirompente di una novità assoluta rispetto alla mentalità giudaica.
Essendo Cristo il sacramento dell’amore del Padre il prossimo va amato come il Padre ama gli uomini. E poiché per amore Lui si è fatto uomo, il prossimo va amato come il Padre ama il Figlio perché nel Figlio v’è ogni uomo (Gv 17,21).
Gli altri, «il prossimo, te stesso sono mistero di Dio, dono di Dio, Vangelo di Dio. Gli altri sono Gesù. In altre parole: tutti gli uomini, io-tu-gli altri sono destinatari e soggetti in Cristo Gesù dell’amore del Padre. Amati da Dio, amiamoci, a vicenda. Questo amore è veramente imitazione di Gesù, che ci ha amato e ha dato se stesso per noi. Dio viene concretamente incontro a noi per elemosinare l’amore negli altri, che incontriamo; negli altri, con cui dividiamo la nostra esistenza; negli altri, che rappresentano lo spessore sacramentale da superare per vedere Dio» (Don Tullio Cappelli).
L’intenzionalità di unire i due comandamenti vuole suggerire una cosa molto elementare: l’amore totalitario verso Dio, rischierebbe di restare relegato nella sfera della fantasia e del sentimentalismo, se non lo si annodasse all’attenzione del mondo.
Praticamente ai cristiani viene negato ogni alibi per le loro continue distrazioni e peccati di omissione: da quella risposta in poi il discepolo non può non accorgersi del mondo. Non può non accorgersi di questa presenza, a volte fastidiosa, e non può non lasciarsi coinvolgere dai suoi travagli, dalle sue pene, dalle sue sofferenze e dai suoi dolori.
Bisogna guardare il mondo e gli uomini con gli occhi dei Tre e amarli con il loro cuore.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli, per servire te solo e amare i fratelli secondo lo Spirito del tuo Figlio, facendo del suo comandamento nuovo l’unica legge della vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


25 Dicembre 2016

Pensiero del giorno

Fil 1,21-24: Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.

Il “desiderio del cielo” e la “certezza di restare sulla terra” dell’Apostolo Paolo possono suggerire due riflessioni, entrambe impegnative e fondanti, per il nostro cammino cristiano.

La prima riflessione è quella che ci fa comprendere che l’impegno nel mondo, a favore degli uomini, fa parte anche di quel progetto di santità a cui deve aspirare il cristiano.
La santità che tende ad alienarsi dalle realtà terrene è una santità che puzza di ingenuità ed è altrettanto indubbia: “la vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella Chiesa e nel mondo” (Christifideles Laici,17).
Quello di Paolo è il volto e il cuore del vero discepolo di Cristo: un uomo proteso decisamente verso le realtà del futuro e, allo stesso tempo, un uomo veramente impegnato a costruire una realtà temporale che sia dimora di Dio e degli uomini.
Se è vero che i cristiani non devono conformarsi “alla mentalità di questo secolo” (Rom 12,2), è anche vero che tutti i discepoli sono chiamati ad impegnarsi a fondo perché il mondo sia reso sempre più “conforme alla eminente dignità dell’uomo” (GS, 91).
La santità e il mondo non sono due realtà che si contrappongono, ma sono delle realtà che si lievitano a vicenda.
“I cristiani in cammino verso la città celeste, devono ricercare e gustare le cose di lassù, questo tuttavia non diminuisce, ma anzi aumenta l’importanza del loro dovere di collaborare con tutti gli uomini per la costruzione di un mondo più umano” (GS, 57).
Una santità che va a vantaggio del mondo: tutti “i fedeli cristiani, di qualsiasi stato o ordine, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: santità che promuove un tenore di vita più umano anche nella stessa società terrena” (LG, 40).
Una santità che si muove incessantemente attorno a due poli: la gloria di Dio e il servizio del prossimo. I cristiani, infatti, per raggiungere la perfezione devono impegnare le “forze ricevute secondo la misura del dono di Cristo, affinché, seguendo le sue orme e divenuti conformi alla sua immagine, fedelmente obbedienti alla volontà del Padre, si dedichino con tutto il cuore alla gloria di Dio e al servizio del prossimo” (LG, 40).

La seconda riflessione va bene per noi; per noi che pensiamo di essere tanto autonomi da Dio da ritenere di poter programmare tutto.
La riflessione di Paolo ci spinge invece a ricercare unicamente la volontà di Dio. Possiamo accampare soltanto dei desideri, ma quello che conta poi è la volontà di Dio.
L’apostolo candidamente ammette di trovarsi in una situazione imbarazzante: non sa bene che cosa desiderare e addirittura invocare nella preghiera: se la possibilità di continuare la missione ricevuta da Dio e l’opera intrapresa, oppure il vantaggio personale rappresentato dalla fine del lavoro e dalla morte con il conseguente dono della vita eterna. Non sa cosa scegliere: “Sono messo alle strette infatti tra queste due cose”. In ogni caso, quello che conta per l’Apostolo Paolo è fare la volontà di Dio: morire o vivere, l’unica cosa che conta non sta in una o nell’altra soluzione, ma nel fare la volontà di Dio.
La vita cristiana è una progressiva scoperta, conoscenza e attuazione della volontà di Dio: “Padre, mi affido alle tue mani, disponi di me secondo la tua volontà qualunque essa sia. Io ti ringrazio. Sono disposto a tutto. Accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me e in tutte le creature” (Charles de Foucauld).
  
Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con il Cristo, nostro Salvatore. Egli è Dio, e vive e regna con te...


 24 Dicembre 2016

Pensiero del giorno

Lev 16,29-30: Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilierete, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi, poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore.

Il popolo d’Israele, il decimo giorno del settimo mese, celebrava un’austera festa: il giorno dell’espiazione (Yom Kippur - Lev 16). In questo grande giorno santificato dal digiuno, dall’astensione da ogni attività non religiosa e dalle esortazioni al pentimento, veniva celebrata una liturgia di purificazione in cui si otteneva la purificazione di persone e cose, il perdono delle colpe commesse e la riconciliazione con Dio. La Legge mosaica pretendeva però dai suoi fedeli una conversione dello spirito e del cuore.
Dall’espiazione Israele si aspettava la liberazione da ogni macchia spirituale, la remissione dei peccati, il ritorno alla santità chiesta dal suo Dio santo.
“L’esigenza del perdono nasce nell’uomo da quella profonda radice di inquietudine che è costituita in lui dalla coscienza del peccato: nasce come richiesta dell’uomo a Dio di essere purificato e redento. I sacrifici espiatori dell’Antico Testamento, le prescrizioni rituali così minutamente descritte nei testi biblici, esprimono questa ricerca radicale, profonda, questo desiderio, si direbbe, mai saziato di essere «sciolti» dalle catene del male, vendicati dal potere delle tenebre, redenti dalla misericordiosa bontà del Creatore” (Maria Ignazia Danieli).
Però il peccatore poteva ottenere il perdono, la remissione dei peccati, solo a una condizione: pentirsi di aver offeso Dio, detestare dal profondo del cuore il peccato  commesso.
In questo atteggiamento interiore, che la Bibbia definisce «cuore contrito ed umiliato» e che è principio di mutamento di vita, sta la premessa necessaria perché Dio conceda il perdono.
Se la colpa veniva perdonata, a volte, la pena poteva non essere totalmente rimessa: il peccato di Davide era stato perdonato e la sua vita risparmiata, ma il peccato venne punito con la morte del figlio di Betsabea (Cf 2Sam 12,13). Il perdono del peccato è una delle caratteristiche del futuro messianico.

Nel Nuovo Testamento fin dalla predicazione di Giovanni la «buona novella» è che il perdono di Dio viene proclamato e concesso a chi vi si dispone con un battesimo di penitenza (Cf Mc 1,4), con una volontà di conversione. Gesù non solo proclama questa buona novella di perdono ma con le parole e con le opere la esercita, dimostrando a tutti che Dio non vuole che alcuno si perda. Gesù ha il potere di perdonare i peccati e ciò è reso evidente dalla sua morte, che è presentata come l’atto redentore definitivo, vera causa del perdono (Ef 4,32). Gesù comunicherà il potere di rimettere i peccati agli Apostoli (Cf Gv 20,21-23) perché costituiscano una «nuova alleanza» per il perdono dei peccati nel suo Sangue, rendendo gli uomini partecipi della sua morte e risurrezione. Se vogliamo trovare una differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento possiamo trovarla nel fatto che nel Nuovo il perdono dei peccati viene per mezzo di Gesù (Cf At 13,38; Ef 1,7; Col 1,14; 1Gv 2,12).
Anche se viene esatto dal peccatore il pentimento, la fede, una vita nuova, il perdono dei peccati è opera della pazienza di Dio (Cf Rom 3,25): è un libero e gratuito dono di Dio, non dovuto ai meriti o al pentimento del peccatore, ed è ottenuto dal peccatore per mezzo di Cristo, unicamente per mezzo della sua morte redentrice.
Ecco, quindi, per il discepolo l’esigenza di superare le prescrizioni dell’Antico Testamento.
Ora v’è una nuova Legge: amare, perdonare come ama e perdona Dio. Comportarsi diversamente smentisce sul piano dei fatti ogni sforzo di evangelizzazione e compromette la credibilità stessa del Vangelo.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai creato e governi l’universo, fa’ che sperimentiamo la potenza della tua misericordia, per dedicarci con tutte le forze al tuo servizio. Per il nostro Signore...