1 Marzo 2020

I Domenica di Quaresima

Gen 2,7-9; 3,1-7; Salmo 50 [51]; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

Colletta: O Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura: I due capitoli del libro della Genesi, che formano la lettura odierna, vanno letti separatamente e, allo stesso tempo, in continuità. Il II capitolo descrive il progetto di Dio sull’uomo: è una creatura; è il signore, il vertice della creazione, il custode dell’opera di Dio; è stato creato per essere intimo, familiare di Dio; è stato creato come un essere-con, in relazione-con, la comunione sponsale uomo-donna è la prima fondamentale forma di comunità umana. Il III capitolo descrive il peccato dell’uomo che, al dire della Bibbia di Gerusalemme, è consistito nella pretesa di «decidere da se stessi ciò che è bene e male, e di agire di conseguenza: una rivendicazione di autonomia morale con la quale l’uomo rinnega il suo stato di creatura [Is 5,20]. Il primo peccato è stato un attentato alla sovranità di Dio, una colpa di orgoglio» (nota a Gen 2,17). Un peccato che ha segnato rovinosamente e per sempre la storia e le sorti dell’uomo.

Salmo: Teodoreto: Natan ha già detto a David che il suo peccato è stato perdonato, ma: ...il mio peccato davanti a me è sempre.

II Lettura: Due Adamo si contrappongono: dal primo Adamo sono venuti il peccato e la morte per tutta l’umanità, ed essa è con lui solidale nella triste sorte; dal secondo Adamo, Gesù Cristo, sono venuti la salvezza e la vita per tutta l’umanità, a lui associata mediante la fede.

Vangelo: Il ministero di Gesù inizia con le tentazioni nel deserto, con le quali il Signore rovescia la sconfitta di Adamo, vincendo il «forte» (Lc 11,21-22) nei confini del suo stesso regno. Subito dopo il battesimo lo Spirito di Dio era sceso sul Cristo (Mt 3,13-17), ora, prima che Egli inizi la sua missione pubblica, lo conduce «nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1). La menzione dello Spirito, «oltre a stabilire un collegamento intimo con il battesimo del Giordano, conferma soprattutto che è in obbedienza al disegno del Padre che Gesù va a questa battaglia. La via di Gesù porta fin dall’inizio al deserto dove c’è Satana. Come Adamo, Gesù è messo di fronte alla tentazione subito dopo aver ricevuto la missione da Dio: ma a differenza di Adamo, egli supera la prova e ripristina il paradiso» (Maria Ignazia Danieli).

Dal Vangelo secondo Matteo 4,1-11: In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano

Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto - Dopo aver ricevuto il Battesimo, Gesù viene condotto dallo Spirito Santo nel deserto per essere tentato dal diavolo. Dal greco diabolos, il diavolo, padre della menzogna (Cf. Gv 8,44), è colui che tenta ed incita l’uomo al male. È il tentatore (Cf. Gen 3,1ss), l’accusatore (Cf. Giob 2,1; Zac 3,1; Sal 109,6; Ap 12,10). È «il principe di questo mondo» (Gv 12,31), l’avversario di Dio e degli uomini. Un «agente oscuro e nemico ... un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa» (Paolo VI, Udienza generale, 15 Novembre 1972).
Il deserto è il luogo dell’incontro con Dio, il luogo dove risuona la Parola di Dio (Cf. Os 2,16). Luogo di purificazione (Cf. Lev 16,21; Ger 31,2; Mt 3,21), nel deserto Israele ha provato la fame e la sete, ha subito la tentazione di rimpiangere le comodità dell’Egitto, ha tentato Dio, ha sperimentato l’amore provvidente di Dio (Cf. Es 15-17). È la dimora del Maligno e delle sue legioni (Cf. Lev 16,8;17,7; Is 13,21; 34,14: Bar 4,35; Ap 18,2; Mt 8,28, 12,43).
In questo luogo, così denso di ricordi, Gesù subisce tre tentazioni, «numero altamente simbolico; indica la pienezza della prova e la perfezione che consegue chi l’ha superata» (Ortensio Da Spinetoli).
Gesù digiuna «quaranta giorni e quaranta notti»: questa nota ricorda il digiuno di Mosè sul monte Sinai (Cf. Es 24,18; 34,28) e quello del profeta Elia nel deserto (Cf. 1Re 19,8), ma forse qui l’evangelista vuole riferirsi ai quarant’anni durante i quali Israele fu tentato nel deserto (Cf. Dt 8,2).
Al termine del digiuno in Gesù insorge la sensazione della fame ed è su questa necessità fisica che fa leva il tentatore suggerendo al «figlio di Maria» (Mc 6,3) di dare una dimostrazione eclatante della sua figliolanza divina trasformando le pietre in pani. Nel pensiero del tentatore, «come del resto nella mente dei Giudei che sotto la croce lanceranno al Crocifisso la stessa sfida [Cf. Mt 27,40], l’espressione “figlio di Dio” non è compresa nel suo senso pieno, ma alla maniera dell’Antico Testamento, cioè nel senso di una figliolanza morale» (Angelo Lancellotti).
La risposta di Gesù è netta e non lascia spazio a una replica. Il ricorso alla Parola di Dio, frequente nei circoli rabbinici, costituiva l’argomento decisivo in ogni discussione.
Gesù cita Dt 8,3 e sostanzialmente vuole suggerire al tentatore che il pane «non è l’unico né il principale mezzo per sostenere la vita, ma la parola di Dio è mezzo di sostentamento molto più efficace di qualsiasi pane. Questo infatti non impedisce la morte, la parola di Dio invece dà la vita eterna. Ora l’opera del Messia deve essere diretta non a sostentare una vita destinata a finire, ma a dare la vita eterna» (Benito Camporeale).
Nella seconda tentazione, il tentatore fa ricorso alla sacra Scrittura. Se Gesù avesse accettato la proposta del diavolo avrebbe costretto Dio a fare un miracolo per salvarlo da una caduta rovinosa. Gesù respinge questa seconda tentazione citando Dt 6,16: è un chiaro monito a non tentare Dio così come aveva fatto Israele nel suo cammino nel deserto. Stoltamente, il popolo assetato aveva messo alla prova la potenza e la provvidenza di Dio esigendo da lui il miracolo dell’acqua.
Con la terza tentazione, il tentatore getta via la maschera svelando le sue vere intenzioni: poiché l’inaugurazione del Regno di Dio da parte di Gesù avrebbe segnato la dissoluzione dell’impero di Satana, egli tenta di distoglierlo dal portare a compimento la sua missione, offrendogli un messianismo politico. Gesù, non prestando alcuna attenzione all’idolatria del potere e della gloria umana, caccia via il tentatore il quale cede alla potenza del Cristo ritirandosi sconfitto, ma, come lascia trasparire l’evangelista Luca, per ritornare al tempo fissato (Cf. Lc 4,13).
Alla fine, gli angeli si accostano a Gesù e lo servono (il significato è proprio del verbo diakoneo, cioè «servire a tavola»). Gli angeli portano a Gesù quel cibo che in precedenza aveva rifiutato di procurarsi cavalcando la spettacolarità del miracolismo (Cf. 1Re 19,5-8).

La creazione - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): La prima lettura ci parla della creazione. La creazione del mondo e dell’uomo é il primo punto del piano salvifico (Sal 135,5-15). Il piano di Dio è unico ed eterno. Non fu fatto e rifatto. Niente ripensamenti o resipiscenze nel Creatore. Da sempre stabilì per l’uomo un destino affascinante (Sal 8,5-8), quello della sua condizione soprannaturale.
La creazione è comandata dal proposito eterno di Dio di eleggere l’uomo a figlio suo: Ci ha scelti in Cristo come figli prima della creazione del mondo (Ef 1, 3-6). L’esaltazione dell’uomo doveva raggiungere il suo culmine nel Cristo (Ef 1,7-10). Solo nel Cristo infatti si conosce in pienezza che cosa è l’uomo e solo nella dottrina del maestro divino vengono spiegati tutti i titoli nobiliari del1’uomo. E nella luce di questa programmazione eterna che si coglie tutto il significato della creazione (Col 1,15-17). Essa appare come la prima pedina nel compimento delle intenzioni divine di costituire il regno della sua gloria, un regno nel quale, col Cristo, l’uomo sarebbe stato il re chiamato ad assidersi alla destra di Dio.
L’uomo fu creato buono nell’anima, nel corpo, e in tutto le sue potenze e aspirazioni. Buono fu fatto il mondo nel quale l’uomo doveva vivere ed operare (Gn 1,31; Sal 103,24; Qo 3,11; Sir 39,33; 1Tm 4,4).
La creazione fu il primo dono di Dio all’uomo. Dio mise a disposizione della sua creatura tutto (Gn 1,28; Sap 9,2-3) perché nell’esercizio responsabile della sua libertà se ne servisse per conseguire il destino che gli aveva assegnato. Su questo meraviglioso universo, pensato e attuato da Dio, nulla vi era di difettoso fino a quando l’uomo non peccò. Il peccato fu il crollo tragico di questo edificio incantevole (Sap 2,24). Dio non rinunciò per questo al suo piano e mandò il Redentore. Se grande era stato il male, la riparazione compiuta da Cristo fu infinitamente più grande. Dio non si lasciò vincere dal male, ma volle stravincere nel bene.

Le tentazioni di Gesù - Angelico Poppi: La prova del pane è strettamente connessa con il digiuno di Gesù. «Se sei figlio di Dio» implica la messianità di Gesù. Appunto perché Messia può esigere un miracolo per non morire di fame. Gesù però si abbandona alla volontà del Padre con somma fiducia anche nella sofferenza. A lui basta essere fedele a Dio e aderire alla sua parola. Alla bramosia d’ogni uomo d’afferrarsi alle cose, alla mania di possedere Gesù oppone la fiducia nella bontà del Padre. La prova del pinnacolo tende a sollecitare Gesù a una verifica. Come Messia, cioè come giuste per eccellenza, aveva il diritto a una protezione speciale degli angeli, come recitava il Salmo 92,11s. Non si tratta di esibizionismo, perché non si parla di alcuno spettatore. Ma mentre gli Israeliti misero alla prova Dio ancora una volta, esigendo l’acqua miracolosa nel deserto, Gesù non ha la minima esitazione dell’amore del Padre. Egli rifiuta un messianismo miracoloso e accetta di percorrere la via oscura e faticosa del Servo sofferente. La terza prova manifesta l’ambizione smisurata di Satana che pretende di rivaleggiare con Dio. Ma mentre gli Israeliti, suggestionati dallo splendore della ricchezza e del potere, si prostrarono dinanzi agli idoli pagani, Gesù opta decisamente per un messianismo umile e sofferente in contrasto con la concezione corrente di un Messia trionfatore e dominatore. Anche ammettendo l’oggettività d’una prova all’inizio del ministero di Gesù, non è necessario pensare a spostamenti locali. Si tratta d’un processo intimo nello spirito di Gesù, probabilmente drammatizzato nella tradizione ecclesiale per contrapporre la sua vittoria sul Maligno quale nuovo Israele in contrasto con l’infedeltà del popolo eletto, che non corrispose all’amore di Dio.

 Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento,
fonte di vita per la tua Chiesa,
sia per noi pegno sicuro di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 



29 Febbraio 2020

Sabato dopo le Ceneri

Is 58,9b-14; Sal 85 (86); Lc 5,27-32

Papa Francesco (Messaggio per la Quaresima 2020): Il Mistero pasquale, fondamento della conversione - La gioia del cristiano scaturisce dall’ascolto e dall’accoglienza della Buona Notizia della morte e risurrezione di Gesù: il kerygma. Esso riassume il Mistero di un amore «così reale, così vero, così concreto, che ci offre una relazione piena di dialogo sincero e fecondo» (Esort. ap. Cristus vivit , 117). Chi crede in questo annuncio respinge la menzogna secondo cui la nostra vita sarebbe originata da noi stessi, mentre in realtà essa nasce dall’amore di Dio Padre, dalla sua volontà di dare la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Se invece si presta ascolto alla voce suadente del “padre della menzogna” (cfr Gv 8,45) si rischia di sprofondare nel baratro del nonsenso, sperimentando l’inferno già qui sulla terra, come testimoniano purtroppo molti eventi drammatici dell’esperienza umana personale e collettiva.
In questa Quaresima 2020 vorrei perciò estendere ad ogni cristiano quanto già ho scritto ai giovani nell’Esortazione apostolica Crisrus vivit: «Guarda le braccia aperte di Cristo crocifisso, lasciati salvare sempre nuovamente. E quando ti avvicini per confessare i tuoi peccati, credi fermamente nella sua misericordia che ti libera dalla colpa. Contempla il suo sangue versato con tanto affetto e lasciati purificare da esso. Così potrai rinascere sempre di nuovo» (n. 123). La Pasqua di Gesù non è un avvenimento del passato: per la potenza dello Spirito Santo è sempre attuale e ci permette di guardare e toccare con fede la carne di Cristo in tanti sofferenti.

Dal Vangelo secondo Luca 5,27-32: In quel tempo, Gesù vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì. Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla numerosa di pubblicani e d’altra gente, che erano con loro a tavola. I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: «Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano».

Seguimi - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 30 Perché voi mangiate e bevete con i pubblicani ed i peccatori? Il termine «peccatori», evitato dall’evangelista nel versetto precedente, qui invece è mantenuto, perché è pronunziato dagli avversari del Maestro; per i Farisei e gli Scribi erano «peccatori» coloro che non osservavano la Legge mosaica e la interpretazione che essi stessi ne davano. Luca attenua il tono dell’accusa ricorrendo ad una formulazione differente dalla frase; nel terzo vangelo l’accusa non è rivolta direttamente a Gesù, come fanno Matteo e Marco («Perché egli mangia e beve con i pubblicani e con i peccatori?», Mc., 2,16), bensì ai suoi discepoli («perché voi mangiate e bevete con...»).
versetto 32 Io non sono venuto a chiamare i giusti etc.; sul piano spirituale i giusti sono considerati come persone sane che non hanno bisogno del medico. La dichiarazione è spinta all’iperbole a motivo dell’ambiente in cui è stata pronunziata; in realtà Gesù è venuto per tutti, poiché tutti, anche coloro che come i Farisei si ritenevano giusti, avevano bisogno della sua salvezza; in quella circostanza tuttavia il Maestro giudicò necessario di proporre chiaramente davanti agli avversari lo scopo della sua venuta affermando esplicitamente di essere venuto per chiamare i peccatori. Le parole del Salvatore racchiudono anche un sottile e pungente rimprovero contro i Farisei che andavano orgogliosi della propria giustizia (si veda il commento a Mc., 2,17). Al pentimento (εἰς μετάνοιαν); in Luca soltanto si legge questa precisazione chiarificatrice; l’espressione indica che la chiamata dei peccatori implica da parte loro un ravvedimento ed un pentimento che li rendono docili a Dio ed alla sua volontà. Nel terzo vangelo questo «pentimento» dell’uomo trova una accentuazione particolare (cf. Lc., 15,7,10).

Conversione ed ingresso nel Regno di Dio - J. Giblet e P. Grelot: 1. Gesù non si accontenta di annunziare l’approssimarsi del regno di Dio, ma incomincia a realizzarlo con potenza; con lui il regno si inaugura, quantunque esso sia ancora volto verso compimenti misteriosi. Ma l’appello alla conversione lanciato dal Battista conserva nondimeno tutta la sua attualità: Gesù lo riprende in termini propri all’inizio del suo ministero (Mc 1,15; Mt 4,17). Egli è venuto a «chiamare i peccatori alla conversione» (Lc 5,32); questo è uno degli aspetti essenziali del vangelo del regno. L’uomo che prende coscienza del suo stato di peccatore può d’altronde rivolgersi a Gesù con fiducia, perché «il figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati» (Mt 9,6 par.). Ma il messaggio di conversione urta contro la sufficienza umana in tutte le sue forme, dall’attaccamento alle ricchezze (Mc 10,21-25) fino all’orgogliosa sicurezza dei farisei (Lc 18,9). Gesù si leva come il «segno di Giona» in mezzo ad una generazione malvagia, meno ben disposta nei confronti di Dio di quanto lo fosse un tempo Ninive (Lc 11,29-32 par.). Perciò egli pronuncia contro di essa una requisitoria piena di minacce: gli uomini di Ninive la condanneranno al momento del giudizio (Lc 11,32); Tiro e Sidone avranno una sorte meno severa delle città del lago (Lc 10,13ss par.). Di fatto l’impenitenza attuale di Israele è il segno dell’indurimento del suo cuore (Mt 13,15 par.; cfr. Is 6,10). Se non modificano la loro condotta, gli uditori impenitenti di Gesù periranno (Lc 13,1-5), ad immagine del fico sterile (Lc 13,6-9; cfr. Mt 21,18-22 par.).
2. Gesù, quando esige la conversione, non fa allusione alcuna alle liturgie penitenziali. Diffida persino dei segni troppo appariscenti (Mt 6,16ss). Ciò che conta è la conversione del cuore che a diventare come bambini (Mt 18,3 par.). È, in seguito, lo sforzo continuo per «cercare il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33), Cioè per regolare la propria vita secondo la nuova legge. L’atto stesso della conversione è evocato in parabole molto espressive. Implica una volontà di cambiamento morale, ma è soprattutto umile appello, atto di fiducia: «Mio Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). La conversione è una grazia dovuta all’iniziativa divina che previene sempre: è il pastore che muove alla ricerca della pecora smarrita (Lc 15,4 ss; cfr. 15,8). La risposta umana a questa grazia è concretamente analizzata nella parabola del figliuol prodigo, che mette in sorprendente rilievo la misericordia del padre (Lc 15,11-32). Infatti il vangelo del regno comporta questa rivelazione sconcertante: «C’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza» (Lc 15,7.10). Anche Gesù riserva quindi ai peccatori un’accoglienza che scandalizza i farisei (Mt 9,10-13 par.; Lc 15, 2), ma provoca conversioni; ed il vangelo di Luca si compiace nel riferire in modo particolareggiato taluni di questi ritorni, come quello della peccatrice (Lc 7,36-50) e quello di Zaccheo (19,5-9).

La conversione: esigenza anche per le comunità cristiane - Giuseppe Barbaglio: Destinatari dell’appello a convertirsi non sono soltanto i non-credenti, ma anche quanti si sono dimostrati incoerenti con la loro scelta di fede. Così Matteo rivolge alla sua comunità l’invito a farsi umili come i bambini: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cie1i» (l8,3), Non dovevano mancare infatti nella sua chiesa gli altezzosi pronti a disprezzare «i piccoli», cioè i fratelli deboli e marginali (cf. 18,5ss).
Da parte sua, Paolo finalmente riconciliato con la comunità di Corinto, può gioire dell’efficacia dei suoi duri interventi che hanno provocato i credenti corinzi a convertirsi recuperando una doverosa fedeltà all’apostolo e al suo insegnamento (2Cor 7,9-10). Invece, precedentemente, nel pieno del confronto polemico, egli si era rammaricato dell’impenitenza di molti corinzi (2Cor 12,21).
Nella 2Tm il destinatario dello scritto viene esortato a non essere violento quando riprende gli oppositori, «nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi» (2,25).
Scrivendo ai capi delle chiese asiatiche di Efeso, Pergamo, Tiatira, Sardi, l’autore dell’Apocalisse li esorta in toni ultimativi a ritrovare la perduta fedeltà cristiana: «Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto» (2,5; cf. 2,l6.2l-22; 3,3).
La lettera agli Ebrei é l’unico scritto del Nuovo Testamento che mostra una posizione rigorosa. Chi rinnega a fondo con l’apostasia la propria decisione di fede in Cristo, si sbarra con le sue mani la strada alla conversione: «Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro. Tuttavia se sono caduti, é impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento che ricrocifiggono da se stessi [ns. trad.] il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia» (6,5-6).

Benedetto XVI (Udienza Generale 30 Agosto 2006): [...] Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore. [...].
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La partecipazione a questo sacramento,
Dio onnipotente, ci liberi da ogni colpa
e ci ottenga dalla tua misericordia
la conversione del nostro spirito.
Per Cristo nostro Signore.






28 Febbraio 2020

Venerdì dopo le Ceneri

Is 58,1-9a; Sal 50 (51); Mt 9,14-15

Giovanni Paolo II (Messaggio per la Quaresima 1991): In questo tempo di Quaresima, è bene riflettere sulla parabola del ricco epulone e di Lazzaro. Tutti gli uomini sono chiamati a partecipare al banchetto dei beni della vita, eppure tanti giacciono ancora fuori la porta, come Lazzaro, mentre «i cani vengono a leccarne le piaghe» (Lc 16, 21).
Se ignorassimo l’innumerevole moltitudine di persone umane che non solo sono prive dello stretto necessario per vivere (cibo, casa, assistenza medica), ma non hanno neppure la speranza di un futuro migliore, diventeremmo come il ricco epulone che finge di non vedere il mendicante Lazzaro (cf. Lc 16, 19-31).
Dobbiamo quindi tenere fissa negli occhi l’immagine della miseria sconvolgente, che affligge tante parti del mondo; e pertanto, con questa intenzione, ripeto l’appello che – in nome di Gesù Cristo e a nome dell’intera umanità – ho rivolto a tutti gli uomini durante la mia ultima visita nel Sahel: «In che modo la storia giudicherà una generazione che, avendo tutti i mezzi per nutrire (quelle popolazioni) del pianeta, con indifferenza fratricida si è rifiutata di farlo? … Come non può essere deserto un mondo, in cui la povertà non incontra un amore capace di dare la vita?» (cf. L’Osservatore Romano, 31 gennaio 1990, p. 6).
Volgendo il nostro sguardo a Gesù Cristo, il buon Samaritano, non possiamo dimenticare che - dalla povertà della mangiatoia alla totale spogliazione della Croce - egli si è fatto uno con gli ultimi. Ci ha insegnato il distacco dalle ricchezze, la fiducia in Dio, la disponibilità alla condivisione. Ci esorta a guardare i nostri fratelli e sorelle, che sono nella miseria e nella sofferenza con lo spirito di chi - povero - sa di dipendere totalmente da Dio e di aver bisogno assoluto di Lui. Il modo in cui ci comporteremo sarà la vera, autentica misura del nostro amore per Lui, fonte di vita e di amore, e segno della nostra fedeltà al suo Vangelo. La Quaresima accresca in tutti questa consapevolezza e questo impegno di carità, perché non passi invano ma ci porti, veramente rinnovati, verso il gaudio della Pasqua.

Dal Vangelo secondo Matteo 9,14-15: In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno».

Lo sposo è con loro - Il digiuno è una pratica penitenziale onnipresente in tutte le religioni. Un rito celebrato sopra tutto per attenuare l’arroganza e l’orgoglio, ma che si imponeva in alcune circostanze particolari: per esempio, per scongiurare un castigo divino o per sfuggire a eventi nefandi. Per molti Farisei era una delle tante pratiche escogitate dalla loro affettata religiosità per accampare diritti dinanzi al Signore e carpirne in questo modo la benevolenza (Lc 18,9-14).
Gesù condanna l’esibizionismo, l’ostentazione farisaica (Mt 6,16-18) non il digiuno che, come tutte le altre pratiche penitenziali, deve essere celato da un atteggiamento gaio, sereno, spontaneo: «Tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto» (Mt 6,17). No, quindi, a facce lugubri, tristi.
No, sopra tutto, a comportamenti ostentati unicamente per accaparrarsi le lodi e gli applausi degli uomini (Mt 6,1; 23,5). La religiosità cristiana è fatta di una spiritualità lieta, festante, briosa: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5) .
Il Vangelo è la buona notizia che va annunciata con una faccia ilare, sorridente.
Il peccato delle guide spirituali del popolo d’Israele è quello di non essere state capaci di cogliere in Gesù lo sposo dell’umanità. Con Gesù «l’attesa di Dio è colmata: “sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta!” [Ap 19,7]. Gesù è lo sposo che porta a compimento l’alleanza tra Dio e il suo popolo annunciata dal profeta Osea. I tempi sono dunque compiuti. Non è più il tempo per il legalismo, non è più il tempo per leggere il presente con gli occhi del passato, ma con quelli del futuro inaugurato da Gesù. Non è più il momento di digiunare, come all’epoca in cui si preparava ancora l’incontro con Dio, ma è il momento della festa. Egli è ormai qui!» (Anselmo Morandi).
Presente lo Sposo gli invitati non possono digiunare, solo nei giorni successivi alla sua morte potranno farlo: «Il primo periodo è un continuato convito, non ci può essere posto per le astensioni e le privazioni; il secondo è un tempo di lutto, quindi anche di macerazioni. Il digiuno appare quindi un rito di condoglianze che la comunità cristiana celebra per sentirsi vicina al Cristo morto e sepolto» (Ortensio Da Spinetoli).
Sono gli orpelli a dare fastidio, ad appesantire i cuori, ad intralciare il cammino; sono le tradizioni umane che deturpano il messaggio evangelico spogliandolo della sua bellezza e della sua novità.
Fuori immagine, non basta più essere buoni giudei, occorre diventare cristiani: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).

Il digiuno rito di espiazione, conversione, implorazione - Roberto Tufariello e Giuseppe Barbaglio: Digiuno non è solo privarsi del nutrimento necessario; digiunare vuol dire, in maniera generale, «umiliarsi», cioè assumere il comportamento che conviene alla creatura peccatrice. L’idea di espiazione del peccato e sempre presente nello slancio che porta a digiunare.
Il digiuno dunque é una penitenza e una supplica con le quali si vuole pacificare Dio, allontanare i suoi flagelli, talvolta scoprire la causa dell’ira divina.
Davide aveva implorato col digiuno la pietà di Dio per il figlio nato dal suo adulterio (2Sam 12,15-16-22). Acab, digiunando, allontana da sé la maledizione annunciatagli dal profeta Elia (1Re 21,27-29).
Neemia, venendo a conoscenza della triste condizione dei compatrioti rimasti a Gerusalemme, si abbandona al pianto, digiuna, si rifugia davanti a Dio, chiedendo perdono per i peccati commessi da Israele (Ne 1,4ss).
Chi digiuna, privandosi del cibo che sostiene e alimenta la vita, attesta di non essere nulla davanti al suo Creatore e di aspettare ormai tutto da lui. Il digiuno fa parte del comportamento tipico di chi conta solo sull’aiuto di Dio. Caratteristico a questo riguardo è il comportamento di Esdra in occasione del ritorno da Babilonia: «Là, presso il canale Aava, ho indetto un digiuno, per umiliarci davanti al Dio nostro e implorare da lui un felice viaggio per noi, i nostri bambini e tutti i nostri averi. Avevo infatti vergogna di domandare al re soldati e cavalieri per difenderci lungo il cammino da un eventuale nemico; anzi, avevamo detto al re: “La mano del nostro Dio è su quanti lo cercano, per il loro bene; invece la sua potenza e la sua ira su quanti lo abbandonano”. Così abbiamo digiunato e implorato da Dio questo favore ed egli ci è venuto in aiuto» (Esd 8,21-23; Cf. anche 2Mac 13,9-17).

L’agnello, sposo della nuova alleanza - M.-F. Lacan: La sapienza, che è nata da Dio e si compiace di abitare tra gli uomini (Prov 8, 22 ss. 31), non è soltanto un dono spirituale; appare nella carne: è Cristo, sapienza di Dio (1Cor 1, 24); e nel mistero della croce, follia di Dio, egli porta a termine la rivelazione dell’amore di Dio per la sua sposa infedele, salva e santifica la sposa di cui è il Capo (testa) (Ef 5,23-27).
Si svela così il mistero dell’unione simboleggiata nel VT dai nomi di sposo e di sposa. Per l’uomo si tratta di aver comunione Con la vita trinitaria, di unirsi al Figlio di Dio per diventare figlio del Padre Celeste: lo sposo è Cristo, e Cristo crocifisso. La nuova alleanza è suggellata nel suo sangue (1Cor 11,25) e perciò l’Apocalisse non Chiama più Gerusalemme sposa di Dio, ma sposa dell’agnello (Apoc 21,9).
La Chiesa, sposa della nuova alleanza - Qual è questa Gerusalemme, chiamata alla alleanza con il Figlio di Dio? Non è più la serva, che rappresenta il popolo dell’antica alleanza, ma la donna libera, la Gerusalemme di lassù (Gal 4, 2227). Dopo la venuta dello sposo, al quale il precursore, suo amico, ha reso testimonianza (Gv 3, 29), l’umanità è rappresentata da due donne, simbolo di due città spirituali: da una parte la «prostituta», tipo della Babilonia idolatra (Apoc 17,1.7; cfr. Is 47), dall’altra parte la sposa dell’agnello, tipo della città amata (Apoc 20,9), della Gerusalemme santa che viene dal cielo, perché dallo sposo ha la sua santità (21,2.9s).
Questa donna è la madre dei figli di Dio, di coloro che l’agnello libera dal dragone in virtù del suo sangue (12,1s.11.17). Appare. dunque che la sposa di Cristo non è soltanto l’insieme degli eletti, ma è la loro madre, colei per mezzo della quale e nella quale ognuno di essi è nato; essi sono santificati dalla grazia di Cristo (Tito 3,5ss), e diventano degli esseri vergini, degni di Cristo loro sposo (2 Cor 11, 2), uniti per sempre all’agnello (Apoc 14,4).
3. Le nozze eterne - Le nozze dell’agnello e della sposa comportano quindi diverse tappe per il fatto che la Chiesa è nello stesso tempo la madre degli eletti e la città che li raduna.
a) La prima tappa delle nozze, il tempo della venuta di Cristo (Mt 9,15 par.), termina nel momento in cui sulla croce Cristo, novello Adamo, santifica la nuova Eva; questa esce dal suo costato, simboleggiata dall’acqua e dal sangue dei sacramenti della Chiesa (Gv 19,34; cfr. 1Gv 5,6). L’amore che lo sposo vi mostra alla sua sposa è il modello delle nozze cristiane (Ef 5, 25-32).
b) A queste nozze Cristo invita gli uomini, in primo luogo il suo popolo (Mt 22,1-10); ma per parteciparvi non bisogna soltanto rispondere all’invito che molti rifiutano, bensì indossare la veste nuziale (22,11ss). Questo invito risuona per tutto il tempo della Chiesa; ma poiché l’ora della Celebrazione rimane incerta per ognuno, esso esige la vigilanza, affinché lo sposo, quando verrà, trovi pronte le vergini che sono invitate a prender parte al banchetto nuziale (25,1-13).
c) Infine, al termine della storia, sarà ultimata la veste nuziale della sposa, veste di lino di bianchezza splendente, tessuta dalle opere dei fedeli. Questi aspettano nella gioia e nella lode le nozze dell’agnello a cui hanno la ventura di essere invitati (Apoc 19,7s). In quel momento, in cui sarà giudicata la prostituta (19,2), lo sposo risponderà infine all’appello che il suo Spirito ispira alla sua sposa; sazierà la sete di tutti coloro che, come essa ed in essa, desiderano questa unione al suo amore e alla sua vita, unione feconda, di cui quella degli sposi è uno dei simboli migliori (22,17).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Volgendo il nostro sguardo a Gesù Cristo, il buon Samaritano, non possiamo dimenticare che - dalla povertà della mangiatoia alla totale spogliazione della Croce - egli si è fatto uno con gli ultimi” (Giovanni Paolo II). 
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La partecipazione a questo sacramento,
Dio onnipotente, ci liberi da ogni colpa
e ci ottenga dalla tua misericordia
la conversione del nostro spirito.
Per Cristo nostro Signore.




27 Febbraio 2020

Giovedì dopo Ceneri

 Dt 30,15-20; Sal 1; Lc 9,22-25

Benedetto XVI (Angelus 10 Febbraio 2008): Mercoledì scorso, con il digiuno e il rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima. Ma che significa “entrare in Quaresima”? Significa iniziare un tempo di particolare impegno nel combattimento spirituale che ci oppone al male presente nel mondo, in ognuno di noi e intorno a noi. Vuol dire guardare il male in faccia e disporsi a lottare contro i suoi effetti, soprattutto contro le sue cause, fino alla causa ultima, che è satana. Significa non scaricare il problema del male sugli altri, sulla società o su Dio, ma riconoscere le proprie responsabilità e farsene carico consapevolmente. A questo proposito risuona quanto mai urgente, per noi cristiani, l’invito di Gesù a prendere ciascuno la propria “croce” e a seguirlo con umiltà e fiducia (cfr Mt 16,24). La “croce”, per quanto possa essere pesante, non è sinonimo di sventura, di disgrazia da evitare il più possibile, ma opportunità per porsi alla sequela di Gesù e così acquistare forza nella lotta contro il peccato e il male. Entrare in Quaresima significa pertanto rinnovare la decisione personale e comunitaria di affrontare il male insieme con Cristo. La via della Croce è infatti l’unica che conduce alla vittoria dell’amore sull’odio, della condivisione sull’egoismo, della pace sulla violenza. Vista così, la Quaresima è davvero un’occasione di forte impegno ascetico e spirituale fondato sulla grazia di Cristo.

Colletta: Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostra attività abbia sempre da te il suo inizio e in te il suo compimento. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Dal Vangelo secondo Luca 9,22-25: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».   

Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso? - Javer Pikaza: Queste parole sono una continuazione del testo precedente (9,18-22). Dopo aver confessato Gesù come l’Unto (il Messia di Dio), avevamo scoperto il suo destino doloroso (la sconfitta e la morte). Orbene, partendo da questo dato si illumina tutta l’attività della nostra vita. Chi vuole seguire (colui che ha sentito la gioia di confessarlo Messia) deve prendere la sua croce e accompagnarlo sulla via del sacrificio e della morte.
Seguir Gesù equivale a spendere la vita. In linguaggio trasparente, la Chiesa rappresenta simbolicamente questo atteggiamento con l’esigenza di portare la croce di ogni giorno. Gesù che sale con la croce verso il Calvario
diviene paradigma della verità universale, il principio d’interpretazione sul quale è basata tutta la nostra storia.
I modelli delle vecchie religioni umane non servono più. La grandezza dell’uomo non consiste nel trascendere i limiti della materia salendo fino all’altezza dell’essere del divino (mistica orientale), né consiste nell’identificarsi sacramentalmente con le forze della vira che pulsano nella profondità sorgiva del cosmo (religione misterica); né è perfetto colui che osserva la legge fino alla minuzia (fariseismo, né colui che mira a sottrarsi all’abisso della miseria del mondo nella speranza della meta che si avvicina (apocalittica) ... Di fronte a tutte le possibili vie della storia degli uomini, Gesù ci ha tracciato la sua via: «Se qualcuno vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».
Prendere la croce di Gesù significa ascoltare il messaggio del regno, adottare il suo modo di essere e uniformarsi fino alla fine al suo esempio: perdonare sempre, amare senza limiti, vivere aperti al mistero di Dio e restare fedeli anche nel caso che la fedeltà dovesse metterei sulla via della morte.
In base a questa esigenza, la Chiesa sarà definita come l’insieme degli uomini che restano uniti nel ricordo di Gesù e hanno preso il suo esempio come norma della loro condotta. In questa prospettiva, è possibile dettare alcune leggi di morale oggettiva alla quale tutti si devono sottomettere. La vera legge (la norma finale) è sempre il Cristo: il suo messaggio e la sua via d’amore.
Su questo sfondo, la legge di Gesù si può tradurre in questi termini: si guadagna in realtà quello che si perde, cioè quello che si offre agli altri, quello che si sacrifica in beneficio dell’altro. AI contrario, tutto quello che gli uomini tengono per sé in modo egoistico lo perdono. Espressione concreta di questo genere di vita è il «Calvario».
Non dimentichiamo che tutta questa prospettiva cristiana ba senso se è formulata come espansione della verità di Cristo. Senza la sua morte e la sua risurrezione, tutte queste parole non sarebbero altro che un sogno privo di senso.

J. Audusseau e X. Léon-Dufour: 1. Lo scandalo della croce. - «Noi predichiamo un Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i pagani» (1Cor 1,23). Con queste parole Paolo esprime la reazione spontanea di ogni uomo posto alla presenza della croce redentrice. La salvezza verrebbe al mondo grecoromano per mezzo della crocifissione, supplizio riservato agli schiavi (cfr. Fil 2, 8), che non era soltanto una morte crudele, ma una ignominia (cfr. Ebr 12, 2; 13,13)? La redenzione sarebbe procurata ai Giudei da un cadavere, una impurità di cui bisognava sbarazzarsi al più presto (Gios 10,26s; 2Sam 21,9ss; Gv 19,31), da un condannato appeso al patibolo, che portava su di sé il segno della maledizione divina (Deut 21,22s; Gal 3,13)? Sul Calvario, per gli spettatori era facile beffarsi di lui, invitandolo a discendere dalla croce (Mt 27,39-44 par.). Quanto ai discepoli, si può prevedere la loro reazione atterrita. Pietro, che tuttavia aveva riconosciuto in Gesù il Messia, non poteva tollerare l’annuncio della sua sofferenza e della sua morte (Mt 16,21ss par.; 17,22s par.): come avrebbe ammesso la sua crocifissione? Perciò, alla vigilia della passione, Gesù annunzia che tutti si sarebbero scandalizzati al suo riguardo (Mt 26,31 par.).
2. Il mistero della croce. - Se Gesù, e dopo di lui i discepoli, non hanno attenuato lo scandalo della croce, si è perché un mistero nascosto gli conferiva un senso. Prima di Pasqua, Gesù era solo ad affermarne la necessità, per obbedire alla volontà del Padre (Mt 16,21 par.). Dopo la Pentecoste, illuminati dalla gloria del risorto, i suoi discepoli proclamano a loro volta questa necessità, collocando lo scandalo della croce al suo vero posto nel disegno di Dio. Se il Messia è stato crocifisso (Atti 2,23; 4,10), «appeso al legno» (5,30; 10,39) in modo scandaloso (cfr. Deut 21,23), fu senza dubbio a motivo dell’odio dei suoi fratelli. Ma questo fatto, una volta illuminato dalla profezia, acquista una nuova dimensione: compie «ciò che era stato scritto del Cristo» (Atti 13,29). Perciò i racconti evangelici della morte di Gesù contengono tante allusioni ai Salmi (Mt 27,33-60 par.; Gv 19,24.28.36s): «bisognava che il Messia soffrisse», conformemente alle Scritture, come il risorto spiegherà ai pellegrini di Emmaus (Lc 24,25s).
3. La teologia della croce - Paolo sapeva dalla tradizione primitiva che «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3). Questo dato tradizionale fornisce un punto di partenza alla sua riflessione teologica: riconoscendo nella croce la vera sapienza, egli non vuole conoscere che Gesù crocifisso (2,2). Con ciò, infatti, risplende la sapienza del disegno di Dio, già annunziata nel VT (1,19s); attraverso la debolezza dell’uomo si manifesta la forza di Dio (1,25). Sviluppando questa intuizione fondamentale, Paolo scopre un senso alle modalità stesse della crocifissione. Gesù fu «appeso all’albero» come un maledetto, per riscattarci dalla maledizione della legge (Gal 3,13). Il suo cadavere esposto sulla croce, «carne simile a quella del peccato», ha permesso a Dio di «condannare il peccato nella carne» (Rom 8,3); la sentenza della legge è stata eseguita, ma nello stesso tempo Dio «l’ha soppressa inchiodandola alla croce, ed ha spogliato le potestà» (Col 2,14s). Così, «mediante il sangue della sua croce», Dio ha riconciliato con sé tutti gli esseri (1,20); sopprimendo le antiche divisioni causate dal peccato, ha ristabilito la pace e l’unità tra Giudei e pagani, affinché non formino più che un solo corpo (Ef 2,14-18). La croce si innalza quindi alla frontiera tra le due economie del VT e del NT.
4. La croce, elevazione verso la gloria - Nel pensiero di Giovanni la croce non è più semplicemente una sofferenza, una umiliazione, che trova non di meno un senso mediante il disegno di Dio e i suoi effetti salutari; è già la gloria di Dio anticipata. Del resto la tradizione anteriore non la menzionava mai senza evocare poi la glorificazione di Gesù. Ma per Giovanni, Gesù trionfa già in essa. Riprendendo, per designarla, il termine che fino allora indicava la esaltazione di Gesù al cielo (Atti 2, 33; 5,31), egli vi mostra il momento in cui il figlio dell’uomo è «innalzato» (Gv 8,28; 12,32s), come un nuovo serpente di bronzo, segno di salvezza (3,14; cfr. Num 21,4-9). Nel suo racconto della passione si direbbe che Gesù muove verso di essa con maestà. Vi sale trionfalmente, perché in essa egli fonda la sua Chiesa «donando lo Spirito» (19,30) e lasciando fluire dal suo costato il sangue e l’acqua (19,34). Ormai bisogna «guardare verso colui che è stato trafitto» (19,37), perché la fede è rivolta al crocifisso, la cui croce è il segno vivente della salvezza. Nello stesso spirito sembra che l’Apocalisse abbia visto, attraverso questo «legno» salvatore, il «legno della vita», attraverso «l’albero della croce», «l’albero di vita» (Apoc 22,2.14.19).

Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto ... Chi vuole essere mio discepolo prenda la sua croce ogni giorno e mi segua - Gesù annunciando la sua futura passione, morte e risurrezione si compromette con gli uomini per la loro salvezza e lo fa nel modo più pieno: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto … esser messo a morte». Si fa solidale con l’uomo attraversando la via della croce in pienezza di libertà (Cf. Gv 10,18), portando nel suo corpo le stigmate del peccato e della follia omicida degli uomini. Prendere la croce di Cristo, in questa visuale, significa essere sollecitati a dichiarare fino a che punto si è disposti a compromettersi con lui, il Messia trafitto per la salvezza degli uomini. Si tratta di assumere esistenzialmente il destino di Gesù come destino proprio.
Il discepolo deve accettare senza scandalizzarsi che Gesù porti la croce; ma deve a sua volta portare la croce con Gesù; deve rinnegare se stesso e quindi smettere di porre se stesso al centro delle sue attenzioni e delle sue preoccupazioni; deve assumere la sua croce ogni giorno se vuol seguire davvero il suo Signore, il quale «si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia» (Eb 12,2).
Prendere la croce di Cristo, per l’uomo è una dolorosa e difficile vocazione da assumere e accettare di prenderla significa interrogarsi sulla “quantità e qualità” del proprio amore verso Cristo Gesù e se questo amore lo attira alla croce e gli fa desiderare di percorrere lo stesso cammino.
Gesù esige una risposta dai suoi amici mostrando loro un orizzonte di sofferenza e di morte perché capiscano che il vero valore della croce va colto nella perseveranza e nella fedeltà, e anche questo è un compromettersi per Dio: “ogni giorno”, senza lasciarsi sedurre dalle promesse del mondo o spaventare dalle sue minacce.
Gesù vuole che la risposta sia data in una visione di un destino di dolore e di morte perché i discepoli capiscano che il legame con Gesù deve mostrarsi indissolubile in un sì pieno e totale, un sì che deve essere rinnovato “ogni giorno”, di fronte a ogni nuova situazione di ostacolo o di prova o di tentazione diabolica, un sì pieno che nasca dall’amore e dalla profonda convinzione che perdere la propria vita per Gesù non si rivelerà una perdita ma un autentico guadagno.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Chi vuole essere mio discepolo prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Vangelo). 
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Il pane di vita eterna che ci hai donato, Signore,
santifichi il tuo popolo e sia principio inesauribile
di perdono e di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.