1 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno


Ap 3,2-3: Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora io verrò da te.


V’è uno stato di insensibilità dovuto al sonno naturale, alla morte e v’è un intorpidimento causato dai vizi.
«L’intorpidimento dei vizi [sonno causato dal peccato] è sia uno stato di impenitenza [morte spirituale], sia uno stato di sicurezza [la grazia diviene un comodo cuscino su cui ci s’addormenta] come pure uno stato di pigrizia spirituale [rilassatezza nello zelo missionario, Ap 3,2, e nell’attesa del ritorno di Cristo]. Vegliare significa trattenersi da questo sonno» (Friedrich Hauss).
Mangiare per mangiare e bere per ubriacarsi, divertirsi, litigare, soddisfare i desideri della carne ..., queste voluttà dal Vangelo sono condannate come insipienza e imprevidenza, e questo spesso si ripete in ciascuno di noi: di fronte al «Cristo che viene» siamo chiamati a prendere una decisione di fondo.
Il credente, smessa la veste dell’uomo delle tenebre, «orge, ubriachezze, lussurie, impurità, litigi, gelosie» (Rom 13,13), deve indossare una nuova veste: deve rivestirsi di Cristo, cioè aderire a Cristo e trasformarsi nel Cristo in una immagine sempre più perfetta di Dio, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18). Con il «nuovo giorno» è quindi arrivato il tempo di gettare via le opere delle tenebre e di «rivestirsi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11).
È perentorio indossare «le armi della luce» perché, come ci suggerisce il Concilio Ecumenico Vaticano II, tutta intera la storia umana è «pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio» (GS 37).
Tra la conversione e la salvezza finale si incunea il tempo della lotta, della tentazione, da qui l’imperativo di indossare le armi della luce.
In Efesini 6,13-20, si enumerano le armi che compongono l’armatura spirituale.
Esse sono: la verità, naturale e soprannaturale, tradotta nella coerente pratica della vita; la giustizia, cioè la rettitudine morale che ci protegge da seconde mire e dalla doppiezza; lo zelo apostolico, che ci rende impazienti di portare anche agli altri il Vangelo di Cristo; la fede coraggiosa e ardente, la quale anche in mezzo alle più gravi tentazioni saprà, come il grande scudo rettangolare dei soldati romani, coprire e proteggere il cristiano dai «dardi infuocati del nemico»; la speranza della salvezza, che, come un elmo, ci protegge da qualsiasi scoraggiamento; la Parola di Dio, che è un’arma «più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Ebr 4,12), quindi un’arma non tanto di protezione quanto di offesa e di attacco. Gesù stesso per confutare gli errori dei suoi avversari e per debellare satana che lo tentava non trovò di meglio che ricorrere all’autorità della Parola di Dio (Mt 4,10). E infine, la preghiera incessante, umile e confidente, perché tutte queste «armi della luce (Rom 13,12), con cui il cristiano si difende dal Maligno, sarebbero inefficaci se non fossero sorrette e convalidate dalla “preghiera”; che sia, però, vera preghiera, fatta cioè in “spirito”, nell’intimo del proprio animo. Essa deve essere “vigile” e “perseverante”; basterebbe infatti un piccolo rilassamento [si ricordi la preghiera di Mosè sul monte: Es 17,11] perché il Nemico abbia di nuovo il sopravvento. Deve essere personale, ma anche collettiva, fatta cioè per tutti i fratelli che soffrono le nostre medesime tribolazioni [1Pt 5,9]» (Settimio  Cipriani).
Chi dorme o chi rimanda la propria conversione non pensi, nel giorno del giudizio, di appellarsi alla bontà di Dio. Nessuno in quel giorno potrà accampare veri o presunti diritti perché tutto è benevolenza, dono, amore, grazia: «giustificati per il sangue di Cristo, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rom 5,9). L’uomo oggi, nel suo quotidiano, costruisce la sua salvezza o la sua eterna perdizione. Ogni ritardo potrebbe essere esiziale.


Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


31 Gennaio 2017

Il pensiero del giorno


Mt 24,37-39: Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo.


Il brano è tratto dal quinto e ultimo discorso di Gesù detto «escatologico», perché tratta gli avvenimenti ultimi della città di Gerusalemme e, con essa, di tutta un’epoca.
Il brano è un’esortazione alla vigilanza e a questo scopo Gesù aveva raccontato ai suoi discepoli la «parabola del fico» (Mt 24,32-36). Ora, per maggiore incisività, ricorda il diluvio il quale, ai tempi di Noè, travolse uomini, donne e bambini a motivo della loro perniciosa distrazione ai segni e ai richiami di Dio. Come il diluvio (cf. Gen 6-9), la venuta del Figlio dell’uomo sarà inaspettata e sorprenderà coloro che non si saranno preparati.
Per i discepoli sarebbe assai pericolosa qualsiasi distrazione. Nel modo più assoluto non bisogna imitare la stoltezza dei contemporanei di Noè sorpresi e travolti dal giudizio di Dio nella loro follia ignara (cf. Mt 24,37-39).
Nel giudizio negativo di Gesù, non viene condannato il mangiare o il bere (bisogni primari del genere umano) o il matrimonio, ma l’insipienza di quegli uomini che non seppero tenere in alta considerazione altri valori (la comunione con Dio, la salvezza ...) per i quali valeva la pena occuparsi al pari di quelli materiali. “Drogati” dal soddisfare unicamente i loro primari bisogni non si accorsero che accanto alla storia umana c’era una storia parallela, quella di Dio, che doveva essere accolta anche con il digiuno, la sobrietà e la temperanza.
Nel giorno del giudizio di Dio non vi sarà alcuna discriminazione: chi sarà vigilante nell’attesa verrà accolto nel regno; chi non sarà pronto ad accogliere il Figlio dell’uomo sarà abbandonato alla sua sorte di morte e di solitudine. In situazioni apparentemente identiche si compie il discernimento di Dio e la divisione degli uomini in base al giudizio divino.
Gli uomini, quando verrà il Figlio dell’uomo, saranno impegnati nelle loro attività di ogni giorno:  la venuta del Signore «irrompe nel quotidiano. Questo ci dice che le azioni di tutti i giorni, quelle che si ritengono le più comuni, e al limite insignificanti, acquistano un senso in quanto momenti di un cammino orientato all’avvento del Signore» (Adrian Schenker - Rosario Scognamiglio).
Essere vigilanti non significa darsi all’ozio, ma semplicemente non farsi prendere la mano dalla carriera, dal successo, dal denaro per dare spazio alle cose di Dio e a quelle dello spirito.
Le occupazioni, che spesso diventano preoccupazioni, a lungo andare, appesantendo il cuore, sprofondano l’uomo in un cupo sonno colpevole, il quale in questo stato confusionale, non sentendo i passi di Dio nella sua vita, si avvia inesorabilmente verso un destino di morte e di distruzione.
L’immagine del Figlio dell’uomo paragonato a un ladro notturno che entra in casa per rubare rende ancora più efficace il tema della vigilanza continua.
L’immagine del ladro è usata frequentemente nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù (cf. 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Il padrone di casa che non vigila potrebbe perdere tutti i suoi beni, così il cristiano addormentato può perdere se stesso all’appuntamento supremo.
In contrasto «con l’apocalittica giudaica, che si prefiggeva di calcolare in anticipo il giorno del giudizio, Gesù ne afferma il carattere sconosciuto e inaspettato e perciò raccomanda la vigilanza ... L’attesa per la venuta improvvisa del Signore non costituisce per il credente un motivo di ansia o di paura. L’essenziale è esser trovati vigilanti e pronti per accogliere il Salvatore, senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni e dagli interessi mondani, che sono cose secondarie e contingenti» (A. Poppi).
In un’ottica tutta cristiana, la repentinità della venuta del Figlio dell’uomo ha un ruolo importante e decisivo nella vita del cristiano tanto da animarla profondamente anche negli impegni più banali.
Infatti a nutrire la vigilanza saranno le virtù teologali tanto necessarie al discepolo per conquistare il regno: la speranza certa della venuta di Gesù; la fede nella indefettibilità della parola del Maestro; la carità che bruciando il cuore lo sospinge a cercare le «cose di lassù» (Col 3,2).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


 30 Gennaio 2017

Il pensiero del giorno


Gv 18,33-37: Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». 


Oggi la monarchia è un istituto che resiste solo in pochi paesi, un istituto rappresentativo senza alcun potere reale. Il regno di Dio, inaugurato e proclamato da Cristo sulla terra, non ha comunque nulla a che vedere con il trionfalismo e la pompa dei regni terreni.
La regalità di Gesù è legata alla croce, cioè al suo supremo sacrificio. Gesù Cristo regna dall’albero della croce, morendo per salvare tutti gli uomini.
Fattosi «obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre [cfr. Fil 2,8-9], Cristo è entrato nella gloria del suo regno. A lui sono sottomesse tutte le cose, fino a quando egli stesso si sottometterà al Padre con tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti [cfr. 1Cor 15,27-28]» (LG 36).
Ora, questo suo potere Cristo l’ha comunicato ai suoi discepoli, «perché anch’essi siano stabiliti nella libertà regale e vincano in sé il regno del peccato [cfr. Rom 6,12] con l’abnegazione di sé e la vita santa; e perché, servendo Cristo anche negli altri, conducano umilmente e pazientemente i loro fratelli a quel re, servire il quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: “regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”» (LG 36).
Il fine della Chiesa è la diffusione del regno di Cristo: la Chiesa è «nata con il fine di rendere partecipi, mediante la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, tutti gli uomini della redenzione salvifica e ordinare effettivamente per mezzo di essi il mondo intero a Cristo» (AA 2).
A questo mirabile apostolato la Chiesa, sospinta dallo Spirito Santo, impegna tutte le sue forze e tutte le sue energie, «perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi comandi della carità, dell’umiltà e dell’abnegazione, riceve la missione di annunciare il regno di Dio e di Cristo e di instaurarlo fra tutte le genti; di questo regno essa costituisce il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di riunirsi al suo re nella gloria» (LG 5).
Compreso in questo modo il regno di Dio è facile intuire che esso non vuole e non può entrare in collisione con i poteri temporali: «poiché il regno di Cristo non è di questo mondo [cfr. Gv18,36], la Chiesa o popolo di Dio, che introduce questo regno, non sottrae nulla al bene temporale dei popoli, ma al contrario favorisce e assume tutte le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli, nella misura in cui sono buone; e assumendole le purifica, le consolida e le eleva» (LG 13).
Come Cristo, con Cristo, in Cristo, il battezzato è re. In tanta dignità si impegna ad esercitare questa regalità liberandosi, sopra tutto, dalle piccole e grandi schiavitù del peccato, del male, delle mode del consumismo, del conformismo, dell’adesione a falsi e interessati maestri. Raccontano che il re di Francia Luigi XI non volle che il figlio, il futuro Carlo VIII, ricevesse alcun tipo di istruzione ma si adoperò personalmente affinché almeno del latino imparasse queste cinque parole: «Qui nescit dissimulare, nescit regnare» (Chi non sa dissimulare non sa regnare), massima machiavellica che lo accompagnò per tutto il periodo del suo regno.
Per il cristiano le cose invece si capovolgono, per regnare occorre essere nella verità.
Per la Verità non vi sono scappatoie: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Lc 11,23).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio Padre, che ci hai chiamati a regnare con te nella giustizia e nell’amore, liberaci dal potere delle tenebre; fa’ che camminiamo sulle orme del tuo Figlio, e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso. Egli è Dio...
29 Gennaio 2017

Il pensiero del giorno


Mc 13,24-27: In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo.


A parte i santi, i beati e i servi di Dio, la vigilanza non è più pane quotidiano per molti credenti (cf. Sap 2,6-7; Is 22,13; 1Cor 15,32).
Eppure il Vangelo è zeppo di quei moniti che invitano l’uomo a saper leggere i segni dei tempi e ad essere vigilanti (cf. Mt 25,13; Mc 13,33-34; Lc 12,37). Anche Paolo ritorna spesso sul tema della vigilanza: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1Ts 5,6-8).
Una saggia esortazione da mettere urgentemente in atto perché due eventi ineluttabili incombono sull’uomo: la morte e la fine del mondo. Due eventi lontani nel tempo l’uno dall’altro, ma che coincidono perfettamente tra loro perché con la morte si va già incontro al giudizio e il giudizio di Dio, alla fine del mondo, ratificherà la sentenza emanata nel giorno della fine dell’esistenza. Se poi si è miscredenti e non si vuol credere al giudizio universale, resta come verità inoppugnabile la morte dell’uomo e sarebbe da stolti credere che all’uomo spetti lo stesso destino delle bestie (Qo 3,18-22).
Anche se non conosciamo il tempo né l’ora della fine del mondo, già «è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi [cf. 1Cor 10,11]. La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora [cf. 2Pt 3,13], la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio [cf. Rom 8,19-22]» (LG 48).
Da qui l’imperativo a vegliare perché non sappiamo in quale giorno il Signore verrà (Mt 24,42), di indossare l’armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati del diavolo e resistergli nel giorno malvagio (cf. Ef 6,11-13) e di sforzarsi di essere in tutto graditi al Signore (cf. 2Cor 5,9).
Proprio perché non conosciamo il giorno né l’ora, «bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena [cf. Eb 9,27], di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati [cf. Mt 25,31-46], e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri [cf. Mt 25,26], di andare al fuoco eterno [cf. Mt 25,41], nelle tenebre esteriori dove “ci sarà pianto e stridore dei denti” [Mt 22,13 e 25,30]. Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male” [2 Cor 5,10], e alla fine del mondo “usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna” [Gv 5,29]» (LG 48).
Memento mori, ricordati che devi morire, il motto dei trappisti che si ripetono a vicenda ogni volta che s’incontrano, è una verità così lapalissiana che è incontestabile. Ma anche queste parole di Seneca: «Non sai in qual luogo la morte ti attenda, ma tu attendila in tutti i luoghi». Noi credenti non attendiamo la morte, ma «nuovi cieli e una terra nuova» (2Pt 3,13) e attendere, a volte, è sinonimo di desiderio, desiderio di vedere Dio: «Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio» (Fil 1,23), e qui abbiamo messo il dito nella piaga: desideriamo «essere con  Cristo»?
Se già è avvenuta la distruzione del tempio di Gerusalemme, che è stata la fine di un mondo, certamente verrà la fine della storia e proprio perché l’uomo ignora il tempo e l’ora è invitato ad assumere un atteggiamento responsabile di fronte al Signore che viene.
Gesù per eccitare «la nostra condizione di vigilanza non ha voluto rivelarci il tempo esatto della fine. Non era necessario e non sarebbe stato neppure utile. Il vangelo di oggi ci documenta questa netta determinazione di Cristo di lasciarci all’oscuro su scadenze così vitali per noi, anche perché ciò è una difesa alla nostra debolezza e favorisce il nostro abbandono in Dio» (Vincenzo Raffa).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che vegli sulle sorti del tuo popolo, accresci in noi la fede che quanti dormono nella polvere si risveglieranno; donaci il tuo Spirito, perché operosi nella carità attendiamo ogni giorno la manifestazione gloriosa del tuo Figlio, che verrà per riunire tutti gli eletti nel suo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



28 Gennaio 2017

Il pensiero del giorno


Mc 12,38-44: Gesù Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»

La Passione è ormai alle porte e Gesù, pur sapendo che gli restano pochi giorni, non smette di insegnare alla folla che benevolmente lo assedia. Questa volta l’insegnamento ha il greve odore del rimprovero: una reprimenda rivolta agli scribi notoriamente conosciuti come ligi esecutori della Legge.
Gli «uomini del libro» vengono colti in tre momenti della loro vita: fra la gente comune, nelle cerimonie ufficiali, culto e banchetti, e alle prese con la loro coscienza. Una presentazione cruda puntellata da duri epiteti che mettono in evidenza l’ipocrisia, la malevolenza e la disonestà lucida di uomini che invece avrebbero dovuto essere semplici, luminosi, umili, caritatevoli.
La lunga veste, forse il tallit, il mantello a righe bianche e azzurre ancora oggi in uso, e l’incedere fatto di piccoli passi conferiva ai notabili del paese solennità, importanza, ieraticità, quel contegno nobile di chi guarda dall’alto in basso. I luoghi preferiti naturalmente erano quelli più affollati: le piazze, i mercati, per mettersi in mostra, per pavoneggiarsi e ottenere gli applausi del popolo. Amavano anche i primi seggi nelle sinagoghe perché essendo a volte prossimi alla porta d’ingresso costringevano chi entrava a riverirli. Bramavano i primi posti nei banchetti per ostentare la loro amicizia con il padrone di casa ovviamente ricco e anche influente. A tanta ipocrisia aggiungevano la simulazione di una religiosità sterile, vuota e l’odiosa disonestà di predare le vedove divorando i loro beni. Per questi tali il giudizio è senza appello: «Essi riceveranno una condanna più grave». Ri-ceveranno «molte percosse» perché «pur conoscendo la volontà del padrone» non hanno «disposto o agito secondo la sua volontà» (Lc 12,47).
La folla forse avrà applaudito. Certamente non tutti erano così, ma così erano coloro che si accanivano contro la predicazione e l’insegnamento del Cristo. Marco non registra reazioni, sembra che i contestatori abbiano incassato il colpo e si siano dileguati nelle tenebre dei loro vacui ragionamenti per continuare a complottare contro Gesù.
Sgomberato il campo, ora, Gesù sembra essere bene intenzionato a prendersi un po’ di riposo e si siede di fronte al tesoro.
Il tesoro era un locale posto in un atrio del tempio dove erano collocate tredici cassette destinate a raccogliere le elemosine il cui ricavato doveva servire per il buon funzionamento del tempio e del culto. Erano di ferro e il tintinnio della moneta che scivolava dentro, ai buoni intenditori, dava il reale ammontare delle offerte. Sulle cassette erano poste delle targhette su cui era indicata la destinazione dell’obolo. Per cui a volte stazionava lì un addetto del tempio il cui compito era di indicare, soprattutto a chi non sapeva leggere, la buca dove introdurre la moneta. Poi strillava il valore delle offerte, certamente quelle più consistenti, suscitando consensi di ammirazione. La nota di Marco - E tanti ricchi ne gettavano molte (12,41) - forse è esagerata, ma serve bene a mettere in evidenza l’insegnamento etico del seguito del racconto evangelico.
Tra i tanti paludati, applauditi a scena aperta, si fa spazio una povera vedova che getta nel tesoro «due spiccioli, cioè un quattrino». E così accade che il suono delle monete e lo strillone, denunciando l’esigua offerta, suscitano tra i presenti brontolii o mugolii di disapprovazione. Il tintinnio, lo strillo e i mugugni non sono sfuggiti nemmeno a Gesù ma con una risonanza nel suo cuore molto, molto diversa. Gesù a questo punto chiama a sé i discepoli che forse si erano allontanati per cicalare con i detrattori della povera donna. Li chiama per insegnare loro come Dio vede, valuta e giudica i gesti degli uomini, a differenza degli umani spesso prigionieri della loro effimera sapienza. Quello che conta agli occhi di Dio è il valore morale del dono non quello commerciale, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1Re 16,7). È anche una lezione sulla carità. Quella spicciola, quella di tutti i giorni che non porta la bava della superbia.
Ma c’è un altro insegnamento che dovrebbe lasciare insonni tutti i credenti. La vedova, facendo scivolare nel tesoro «tutto quello che aveva», ha fatto un atto di fede pieno, totale. Dando tutto ha manifestato di fidarsi di Dio e lo ha fatto in un modo molto pratico, lo ha fatto non riservando nulla per sé e il suo futuro. Ha abbandonato tutte le sue sicurezze e si è affidata completamente a Dio sostenuta dalla certezza che il Signore, «Padre dei poveri e difensore delle vedove» (Sal 68,6), non l’avrebbe abbandonata. Questo gesto così diventa per la comunità cristiana un serio esame di coscienza: la mia fede è vissuta veramente come adesione totale a Dio? Tale adesione è tanto sconvolgente da impregnare tutto il mio cuore, tutta la mia mente, tutta la mia vita?

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, Padre degli orfani e delle vedove, rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi, sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore, perché mai venga a mancare la libertà e il pane che tu provvedi, e tutti impariamo a donare sull’esempio di colui che ha donato se stesso, Gesù Cristo nostro Signore. Egli è Dio...


27 Gennaio 2017

Il pensiero del giorno



Dt 6,4-9: Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.

Ascolta, o Israele: questa espressione diventerà l’inizio della preghiera detta “Shema”, la più cara al cuore degli Ebrei. Preghiera e amore, culto e carità, unità che Gesù non ha scisso. La carità senza preghiera diventa narcisismo, l’amore senza culto diventa filantropia. Oggi nel mondo cristiano la preghiera sembra essere un po’ negletta. È più facile per molti correre sulle ali del servizio sociale in quanto gratifica, perché mette l’operatore al centro dell’attenzione pubblica accendendo abbacinanti riflettori, perché apparecchia elettrizzanti talk show... la preghiera invece si fa compagna del nascondimento, tiene lontano dalle piazze (Mt 6,4-5) e a molti non piace.
Per il Catechismo della Chiesa Cattolica (2697), la preghiera è «la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi, invece, dimentichiamo colui che è la nostra Vita e il nostro Tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio e dei profeti, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: “È necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto si respiri”».
Se nell’inconscio «di molti cristiani, pregare è un’occupazione incompatibile con tutto ciò che hanno da fare» (ibidem 2726), pochissimi sanno che quando i casi si aggrovigliano, quando tutto sembra svanire, quando i problemi si assommano o diventano disperati allora è il caso di piegare le ginocchia: «Intercedere, chiedere in favore di un altro, dopo Abramo, è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio. Nel tempo della Chiesa, l’intercessione cristiana partecipa a quella di Cristo: è espressione della comunione dei santi. Nell’intercessione, colui che prega non cerca solo “il proprio interesse, ma anche quello degli altri” [Fil 2,4], fino a pregare per coloro che gli fanno del male [Cf Stefano che prega per i suoi uccisori, come Gesù: cf At 7,60; Lc 23,28.34]. Le prime comunità cristiane hanno intensamente vissuto questa forma di condivisione [Cf At 12,5]. L’Apostolo Paolo le rende così partecipi del suo ministero del Vangelo [Cf Ef 6,18-20; Col 4,3-4; 1Ts 5,25], ma intercede anche per esse [Cf Fil 1,3-4; Col 1,3; 2Ts 1,11]. L’intercessione dei cristiani non conosce frontiere: “per tutti gli uomini [. . .] per tutti quelli che stanno al potere” [1Tm 2,1], per coloro che perseguitano [Cf Rom 12,14], per la salvezza di coloro che rifiutano il Vangelo [Cf  Rom 10,1]» (ibidem 2635-2636).
Prima di lanciarsi in molteplici attività caritative o apostoliche, il credente dovrebbe imparare a farle precedere, accompagnare, seguire dalla preghiera. L’esempio l’ha dato Gesù: Egli prega prima di iniziare la vita pubblica, prima di scegliere i suoi compagni, prega prima di trasfigurarsi sul monte, prega nell’Orto degli ulivi prima di consegnarsi nelle mani degli aguzzini, quando è issato sulla Croce prega per i suoi crocifissori, per il mondo intero.
Ivan Turgenev, lo scrittore russo più apprezzato e conosciuto nell’Europa del XIX secolo, ebbe a dire: «Per qualunque cosa un uomo preghi, egli prega per un miracolo. Ogni preghiera si riduce a questo: “Dio onnipotente, fai che due per due non faccia quattro”». Per il credente questa preghiera è vera, perché il buon Dio, nell’operare nella storia dell’uomo, spesso ignora la tavola pitagorica.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, tu sei l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote. Egli è Dio, e vive e regna con te ...


 26 Gennaio 2017

Pensiero del giorno



Dal libro del profeta Amos (8,4-7)

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero
e sterminate gli umili del paese,
voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio
e si potrà vendere il grano?
E il sabato, perché si possa smerciare il frumento,
diminuendo le misure e aumentando il siclo
e usando bilance false,
per comprare con denaro gli indigenti
e il povero per un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto del grano».
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe:
certo non dimenticherò mai le loro opere.


Dopo la tragedia nefasta consumatasi nel paradiso terrestre, l’uomo si rende conto di aver perduto terreno su due fronti, o meglio di aver azzerato due contatti: il primo con Dio e il secondo con l’uomo (cf. Gen 3).
Dopo aver accolto incautamente la provocazione di satana - diventerete come Dio (Gen 3,4) -, dimostratasi irrimediabilmente una terribile menzogna, l’uomo si ritrova più creatura, ferito nella volontà, ottenebrato nel discernimento, incapace di alzare gli occhi al cielo (cf. Gen 4,6-7).
Con il peccato, con il quale l’uomo si allontana da Dio, si inquina sopra tutto il culto religioso che si trasforma spesso in un culto falso e ipocrita. È la falsa religione di chi crede di avere la coscienza a posto con poca fatica, un paravento per coprire i propri misfatti.
Il discepolo che è entrato nelle acque salutari del battesimo e vuole entrare nel regno di Dio, non può farsi affascinare dalla tentazione di bagnarsi i piedi, le mani e il cuore nelle acque sporche della frode nel commercio, dell’adulterio, della corruzione, del peculato, della ricettazione, dello strozzinaggio, dell’usura, delle tangenti.
Eppure, molti uomini, sozzi di tanto fango, credono stoltamente di poter manipolare Dio, di prenderlo in giro con ipocriti gesti cultuali e continuare a vivere secondo i propri capricci (cf. Ml 3). Pura stoltezza decisamente respinta da Dio al mittente: «Perché mi offrite sacrifici senza numero? [...]. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili [...], non posso sopportare delitto e solennità [...]. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei. Le vostre mani grondano sangue» (Is 1,11-15).
L’uomo ritrovandosi impotente di catturare Dio per manipolarlo (e la Parola di Dio insegna la verità sull’uomo, una verità che lo umilia nella sua sconfinata voglia di essere come Dio [cf. Gen 9] e che non lascia spazi di manovra alla sua furbizia [cf. Gal 6,7]), spesso, per mera vendetta e fame di potere si avventa con ferocia sul suo simile: dopo il peccato l’uomo non è più per l’uomo «osso dalle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23), ma merce di scambio, una cosa da sfruttare, da spremere, un oggetto da comprare e da possedere: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali» (Am 2,6).
Così la storia è puntellata da empi che prosperano e poveri che gridano a Dio per essere liberati; urlano le loro preghiere perché sanno che il Signore non dimentica «coloro che “calpestano il povero, sterminano gli umili, spremono gli indigenti”... Dio ci consegna l’uomo - ogni uomo che nasce è dono al mondo - non da asservire ma da servire ... Nessuno è padrone dell’uomo, tranne Colui che è il Signore degli uomini, il quale però “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, si incarnò, si fece servo e morì sulla croce ...”» (Mons. Luigi Olgiati).
Angherie perpetrate a volte con satanica perfidia e soprusi minuti che si consumano quotidianamente a danno dei poveri, dei più deboli: gli scioperi spregiudicati ed egoisticamente settoriali non sono uno spadroneggiare sulla gente e magari sugli ammalati? Il rialzo furbesco ed immotivato dei prezzi non è un abuso soprattutto per chi vive della pensione? Il bloccaggio diuturno degli affitti non è un immorale disinteresse per chi non ha casa?
E Dio non tace; indicando la Via da seguire (cf. Gv 14,6), fa sentire la sua voce: «Lavatevi, purificatevi,
allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene,cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» » (Is 1,16-17).
A questo punto la scioccante verità suggerita dall’apostolo Paolo - Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità - si fa nebulosa, perché salvarsi diventa veramente difficile: la porta è stretta (cf. Mt 7,13) e la strada è tutta in salita. È difficile perché per salvarsi è necessario espropriarsi: e questo significa essere nudi dinanzi a Dio (cf. Eb 4,13) e inermi dinanzi all’uomo, come servi inutili (cf. Lc 17,10).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nella follia della croce manifesti quanto è distante la tua sapienza dalla logica del mondo, donaci il vero spirito del Vangelo, perché ardenti nella fede e instancabili nella carità diventiamo sale e luce della terra. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
25 Gennaio 2017

Pensiero del giorno


Dal Vangelo secondo Luca 16,1-2: Diceva Gesù diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare».


La parabola dell’amministratore infedele va compresa collocandola nel suo originale contesto palestinese dove l’amministratore, solitamente un servo nato nella famiglia, agendo per conto del suo padrone, usava dei beni a lui affidati con una grande libertà.
Come l’esattore delle tasse, il servo amministratore, oltre ad assicurare un profitto per il suo padrone, poteva accumulare ingenti guadagni personali ricorrendo anche all’usura. Costretto da una delazione a rendere conto dell’amministrazione, il servo, vedendo dinanzi a sé un futuro di fame e stenti, decide di giocare d’astuzia.
L’amministratore disonesto, decurtando notevolmente i debiti ai debitori del padrone, spera di mettere da parte un buon capitale di amicizie. Lo sconto operato è certamente una sostanziosa regalia, ma, come avviene in altre storie, tutto è appositamente gonfiato, debiti e sconti, per rendere più chiara la «morale» del racconto.
Il padrone non può non lodare l’astuzia del servo il quale ha agito con scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o l’accortezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli.
Non vuole essere un giudizio morale: l’imbroglio è imbroglio e non è consentito fare il male perché ne derivi un bene. L’amministratore rimane disonesto e anche imbroglione; la morale della parabola è ben altra: i figli delle tenebre, i mondani, i non credenti, per conseguire i loro obiettivi, spesso malvagi o disonesti, sono capaci di aguzzare l’ingegno mettendo in campo fantasia, capacità intellettive e professionali, denaro, amicizie ..., mentre i figli della luce, i credenti, i cristiani, spesso conoscono la sola forza dell’abulia, dell’inerzia.
Nella Chiesa, Corpo di Cristo, chi non opera per la sua crescita secondo la propria capacità e attività deve dirsi inutile per la Chiesa e per se stesso. Da qui l’invito a procurarsi la salvezza mettendo in campo anche la «disonesta ricchezza». Disonesta perché spesso è frutto di loschi affari: il denaro, «radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), «ha corrotto molti e ha fatto deviare il cuore dei re» (Sir 8,2).
Per personificare il profitto, il guadagno, e la ricchezza materiale il Nuovo Testamento usa la parola mammona**. Mammóna è una parola dall’origine aramaica dall’etimologia incerta. Alcuni studiosi hanno suggerito di collegarla alla radice ebraica ‘mn (da cui proviene il termine amen) che indica fiducia, affidamento; secondo altri è meglio collegata al termine ebraico matmon, che significa tesoro; altri ancora ritengono possa derivare dall’ebraico mun (provvedere il nutrimento). Il significato dei diversi campi semantici converge comunque nel concetto di sicurezza materiale. Se così inteso, il denaro si oppone a Dio: solo lui può dare stabilità all’uomo.
Sembra chiudersi qui l’insegnamento della parabola, ma in verità Gesù vuol tracciare ai discepoli un programma di vita che non può e non deve coincidere con quello dell’amministratore.
L’obiettivo che si pone il fattore infedele è il massimo godimento personale e la sicurezza della propria vita a discapito degli altri. È per questo che il fattore imbroglia il suo padrone. Disonesto e astuto, l’unico suo fine è quello di godersi le cose di questo mondo e, per farlo, non gli importa se gli altri vengono defraudati dei loro diritti. E Gesù qui è lapidario: «i figli di questo mondo» sono molto ingegnosi per raggiungere questo obiettivo e se è necessario anche calpestando e sfruttando gli altri!
E questo inequivocabilmente è disonesto e immorale, anche per una “morale laica”!
L’obiettivo che invece si deve porre il discepolo di Cristo deve andare per un’altra direzione, esattamente all’opposto di quello del fattore infedele.
Morto al peccato e risorto con Cristo, il discepolo, cerca le cose di lassù (cf. Col 3,1) e suo obiettivo primario sono le gioie che si possono avere alla presenza di Dio (cf. Sal 16,11), compiacendolo in ogni cosa e servendolo con amore di figlio.
Per lui «il vivere è Cristo» e «il morire un guadagno» (cf. Fil 1,21). Egli anela ad essere un giorno per sempre con Cristo (cf. Fil 1,23), nella «casa del Padre» (Gv 14,1-3). Egli desidera «una patria» migliore, quella celeste (cf. Eb 11,13-16). In questa ottica,  per il credente, le cose di questo mondo, per quanto importanti, sono del tutto secondarie, anzi, le pone al servizio di Dio e della sua causa!

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; fa’ che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

** Fino alla seconda traduzione CEI viene mantenuta la parola d'origine aramaica, mentre nella traduzione 2008 la parola viene sostituita con ricchezza.


24 Gennaio 2017

Pensiero del giorno


Lc 15,10: Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

In tre parabole l’evangelista Luca sottolinea la gioia del Padre celeste a motivo della conversione dei peccatori e tutte queste tre parabole lucane sono precedute da una breve introduzione che accenna al motivo per il quale Gesù volle raccontarle: «I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”» (v. 2; cf. Mt 9,10-13). Un atteggiamento in sintonia con il loro freddo legalismo con il quale avevano cancellato dai loro cuori e dal loro insegnamento la fedeltà, la giustizia, la misericordia (cf. Mt 23,23-24).
Che tutti i pubblicani e i peccatori facessero ressa attorno alla persona di Gesù per ascoltarlo è un’iperbole, ma sottintende in modo mirabile che tutti possono accostarsi al Cristo.
Il Vangelo di Matteo (9,9-13) nel racconto della vocazione di Matteo-Levi può suggerire il tema delle tre parabole lucane: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». ».
Quindi la misericordia, ma nel Vangelo di Luca vi è un di più ed è la gioia di Dio che ha ritrovato quello che era perduto; la gioia di aver ritrovato il figlio traviato; il gioioso peso della pecora smarrita che sulle spalle del pastore ritorna a casa: un tema onnipresente nel Vangelo di Luca.
Un elemento, «essenziale nella riflessione su questo “Vangelo della misericordia”, è la consapevolezza della “gioia di Dio” [...]. L’atteggiamento di Dio si manifesta, dunque, non nel rimprovero, che sarebbe giusto e motivato secondo la logica umana, ma nella gioia per la pecorella, la monetina, il figlio ritrovati. E questa gioia divina che esplode “nel cielo” e “davanti agli angeli” [vv. 7,10], è l’aspetto più straordinario, e consolante, dell’esperienza profonda della riconciliazione con Dio» (Myriam Pietrasanta Bossi).
Con l’incarnazione di Cristo (cf. Gv 1,14) la gioia invade la faccia della terra come un fiume in piena (cf. Lc 2,10). In Gesù le promesse si adempiono e il regno di Dio viene inaugurato nella gioia. Giovanni Battista esulta di gioia nel grembo della madre all’avvicinarsi del Redentore (cf. Lc 1,44): è l’amico dello sposo che esulta di gioia alla voce dello sposo (cf. Gv 3,28). Maria esprime i suoi sentimenti nel Magnificat che è il canto della gioia per eccellenza: «Vicina al Cristo, essa ricapitola in sé tutte le gioie, essa vive la gioia perfetta promessa alla Chiesa: Mater piena sanctae laetitiae; e giustamente i suoi figli qui in terra, volgendosi verso colei che è madre della speranza e madre della grazia, la invocano come la causa della loro gioia: Causa nostrae laetitiae» (Paolo VI).
Per il cristiano, la gioia è il frutto dello Spirito Santo (cf. Gal 5,22) ed è l’elemento fondante del regno di Dio (cf. Rom 14,17). La gioia cristiana nasce dalla carità (cf. 1Cor 13,6), dalla fede (cf. 1Pt 1,3-9; Fil 1,25), dalla speranza e dalla preghiera perseverante (cf. Rom 12,12; 15,13). Si irrobustisce nelle prove e nelle persecuzioni procurando una quantità smisurata ed eterna di gloria (cf. 2Cor 4,17). Pur «afflitto da varie prove», il cristiano esulta di «indicibile gioia» (1Pt 1,8); vive nella gioia e la manifesta a tutti gli uomini: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). La gioia cristiana diventa così per gli uomini il segno reale della venuta del Signore e del suo perdono.
Infine, il perdono ampiamente e liberalmente concesso dal Padre non va scambiato con il perdonìsmo, come se fosse una sorta di indulto o di amnistia. Dinanzi a Dio il peccato è peccato ed Egli non può dire bianco ciò che è nero, né può dire santo chi è peccatore perché Egli è verità.
Dio è amore, misericordia, ma è anche giustizia.
Ritrovarsi, poi, tra le braccia del Padre, non è questione di pii frivoli propositi. Il giovane traviato oltre la fame e la miseria ha dovuto affrontare una crisi interiore dolorosissima. Ha dovuto trovare in se stesso il coraggio di tornare a casa ed affrontare un giudizio. La sua conversione parte dallo stomaco vuoto (v. 16) e non dalla comprensione della laidézza del peccato: dovrà percorrere un lungo, lacerante percorso interiore per approdare al desiderio di ritornare a casa. Dovrà soprattutto perseverare senza mai stancarsi (cf. 1Cor 10,12).
Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte. Egli è Dio...