1 Marzo 2017

Il pensiero del giorno

Mc 11,12-14.20-27: La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, [Gesù] ebbe fame. Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. Rivolto all'albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l'udirono. La mattina seguente, passando, videro l'albero di fichi seccato fin dalle radici...

Una fede che non salva - La fede, dice il Catechismo della Chiesa, è la «virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio» - gli diciamo di sì, ci fidiamo di lui - «e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato e che la Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità» (n. 1814).
Quando per illogici giochi mentali l’uomo non si fida più di Dio, pur continuando a vivere una fede di facciata, scivola nell’ateismo pratico. La fede, che aveva permeato la sua vita, le sue giornate, il suo respiro, diventa un fico secco, incapace di produrre frutti di salvezza (cf. Mc 11,12-14). È una fede sterile, una fede che non salva.
È la fede di coloro che per la fame insaziabile di potere e gloria si affidano agli idoli (Is 41,1-29; Ger 10,1-10), alla magia (Sap 17,7; Is 47,9), alla ricchezza (Pr 11,28). È la fede di colui che per mire umane confida nei potenti, «in un uomo che non può salvare» (Sal 146,3). Su questa fede pende una maledizione: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore» (Ger 17,5).
C’è una fede insipiente che non porta frutto: è la fede di colui che va alla ricerca del sensazionale, del miracolo come fatto emozionale (Gv 4,48; 1Cor 1,22). Questa ricerca non farà mai nascere né crescere la fede!
C’è la fede vera che è quella di chi si affida totalmente a Dio fino al punto di chiedergli anche un miracolo: non per tentarlo però, che in tal caso il miracolo non avverrà mai, ma piuttosto perché si ha totale fiducia in lui. Dopo l’ascensione del Maestro gli Apostoli conquistarono il mondo con la fede in Gesù risorto e operando in suo nome miracoli e prodigi (Mc 16,17-18; Atti 4,30-31).
La fede vera è la fede degli umili, di chi sa stare al suo posto, di chi sa riconoscere che la capacità di compiere qualcosa è totalmente dovuta alla grazia divina; è la fede dell’uomo giusto che attende tutto da Dio, sopra tutto la salvezza: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,8-10). Chi «ha la fede autentica riconosce che le sue più grandi realizzazioni sono non sue, ma del Signore. Proprio i più grandi testimoni di Cristo, pensatori, mistici e realizzatori, sono quelli che alla fine professano con assoluta sconvolgente sincerità: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (V. Croce).
La fede vera è la fede di colui che «come albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nellanno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti» (Ger 17,8) di carità e di bene. Perché «la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (Gc 2,17).
La fede senza le opere è la fede del «servo malvagio e infingardo» che sotterra il talento per paura del suo padrone e si presenta a mani vuote dinanzi al suo Signore (Mt 25,25); è la fede del fico senza frutti che si seccò e non diede più frutto (Mt 21,19).
La fede vera è la fede impegnata, non timida, perché «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2Tm 1,7).
Una fede non vergognosa ma, che sa affrontare serenamente e virilmente, appoggiandosi su Dio, tentazioni, sofferenze, lotte e dolori; vissuta nel grigiore del quotidiano o nei momenti più esaltanti.
La vera fede dona al credente anche dubbi, interrogativi, perché la «fede che non dubita non è fede» (Miguel de Unamuno); a volte fa piangere lacrime di sangue perché introduce il credente nel buio tunnel della croce senza dargli sicurezze, appoggi; oppure lo consegna al nudo patire senza offrirgli una goccia di consolazione, di conforto. A volte gli richiede rinunce inaudite esponendolo ai morsi terrificanti della solitudine, dello sconforto, del silenzio insopportabile di Dio.
Non è facile vivere di sola fede. Il celebre scrittore inglese William Thackeray, l’autore de La Fiera della vanità, era della stessa idea quando affermò: «Il difficile non è morire per la fede, ma vivere per essa». Per chi ha fede morire per essa è un sopportabile martirio; vivere per essa è trasformare la vita in un sopportabile martirio perché con la fede l’uomo trova Dio e con Dio la vita è un paradiso anticipato.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, fonte di ogni bene, che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


28 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno



Lc 17,5-10: Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe...


La Chiesa, casa dei servi inutili - Qualche esegeta considera Lc 17,5-10 (la petizione degli Apostoli e la parabola del servo umile) un «brano unitario. Gesù risponde agli Apostoli con un ragionamento a fortiori: se con la vostra poca fede potete ottenere un risultato straordinario, tanto più potrete adempiere il vostro incarico di servi, paghi e felici soltanto di agire sotto lo sguardo benevolo del Padre celeste, che non attende altro dagli esseri umani, se non di essere lodato nel loro servizio umile, riconoscente e filiale» (Angelico Poppi).
Alla richiesta degli Apostoli - Aumenta la nostra fede - Gesù risponde con un detto paradossale.
Anche se non è del tutto chiaro il rapporto tra la domanda e la risposta, il linguaggio iperbolico serve a Gesù a illustrare la potenza della fede: da una parte il gelso, una pianta praticamente inestirpabile; dall’altra, una fede piccola quanto un granello di senape, «che era assunto come parametro per indicare la minima traccia visibile ad occhio nudo. Il senso è chiaro: la fede anche nella più piccola quantità ipotizzabile, racchiude una forza straordinaria» (Vittorio Fusco).
Certamente gli Apostoli avevano intuito la potenza e la preziosità della fede e comprendendo che essa è un dono del Signore la invocano da lui con fermezza: la risposta di Gesù non fa altro che sottolineare la felice comprensione dei Dodici.
Il breve insegnamento sulla potenza della fede viene completato dalla parabola che va compresa facendo memoria dei rapporti sociali esistenti nel mondo greco-romano. La parabola non vuole assolvere il comportamento collerico del padrone dispotico e sopra tutto non vuole svelare il volto del Padre, il quale, invece, nonostante tutto, ha sempre i lineamenti del Dio amorevole sempre pronto a chinarsi sull’uomo per guarirlo, consolarlo, salvarlo. Gesù ha rivelato agli uomini il vero, dolce volto del Padre; il Dio di Gesù non è un padre-padrone esoso, arcigno e tirannico: Dio, nella sua generosità e bontà, «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Quindi, si può ben dire che la parabola evangelica non vuole mettere in luce l’agire di Dio verso l’uomo, ma vuole illustrare l’atteggiamento dell’uomo verso Dio mettendo in questo modo in evidenza il giusto valore delle opere umane al cospetto del Signore.
I Farisei sopravvalutavano le loro opere (Lc 18,9-14). Erano convinti che esse dessero loro il diritto ad un’adeguata retribuzione, che fossero esse a far ottenere loro il perdono e l’amicizia di Dio. A questa concezione Gesù contrappone una diversa immagine dell’uomo che decide di mettersi al servizio di Dio. Totalmente impegnato nel servizio affidatogli non deve accampare meriti, diritti o ricompense particolari, ma sentirsi sempre in debito e mai in credito, sempre a mani vuote davanti al Signore Dio.
L’uomo «deve ricordare che quando ha fatto il suo dovere, la ricompensa Dio gliela dà. Non gliela fa mancare perché Dio è un buon pagatore, che non si lascia vincere da nessuno e mai in generosità. Il dono però non risponde ad un’esigenza umana naturale, ma esclusivamente alla munificenza divina» (Vincenzo Raffa).
L’espressione servi inutili non va intesa nel senso di incapaci. Il servo inutile è colui che fa semplicemente ciò che gli viene comandato.
Dio invece prende sul serio l’impegno dell’uomo, lo sollecita, lo desidera, lo chiede accurato e completo! Il bene va fatto bene! È il Padre che interpella i figli, li chiama, li vuole impegnati nella sua casa, li sollecita ad andare a lavorare nella sua vigna (Mt 20,1ss), ma senza le fronde dell’alterigia, della vanità o della superbia. Un lavoro fatto in silenzio e in umiltà, nel nascondimento, senza montarsi la testa, senza sentirsi i primi della classe.
Nessuno di noi è indispensabile, perché la Chiesa è la casa dei «servi inutili».
Quello che il Signore Gesù vuole sottolineare non è la inutilità del servizio in se stesso, ma la risonanza interiore; la consapevolezza che il nostro impegno non è che una risposta, doverosa e sempre inadeguata, all’amore infinito di Dio.
Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senapa, donaci l’umiltà del cuore, perché cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi inutili, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

  
27 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno



Lc 18,19-31: C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti...


Il ricco e il povero Lazzaro - La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo.
All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulábatur cotidie spléndide). A Roma furono detti Epulones i membri di quattro grandi corporazioni religiose, il cui ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbliche feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondantemente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a suo favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is 1,17; 58,7).
La ricchezza dell’epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro bramoso di sfamarsi degli avanzi che cadevano dalla mensa e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo.
Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt 7,6).
Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudine presentate come castighi e premi eterni.
Il tema è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché chi «ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. » (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (cf. Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologia della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri.
Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Cànopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutto qui la «morale» della parabola.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia dei spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


26 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno

Mt 5,1-12: Beati...

 I poveri (anawîm) - I poveri sono coloro che mancano del necessario. Nella sacra Scrittura sono anzitutto gli oppressi, «infatti nel termine figurato ebraico “gli umiliati”, i “piegati” confluiscono tre significati per “povero”: bisognoso, oppresso e paziente [...]. Un povero non aveva il diritto di interloquire, non aveva alcuna influenza, veniva truffato anche davanti al giudice, era l’“oppresso”» (K. P.).
Con Sofonia il vocabolario sulla povertà prende una sfumatura morale ed escatologica: gli anawîm sono gli Israeliti sottomessi alla volontà divina e a loro sarà inviato il Messia (Cf. Is 61,1; 11,4; Sal 72,12s; Lc 4,18). Egli stesso sarà “mite e umile di cuore” (Cf. Zac 9,9; Mt 11,29; 21,5), dolce e anche oppresso ingiustamente (Cf. Is 53,4; Sal 22,25).
Al di là di questa sfumatura, Israele ha avuto sempre cura degli indigenti che numerosissimi affollavano le sue piazze.
Il Deuteronomio risponde agli appelli dei poveri con una legislazione umanitaria (Cf. Dt 24,10s; Es 22,20-26; 23,6), mentre i profeti, sempre al fianco dei più deboli, dei piccoli e dei più bisognosi, hanno difeso la loro misera sorte reclamando, spesso con forza e veemenza, giustizia, protezione e imparzialità soprattutto nei giudizi (Cf. Is 10,1-2; Am 2,6s).
Gesù Cristo nel proclamare beati i poveri, ma nel Vangelo di Matteo e non in quello di Luca, riprende la parola «povero» con la sfumatura morale messa in evidenza da Sofonia. Riprendendo il tema dei poveri di Iahvé, «Gesù ha proclamato le beatitudini; ha affermato così la felicità dei poveri, degli afflitti, degli affamati ..., di coloro cioè che vivono in misere condi­zioni, ma in una assoluta confidenza in Dio: costoro hanno la sua preferenza» (Roberto Tufariello).
Le “beatitudini” sono presenti soltanto nel Vangelo di Matteo e in quello di Luca, ma con sfumature molto diverse (Cf. Mt 5,1-12; Lc 6,20-23).
Luca alle “beatitudini” aggiunge “quattro guai” (Cf. 6,24-26). Diverso è il contesto in cui vengono collocate dagli evangelisti e anche il numero, nove in Matteo e quattro in Luca.
Per quanto riguarda il numero delle beatitudini, la nona beatitudine del vangelo di Matteo «va distinta e separata dalle altre otto che da sole costituiscono un’unità letteraria completa: essa appare come una semplice aggiunta, che estende ed applica agli ascoltatori di quell’elenco il contenuto dell’ottava beatitudine» (Don Alfonso Sidoti).
La formula delle beatitudini è nota sia dalla Bibbia sia dalla letteratura ellenistica e rabbinica.
L’Antico Testamento «usa talvolta formule di felicitazione come queste, a proposito di pietà, saggezza, prosperità, timor di Dio [Sal 1,1-2; 33,12; 128,5-6; Pr 3,3; Sir 31,8; ecc.]. Gesù ricorda, nello spirito dei profeti, che anche i poveri hanno parte a queste “benedizioni”: le prime tre “beatitudini” (Mt 5,3-5; Lc 6,20-21) dichiarano che uomini, considerati sventurati o maledetti, sono felici, perché sono preparati a ricevere la benedizione del regno. Le beatitudini successive interessano più direttamente l’atteggiamento morale dell’uomo» (Bibbia di Gerusalemme).
Matteo conclude il discorso di Gesù con due beatitudini che sono di una novità scioccante: se la persecuzione, il sopportare la violenza sia fisica che morale, era anche per i pii ebrei una punizione, un castigo, ora nell’insegnamento del Cristo diventa fonte di felicità, di gioia, perché partecipazione intima, reale e completa al destino del Maestro (Cf. Gv 15,18-21), quindi sorgente di beatitudine: «Perciò sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e...  a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Gli apostoli hanno amato e vissuto la povertà e la Chiesa di Gerusalemme ha accolto e vissuto l’ideale di povertà del suo Maestro con la comunione dei beni e l’assistenza ai poveri. La persecuzione, pur essendo entrata di diritto nel bagaglio apostolico della Chiesa, non l’atterrisce, anzi per essa è motivo di vanto e di gioia, così come promesso dal suo Fondatore: «richiamati gli apostoli, li fecero flagellare... Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (Atti 5,40-41).


Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa:  Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l’anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio, e vive e regna con te... 


25 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno

Lc 18,1-8: Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


Come? Quando pregare? - La risposta è data dal Vangelo di Luca (18,1): sempre, senza stancarsi.
Una risposta che l’evangelista ha imparato da Paolo (Ef 6,18; Col 1,3; 1Ts 5,17; 2Ts 1,11 ecc.) e che ora illustra con una parabola del Signore.
Si deve pregare sempre, perché si può pregare sempre: «È possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. È possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comperate sia mentre vendete, o anche mentre cucinate» (San Giovanni Crisostomo). E Origene: «Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera. Soltanto così noi possiamo ritenere realizzabile il principio di pregare incessantemente».
La preghiera sarà incessante quando il cristiano prenderà coscienza della volontà di Dio, e ripeterà incessantemente la sua piena accettazione delle decisioni divine. Una accettazione salutare che avrà una ripercussione sulla sua condotta e soltanto se tutta la sua vita sarà diretta coscientemente dalla volontà di Dio, la sua preghiera potrà essere considerata preghiera.
L’insistenza della vedova, poi, vuole suggerire che a guidare e a illuminare la preghiera deve essere la fede. La fiducia in Dio e nella sua azione pronta è alla radice della preghiera autentica. Avere fiducia in Dio significa avere la certezza che Lui ci ascolta molto di più di quanto possano fare gli uomini ed è sempre pronto a donarci quanto gli chiediamo nella preghiera. A questo proposito ci dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La fiducia filiale è messa alla prova - e si manifesta - nella tribolazione. La difficoltà principale riguarda la preghiera di domanda, nell’intercessione per sé o per gli altri. Alcuni smettono perfino di pregare perché, pensano, la loro supplica non è esaudita» (2734).
Il Nuovo Testamento è ricco di preghiere di domanda. Ma si deve partire da una povertà: noi non «sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26), e quindi occorre farsi guidare dallo Spirito Santo. In Giacomo 4,2-3 si riprovano le domande, fatte male, grondanti di egoismo, tese solo al soddisfacimento dei propri piaceri. La preghiera è ben fatta quando l’uomo assoggetta la sua volontà a quella di Dio, praticamente quando «le sue richieste sono fatte in sintonia con il disegno divino ... Cristo ... esorta i suoi discepoli a ripetere la loro preghiera per scoprire in se stessi il desiderio di ciò che domandano, divenendo in tal modo più ricettivi all’azione di Dio che li esaudirà» (D. E.).
Ma a volte, pur avendo rispettato questa regola, Dio tace; un silenzio che scandalizza l’uomo e sconvolge il cuore dell’uomo giusto. A questo proposito ci suggerisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chiediamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio... Il nostro Dio è “geloso” di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi» (2736-2737).
E all’uomo triste perché non ha ricevuto quanto aveva chiesto nella preghiera, Evagrio Pontico suggerisce: «Non rammaricarti se non ricevi subito da Dio ciò che gli chiedi; egli vuole beneficiarti molto di più, per la tua perseveranza nel rimanere con lui nella preghiera».
Ma c’è un’ultima nota: il cristiano sa che la sua preghiera non può aver valore se non precede il perdono al prossimo: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati» (Sir 28,2; cf. Mc 11,25). Più sconvolgente e perentorio l’insegnamento di Gesù: «Se dunque presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
La riconciliazione è la buona acqua che impastata con la bianca farina della comunione fraterna fa il pane soave della preghiera, pane profumato da offrire a Dio e a lui tanto gradito (Ap 5,8).


Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa:  O Dio guarda la tua Chiesa raccolta in preghiera, fa’ cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.


 24 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno


Is 14,6: Il Signore ha spezzato la verga degli iniqui, il bastone dei dominatori, che percuoteva i popoli nel suo furore, con colpi senza fine, che dominava con furia le nazioni con una persecuzione senza respiro.


La persecuzione religiosa  è  il tentativo violento e malvagio messo in opera da una autorità o da qualsiasi altro potere per sopprimere il giusto, spesso inerme e indifeso, nell’intento di separarlo da Dio. La storia di Israele è costellata di persecuzioni individuali e collettive: per esempio, la perversa decisione di Amàn «di sterminare tutti i Giudei che si trovavano in tutto il regno di Artaserse» (Est 3,6), o la ferocia di Antioco Epìfane, figlio del re Antioco (cf. 1Mac 1,10), che apportò innumerevoli lutti e indicibili dolori al popolo eletto.
Le persecuzioni comunque provano in modo mirabile il faticoso e dolente cammino del popolo di Dio verso una più pura e conquistata fedeltà. Il risultato delle persecuzioni, infatti, sotto il profilo religioso, è l’affermarsi del regno e della potenza di Dio. Questo carattere provvidenziale delle persecuzioni è messo bene in evidenza dall’autore del secondo libro dei Maccabei: «Io prego coloro che avranno in mano questo libro di non turbarsi per queste disgrazie e di pensare che i castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo. Quindi è veramente segno di grande benevolenza il fatto che agli empi non è data libertà per molto tempo, ma subito incappano nei castighi. Poiché il Signore non si propone di agire con noi come fa con le altre nazioni, attendendo pazientemente il tempo di punirle, quando siano giunte al colmo dei loro peccati; e questo per non doverci punire alla fine, quando fossimo giunti all'estremo delle nostre colpe. Perciò egli non ci toglie mai la sua misericordia, ma, correggendoci con le sventure, non abbandona il suo popolo.» (2Mac 6,12-16).
I Salmi racchiudono le più belle preghiere dei giusti perseguitati (Sal 31,16; 57,4; 119,157).
Nel discorso della montagna, sono proclamati beati gli uomini e le donne che subiscono la persecuzione, la violenza, la tortura, la diffamazione a causa del nome di Gesù; sono beati tutti coloro che saranno odiati e anche eliminati fisicamente per causa sua (cf. Mt 5,10-11).
Attraverso le persone dei cristiani la persecuzione ha di mira la persona viva di Gesù Cristo risuscitato. È Gesù che Saulo perseguita a Gerusalemme e a Damasco (cf. Atti 8,3; 9,1-2); tentando di annientare la Chiesa, Corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,27), Saulo in verità vuole colpire il Risorto.
I cristiani proprio perché sono di Cristo (cf. 2Cor 10,7) non si meravigliano se il mondo li odia (cf. 1Gv 3,13; 1Pt 4,12). Al contrario il discepolo ritiene la persecuzione necessaria e accogliendola con gioia grande la vede come sofferenza di Cristo che non ha ancora colmato la sua misura (cf. Mt 5,12; Gv 16,33; Atti 14,22; Col 1,24; 1Pt 4,13-14).
Quindi, «se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; per questo nome, anzi, dia gloria a Dio [...]. Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, consegnino la loro vita al Creatore fedele, compiendo il bene» (1Pt 4,16.19).
«Come è grande questa prospettiva! Nel cristiano perseguitato per il nome del Cristo, riposa lo Spirito della gloria [Atti 7,55]; per questo il suo atteggiamento è l’abbandono fiducioso alla volontà del Dio creatore. Dio è fedele: lungi dal perdersi d’animo e dall’essere come travolti nella crisi degli ultimi tempi, i cristiani, abbandonandosi al Padre come il Cristo nel momento supremo della croce [Lc 23,46; Atti 7,59], restano saldi nella edificazione della Chiesa che il Cristo opera proprio attraverso la loro stessa tribolazione, annunciando al mondo la fine imminente della sua potenza e l’avvento del regno» (Maria Ignazia Danieli).
Paolo è il modello di tutti coloro che soffrono per Cristo. L’apostolo delle genti vivrà fino in fondo il Vangelo, pagando con la vita la sua conversione: a Roma sarà decapitato perché cristiano.
«Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino» (Rom 11,1), «ebreo figlio di Ebrei, quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge, irreprensibile» (Fil 3,5-6), folgorato dalla grazia sulla via di Damasco (Atti 9,1s), reputerà tutto, denaro e potenza, carriera e onori, scienza umana e primi posti, una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore (Ef 3,7-8).
Crocifisso con Cristo non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui: «… questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Pagherà fino in fondo questa scelta di campo.
Per il Vangelo soffrirà la fame, la sete e la nudità (cf. 1Cor 4,11). Perseguitato dai Giudei, suoi connazionali, dai falsi fratelli e dai pagani (cf. Atti 13,50; 14,5.19; 2Cor 11,26), subirà la flagellazione, tre volte farà naufragio, affronterà innumerevoli e perigliosi viaggi, fatiche e travagli, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità e oltre a tutto questo l’assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese (cf. 2Cor 11,24s). E avrà anche il coraggio di dire ai cristiani dell’opulenta e corrotta Corinto: «Vi prego, dunque: diventate miei imitatori» (1Cor 4,16).
Ai cristiani di Roma scriverà: «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite» (Rom 12,14). E ai Tessalonicesi: «Badate che nessuno renda male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1Ts 5,15).
In questi insegnamenti paolini riecheggia la parola autorevole di Gesù: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,38-39). Oggi, a ricordare queste parole si corre il rischio di essere messi fuori dal consorzio umano; eppure la persecuzione e il martirio per il discepolo di Cristo non sono un incidente di percorso, anzi, al dire di Tertulliano, è fecondità perché seme di nuovi cristiani.

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Mostraci la tua continua benevolenza, o Padre, e assisti il tuo popolo, che ti riconosce suo pastore e guida; rinnova l’opera della tua creazione e custodisci ciò che hai rinnovato. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo...


 23 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno





1Gv 2,15-17: Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!


Una battaglia senza quartiere. Una lotta che non conosce soste, una battaglia contro le potenze che guidano il mondo: denaro, sensualità, seduzione delle apparenze, orgoglio che nasce dal possesso dei beni terreni. Le vere realtà sono altre (cfr. 2Cor 4,18; Eb 11,1.3.27; ecc.). Altro che le allegre compagnie dei buontemponi che beati e spensierati canterellano al suono dell’arpa per ammazzare il tempo.
La drammatica condizione del mondo che giace sotto il potere del maligno (cfr. 1Gv 5,19) fa della vita dell’uomo una lotta: «Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche con l’aiuto della grazia di Dio» (GS 17).
Parole che mettono bene in evidenza quanto sia penoso, e anche difficile, conseguire la salvezza eterna. Qui soggiace la comprensione della vocazione cristiana, che è quella «dell’atletismo, che suppone un esercizio e un allenamento continuo» (Vincenzo Raffa).
Per comprendere a quale lotta tremenda si riferisce il Concilio dobbiamo richiamare alla nostra memoria il peccato di Adamo e la colluvie di peccati che subito dopo ammorbò la storia dell’uomo: «Il peccato di Adamo ha avuto delle conseguenze sull’umanità. Ma hanno conseguenze anche gli altri peccati che [...], sono alla loro volta conseguenza della forza di peccato che ha scatenato il primo peccato. La privazione della santità e della giustizia originarie ha reso più facile il fatto che ognuno degli uomini sia caduto nel peccato personale, e quest’ultimo, a sua volta, non ha potuto non avere conseguenze negative sugli altri esseri umani. A partire dal primo peccato il “peccato del mondo” aumenta come una palla di neve che cade giù per il pendio» (Luis F. Ladaria).
È in conseguenza del peccato di Adamo e di Eva che «il diavolo ha acquistato un certo dominio sull’uomo, benché questi rimanga libero. Il peccato originale comporta “la schiavitù sotto il dominio di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo”» (Catechismo della Chiesa Cattolica 408).
Questo potere reale di satana è la causa della lotta contro la potestà del Male che Cristo Gesù ha iniziato e che durerà fino alla fine dei tempi.
L’uomo non può sottrarsi a questa lotta.
Per non perdere i «parrocchiani», oggi, c’è il cattivo gusto di smerciare un cristianesimo a buon mercato. Si teme di insegnare che ogni vittoria morale esige una strategia appropriata e questa suppone una esatta valutazione e conoscenza del come accingersi all’impresa (cf. Lc 14,28).
C’è la paura di parlare di satana, il «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11; Ef 2,2), colui che semina la zizzania nel campo di Dio (Mt 13,25), colui che sa mascherarsi «da angelo di luce» (2Cor 11,14) e che come «leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). C’è la paura di dire che il «Male oggi non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore», la cui azione si fa più palpabile «dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (cfr. 1Cor. 16,22; 12,3), dove lo spirito del Vangelo è mistificato e smentito, dove la disperazione si afferma come l’ultima parola» (Paolo VI). C’è il timore di dire apertamente che dopo il peccato originale l’uomo è più vulnerabile, perché il peccato abita in lui (Rom 7,20). Si teme di dire apertamente che dopo la morte, e dopo una vita senza amore, c’è la possibilità di finire all’inferno, proprio come il “ricco epulone”! (Lc 16,19ss).
Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…


 22 Febbraio 2017

Il pensiero del giorno

Amos 8,4-7: Ascoltate questo,
voi che calpestate il povero
e sterminate gli umili del paese,
voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio
e si potrà vendere il grano?
E il sabato, perché si possa smerciare il frumento,
diminuendo l’efa e aumentando il siclo
e usando bilance false,
per comprare con denaro gli indigenti
e il povero per un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto del grano»».
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe:
«Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere.


Voi che calpestate il povero - Dopo la tragedia nefasta consumatasi nel paradiso terrestre, l’uomo si rende conto di aver perduto terreno su due fronti, o meglio di aver azzerato due contatti: il primo con Dio e il secondo con l’uomo (cf. Gen 3).
Dopo aver accolto incautamente la provocazione di satana - diventerete come Dio (Gen 3,4) -, dimostratasi irrimediabilmente una terribile menzogna, l’uomo si ritrova più creatura, ferito nella volontà, ottenebrato nel discernimento, incapace di alzare gli occhi al cielo (cf. Gen 4,6-7).
Con il peccato, con il quale l’uomo si allontana da Dio, si inquina sopra tutto il culto religioso che si trasforma spesso in un culto falso e ipocrita. È la falsa religione di chi crede di avere la coscienza a posto con poca fatica, un paravento per coprire i propri misfatti.
Il discepolo che è entrato nelle acque salutari del battesimo e vuole entrare nel regno di Dio, non può farsi affascinare dalla tentazione di bagnarsi i piedi, le mani e il cuore nelle acque sporche della frode nel commercio, dell’adulterio, della corruzione, del peculato, della ricettazione, dello strozzinaggio, dell’usura, delle tangenti.
Eppure, molti uomini, sozzi di tanto fango, credono stoltamente di poter manipolare Dio, di prenderlo in giro con ipocriti gesti cultuali e continuare a vivere secondo i propri capricci (cf. Ml 3). Pura stoltezza decisamente respinta da Dio al mittente: ««Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero ... Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (Is 1,11-15).
L’uomo ritrovandosi impotente di catturare Dio per manipolarlo (e la Parola di Dio insegna la verità sull’uomo, una verità che lo umilia nella sua sconfinata voglia di essere come Dio [cf. Gen 9] e che non lascia spazi di manovra alla sua furbizia [cf. Gal 6,7]), spesso, per mera vendetta e fame di potere si avventa con ferocia sul suo simile: dopo il peccato l’uomo non è più per l’uomo «carne della mia carne e osso dalle mie ossa» (Gen 2,23), ma merce di scambio, una cosa da sfruttare, da spremere, un oggetto da comprare e da possedere: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali» (Am 2,6).
Così la storia è puntellata da empi che prosperano e poveri che gridano a Dio per essere liberati; urlano le loro preghiere perché sanno che il Signore non dimentica «coloro che “calpestano il povero, sterminano gli umili, spremono gli indigenti”... Dio ci consegna l’uomo - ogni uomo che nasce è dono al mondo - non da asservire ma da servire ... Nessuno è padrone dell’uomo, tranne Colui che è il Signore degli uomini, il quale però “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, si incarnò, si fece servo e morì sulla croce ...”» (Mons. Luigi Olgiati).
Angherie perpetrate a volte con satanica perfidia e soprusi minuti che si consumano quotidianamente a danno dei poveri, dei più deboli: gli scioperi spregiudicati ed egoisticamente settoriali non sono uno spadroneggiare sulla gente e magari sugli ammalati? Il rialzo furbesco ed immotivato dei prezzi non è un abuso soprattutto per chi vive della pensione? Il bloccaggio diuturno degli affitti non è un immorale disinteresse per chi non ha casa?
E Dio non tace; indicando la Via da seguire (cf. Gv 14,6), fa sentire la sua voce: «Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,16-17).
A questo punto la scioccante verità suggerita dall’apostolo Paolo - Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità - si fa nebulosa, perché salvarsi diventa veramente difficile: la porta è stretta (cf. Mt 7,13) e la strada è tutta in salita. È difficile perché per salvarsi è necessario espropriarsi: e questo significa essere nudi dinanzi a Dio (cf. Eb 4,13) e inermi dinanzi all’uomo, come servi inutili (cf. Lc 17,10).

Siamo arrivati al termine. Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore...