1 Ottobre 2019

Martedì XXVI Settimana T. O.

S. TERESA DI GESÙ BAMBINO, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA

Zac 8,20-23; Sal 86 (87); Lc 9,51-56

Dal Martirologio: Memoria di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine e dottore della Chiesa: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia, divenne per purezza e semplicità di vita maestra di santità in Cristo, insegnando la via dell’infanzia spirituale per giungere alla perfezione cristiana e ponendo ogni mistica sollecitudine al servizio della salvezza delle anime e della crescita della Chiesa. Concluse la sua vita il 30 settembre, all’età di venticinque anni.

Colletta: O Dio, nostro Padre, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli, fa’ che seguiamo con serena fiducia la via tracciata da santa Teresa di Gesù Bambino, perché anche a noi si riveli la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Dovremmo provare amarezza dinanzi a certi fatti…, mentre Gesù decisamente si mette in cammino verso Gerusalemme, dove avrebbe compiuto la volontà de Padre bevendo fino all’ultima goccia dall’amaro calice della passione, i litigiosi fratelli Giacomo e Giovanni propongono di incenerire i Samaritani colpevoli di non aver accolto il loro Maestro. Decisamente una proposta omicida. Gesù, spinto dall’amore, offre la sua vita per salvare tutti gli uomini, Giacomo e Giovanni vogliono togliere la vita ai Samaritani a motivo di un gretto nazionalismo. Si potrebbe obiettare che i due apostoli non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo e che a motivo di questo le loro menti erano oscurate e fissate a norme e comandamenti tribali, sarà vero, ma c’è un capo di accusa che li condanna. È la vita di Gesù, le sue opere, i suoi insegnamenti, le sue parole, i suoi richiami …, a farci caso tutti tesi a creare un cuore nuovo, aperto alla carità, al perdono, all’amore … dinanzi a questi cristallini inviti di comportamento non ci sono scuse che tengono. Forse è lo stesso dilemma che dilania tanti cristiani, tengono in mano la Parola di Dio, l’ascoltano, magari con molta attenzione, eppure vivono nella ipocrisia, nella invidia, nell’odio, e spesso non contenti di tutto questo, e per torti veri o presunti, a piè sospinto, invocano il fuoco della vendetta divina che consumi l’umanità intera. In verità, a ben considerare, non c’è nulla di nuovo sotto il sole (Qo 1,9).

Dal Vangelo secondo Luca 9,51-56: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.

Gesù prese la ferma decisione... - Gesù è diretto a Gerusalemme, la città santa, dove si deve compire il suo destino di dolore e di gloria. L’espressione i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto oltre i giorni dell’assunzione di Gesù (Cf. At 1,2) ricorda anche i giorni della passione, morte e resurrezione.
La frase prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, in greco letteralmente suona egli indurì il volto per andare a Gerusalemme, un modo di dire semitico (Cf. Ger 21,10; Ez 6,2; 21,2) con cui l’evangelista Luca vuole sottolineare la risolutezza di Gesù nell’affrontare il suo destino di morte che lo attende a Gerusalemme: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50). La stessa espressione la troviamo in Isaia 50,7 quando si sottolinea la missione del Servo sofferente: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».
Il percorso più rapido che dalla Galilea porta a Gerusalemme prevede l’attraversamento della regione dei Samaritani, i quali, sempre molto mal disposti verso i Giudei (Cf. Gv 4,9), si rifiutano di accogliere Gesù. Da qui l’inimmaginabile reazione degli apostoli Giacomo e Giovanni.
La richiesta dei «figli del tuono» (Mc 3,17) cavalca l’onda di un messianismo terreno e ricorda 2Re 1,10-12 in cui Elia, per due volte, chiama il fuoco dal cielo per incenerire i suoi nemici.
La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto dura: si voltò e li rimproverò. Il verbo che Luca usa è epitimao che significa, letteralmente, vincere con un comando, minacciare, usato da Gesù negli esorcismi. In questo modo il senso della richiesta e del rimprovero si fanno più chiari.
In sostanza, come Satana, Giacomo e Giovanni propongono a Gesù un messianismo trionfalistico che sottende il rifiuto della croce. A questa proposta Gesù si oppone con forza. È lo stesso rimprovero che aveva mosso a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23).

Rosanna Virgili (Vangelo secondo Luca): Il rifiuto di Samaria e l’inizio del cammino (vv. 51-56) - I versetti iniziali introducono il tempo di tutto il cammino che va fino alla fine del vangelo. La menzione dei «giorni della sua salita (analémpseos)» evoca l’ascensione del Signore risorto in Lc 24,51 («Mentre li benediceva, si separò da loro e veniva fatto salire su, in cielo»), cioè del suo ritorno al Padre. All’origine di questo cammino che si concluderà con la morte e poi con la risurrezione, c’è la decisione di Gesù, segno di come la croce non fosse la meccanica esecuzione di una volontà divina, ma come il Figlio vi partecipasse con la propria fede. Gesù «rese duro il suo volto» (v. 51, to prósopon estérisen), proprio come il Servo, per affrontare il suo destino di sofferenza (cf Is 50,6-7). I preparativi per la partenza vengono fatti in Samaria, che si mostra chiusa all’accoglienza del Maestro (v. 53, cf v. 48). Un dettaglio teologico, più che di cronaca, per manifestare come la salvezza che sarebbe venuta da Gesù dovesse appartenere alla Giudea ed a Gerusalemme e non alla Samaria (cf Gv 4,22: «La salvezza viene dai giudei»). La reazione di Giacomo e Giovanni è tipica dell’atteggiamento profetico (cf 2Re 1,10-14), ma Gesù li rimprovera. Nonostante la città dove la sua resa di amore dovrà consumarsi fosse Gerusalemme, Gesù amerà Samaria e apprezzerà i samaritani più dei giudei (cf Lc 10,29-36; 17,15-17).
Ancor più toccante è, per questo, la reazione frequente di rifiuto che Gesù si trova ad avere. Oltre che qui, all’inizio del cammino per Gerusalemme, Gesù fu rifiutato a Nazaret dai suoi concittadini (cf 4,28-29), all’inizio della missione in Galilea, e poi sarà rifiutato a Gerusalemme (cf 19,41-44). Il modello è quello del profeta perseguitato, secondo la profezia di Simeone (il “segno di contraddizione” di Lc 2,34).

Mentre stavano compiendosi i giorni… - Carlo Ghidelli (Luca): stava per compiersi il tempo: il verbo greco sumplérousthai Luca lo usa per caratterizzare i grandi momenti della storia, oggetto della sua opera di evangelista (cfr Lc 4,21 all’inizio del ministero di Gesù; At 2,1 il giorno di Pentecoste, inizio del ministero apostolico; At 19,21 quando Paolo decide di andare a Gerusalemme e poi a Roma). Quindi questo viaggio di Gesù realizza un momento nevralgico nel piano salvifico di Dio; è un tempo forte della storia della salvezza. - il tempo della sua assunzione: qui per analémpsis si deve intendere (cfr Lc 9,31 e At 1,2) non solo l’ascensione di Gesù al cielo, ma l’intero mistero pasquale, nella totalità dei suoi momenti (passione-morte-risurrezione-ascensione-pentecoste). La mèta di questo viaggio è Gerusalemme, verso la quale Gesù procede con estrema decisione; Gerusalemme non è più dunque solamente una mèta geografica ma un tèlos, non è una fine ma un fine, punto di attrazione e traguardo finale di un destino lungamente atteso e fortemente desiderato (cfr specialmente 13,33; 19,11.28).

Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani... - Alice Baum: Abitanti della città e della provincia di Samaria, che dopo la divisione del regno divenne la regione centrale del regno del nord. Dopo la conquista da parte degli assiri nel 722 a.C., parte della sua popolazione fu deportata e al suo posto furono insediati coloni assiri che si mescolarono con gli israeliti rimasti. Quando i giudei reduci dall’esilio iniziarono a ricostruire il tempio, rifiutarono la collaborazione offerta loro dai Samaritani. La diffidenza verso la popolazione mista considerata cultualmente impura - ma forse, più propriamente, l’antico contrasto fra nord e sud - fu la causa del rifiuto, che ebbe come strascico un’ostilità esasperata. I Samaritani ostacolarono la costruzione del tempio e delle mura e successivamente si costituirono come comunità religiosa autonoma, con un proprio culto e il ritorno alle tradizioni più antiche. Costruirono un tempio sul monte Garizim. Il rapporto fra giudei e Samaritani rimase teso fino al periodo neotestamentario e postbiblico. I giudei consideravano i Samaritani pagani e il loro culto illegittimo. I Samaritani ricambiavano il rifiuto. Gesù si rivolge a loro proprio perché erano considerati pagani ed emarginati, e annuncia loro l’evangelo (Gv 4). I Samaritani si attenevano rigorosamente al monoteismo e alla Legge. Sacra Scrittura è soltanto la Torah (con notevoli varianti), il cosiddetto Pentateuco samaritano. Tutti i rimanenti libri biblici e le dottrine posteriori della tradizione giudaica non vengono accettati. Si origina una tradizione samaritana autonoma. I Samaritani attendono il messia (non davidico) secondo Dt 18,15 come colui che ripristinerà il culto. Oggi ci sono ancora circa 400 Samaritani che vivono a Nablus (Sichem) e nelle vicinanze di Tel Aviv.

Il fuoco alla fine dei tempi - Il fuoco del giudizio diventa castigo senza rimedio, vero fuoco dell’ira, quando cade sul peccatore indurito. Ma allora - tale è la forza del simbolo - questo fuoco, che non può più consumare l’impurità, rimesta ancora le scorie (cfr. Ez 22,18-22). La rivelazione esprime così quel che può essere l’esistenza di una creatura che rifiuta di essere purificata dal fuoco divino, ma ne rimane bruciata. Qui c’è qualcosa di più che non nella tradizione che riferisce l’annientamento di Sodoma e Gomorra (Gen 19,24). Fondandosi forse sulle liturgie sacrileghe della Geenna (Lev 18, 21; 2 Re 16, 3; 21, 6; Ger 7, 31; 19, 5 s), approfondendo le immagini profetiche dell’incendio (Is 29, 6; 30, 27-33; 31, 9) e della fusione dei metalli, si giunge a rappresentare il  giudizio escatologico come un fuoco (Is 66,15s), che prova l’oro (Zac 13, 9). Il  giorno di Jahve è come il fuoco del fonditore (Mal 3,2), e brucia come una fornace (Mal 3,19) e divora tutta la terra (Sof 1,18; 3,8) a cominciare da Gerusalemme (Ez 10, 2; Is 29, 6). Ora questo fuoco sembra bruciare dall’interno, come quello che «esce di mezzo a Tiro» (Ez 28,18). Dei cadaveri di quelli che furono ribelli, «il verme non morrà ed il loro fuoco non si spegnerà» (Is 66, 24; cfr. Mc 9,48), «fuoco e verme saranno nella loro carne» (Giudit 16,17). Ma qui si ritrova ancora l’ambivalenza del simbolo: mentre gli empi sono abbandonati al loro fuoco interiore ed ai vermi (Eccli 7,17), gli scampati dal fuoco si trovano circondati dal muro di fuoco che Jahve rappresenta per essi (Is 4,4 s; Zac 2,9). Giacobbe ed Israele, purificati, diventano a loro volta un fuoco (Ab 18), come se partecipassero alla vita di Dio. Con la venuta di Cristo sono incominciati gli ultimi  tempi, quantunque la fine dei tempi non sia ancora giunta. Anche nel Nuovo Testamento il fuoco conserva il suo valore escatologico tradizionale, ma la realtà religiosa che esso significa si attua già nel tempo della Chiesa. Annunciato come il vàgliatore che getta la paglia nel fuoco (Mt 3,10) e battezza nel fuoco (3,11s), Gesù, pur rifiutando la funzione di giustiziere, ha mantenuto i suoi uditori nell’attesa del fuoco del giudizio, riprendendo il linguaggio classico del Vecchio Testamento. Egli parla della «Geenna del fuoco» (5,22), del fuoco in cui saranno gettati la zizzania improduttiva (13,40; cfr. 7,19) ed i sarmenti (Gv 15,6): sarà un fuoco che non si spegne (Mc 9,43 s), in cui «il loro verme» non muore (9,48), vera fornace ardente (Mt 13,42.50). Null’altro che un’eco solenne del Vecchio Testamento (cfr. Lc 17, 29)

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La santità non consiste nel dire cose belle, non consiste neppure nel pensarle o nel sentirle. La santità consiste nel soffrire e nel soffrire di tutto” (Santa Teresa del Bambino Gesù).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La comunione al tuo sacramento, Signore,
ci infiammi di quel fuoco di carità che ispirò
la tua santa vergine Teresa di Gesù Bambino
a offrirsi a te per la salvezza di tutti gli uomini.
Per Cristo nostro Signore.




30 Settembre 2019

Lunedì XXVI Settimana T. O.

San Girolamo, sacerdote e dottore della Chiesa - Memoria

Zac 8,1-8; Sal 101 (102); Lc 9,46-50

Dal Martirologio: Memoria di san Girolamo, sacerdote e dottore della Chiesa: nato in Dalmazia, nell’odierna Croazia, uomo di grande cultura letteraria, compì a Roma tutti gli studi e qui fu battezzato; rapito poi dal fascino di una vita di contemplazione, abbracciò la vita ascetica e, recatosi in Oriente, fu ordinato sacerdote. Tornato a Roma, divenne segretario di papa Damaso e, stabilitosi poi a Betlemme di Giuda, si ritirò a vita monastica. Fu dottore insigne nel tradurre e spiegare le Sacre Scritture e fu partecipe in modo mirabile delle varie necessità della Chiesa. Giunto infine a un’età avanzata, riposò in pace.

Colletta: O Dio, che hai dato al sacerdote san Girolamo una conoscenza viva e penetrante della Sacra Scrittura, fa’ che il tuo popolo si nutra sempre più largamente della tua parola, e trovi in essa una sorgente di vita. Per il nostro Signore...

Non c’è da stupirsi per certi discorsi che animano le giornate degli Apostoli. Sono come ubriacati dal “successo” del Maestro, guarigioni, miracoli, prodigi, un coagulo di cose stupefacenti che esaltano l’orgoglio dei Dodici. Provano felicità, e si reputano veramente fortunati di essere stati scelti da Gesù, e sognano che un giorno, sedenti alla sua destra, giudicheranno popoli e nazioni. Ma è un sogno, e i sogni con le prime luci del giorno svaniscono, anche se rimangono immagini che vengono ruminate tutto il giorno con una certa avidità, sperando che tutto presto si realizzi. E Gesù per evitare che certi sogni trovino dimora permanente nei cuori dei suoi amici, li sveglia bruscamente, e lo fa in un modo tale che possa rimanere bene inciso nella loro memoria: “… , prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande”. Certo che con Gesù tutte le cose vanno a rovescio, chi ama la vita la perde, i primi saranno ultimi, e così il più piccolo è il più grande. Non è soltanto un rovesciamento di ragionamenti umani, ma si tratta di porsi alla sequela di Colui che ha perduto la vita perché gli uomini la ritrovassero, si stratta di seguire Colui che essendo Dio annichilì se stesso facendosi uomo, si tratta di correre dietro a Colui che nell’umiltà del servo e non nello splendore del re ha visitato il suo popolo.

Dal Vangelo secondo Luca 9,46-50: In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande». Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».

In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli… - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 46 Si sollevò tra di essi una discussione; l’evangelista introduce direttamente l’episodio senza indicare il luogo (Cafarnao), né l’ambiente («quando fu in casa», Mc., 9, 33) menzionati nel racconto parallelo di Marco. Chi di loro fosse il più grande; non si discute sul fatto della precedenza tra i discepoli, ma sul posto che essi occuperanno nel regno, come questo è immaginato dalle loro menti.
versetto 47 Conoscendo quello su cui discutevano nel loro cuore; cf. Lc., 6, 8; l’evangelista omette alcuni particolari interessanti ricordati da Marco (la domanda di Gesù ai discepoli: «Di che discorrevate lungo la via?» ed il gesto di abbracciare un fanciullo; Mc., 9, 33, 36). Piccolo fanciullo rende il diminutivo greco παιδίον.
versetto 48 Chi accoglierà questo piccolo fanciullo per il nome mio...; «per il mio nome», cioè: «per me»; questa espressione è più efficace di quella comunemente indicata nelle versioni («nel mio nome»). Luca si sforza di rendere più chiaro il pensiero esposto nel testo parallelo di Marco e di precisare il senso del gesto compiuto dal Maestro prendendo un fanciullo accanto a sé. Nel presente contesto il fanciullo non è indicato come esempio di semplicità o di docilità, ma come tipo di chi è piccolo ed «ultimo». Nel vers. sono esposti due pensieri: chi accoglie un fanciullo per il nome di Gesù accoglie Gesù stesso e chi si fa piccolo prestando i suoi servizi agli ultimi ed ai più piccoli è il più grande (chi è il più piccolo tra tutti voi, quegli è grande). Evidentemente l’espressione «chi accoglie questo piccolo fanciullo» è molto sintetica ed indica tutto quello che si fa verso i più piccoli e gli ultimi; con queste parole, illustrate e rese più efficaci dalla presenza di un fanciullo, Gesù risponde al quesito intorno al quale discutevano i discepoli, illuminandoli sul vero spirito che essi devono avere e Con il quale dovranno evitare ogni discussione del tipo di quella già verificatasi.
versetti 49-50 Nel passo che riguarda l’uso del nome di Gesù negli esorcismi Luca è più laconico di Marco e compie alcuni ritocchi sul racconto di questo evangelista ... Noi glielo abbiamo impedito; l’imperfetto greco (imperfetto di conato) può anche esser tradotto: «noi abbiamo voluto (oppure: abbiamo cercato) impedirglielo», come preferiscono altri; in questo caso l’espressione indicherebbe soltanto un tentativo dei discepoli di interdire all’esorcista l’uso del nome di Gesù. Non (ti) segue con noi..., contro di voi..., per voi; in Marco invece si legge «non ci segue..., contro di noi...; per noi»; Luca ha corretto l’espressione parallela della sua fonte per meglio rilevare la distinzione tra Gesù ed i suoi discepoli; Marco indica il motivo che illustra la risposta data da Gesù, risposta riferita da Luca al vers. 50 («Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».).

Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino... - Javer Pikaza: Seguendo la logica di questo mondo pare evidente che i più importanti, nella comunità, siano quelli che si distinguono per le loro doti o per la responsabilità delle funzioni che sono loro affidate. Per questo gli apostoli discutevano sul posto e sul nome del più grande fra loro, come fan sempre molti. Orbene, la risposta “di Gesù continua a essere tagliente ora come allora: il più grande e il più importante è semplicemente il più bisognoso, il bambino, l’indifeso. Il bambino non è più grande per i suoi valori, la sua innocenza o la sua tenerezza: è importante solo perché è povero, perché ha bisogno degli altri e non può provvedere a se stesso. Sotto questo aspetto sono importanti, con il bambino, tutti quelli che sono più dimenticati, abbandonati, indifesi, poveri. Costoro furono al centro dell’attenzione di Cristo e continueranno a essere al centro delle cure della Chiesa. Perciò costoro sono i più importanti. Questo vuol dire che la Chiesa non è una società fondata sul valore delle persone che la compongono, ma sulle necessità e sulla miseria di coloro che hanno bisogno d’aiuto. Il suo movimento fondamentale è quella forza d’espansione per la quale esce da se stessa e offre il suo aiuto a coloro che ne hanno bisogno (dentro e fuori delle sue file). Nella prospettiva del testo che commentiamo è necessario completare questa verità da un altro piano: a) abbiamo detto che è importante il bambino o il bisognoso che manca di tutto ed è semplicemente l’oggetto dell’aiuto degli altri nella Chiesa; b) poi aggiungiamo che è grande colui che «si è fatto piccolo»; e questo vuol dire che aveva la capacità di agire e di decidere per cercare il suo bene e mirare al suo vantaggio. E tuttavia egli ha lasciato tutto e si è fatto piccolo per servire gli altri. Con questo abbiamo ottenuto di scoprire le due caratteristiche native di coloro che ascoltano Gesù: a) discepolo o seguace è colui che ascolta la parola sul regno e riceve l’aiuto che Cristo gli offre (i primi che entrano nel regno sono i poveri, i piccoli e i bambini; chi li aiuta o li accoglie, accoglie o aiuta lo stesso Cristo); b) allo stesso tempo, è discepolo colui che aiuta i piccoli, colui che vive con la preoccupazione degli altri e si fa piccolo per servirli.

Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome - I Vangeli, in molte occasioni, non temono di mettere in evidenza i limiti caratteriali e le povertà intellettuali e spirituali degli Apostoli. Così, la richiesta da parte del discepolo che «Gesù amava» di mettere a regime lo Spirito Santo denuncia apertamente una mentalità gretta, tribale, non plasmata ancora dallo Spirito.
Giovanni è l’apostolo che aveva chiesto a Gesù, per sé e per suo fratello Giacomo, i primi posti nel Regno celeste (Mc 10,35-40). E sempre loro due chiederanno a Gesù di incenerire i Samaritani il cui unico torto era stato quello di non aver voluto accogliere il Maestro (Lc 9,54). Tutto questo, oltre a far capire con quale pasta Gesù costruì la sua Chiesa, al dire di molti autori, è un’ulteriore prova della veridicità dei racconti evangelici.
Quella di Giovanni, in pratica, è la richiesta di ottenere il monopolio della potenza del nome di Gesù. La risposta del Maestro sgombra il campo da ogni dubbio: di questa potenza i discepoli non sono i padroni; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone i tempi e i modi e l’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me». Gli esorcisti occupavano un posto molto importante anche in Israele in quanto a satana veniva addebitata ogni sorta di sciagure: l’uomo sedotto da satana scivolando nel peccato andava incontro ad ogni tipo di sofferenze, disgrazie e anche malattie fisiche, che palesavano in questo modo il giusto castigo di Dio. Gesù generalmente non contraddice questo modo di pensare, ma in qualche caso esclude una relazione diretta e precisa tra colpa e malattia (cf. Lc 13,2; Gv 5,14; 9,3).
La replica di Gesù - Chi non è contro di noi, è per noi - è una lezione di alto tono magistrale: dinanzi a Dio e di fronte al bene assoluto della salvezza, non vi sono distinzioni tra uomo e uomo, tra «tu sei dei nostri» e «tu non lo sei». L’unica distinzione che il Vangelo fa è riportata nel capitolo 25 di Matteo (vv. 31-45): avevo fame, avevo sete, ero ammalato, forestiero, nudo, malato e mi avete dato accoglienza e assistenza (oppure non me l’avete data). Solo su questa distinzione verterà il giudizio di Dio.

I bambini e il regno dei cieli - Christifideles laici 47: I bambini sono certamente il termine dell’amore delicato e generoso del Signore Gesù: ad essi riserva la sua benedizione e ancor più assicura il regno dei cieli (cf. Mt 19,13-15; Mc 10,14). In particolare Gesù esalta il ruolo attivo che i piccoli hanno nel Regno di Dio: sono il simbolo eloquente e la splendida immagine di quelle condizioni morali e spirituali che sono essenziali per entrare nel Regno di Dio e per viverne la logica di totale affidamento al Signore: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me» (Mt 18,3-5; cf. Lc 9,48).
I bambini ci ricordano che la fecondità missionaria della Chiesa ha la sua radice vivificante non nei mezzi e nei meriti umani, ma nel dono assolutamente gratuito di Dio. La vita di innocenza e di grazia dei bambini, come pure le sofferenze loro ingiustamente inflitte, ottengono, in virtù della Croce di Cristo, uno spirituale arricchimento per loro e per l’intera Chiesa: di questo tutti dobbiamo prendere più viva e grata coscienza.
Si deve riconoscere, inoltre, che anche nell’età dell’infanzia e della fanciullezza sono aperte preziose possibilità operative sia per l’edificazione della Chiesa che per l’umanizzazione della società. Quanto il Concilio dice della presenza benefica e costruttiva dei figli all’interno della famiglia «chiesa domestica»: «I figli, come membra vive della famiglia, contribuiscono pure a loro modo alla santificazione dei genitori» dev’essere ripetuto dei bambini in rapporto alla Chiesa particolare e universale. Lo rilevava già Jean Gerson, teologo ed educatore del xv secolo, per il quale «i fanciulli e gli adolescenti non sono certo una parte trascurabile della Chiesa».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** I bambini sono certamente il termine dell’amore delicato e generoso del Signore Gesù: ad essi riserva la sua benedizione e ancor più assicura il regno dei cieli.
nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Il sacrificio, che abbiamo celebrato nella festa di san Girolamo,
risvegli, Signore, il nostro spirito, perché nella meditazione
della Sacra Scrittura vediamo il cammino da seguire e,
seguendolo fedelmente, raggiungiamo la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.




29 Settembre 2019

XXVI Domenica T. O.

Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

Colletta: O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia dei spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Prima Lettura - Il profeta Amos, con parole forti, rimprovera Israele perché, dimenticando l’alleanza con il Signore, è sprofondato nelle paludi del lusso, del godimento e del benessere. Il castigo di Dio non tarderà a raggiungere il popolo eletto per punirlo esemplarmente.

Salmo Responsoriale - Gianfranco Ravasi: Questo inno di gioia e di lode in onore del Dio fedele e liberatore è scandito da dodici acclamazioni che registrano altrettanti atti divini: creatore del cielo e della terra, custode della fedeltà, operatore di giustizia per gli oppressi, datore di pane agli affamati, liberatore dei prigionieri, che apre gli occhi ai ciechi, che rialza chi è caduto, amante dei giusti, protettore dello straniero, che sostiene l’orfano e la vedova, sconvolge la via degli empi e regna per sempre (vv. 6-10). Nella litania di lode si esprime in modo reiterato la beatitudine della fede, «Beato colui che ha per suo aiuto il Dio di Giacobbe» (v. 5), e la maledizione dell’orgoglio e della prepotenza, «Non affidatevi mai al potente... è subito polvere» (vv. 3-4).

Seconda Lettura - L’apostolo Paolo non ha dubbi, per entrare nel regno di Dio è necessario attraversare molte tribolazioni (Cf. At 14,22). È la logica della Croce, la vita cristiana è milizia.

Vangelo - La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro vuole ricordare all’uomo che spesso la ricchezza rende ciechi, dona occhi bene aperti su cibi succulenti e prelibate leccornie, ma rende ciechi per accorgersi degli affanni e della miseria del prossimo. Le cose cambieranno radicalmente quando si passerà il confine della vita terrena, il cieco finirà nelle tenebre, l’infelice sarà immerso eternamente nella più perfetta felicità.

Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il ricco e il povero Lazzaro - La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo.
Un uomo ricco... un povero... All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande, épulum banchetto), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulàbatur cotidie splèndide). I septemviri epulones erano uno dei quattro più importanti collegi religiosi della Roma antica, insieme a quelli dei pontefici, degli auguri e dei quindecimviri sacris faciundis. Il loro ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbliche feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondantemente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a loro favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (Cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is l,17; 58,7).
La ricchezza dell’Epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di telo di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo. Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (Cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt7,6).
... morì il povero... morì anche il ricco… Stando negli inferi... Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudine presentate come castighi e premi eterni.
Il tema del racconto evangelico è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché «chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è: chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (Cf. Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologia della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri.
Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Canopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (Cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutta qui la «morale» della parabola.
Neanche se uno risorgesse dai morti. L’uomo ricco chiede un miracolo per i suoi cinque fratelli, perché si convertano. Chiedere un miracolo per credere era un’idea fissa degli Ebrei, lo ricorderà anche Paolo ai cristiani di Corinto: «E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza» (1Cor 1,22). Molte volte i Giudei avevano chiesto a Gesù un segno per credere in lui e Gesù lo offrirà nella sua risurrezione, ma neanche questo segno servirà a convincere gli Ebrei. Quindi, nelle parole di Gesù c’è una profonda lezione di vita cristiana: non «dobbiamo aspettarci che qualcuno venga dall’al di là ad avvertirci. Gesù con la sua predicazione ci ha detto come stanno le cose. Con la sua morte e risurrezione ci ha dato la garanzia divina che Egli testimonia la verità. Non ci rimane che ascoltare e mettere in pratica la sua parola, che risuona continuamene nella predicazione della Chiesa. Si tratta solo di credere alla predicazione, di credere a quanto la Chiesa insegna» (Roberto Coggi).

… se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno - Hugues Cousin (Vangelo di Luca): Esprimendo un’opinione assai diffusa dappertutto, il ricco pensa che un miracolo potrebbe ottenere quello che la Scrittura non può ottenere. Che errore! Un miracolo, fosse anche la risurrezione di un morto, non riuscirebbe a convertire quelli che rifiutano di ricevere nella fede il messaggio della legge e dei profeti. L’ammonimento acquista una particolare forza nella Chiesa che confessa Gesù morto e risorto! Quante volte non pensiamo che, se beneficiassimo di qualche apparizione del Risorto, ci decideremmo finalmente a cambiare vita... Mentre il vangelo si trova qui, giorno e notte, alla nostra portata! Poiché nelle parabole che hanno due culmini il secondo è quello su cui Luca intende insistere, la principale lezione del racconto di Lazzaro e del ricco è questa: è l’ascolto della parola di Dio che porta a convertirsi. Ma vi è di più: quello che dice Luca sull’uso delle ricchezze non è una novità evangelica, ma un messaggio tradizionale che si trova già insito nella legge e nei profeti.

Rispetto della persona umana - Gaudium et spes 27: Scendendo a conseguenze pratiche di maggiore urgenza, il Concilio inculca il rispetto verso l’uomo: ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro «se stesso», tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per viverla degnamente, per non imitare quel ricco che non ebbe nessuna cura del povero Lazzaro. Soprattutto oggi urge l’obbligo che diventiamo prossimi di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti, o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza, rievocando la voce del Signore: «Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Inoltre tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La principale lezione del racconto di Lazzaro e del ricco è questa: è l’ascolto della parola di Dio che porta a convertirsi.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Guida e sostieni, Signore, con il tuo continuo aiuto
il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti,
perché la redenzione operata da questi misteri
trasformi tutta la nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.




28 Settembre 2019

Sabato XXV Settimana T. O.

 Zc 2,5-9.14-15a; Sal. Resp. Ger 31,10-12b.13; Lc 9,43b-45

Colletta: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Gli Evangelisti presentano la missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio. Un progetto che necessariamente deve passare attraverso la croce e la morte del Figlio di Dio. Un discorso che risulta ostico agli stessi Apostoli. È da sottolineare il verbo consegnare. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: «per la loro salvezza Dio “consegna” Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito ... solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato “consegnato” a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso [nel senso teologico] dai contemporanei [anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte], ma dalle “mani” di ogni uomo [= dai suoi peccati] alle quali Dio ha consegnato Gesù» (Don Primo Gironi).

Dal Vangelo secondo Luca 9,43b-45: In quel giorno, mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento.

Gesù disse ai suoi discepoli… - Carlo Ghidelli (Luca): Il secondo annunzio della passione (vv. 43b-45) è seguito da due episodi, quasi insignificanti, che tuttavia danno a Gesù l’occasione di dichiarare che, nel regno dei cieli (cioè nella concezione evangelica della vita) la vera grandezza consiste nell’umile servizio e non negli onori o nell’avere la precedenza sugli altri (vv. 46-48) e che essa è assicurata non a coloro che occupano una posizione ufficiale, anche all’interno del regno stesso, ma a quelli che assumono volentieri atteggiamenti di servizio e di amore fraterno (vv. 49-50).
Fate molta attenzione a queste parole...: così è introdotta la seconda predizione della passione, che insieme alla terza si caratterizza per il fatto che parla solo di passione-morte, senza un esplicito accenno alla risurrezione-gloria (cfr anche 18,34). Qui Gesù insiste, sulla linea della predicazione profetica (cfr per es. Gr 9,19), sul dovere della apertura personale (il T. Greco si riferisce non alle orecchie del corpo ma all’ascolto del cuore: cfr Is 9,9s in relazione ad At 28,26s). Tale ascolto richiede anche un atto di coraggio, perché si tratta non solo di accogliere un messaggio ma di seguire Gesù sulla via della croce. Il fatto che Luca qui accenna solo alla passione-morte di Gesù ci fa pensare che, se anche egli non ha voluto scindere i due momenti, quello catabatico e quello anabatico, della Pasqua di Gesù, tuttavia ha voluto dire che l’accettazione della croce e della morte costituisce un momento provvisorio, ma indispensabile, sulla via che porta alla vita e alla gloria (cfr 9,31).
Ma essi non compresero: si capisce, in parte almeno, la reazione degli apostoli: essi non capirono e temevano di interrogarlo su questa parola, tanto più che dal modo con il quale Gesù parla, sembra che si tratti di un avvenimento necessario, quasi ineluttabile (è la forza del verbo greco mellein) e di un fatto imminente (il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato). Cfr anche Lc 18,34; Mr 9,32; Gv 2,22; 20,9. Invece Mt 17,23 non parla di incomprensione ma di tristezza.

Lo scandalo della croce - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): «In quel tempo, mentre tutti erano pieni di meraviglia per tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: “Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini”». È la seconda predizione della sua passione e morte che Cristo fa nel vangelo di Luca; questa volta senza menzionare espressamente la risurrezione. Gesù applica a se stesso il titolo messianico di « Figlio dell’uomo » (Dn 7,13), che egli collega alla figura del servo sofferente del Signore, secondo i canti di Isaia. Ieri abbiamo visto il primo annuncio della passione; ma tra il testo di ieri e quello di oggi si sono succeduti una ventina di versetti: condizioni per la sequela di Cristo, la sua trasfigurazione e la guarigione di un indemoniato epilettico. Le parole dell’inizio si riferiscono alla meraviglia che quest’ultimo portento di Gesù aveva destato tra la gente: «Mentre erano tutti pieni di meraviglia per tutte le cose che faceva...». Quindi è proprio in questo momento di successo che Cristo predice per la seconda volta la sua passione e morte. Perché? Per cominciare a preparare i discepoli a superare lo sconvolgente scandalo della croce sulla quale morirà il messia. Vista con gli occhi della fede, questa sconfitta ignominiosa è la sua grande vittoria sul male e la morte.
Ma, sfortunatamente, i discepoli non comprendevano questo linguaggio; per loro restava così misterioso, che non ne comprendevano il senso. Tuttavia, intuivano qualcosa di tremendo, poiché «avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento», cioè su che strano tipo di messia egli fosse. A volte l’atteggiamento degli apostoli è anche il nostro; per superarlo dobbiamo continuare ad approfondire la figura e la personalità di Cristo, rivolgendogli noi stessi delle domande perché ci riveli il suo mistero. Così daremo una risposta migliore alla sua domanda personale di ieri: Chi sono io per te?

La croce, segno del cristiano J. Audusseau e X. Léon-Dufour: 1. La croce di Cristo. - Rivelando che i due testimoni erano stati martirizzati «là dove Cristo fu crocifisso» (Apoc 11,8), l’Apocalisse identifica la sorte dei discepoli e quella del maestro. Lo esigeva già Gesù: «Chi vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24 par.). Il discepolo non deve soltanto morire a se stesso: la croce che porta è il segno che egli muore al mondo, che ha spezzato tutti i suoi legami naturali (Mt 10,33-39 par.), che accetta la condizione di perseguitato, a cui forse si toglierà la vita (Mt 23,34). Ma nello stesso tempo essa è pure il segno della sua gloria anticipata (cfr. Gv 12,26).
2. La vita crocifissa. - La croce di Cristo, che, secondo Paolo, separava le due economie della legge e della fede, diventa nel cuore del cristiano la frontiera tra i due mondi della carne e dello spirito. Essa è la sua sola giustificazione e la sua sola sapienza. Se si è convertito, è stato perché ai suoi occhi furono dipinti i tratti di Gesù in croce (Gal 3,1). Se è giustificato, non è per le opere della legge, ma per la sua fede nel crocifisso; infatti egli stesso è stato crocifisso con Cristo nel battesimo, cosicché è morto alla legge per vivere a Dio (Gal 2,19) e non ha più nulla a che vedere con il mondo (6,14). Egli pone quindi la sua fiducia nella sola forza di Cristo, altrimenti si mostrerebbe «nemico della croce» (Fil 3,18).
3. La croce, titolo di gloria del cristiano. - Nella vita quotidiana del cristiano, «l’uomo vecchio è crocifisso» (Rom 6,6), cosicché è pienamente liberato dal peccato. Il suo giudizio è trasformato dalla sapienza della croce (1Cor 2). Mediante questa sapienza egli, sull’esempio di Gesù, diventerà umile ed «obbediente fino alla morte, ed alla morte di croce» (Fil 2,1-8). Più generalmente, egli deve contemplare il «modello» del Cristo, che «sul legno ha portato le nostre colpe nel suo corpo, affinché, morti alle nostre colpe, viviamo per la giustizia» (1Piet 2,21-24). Infine, se è vero che deve sempre temere l’apostasia, che lo porterebbe a «crocifiggere nuovamente per proprio conto il Figlio di Dio» (Ebr 6,6), egli può tuttavia esclamare fieramente con Paolo: «Per me, non sia mai ch’io mi glori d’altro all’infuori della croce del nostro Signore Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è per me crocifisso, ed io lo sono per il mondo» (Gal 6, 14). 

Il significato teologico della croce - Franco Giulio Brambilla: A partire dal senso che Gesù ha attribuito alla sua morte, i Vangeli sinottici, Paolo e il Vangelo di Giovanni non faranno altro che rileggere questo significato ricuperando le grandi immagini dell’Antico Testamento: la morte di Gesù è la “redenzione”, il “sacrificio”, il “riscatto”. La morte sulla croce manifesta un’eccedenza che rivela una Verità più profonda di ciò che appare. Sono tre gli aspetti che definiscono il senso profondo della morte in croce: essa rivela definitivamente chi è Gesù, chi è Dio e il destino dell’uomo.
Anzitutto, la morte di croce dice chi è Gesù: egli si rivela come colui che e completamente rivolto verso il Padre (cfr. Gv 1,18). L’abbandono fiducioso a Dio sulla croce dice che Cristo si definisce per la sua relazione al Padre: egli è il Figlio. Soprattutto nel momento in cui sembra messa in discussione la sua pretesa, la sua missione, la connessione tra il suo messaggio e la sua persona, egli non si fa valere neppure col pretesto di essere il profeta ultimo, ma si affida in radicale abbandono al Padre suo, assumendo la violenza e il rifiuto peccaminoso degli uomini. Il rifiuto di Dio si colloca così nel cuore della sua manifestazione. Ciò, però, non sconvolge il disegno di Dio, ma Dio assume, perdona, salva dal di dentro la stessa negazione degli uomini. Dio non scambia il peccato degli uomini con l’innocenza di Cristo. Dio, il Padre, assume questo rifiuto, lo porta su di sé; mandando il Figlio, viene egli stesso come il Padre suo, e lo stabilisce come luogo del perdono e della riconciliazione.
In secondo luogo, la morte di croce manifesta e comunica chi è DIO. La verità di Dio è la verità stessa della carità di Dio. La dedizione insuperabile e senza condizioni con cui Gesù si affida al Padre rivela che Dio è colui che è rivolto all’uomo, a cui comunica la sua vita stessa, donandogli il suo bene più prezioso: il Figlio suo (Rm 8,32). La struggente attesa di Israele di vedere il volto di Dio, di entrare nell’intimità della sua alleanza, nella Croce è svelata sul volto sfigurato di Gesù morente, proprio nel momento e nell’evento che è il frutto del suo più radicale rifiuto.
Infine, la donazione di Dio a Gesù e in Gesù agli uomini è il “luogo” del perdono, della riconciliazione, che supera dal di dentro lo stesso rifiuto di Dio e tutte le forme che lo rappresentano, la non comunione, l’abbandono, il tradimento, l’inimicizia, la violenza e, alla fine, la stessa morte. Gesù muore per tutti, nel duplice senso di “a causa” e di “a vantaggio” del peccato degli uomini, perché portandolo in sé lo riconcilia nel luogo stesso della sua negazione. Forse solo qui può trovare risposta la domanda: perché la Passione e la Croce di Gesù? Perché una morte così? La sofferenza, il dolore, la Croce, sono il prodotto del rifiuto di Dio, la conseguenza della sua negazione da parte della libertà umana. E il Padre in Cristo vi passa attraverso (e lo Spirito li tiene uniti nella massima separazione), supera il peccato dal di dentro, ricupera la libertà nel suo punto più intimo. Dio non salva automaticamente, non guarisce magicamente. Egli ricupera la libertà facendola ritornare a ritroso, ed è noto quanto sia oneroso ricostruire una libertà ferita. Fin nel cuore dell’uomo, fin nelle profondità di tutta l’umanità, dal primo uomo fino alla fine dei tempi.

Amare la Croce - Amare la Croce è fare memoria dell’amore misericordioso di Dio, “che ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16); amare la Croce è fare memoria dell’amore misericordioso del Figlio di Dio che “è apparso per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8); amare la Croce è aprire la propria vita all’azione vivificante dello Spirito Santo che “attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8,16). Amare la Croce è entrare nel mistero della Santa e Indivisa Trinità, perché soltanto la Croce ci fa discepoli di Cristo, lui che è la Via che ci conduce al Padre (cfr. Gv 14,6), l’orante che intercede presso il Padre perché doni al mondo il Consolatore (cfr. Gv 14,16). Amare la Croce non è soltanto attestazione di amore verso Gesù, agnello innocente immolato per la salvezza dell’uomo, ma è soprattutto accogliere nell’anima il Regno di Dio, è far esplodere di gioia il cuore, allargare la bocca al canto di lode. Dov’è tristezza, lutto e pianto, la Croce porta la pace e la consolazione di Dio, dov’è dolore e sofferenza, la Croce dona la pazienza e la perfetta immolazione, dov’è il peccato, la stanchezza, l’infedeltà, la Croce dona la luce della grazia, il profumo della conversione, l’allegrezza della penitenza, dov’è la morte, la Croce porta la vita. Ricusare la Croce è follia, ricusare la Croce è rifiutare l’amore di Dio, ricusare la Croce è rigettare la salvezza, ricusare la Croce significa spalancare la vita ai tormenti della disperazione, ricusare la Croce significa morire senza il consolante conforto dell’intercessione di quel Sangue che è stato sparso sulla Croce per la salvezza dell’uomo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Amare la Croce è fare memoria dell’amore misericordioso di Dio.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Guida e sostieni, Signore, con il tuo continuo aiuto
il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti,
perché la redenzione operata da questi misteri
trasformi tutta la nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.