1 Ottobre 2018

Lunedì XXVI Settimana T. O.

Oggi Gesù ci dice: “Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande” (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Luca 9,46-50: Nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande: forse per ambizione, forse per vanità... in ogni caso, i discepoli sono ancora lontani dal comprendere il messaggio di Gesù. A tanta insipienza, Gesù risponde con un gesto simbolico ponendo vicino a sé un bambino indicandolo come il più grande nel Regno di Dio: Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande. Farsi bambini è scegliere la via dell’umiltà, del servizio... sono queste le cose che veramente contano nella comunità cristiana e sono le condizioni per farvi parte. Ma non basta perché bisogna rinunciare anche a ogni forma di integrismo. L’esorcista estraneo, che scacciava i demoni nel nome di Gesù, pur non appartenendo al suo gruppo, aveva provocato l’indignazione dei discepoli, agitando i loro cuori. La risposta di Gesù tende a far capire che la bontà di Dio agisce anche al di fuori del gruppo, ma sopra tutto è tesa a sradicare dai loro cuori l’ invidia, “un sentimento che divora chi lo nutre” (Alessandro Morandotti, Minime, 1979/80).

Carlo Ghidelli (Luca): chi di loro fosse più importante: siamo di fronte ad un atteggiamento così poco evangelico degli apostoli. Si nota una distanza quasi infinita tra il Maestro, che con decisione e fermezza va verso la sua Pasqua, e i suoi discepoli, che stanno a discutere sui primi posti. La reazione di Gesù è molteplice ed efficace: - dapprima scruta i loro cuori e smantella i loro pensieri; - poi interviene con una esplicita lezione sulla vera umiltà; - intanto accompagna le sue parole con un gesto molto significativo (prese un fanciullo ... ). - un fanciullo (paidion): altrove (per es. Mt 18,3), è preso non come modello di innocenza, di purezza o di perfezione morale, ma come uno che, contrariamente ai discepoli, non ha pretesa alcuna, è in una situazione di totale dipendenza e disponibilità. Qui Luca rielabora molto l’episodio e sembra considerare il fanciullo come il tipo delle persone fragili e insignificanti, alle quali i discepoli devono rivolgere le loro attenzioni, facendosi così piccoli e umili. I discepoli devono imitare il Maestro nel servizio verso i più poveri e i più bisognosi. - il più piccolo ... il più grande: troviamo così capovolti i valori! Chi entra nella logica evangelica spesso si vede costretto a rivedere i suoi giudizi, a riformulare i suoi principi, a rifare i suoi progetti (cfr Is 55,8s). - questo fanciullo ... me ... colui che mi ha mandato: questa sequenza è molto stimolante. Altrove (Lc 10,16) Luca stabilisce la stessa sequenza, ponendo però i suoi discepoli al primo posto, sulla linea della rappresentatività, della missione evangelizzatrice. Qui, invece, siamo sulla linea della umiltà-carità, come fondamentale precetto evangelico. A ben considerare, però, anche qui si verifica una rappresentatività: Gesù si identifica con i fanciulli (questi diventano sacramento della sua presenza) come, per altro verso e secondo altri parametri, si identifica con i continuatori della sua missione salvifica.

In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande - Javer Pikaza: Seguendo la logica di questo mondo pare evidente che i più importami, nella comunità, siano quelli che si distinguono per le loro doti a per la responsabilità delle funzioni che sono loro affidate.
Per questo gli apostoli discutevano sul posto e sul nome del più grande fra loro come fan sempre molti. Orbe­ne, la risposta di Gesù continua a essere tagliente ora come allora: il più grande e il più importante è semplice­mente il più bisogno o, il bambino, l’indifeso.
Il bambino non è più grande per i suoi valori, la sua innocenza o la sua tenerezza: è importante solo perché è povero, perché ha bisogno degli altri e non può provvedere a se stesso. Sotto questo aspetto sono importanti, con il bambino, tutti quelli che sono più dimenticati, abbandonati, indifesi, poveri. Costoro furono al centro dell’attenzione di Cristo e continueranno a essere al centro delle cure della Chiesa. Perciò costoro sono i più importanti.
Questo vuol dire che la Chiesa non è una società fondata sul valore delle persone che la compongono ma sulle necessità e sulla miseria di coloro che hanno bisogno d’aiuto. Il suo movimento fondamentale è quella forza d’espansione per la quale esce da se stessa e offre il suo aiuto a coloro che ne hanno bisogno (dentro e fuori delle sue file).

I Bambini: Giuliano Vigini (Dizionario del Nuovo Testamento): Nel Nuovo Testamento la figura del “bambino” (paidion, népios, brephos) è al centro di vari episodi dei vangeli e viene più volte assunta da Gesù come pietra di paragone per il discepolato e la vita cristiana. In particolare, quando presentano a Gesù dei bambini e i discepoli cercano di allontanarli da lui (Mc 10,13-16; cfr. Mt 19,13-15; Lc 18,15-17), la sua tenerezza e benevolenza nel prenderli tra le braccia, imporre loro le mani, benedirli (Mc 10,16) testimonia che il loro essere “piccoli” li costituisce simbolo privilegiato delle realtà spirituali che devono fare da presupposto all’entrata nel regno di Dio (Mc 10,15).
Per accedervi, infatti, è necessario convertirsi e diventare come bambini (Mt 18,3): cioè assumere quella disposizione d’animo che rende il cuore docile alla volontà del Signore. Come i bambini dipendono e si affidano ai loro genitori che li educano e li guidano, così devono fare con Gesù coloro che vogliono essere suoi discepoli, svolgendo la loro missione con obbedienza e fedeltà, semplicità e purezza di cuore.
Non contano in questo le graduatorie di merito (chi è il più grande nel servire Gesù); conta invece l’umiltà con cui lo si serve. Nella disputa tra i discepoli, il bambino messo al centro da Gesù (Mc 9,36-37; cfr. Mt 18,2.4-5; Lc 9,47-48) non indica soltanto la persona da accogliere amorevolmente (“Chi accoglie questo bambino nel mio nome, accoglie me” Lc 9,48) ma il modello di vita da seguire (“Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande” Lc 9,48). Nei gesti di Gesù, dunque, si coglie non solo un atteggiamento personale di benevolenza e rispetto nei confronti dei bambini, che funge da esortazione a valutarli per quello che sono e a prendersi cura di loro, ma anche un insegnamento circa la semplicità di cuore con cui bisogna aderire alla fede.
Metaforicamente inversa a quella di Gesù è invece la rappresentazione dei bambini in Paolo. L’apostolo si pone nella prospettiva di chi vede essenzialmente nel bambino una creatura in via di sviluppo, che non ha ancora raggiunto l’equilibrio, la solidità e la pienezza di giudizio della persona adulta (cfr., ad es., 1Cor 13,11-12; Ef 4,14). L'atteggiamento dei credenti di Corinto, che mostrano con la loro condotta di non aver ancora capito ciò che è interiormente importante per la quotidiana edificazione della loro vita cristiana, spinge infatti Paolo a paragonarli a dei bambini, spiritualmente acerbi e razionalmente immaturi, che hanno quindi ancora bisogno di “latte” (gala), più che di cibi solidi, per crescere nella fede (1Cor 3,2; cfr. anche Eb 5,12-13; 1Pt 2,2).

Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Chi accoglierà questo piccolo fanciullo per il nome mio...; «per il mio nome», cioè: «per me»; questa espressione è più efficace di quella comunemente indicata nelle versioni («nel mio nome»). Luca si sforza di rendere più chiaro il pensiero esposto nel testo parallelo di Marco e di precisare il senso del gesto compiuto dal Maestro prendendo un fanciullo accanto a sé. Nel presente contesto il fanciullo non è indicato come esempio di semplicità o di docilità, ma come tipo di chi è piccolo ed «ultimo». Nel versetto sono esposti due pensieri: chi accoglie un fanciullo per il nome di Gesù accoglie Gesù stesso e chi si fa piccolo prestando i suoi servizi agli ultimi ed ai più piccoli è il più grande (chi è il più piccolo tra tutti voi, quegli è grande). Evidentemente l’espressione «chi accoglie questo piccolo fanciullo» è molto sintetica ed indica tutto quello che si fa verso i più piccoli e gli ultimi; con queste parole, illustrate e rese più efficaci dalla presenza di un fanciullo, Gesù risponde al quesito intorno al quale discutevano i discepoli, illuminandoli sul vero spirito che essi devono avere e Con il quale dovranno evitare ogni discussione del tipo di quella già verificatasi.

E, preso un bambino...: Giovanni Paolo II (Messaggio per la Quaresima 2004): Il tema di quest’anno - “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,5) - offre l’opportunità di riflettere sulla condizione dei bambini, che anche oggi Gesù chiama a sé e addita come esempio a coloro che vogliono diventare suoi discepoli. Le parole di Gesù costituiscono un’esortazione a esaminare come sono trattati i bambini nelle nostre famiglie, nella società civile e nella Chiesa. E sono anche uno stimolo a riscoprire la semplicità e la fiducia che il credente deve coltivare, imitando il Figlio di Dio, il quale ha condiviso la sorte dei piccoli e dei poveri. In proposito, santa Chiara d’Assisi amava dire che Egli, “posto in una greppia, povero visse sulla terra e nudo rimase sulla croce” (Testamento, Fonti Francescane n. 2841). Gesù amò i bambini e li predilesse “per la loro semplicità e gioia di vivere, per la loro spontaneità, e la loro fede piena di stupore” (Angelus del 18.12.1994). Egli, pertanto, vuole che la comunità apra loro le braccia e il cuore come a Lui stesso: “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,5). Ai bambini Gesù affianca i “fratelli più piccoli”, cioè i miseri, i bisognosi, gli affamati e assetati, i forestieri, i nudi, i malati, i carcerati. Accoglierli e amarli, o invece trattarli con indifferenza e rifiutarli, è riservare a Lui lo stesso atteggiamento, perché in loro Egli si rende particolarmente presente.
  
Christifideles laici 47: I bambini sono certamente il termine dell’amore delicato e generoso del Signore Gesù: ad essi riserva la sua benedizione e ancor più assicura il regno dei cieli (cf. Mt 19,13-15; Mc 10,14). In particolare Gesù esalta il ruolo attivo che i piccoli hanno nel Regno di Dio: sono il simbolo eloquente e la splendida immagine di quelle condizioni morali e spirituali che sono essenziali per entrare nel Regno di Dio e per viverne la logica di totale affidamento al Signore: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio accoglie me» (Mt 18,3-5; cf. Lc 9,48).
I bambini ci ricordano che la fecondità missionaria della Chiesa ha la sua radice vivificante non nei mezzi e nei meriti umani, ma nel dono assolutamente gratuito di Dio. La vita di innocenza e di grazia dei bambini, come pure le sofferenze loro ingiustamente inflitte, ottengono, in virtù della Croce di Cristo, uno spirituale arricchimento per loro e per l’intera Chiesa: di questo tutti dobbiamo prendere più viva e grata coscienza.
Si deve riconoscere, inoltre, che anche nell’età dell’infanzia e della fanciullezza sono aperte preziose possibilità operative sia per l’edificazione della Chiesa che per l’umanizzazione della società. Quanto il Concilio dice della presenza benefica e costruttiva dei figli all’interno della famiglia «chiesa domestica»: «I figli, come membra vive della famiglia, contribuiscono pure a loro modo alla santificazione dei genitori» dev’essere ripetuto dei bambini in rapporto alla Chiesa particolare e universale. Lo rilevava già Jean Gerson, teologo ed educatore del xv secolo, per il quale «i fanciulli e gli adolescenti non sono certo una parte trascurabile della Chiesa».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli, fa’ che seguiamo con serena fiducia la via tracciata da santa Teresa di Gesù Bambino, perché anche a noi si riveli la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 
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30 Settembre 2018

 XXVI Domenica T. O.

Oggi Gesù ci dice “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala.” (Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Mc 9,38-43.45.47-48: Maestro abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo... I Vangeli, in molte occasioni, non temono di mettere in evidenza i limiti caratteriali e le povertà intellettuali e spirituali degli Apostoli. Così, la richiesta da parte del discepolo che Gesù amava di mettere a regime lo Spirito Santo denuncia apertamente una mentalità gretta, tribale, non plasmata ancora dallo Spirito. Giovanni è l’apostolo che aveva chiesto a Gesù, per sé e per suo fratello Giacomo, i primi posti nel Regno celeste (Mc 10,35-40). E sempre loro due chiederanno a Gesù di incenerire i Samaritani il cui unico torto era stato quello di non aver voluto accogliere il Maestro (Lc 9,54). Tutto questo, oltre a far capire con quale pasta Gesù costruì la sua Chiesa, al dire di molti autori, è un’ulteriore prova della veridicità dei racconti evangelici. Quella di Giovanni, in pratica, è la richiesta di ottenere il monopolio della potenza del nome di Gesù. Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me: la risposta del Maestro sgombra il campo da ogni dubbio: di questa potenza i discepoli non sono i padroni; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone i tempi e i modi e l’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato nel nome di Dio ha agito con corretta intenzione. Invidia, gelosia, corsa per accaparrarsi i primi posti... sono nostri compagni di viaggio, a volte discreti, a volte rumorosi, ma c’è un solo rimedio per disfarsene: inchiodarli alla Croce di Cristo.

Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 38: Giovanni gli disse: Maestro, abbiamo visto...; soltanto in questo episodio, narrato dai Sinottici, l’apostolo Giovanni appare come unico interlocutore e protagonista. L’espressione «per il mio nome» (vers. 37), può aver richiamato all’apostolo un fatto accaduto, con molta probabilità, durante il viaggio missionario dei Dodici (cf. Mc., 6,7-13). Gli apostoli, avendo incontrato un esorcista, il quale, pur non appartenendo al loro gruppo, scacciava i demoni facendo uso del nome di Gesù, glielo avevano proibito. I Dodici, sia per difendere l’onore del Maestro, sia anche per riservarsi il privilegio di scacciare gli spiriti del male, avevano preso un atteggiamento così risoluto ed intollerante. Probabilmente quell’innominato esorcista, avendo assistito alle miracolose espulsioni operate da Gesù, desiderava fare altrettanto, utilizzando il nome di lui nelle sue formule di esorcismo. Dal testo non risulta che quell’esorcista abbia compiuto realmente delle espulsioni di demoni, ma che usava il nome di Gesù (cf. Atti, 19,13). L’ultima parte del versetto ha una tradizione testuale oscillante («e non ci segue; e noi glielo avevamo impedito, perché non ci seguiva»), un gruppo di codici infatti omette la prima parte (non ci segue); l’altro, la seconda (perché non ci seguiva).
versetti 39-40: Gesù disapprova l’azione compiuta dai discepoli e raccomanda loro un atteggiamento più conciliante. Quell’esorcista infatti, servendosi del nome di Gesù, riconosceva, almeno implicitamente, l’autorità ed il potere di lui sugli spiriti del male; egli quindi, pur non avendo una fede illuminata come quella degli apostoli, mostrava di abbracciare la causa di Cristo. Contrariamente agli Scribi ed ai Farisei, che erano nemici dichiarati del Maestro e suoi ciechi oppositori, quell’esorcista anonimo faceva causa comune con i discepoli. Chi... non è contro di noi è per noi; la frase è assoluta e non ha sottigliezze logiche. Chi, come l’esorcista, non è avversario di Gesù, può essere considerato un suo cooperatore. Evidentemente chi è con il Maestro opera maggiormente per lui.

… volevamo impedirglielo - Jean Radermakers (Lettura Pastorale del vangelo di Marco): [...] Gesù non è d’accordo [con Giovanni]: la sua potenza supera il quadro di coloro che lo seguono. E non ci può essere contraddizione fra l’azione che una persona, quale che sia la sua appartenenza, opera nel suo nome, e la parola ch’essa pronunzia a suo riguardo. Gesù condanna così il settarismo del «figlio del tuono» (3,17): non esiste un monopolio riservato ai discepoli; il Figlio dell’uomo è libero nella sua azione. Il loghion parallelo di Matteo si pone in un contesto completamente diverso: quello della discussione su Beelzebul. Esprime la radicalità dell’impegno per a contro Gesù, e il suo discernimento nell’agire di ciascuno: «chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,30).
La reazione di Giovanni non era quella di un servo, ma di un dominatore.
Dopo averlo rimesso al posto, Gesù sottolinea la dignità del servizio; se il discepolo deve servire il piccolo con gesti d’amore, è lui stesso il piccolo che deve lasciarsi accogliere, non in ragione del suo valore personale, ma a motivo della sua appartenenza al Cristo. Ciò che è stato detto contro ogni spirito campanilistico apre il gruppo dei discepoli e mira a estenderlo ad ogni cristiano e ad ogni uomo. Nel suo discorso di conferimento della missione, dove si ritrova la stessa dichiarazione, Matteo trae una conclusione identica a proposito dei cristiani perseguitati (Mt 10,40-42); la sua parabola del giudizio finale, in forma di mashal apocalittico, spiega questo tema, universalizzandolo (Mt 25,31-46).

Lo scandalo: CCC 2284-2285: Lo scandalo è l’atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male. Chi scandalizza si fa tentatore del suo prossimo. Attenta alla virtù e alla rettitudine; può trascinare il proprio fratello nella morte spirituale. Lo scandalo costituisce una colpa grave se chi lo provoca con azione o omissione induce deliberatamente altri in una grave mancanza. Lo scandalo assume una gravità particolare a motivo dell’autorità di coloro che lo causano o della debolezza di coloro che lo subiscono. Ha ispirato a nostro Signore questa maledizione: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli..., sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare” (Mt 18,6). Lo scandalo è grave quando a provocarlo sono coloro che, per natura o per funzione, sono tenuti ad insegnare e ad educare gli altri. Gesù lo rimprovera agli scribi e ai farisei: li paragona a lupi rapaci in veste di pecore.

Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: Mario Galizzi (Vangelo secondo Marco): Le espressioni tagliare la mano, il piede; strappare l’occhio sono pure immagini o modi di dire. Lo si capisce facilmente: posso tagliare anche tutte e due le mani, non allontanerò da me la tendenza al male. Gesù ha già parlato della fonte del male in noi, quando ha detto che dal cuore, cioè dall’intimo dell’uomo escono «progetti malvagi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, avidità, ecc.» (7,22). Ebbene, quando l’uomo mette in atto quanto esce di cattivo dal suo cuore, non solo un occhio, una mano, un piede sono in azione, ma tutte le fibre del suo essere sono travolte dal peccato.
E allora che cosa ci vuole insegnare Gesù con le immagini qui usate? Questo: se in te c’è qualcosa che ti impedisce di aderire al mio destino e ti è di ostacolo (senso di scandalizzare) nella tua totale adesione a me, è necessario che tu faccia degli strappi profondi nella tua vita, e che li faccia guardando al futuro. Il destino dell’uomo è nel futuro: là si trova la vera vita, il Regno, cioè l’unione perfetta con Dio, la felicità eterna, o l’inferno, il segno del fallimento totale della propria esistenza. L’avere l’uno o l’altro dipende dalla decisione di oggi, dal sapere vincere oggi quel che è di ostacolo alla fede. La mia volontà è che tu viva, e io farò di tutto per aiutarti. Sei stato creato per la vita, non per la morte.

La Geènna -  Catechismo della Chiesa Cattolica 1034: Gesù parla ripetutamente della “Geenna”, del “fuoco inestinguibile”, che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe che egli “manderà i suoi angeli, i  quali raccoglieranno... tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente” (Mt 13,41-42), e che pronunzierà la condanna: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!” (Mt 25,41).

… nella Geènna, nel fuoco inestinguibile …  dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 luglio 1999): Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (n. 1033).
La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.
La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all’amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801). Per noi esseri umani questa loro vicenda suona come ammonimento: è richiamo continuo ad evitare la tragedia in cui sfocia il peccato e a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù che si è svolta nel segno del ‘sì’ a Dio.
La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno – tanto meno l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche - non deve creare psicosi o angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà, all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto Satana, donandoci lo Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre” (Rm 8,15; Gal 4,6).
Questa prospettiva ricca di speranza prevale nell’annuncio cristiano. Essa viene efficacemente riflessa nella tradizione liturgica della Chiesa, come testimoniano ad esempio le parole del Canone Romano: “Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia … salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti”.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Giovanni nel pretendere l’esclusivo potere di cacciare i demoni si rivela settario, molto lontano da una mentalità di servizio. La comunità cristiana, «deve essere aperta a tutti, anche quanti sono al di là della cerchia visibile dei suoi, e deve saper distinguere: un conto è essere pro o contro il Maestro [Mt 12,30], un conto è non appartenere esplicitamente ai suoi discepoli» (F. Lambiasi).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, tu non privasti mai il tuo popolo della voce dei profeti; effondi il tuo Spirito sul nuovo Israele, perché ogni uomo sia ricco del tuo dono, e a tutti i popoli della terra siano annunziate le meraviglie del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



29 Settembre 2018

Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele

Oggi Gesù ci dice “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo.” (Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,47-51: ... io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi: un’espressione difficile da interpretare e che “in questo contesto può alludere a un luogo di riposo, simbolicamente evocativo della prosperità e della pace messianica [cfr. 1Re 4,25; Is 36,16; Mi 4,4; Zc 3,10], oppure a un luogo di raccoglimento per la meditazione delle Scritture e per la preghiera” (Il Nuovo Testamento, Ed. Paoline). Ma al di là di queste interpretazioni, è da sottolineare come Gesù conosca soprannaturalmente gli uomini e gli avvenimenti: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo (Gv 2,24-25). Allo stupore segue la professione di fede: Rabbi, tu sei figlio di Dio. Gesù replica a Natanaele ricordando la visione di Giacobbe: gli Angeli sono sempre al servizio del Figlio dell’uomo, ma anche al servizio degli uomini. Essi ci aiutano ad avere un senso più profondo della santità e maestà Dio e contemporaneamente un senso di grande fiducia in quanto sono nostri amici e inseparabili compagni di viaggio.

Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): L’incontro Gesù-Natanaele è ben descritto. Gesù gli fa capire che lo conosce in profondità; anzi, che l’ha conosciuto e visto, e perciò scelto, prima ancora che Filippo lo chiamasse. Gesù già sapeva che Natanaele era un vero israelita, cioè che apparteneva a quel resto di Israele, povero e umile, che viveva, alimentandosi alle Scritture, l’ansiosa attesa del Messia.
Di fronte a questa esperienza Natanaele pronuncia il suo atto di fede, premettendo di riconoscersi discepolo. Egli chiama Gesù «Rabbi», cioè «Maestro», e poi aggiunge: «Tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele». Il suo atto di fede è unicamente fondato sulle Scritture ed è strettamente legato alle profezie messianiche davidiche. L’espressione «Figlio di Dio» non ha qui la solennità di 1,34. Qui è spiegata dall’espressione: «Tu sei il re d’Israele». Il Messia, attese come discendente di Davide, era, secondo la promessa, chiamato «Figlio di Dio» (2Sam 7,14; Sal 89,4-5.27-28). Natanaele si mantiene come Filippo, in un orizzonte puramente nazionalistico. È Gesù che lo porta a conoscere il di più: «Vedrai cose maggiori di queste»; e poi passa all’uso del plurale, chiaro indizio che qui Natanaele è visto come tipo di un gruppo: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (l,51).
Natanaele, sentendo Gesù, è subito riportato alle Scritture, a quanto scrisse Mosè; in particolare al sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22). Ora però, si parla di «cielo aperto», e non si parla di «terra»; perciò non si può dire con Giacobbe: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è la casa di Dio; questa è la porta del cielo». Ora questo luogo, questa casa, questa porta è il Figlio dell’uomo, come ama chiamarsi Gesù; ed è lui che apre la via del cielo.
È difficile dire che cosa, quel giorno, abbia capito Natanaele, ma è certo che per l’evangelista e la comunità cristiana Gesù è il tempio di Dio, il luogo di incontro tra Dio e l’umanità, tra Dio e ciascun uomo. Certamente le Scritture (per noi cristiani l’ Antico Testamento) ci parlano e ci conducono a Gesù, come hanno condotto Filippo e Natanaele. Il compimento delle Scritture, però, va oltre il previsto: la realtà supera sempre la promessa.

Gesù, visto Natanaèle...: Benedetto XVI (Udienza generale, 4 Giugno 2010): Tradizionalmente, l’apostolo Bartolomeo viene identificato con Natanaele: un nome che significa “Dio ha dato”. Questo Natanaele proveniva da Cana (Gv 21,2) ed è quindi possibile che sia stato testimone del grande “segno” compiuto da Gesù in quel luogo (Gv 2,1-11). L’identificazione dei due personaggi è probabilmente motivata dal fatto che questo Natanaele, nella scena di vocazione raccontata dal Vangelo di Giovanni, è posto accanto a Filippo, cioè nel posto che ha Bartolomeo nelle liste degli Apostoli riportate dagli altri Vangeli. A questo Natanaele, Filippo aveva comunicato di aver trovato “colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret”. Come sappiamo, Natanaele gli oppose un pregiudizio piuttosto pesante: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. Questa sorta di contestazione è, a suo modo, importante per noi. Essa, infatti, ci fa vedere che, secondo le attese giudaiche, il Messia non poteva provenire da un villaggio tanto oscuro come era appunto Nazaret (cfr. Gv 7,42). Al tempo stesso, però, pone in evidenza la libertà di Dio, che sorprende le nostre attese facendosi trovare proprio là dove non ce lo aspetteremmo. D’altra parte, sappiamo che Gesù in realtà non era esclusivamente “da Nazaret”, ma che era nato a Betlemme e che ultimamente veniva dal cielo, dal Padre che è nei cieli. Un’altra riflessione ci suggerisce la vicenda di Natanaele: nel nostro rapporto con Gesù non dobbiamo accontentarci delle sole parole. Filippo, nella sua replica, fa a Natanaele un invito significativo: “Vieni e vedi!”. La nostra conoscenza di Gesù ha bisogno soprattutto di un’esperienza viva: la testimonianza altrui è certamente importante, poiché di norma tutta la nostra vita cristiana comincia con l’annuncio che giunge fino a noi ad opera di uno o più testimoni. Ma poi dobbiamo essere noi stessi a venir coinvolti personalmente in una relazione intima e profonda con Gesù.

Angelo - Gottfried Hermann: Gli scritti biblici conoscono diversi angeli, che si distinguono per il modo di apparire e soprattutto di agire. La maggior parte delle volte gli angeli appaiono come messaggeri e portavoce di Dio: il malak JHWH comanda ad Abramo di risparmiare suo figlio (Gen 22,11). Questo angelo di JHWH a volte non è distinguibile dallo stesso JHWH (Gen 18). Agli angeli viene spesso attribuito un potere di devastazione o di castigo, per es. all’angelo sterminatore, oppure allo spirito che causa dissidi politici, Gdc 9,23. In questo caso non si possono separare gli angeli dalla sventura che essi portano; questo è particolarmente chiaro nel Sal 78,49. Talvolta gli angeli sono visti come cherubim, cioè esseri ibridi alati, come quelli noti soprattutto a Babilonia: Gen 3,24 è uno di questi angeli che fa la guardia all’albero della vita; nel Sal 18,11 esso è colui che accompagna JHWH che discende dai cieli. Ezechiele si è servito in modo particolare di questa immagine. Altri angeli costituiscono una corte celeste che celebra JHWH (Is 6), a lo consiglia (Gb l,6ss). Soltanto più tardi gli angeli hanno un nome (Daniele, Tobia) e sono visti ora come angeli custodi personali (Raffaele per Tobia), come protettori dei popoli (On 10,11ss), come intercessori presso Dio (Zc 3), come interpreti dei progetti divini (Zc l,9.11ss). Nell’apocalittica tardogiudaica, ma anche nell’Apocalisse neotestamentaria, essi svolgono un ruolo molto importante. La credenza veterotestamentaria negli angeli è una mescolanza variopinta e disarmonica di antica fede popolare (cf. Gen 6,1-4), dèi stranieri denigrati (Lv 16,8ss)e divinità sbiadite (serpente di rame) d’influenza babilonese e (più tardi) iraniana. Come dimostra Rm 8,38s, Paolo condivide ancora la concezione degli angeli di sventura; parlando di “troni” e “dominazioni” (Col 1,16) Paolo intende angeli dei popoli, cioè soprattutto la potenza della Roma pagana. Soltanto nei Sinottici gli angeli, in quanto messaggeri di Dio e interpreti dell’evento della salvezza (Lc 1; 2; At l,10s), vengono separati dai demoni quali cause di malattia e di possessione (Mc 3,23-27). Gesù, manifestandosi padrone dei demoni dimostra di essere colui che possiede la potenza del creatore e introduce il regno di Dio escatologico (Mc 3,27).

Gli angeli di Iahve e l’Angelo di Iahve - M. Galopin e P. Grelot: Riprendendo un elemento corrente nelle mitologie orientali, ma adattandolo alla rivelazione del Dio unico, il VT rappresenta sovente Dio come un sovrano orientale (1 Re 22,19; Is 6,1 ss). I membri della sua corte sono pure i suoi servi (Giob 4,18); sono anche chiamati i santi (Giob 5,1; 15,15; Sal 89,6; Dan 4,10: oppure i figli di Dio (Sal 29,1; 89,7; Deut 32,8). Tra essi, i Cherubini (il cui nome è di origine mesopotamica) sostengono il suo trono (Sal 80,2; 99,1), tirano il suo carro (Ez 10,1 s), gli servono da cavalcatura (Sal 18,11) oppure custodiscono l’ingresso del suo dominio per interdirlo ai profani (Gen 3,24); i serafini (gli «ardenti») cantano la sua gloria (Is 6,2s), ed uno di essi purifica le labbra di Isaia durante la sua visione inaugurale (Is 6,7). Si ritrovano i cherubini nella iconografia del tempio, dove riparano l’arca con le loro ali (1Re 6,23-29; Es 25,18s). Tutto un esercito celeste (1Re 22,19; Sal 148,2; Neem 9,6) fa cosi risaltare la gloria di Dio, ed è a sua disposizione per governare il mondo ed eseguire i suoi ordini (Sal 103,20); stabilisce un legame tra il cielo e la terra (Gen 28,12).
Tuttavia, a fianco di questi messaggeri enigmatici, gli antichi racconti biblici conoscono pure un Angelo di Jahve (Gen 16,7; 22,11; Es 3,2; Giud 2,1), che non è diverso da Jahve stesso, manifestato quaggiù in una forma visibile (Gen 16, 13; Es 3,2): abitando in una luce inaccessibile (1Tim 6,16), Dio non può lasciar vedere la sua faccia (Es 33,20); gli uomini non ne scorgono mai se non un misterioso riflesso. L’ Angelo di Jahve dei testi antichi serve quindi ad esprimere una teologia ancora arcaica che, con l’appellativo «Angelo del Signore» lascia tracce fin nel NT (Mt 1,20.24; 2,13.19; Lc 1,11; 2,9), e persino nella patristica.
Tuttavia, a misura che la rivelazione progredisce, la sua funzione è sempre più devoluta agli angeli, messaggeri ordinari di Dio.

Michele, Gabriele, Raffaele - Sviluppo della credenza israelitica - Giuseppe Barbaglio: A partire dall’esilio, soprattutto nel periodo postesilico, si assiste a un progressivo incremento dell’attenzione per il mondo angelico. Vi hanno influito due fattori complementari. Anzitutto Israele è venuto contatto con culture che possedevano un sviluppata angelologia e ne è stato sollecitato. E poi andata crescendo in Israele la sensibilità teologica per la trascendenza di Dio, per cui i suoi contatti con il mondo sono stati preferibilmente intesi e decritti non con immediatezza, ma mediati dalla presenza e dall’azione appunto degli angelo. D’altra parte, era svanito il pericolo della adorazione degli esseri celesti: la credenza nell’unico Dio si era fatta forte per dover temere infiltrazioni idolatriche di questo genere.
Voci emblematiche sono il libro di Tobia e soprattutto Daniele. Il primo, espressione della pietà giudaica, si caratterizza per la credenza dell’angelo custode. Tra parentesi vedi in proposito Mt 18,10. Raffaele sarà per Tobia un fidato compagno di viaggio e una guida sicura (5,4ss). Egli realizzerà di fatto il voto del pio padre: «il buon angelo infatti lo accompagnerà» (5,22). Il viaggio non potrà che avere successo. Anzi Raffaele libererà Sara dai demoni che la possiedono e così Tobia la sposerà felicemente (cc. 7-10). Di ritorno alla casa paterna poi, l’angelo accompagnatore di Tobia procurerà anche la guarigione del cieco Tobi (c. 11). Non può manca» alla fine il disvelamento del misterioso personaggio che ha fatto da amico e da guida a Tobia: «Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti ad entrai alla presenza della maestà del Signore (12,15). In realtà, egli ha agito come servitore di Dio, a cui soltanto va tributata gloria e lode (12,17-20).
Il libro di Daniele segna un passo successivo nel processo di evoluzione dell’angelologia veterotestamentaria. Conosce angeli «vigilanti», chiamati anche «i santi» (4,10.14.20). Sono miriadi di miriadi gli esseri celesti che attorniano il trono di Dio (7,9-10). L’interesse crescente del libro di Daniele per il mondo angelico è testimoniato anche dal fatto che vi appaiono i nomi propri di Gabriele (8,15-16; 9,21) e di Michele (10,13.20.21; 12,1). Il primo ha il ruolo di rivelatore e interprete del significato della visione di Daniele. Il secondo è il protettore di Israele contro gli avversari. Ormai nell’universo biblico tra Dio e l’umanità trovano stabile collocazione gli intermediari celesti.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri, che eseguite la sua volontà. (Sal 102,21)   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa:  O Dio, che chiami gli Angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza, concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati, che in cielo stanno davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...





28 Settembre 2018

Venerdì XXV Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice “Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.” (Mc 10,45 - Acclamazione al Vangelo). 


Dal Vangelo secondo Luca 9,18-22: ... «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio»: questa confessione di Pietro, che parla in nome dei Dodici, è di grande importanza e segna una svolta decisiva nella vita terrena di Gesù. Mentre la folla si smarrisce nei suoi pensieri sul conto di lui allontanandosene sempre di più, i suoi discepoli riconoscono per la prima volta in maniera esplicita che egli è il Cristo di Dio, il Messia. Gesù, prima che si compia il suo ministero apostolico nella città santa su una croce, dedica i suoi sforzi a formare gli Apostoli e a purificare la loro fede. Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno: con questo annunzio, che sarà seguito da molti altri (Lc 9,44; 12,50; 17,25; Lc 18,31-33; 24,7.25-27), Gesù vuol rendere salda la fede dei Dodici, perché è necessario e urgente che gli Apostoli imparino a tenere fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Su colui che di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore (cfr. Eb 12,2).

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare - Catechismo della Chiesa Cattolica 2600: Il Vangelo secondo san Luca sottolinea l’azione dello Spirito Santo e il senso della preghiera nel ministero di Cristo. Gesù prega prima dei momenti decisivi della sua missione: prima che il Padre gli renda testimonianza, al momento del suo Battesimo e della Trasfigurazione, e prima di realizzare, mediante la sua Passione, il disegno di amore del Padre. Egli prega anche prima dei momenti decisivi che danno inizio alla missione dei suoi Apostoli: prima di scegliere e chiamare i Dodici, prima che Pietro lo confessi come  “il Cristo di Dio” e affinché la fede del capo degli Apostoli non venga meno nella tentazione. La preghiera di Gesù prima delle azioni salvifiche che il Padre gli chiede di compiere, è un’adesione umile e fiduciosa della sua volontà umana alla volontà piena d’amore del Padre.

Le folle, chi dicono che io sia? Angelico Poppi (Sinossi e Commento): v. 20 L’opinione della gente era inadeguata, perché difforme dal mistero del Messia crocifisso, Figlio di Dio. Pertanto, Gesù interpellò direttamente i discepoli per condurli al superamento della concezione corrente del messia: «Ma voi, chi dite che io sia?». L’espressione usata da Pietro, “il Cristo di Dio” era nota nel linguaggio biblico (cf. 1Sam 24,7.11; 26,9ss.); ma in questo contesto assume una valenza pregnante: in Gesù era presente e operante Dio stesso. La medesima espressione risuonerà per bocca dei capi dei giudei, quando derideranno il Crocifisso, invitandolo a scendere dalla croce, se era “il Cristo di Dio, l’Eletto” (23,35).
Benché la confessione di Pietro in Luca non abbia la rilevanza che assume nella struttura di Marco, tuttavia ne costituisce un punto nodale. L’apostolo rappresentava il portavoce degli altri apostoli, che si era elevato sopra le attese messianiche dei giudei, ma la sua fede era ancora superficiale e fragile.
Infatti, dì fronte allo scandalo della croce avrebbe rinnegato il Maestro; comunque, si sarebbe ravveduto subito, grazie alla preghiera di Gesù, e avrebbe ricevuto l’incarico di corroborare i fratelli nella fede al Cristo crocifisso (22,31-32).
v, 21 La confessione di Gesù come Messia da parte di Pietro non esprimeva in modo adeguato il mistero della sua identità, perché prescindeva dalla kenosi del Figlio dell ‘uomo.
Gesù, ammonendo i discepoli di conservare il segreto sulla sua messianicità, non rifiutava la confessione di Pietro, ma ne indicava i limiti. La concezione comune del Messia andava ripensata e integrata alla luce del mistero della croce.

Ma voi, chi dite che io sia? - Benedetto XVI (Angelus, 24 Agosto 2008): La liturgia di questa domenica rivolge a noi cristiani, ma al tempo stesso ad ogni uomo e ogni donna, la duplice domanda che Gesù pose un giorno ai suoi discepoli. Dapprima chiese loro: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Essi gli risposero che per alcuni del popolo Egli era Giovanni Battista redivivo, per altri Elia, Geremia o qualcuno dei profeti. Allora il Signore interpellò direttamente i Dodici: “Voi chi dite che io sia?”. A nome di tutti, con slancio e decisione fu Pietro a prendere la parola: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Solenne professione di fede, che da allora la Chiesa continua a ripetere. Anche noi quest’oggi vogliamo proclamare con intima convinzione: Sì, Gesù, tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! Lo facciamo con la consapevolezza che è Cristo il vero “tesoro” per il quale vale la pena di sacrificare tutto; Lui è l’amico che mai ci abbandona, perché conosce le attese più intime del nostro cuore. Gesù è il “Figlio del Dio vivente”, il Messia promesso, venuto sulla terra per offrire all’umanità la salvezza e per soddisfare la sete di vita e di amore che abita in ogni essere umano. Quale vantaggio avrebbe l’umanità accogliendo quest’annuncio che porta con sé la gioia e la pace!


 Pietro rispose - «Il Cristo di Dio»: Catechismo della Chiesa Cattolica 443: Se Pietro ha potuto riconoscere il carattere trascendente della filiazione divina di Gesù Messia, è perché egli l’ha lasciato chiaramente intendere. Davanti al sinedrio, alla domanda dei suoi accusatori: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”, Gesù ha risposto: “Lo dite voi stessi: io lo sono” (Lc 22,70). Già molto prima, egli si era designato come “il Figlio” che conosce il Padre, che  è distinto dai “servi” che Dio in precedenza ha mandato al suo popolo, superiore agli stessi angeli. Egli ha differenziato la sua filiazione da quella dei suoi discepoli non dicendo mai “Padre nostro” tranne che per comandar loro: “Voi dunque pregate così: Padre nostro” (Mt 6,9); e ha sottolineato tale distinzione: “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17).

Il Cristo di Dio - Catechismo della Chiesa Cattolica 436: Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico «Messia» che significa «unto». Non diventa il nome proprio di Gesù se non perché egli compie perfettamente la missione divina da esso significata. Infatti in Israele erano unti nel nome di Dio coloro che erano a lui consacrati per una missione che egli aveva loro affidato. Era il caso dei re, dei sacerdoti e, raramente, dei profeti. Tale doveva essere per eccellenza il caso del Messia che Dio avrebbe mandato per instaurare definitivamente il suo Regno. Il Messia doveva essere unto dallo Spirito del Signore, ad un tempo come re e sacerdote ma anche come profeta. Gesù ha realizzato la speranza messianica di Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re.

Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno - Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 4 marzo 1987): [...] vicino a Cesarea di Filippo. “Gesù... interrogava i suoi discepoli dicendo: Chi dice la gente che io sia? Ed essi gli risposero: Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo” (Mc 8,27-29; cfr. anche Mt 16,13-16 e Lc 9,18-21), cioè il Messia. Secondo il Vangelo di Matteo questa risposta fornisce a Gesù l’occasione di preannunziare il primato di Pietro nella Chiesa futura (cfr. Mt 16,18). Secondo Marco, dopo la risposta di Pietro, Gesù ordinò severamente agli apostoli “di non parlare di lui a nessuno” (Mc 8,30). Possiamo dedurne che Gesù non solo non proclamava di essere il Messia, ma non voleva neppure che gli apostoli diffondessero per allora la verità della sua identità. Voleva infatti che i contemporanei raggiungessero questa convinzione guardando le sue opere e ascoltando il suo insegnamento. D’altra parte il fatto stesso che gli apostoli erano convinti di ciò che Pietro aveva espresso a nome di tutti proclamando: “Tu sei il Cristo” prova che le opere e le parole di Gesù costituirono una base sufficiente, sulla quale la fede in lui come Messia poté fondarsi e svilupparsi.

Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto - CCC 440: Gesù ha accettato la professione di fede di Pietro che lo riconosceva quale Messia, annunziando la passione ormai vicina del Figlio dell’uomo. Egli ha così svelato il contenuto autentico della sua regalità messianica, nell’identità trascendente del Figlio dell’uomo «che è disceso dal cielo» (Gv 3,13), come pure nella sua missione redentrice quale Servo sofferente: «Il Figlio dell’uomo [...] non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Per questo il vero senso della sua regalità si manifesta soltanto dall’alto della croce. Solo dopo la risurrezione, la sua regalità messianica potrà essere proclamata da Pietro davanti al popolo di Dio: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36).

Gianfranco Ravasi (Gesù di Nazaret in Schede Bibliche Pastorali - Vol V): L’espressione «il Figlio dell’uomo» si trova solo in bocca a Gesù nei vangeli. Tale formula è quasi scomparsa negli scritti apostolici. Mai ricorre nella lettere di Paolo per designare il ruolo di Gesù Cristo. I pochi testi che la riproducono, Atti degli apostoli e Apocalisse, la riferiscono all’immagine e ruolo di Gesù nella sua condizione di risorto, giudice e signore della storia.
Nel dialetto della Galilea si usava sostituire il pronome di prima persona con un’espressione che suona così: «un/il figlio di (dell)’uomo», ar. barnashà (enashà), quando si voleva accentuare il ruolo della persona ma senza coinvolgere direttamente colui che parlava. Gesù di fronte alla domanda che attraversa i vari ambienti: Chi sei? Chi pretendi di essere?, incomincia a parlare riferendosi a questa figura misteriosa, con la quale egli va identificandosi progressivamente. «Il Figlio dell’uomo» è uno che condivide il destino degli altri uomini e fa appello ad un rapporto particolare con Dio. Il Figlio dell’uomo non ha un luogo dove posare il capo; è randagio e perseguitato (Mt 8,19; Le 9,58). Il Figlio dell’uomo entra in conflitto con le attese popolari e gli schemi stereotipi delle istituzioni politiche e religiose. Egli non può avere fortuna e successo. Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dalle autorità e alla fine venire ucciso (Mc 8,31 e par.). Gesù dunque corregge quella che è l’attesa maturata all’interno del gruppo dei discepoli di fronte alle sue prese di posizione e annunci. Egli contesta l’immagine di un messia che compie le attese umane, e presenta la sua identità attraverso l’immagine simbolica del Figlio dell’uomo, che segue una via alternativa, che si conclude nella capitale in modo tragico. La nuova immagine del Figlio dell’uomo rimanda ad una duplice relazione: a Dio da una parte e alla solidarietà con gli uomini dall’altra. Egli rimanda come spiegazione ultima della sua identità, connessa con il suo destino, al futuro che sta nelle mani di Dio. Il Figlio dell’uomo si rivela nella negazione: soffrire, essere rigettato come compimento di tutti i rigetti che si sono via via svelati a causa delle sue scelte.
Dietro l’immagine del Figlio dell’uomo, solidale con il destino di una storia umana tormentata, si va profilando una nuova immagine di Dio che non si rivela come potenza, ma come il Dio fedele in una storia di solidarietà, portata fino all’estremo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Il vero senso della regalità di Gesù si manifesta soltanto dall’alto della croce (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 440).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…