IL PENSIERO DEL GIORNO

1 Marzo 2018

GIOVEDÌ FERIA II SETTIMANA QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Beati coloro che custodiscono la parola di Dio con cuore integro e buono e producono frutto con perseveranza” (Acclamazione al Vangelo).


Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31: La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo. Il tema del racconto evangelico è il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché «chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è: chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (Cf. Lc 6,20-26).


Catechismo romano (I, §§ 69-70): Nel seno di Abramo indica il luogo “in cui le anime dei santi furono ospitate prima della venuta di Gesù Cristo Signore nostro. Esse vi dimorarono quietamente, immuni da ogni pena, alimentate dalla beatifica speranza della redenzione. Gesù Cristo, scendendo nell’inferno, liberò appunto le anime dei giusti che aspettavano il Salvatore nel seno di Abramo”.


Benedetto XVI (Angelus, 30 Settembre 2007): Oggi il Vangelo di Luca presenta la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Il ricco impersona l’uso iniquo delle ricchezze da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta. Il povero, al contrario, rappresenta la persona di cui soltanto Dio si prende cura: a differenza del ricco, egli ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa appunto “Dio lo aiuta”. Chi è dimenticato da tutti, Dio non lo dimentica; chi non vale nulla agli occhi degli uomini, è prezioso a quelli del Signore. Il racconto mostra come l’iniquità terrena venga ribaltata dalla giustizia divina: dopo la morte, Lazzaro è accolto “nel seno di Abramo”, cioè nella beatitudine eterna; mentre il ricco finisce “all’inferno tra i tormenti”. Si tratta di un nuovo stato di cose inappellabile e definitivo, per cui è durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla.


Il ricco e il povero Lazzaro - Un uomo ricco... un povero... All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande, épulum banchetto), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulàbatur cotidie splèndide). I septemviri epulones erano uno dei quattro più importanti collegi religiosi della Roma antica, insieme a quelli dei pontefici, degli auguri e dei quindecimviri sacris faciundis. Il loro ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbliche feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondante­mente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a loro favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (Cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is l,17; 58,7).
La ricchezza dell’Epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di telo di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo. Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (Cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt7,6).
Comunque il racconto evangelico non vuol fare l’apologia della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri. Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Canopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (Cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutta qui la «morale» della parabola.
Neanche se uno risorgesse dai morti. L’uomo ricco chiede un miracolo per i suoi cinque fratelli, perché si convertano. Chiedere un miracolo per credere era un’idea fissa degli Ebrei, lo ricorderà anche Paolo ai cristiani di Corinto: «E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza» (1Cor 1,22). Molte volte i Giudei avevano chiesto a Gesù un segno per credere in lui e Gesù lo offrirà nella sua risurrezione, ma neanche questo segno servirà a convincere gli Ebrei. Quindi, nelle parole di Gesù c’è una profonda lezione di vita cristiana: non «dobbiamo aspettarci che qualcuno venga dall’al di là ad avvertirci. Gesù con la sua predicazione ci ha detto come stanno le cose. Con la sua morte e risurrezione ci ha dato la garanzia divina che Egli testimonia la verità. Non ci rimane che ascoltare e mettere in pratica la sua parola, che risuona continuamene nella predicazione della Chiesa. Si tratta solo di credere alla predicazione, di credere a quanto la Chiesa insegna» (Roberto Coggi).


Popolorum Progressio 47-48: La lotta contro la miseria, pur urgente e necessaria, è insufficiente. Si tratta di costruire un mondo, in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità, possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata; un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco. Ciò esige da quest’ultimo molta generosità, numerosi sacrifici e uno sforzo incessante. Ciascuno esamini la sua coscienza, che ha una voce nuova per la nostra epoca. È egli pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri? a sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? a pagare più cari i prodotti importati, onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore? a lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni?  Il dovere di solidarietà che vige per le persone vale anche per i popoli; “Le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo”. Bisogna mettere in pratica questo insegnamento conciliare.


Giovanni Paolo II (Omelia, 2 Ottobre 1979): Sia il ricco, sia il mendicante morirono e furono portati davanti ad Abramo, e fu dato il giudizio in base alla loro condotta. Le Scritture ci dicono che Lazzaro trovò consolazione, mentre il ricco trovò tormento. Fu condannato il ricco perché fu ricco, perché ebbe in terra abbondanti proprietà, perché “vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente”? No, direi che non lo fu per questa ragione. Il ricco fu condannato perché non prestò attenzione all’altro uomo. Perché trascurò di informarsi di Lazzaro, la persona che giaceva alla sua porta bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla sua mensa. Cristo non condanna mai il semplice possesso di beni materiali. Egli pronuncia invece parole molto severe contro coloro che usano dei loro beni materiali in modo egoista, senza fare attenzione alle necessità degli altri. Il Discorso della Montagna comincia con le parole: “Beati i poveri di spirito... E al termine del bilancio dell’ultimo giudizio, come si legge nel Vangelo di San Matteo, Gesù dice le parole che ben conosciamo: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, ammalato e in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25,42-43).
La parabola dell’uomo ricco e di Lazzaro deve essere sempre presente nella nostra memoria; essa deve formare la nostra coscienza. Cristo ci chiede di essere aperti ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che hanno bisogno: ai ricchi, ai benestanti, a coloro che sono economicamente avvantaggiati domanda di essere aperti ai poveri, ai sottosviluppati e agli svantaggiati. Cristo reclama un’apertura che è più di una benevola attenzione, più di atti simbolici o di attivismo distaccato che lasciano il povero indigente come prima, se non ancora di più.
Tutta l’umanità deve pensare alla parabola dell’uomo ricco e del mendicante. L’umanità deve tradurla in termini contemporanei, in termini di economia e di politica, in termini di tutti i diritti umani, in termini di relazioni tra il “Primo”, il “Secondo” e il “Terzo Mondo”. Non possiamo stare in ozio mentre migliaia di esseri umani stanno morendo di fame. Né possiamo rimanere indifferenti mentre i diritti dello spirito umano vengono calpestati, mentre si fa violenza alla coscienza umana in materia di verità, di religione, di creatività culturale.
Non possiamo stare in ozio, rallegrandoci delle nostre ricchezze e della nostra libertà, se, da qualche parte, il Lazzaro del XX secolo giace alla nostra porta. Alla luce della parabola di Cristo, la ricchezza e la libertà conferiscono una responsabilità speciale. La ricchezza e la libertà creano una speciale obbligazione. E così nel nome della solidarietà che ci unisce tutti insieme in una comune umanità, proclamo di nuovo la dignità di ogni persona umana: l’uomo ricco e Lazzaro sono entrambi esseri umani, entrambi creati a immagine e somiglianza di Dio, entrambi egualmente redenti da Cristo, ad alto prezzo, il prezzo del “sangue prezioso di Cristo” (1Pt 1,19).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello” (Popolorum progressio 3).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che ami l’innocenza, e la ridoni a chi l’ha perduta, volgi verso di te i nostri cuori e donaci il fervore del tuo Spirito, perché possiamo esser saldi nella fede e operosi nella carità. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



IL PENSIERO DEL GIORNO

28 Febbraio 2018

MERCOLEDì FERIA II SETTIMANA DI QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Cfr. Gv 8,12).


Dal Vangelo secondo Matteo 20,17-20: Gesù libera gli uomini donandosi per loro. Tutti i cristiani sono chiamati a compartecipare al gesto oblativo del Redentore, nel servizio reciproco e nella testimonianza. I discepoli, come Gesù, devono incamminarsi per l’irto cammino della Croce sempre pronti a rispondere a chiunque domandi loro ragione della speranza che è in essi (cf. 1Pt 3,15). Il calice nella tradizione biblica, tra i tanti significati, indica la coppa dell’ira di Dio che giudica gli empi (cf. Sal 75,9), il popolo infedele (cf. Is 51,17), l’umanità peccatrice (cf. Ger 25,15-18; Ez 23,32-34). Il battesimo è la passione dolorosa nella quale sarà immerso senza riserve il Figlio di Dio. Gesù, solidale con l’umanità peccatrice, berrà la coppa dell’ira divina fino all’ultima goccia (cf. Mt 14,36) e si farà obbediente alla volontà salvifica del Padre «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8).


Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): v. 22: Passaggio interessante! La madre chiede ed i figli rispondono. Giacomo e Giovanni avevano forse confidato alla madre le loro segrete aspirazioni? Potete voi bere il calice che io sto per bere? Il calice (coppa) è una metafora biblica per indicare una sorte felice o infelice, secondo i casi (cf. Salmo, 15 [16],5; 74 [75],9); qui essa designa la passione dolorosa ormai vicina. Gesù replica alla madre dei due fratelli con tono sereno, senza indignazione (cf. 23,6; quivi il Maestro smaschera l’ambizione dei Farisei), poiché ha notato della semplicità e docilità; i figli di Zebedeo infatti si dichiarano pronti a bere l’amaro calice del loro Maestro. v. 23: Voi berrete il mio calice; i due apostoli saranno associati ai dolori di Cristo; la predizione non implica necessariamente la morte in croce o il martirio, ma la partecipazione al calice dei dolori di Gesù. Giacomo, figlio di Zebedeo, sarà messo a morte da Erode Agrippa verso l’anno 44 (cf. Atti, 12,2); non consta che Giovanni sia morto martire, tuttavia l’apostolo ha subito l’esilio. Far sedere alla mia destra , e alla mia sinistra non ‘petta a me concederlo ... ; Gesù parla come inviato del Padre ed afferma che appartiene al Padre assegnare i posti d’onore nel regno. Egli risponde secondo il senso della richiesta (cf. Mc., 10,37 ... fa’ che noi sediamo uno a destra, l’ altro a sinistra nella gloria tua) e dice che nello stato glorioso del regno, cioè nel regno come sarà nel cielo, spetta al Padre stabilire i seggi d’onore. Per il governo del regno dei cieli su la terra il Maestro aveva già assegnato il primato a Pietro (cf. Mt., 16,18-19). v. 24: La richiesta dei figli di Zebedeo provoca una reazione tra gli apostoli, la quale non è suggerita dall’invidia, ma da una concezione più spirituale del regno dei cieli.


www.comboni.org: “Bere il calice - ricevere il battesimo” sono espressioni che per Gesù indicano un itinerario di morte e di risurrezione, affinché tutti abbiano vita in abbondanza (Gv 10,10). A questa Sua opera missionaria, Gesù vuole associare tutti i discepoli: coloro che sono battezzati nel Suo nome e quelli che Egli chiama ad una vocazione di speciale consacrazione (sacerdoti, religiose, religiosi, laici). Da questa identificazione sacramentale con Cristo nasce per tutti il dono e l’impegno della Missione, cioè per l’annuncio del Vangelo ai popoli che ancora non lo conoscono.
Alla domanda del Maestro: “potete bere il calice...?” i discepoli Giacomo e Giovanni rispondono: “Lo possiamo” (v. 38). In questa risposta c’è una dose di presunzione, ma c’è anche generosità e audacia. Dopo la Pentecoste dello Spirito, essi avranno effettivamente la forza di dare tale suprema testimonianza. Anche oggi, di fronte alle molteplici esigenze dell’impegno missionario della Chiesa nel mondo intero, è richiesto a tutti i cristiani di dare risposte concrete, generose e creative, secondo la condizione di ciascuno. Ad alcuni è richiesto un servizio missionario per tutta la vita, anche in zone lontane e pericolose; ad altri, è richiesta la vita stessa... A tutti, il contributo di preghiera, impegno di evangelizzazione e condivisione solidale con i bisognosi.

Il Servo di Iahvè - Figura escatologica e messianica - Roberto Tufariello: Diverse sono le interpretazioni degli esegeti sulla figura del Servo del Deuteroisaia. Qualcuno sostiene l’interpretazione collettiva (il Servitore si identifica con l’Israele storico o con quello ideale); altri preferiscono l’interpretazione individuale non messianica (il Servitore si identifica con un personaggio del passato, come Mosè o Geremia, o del presente: un contemporaneo del Deuteroisaia o il Deuteroisaia stesso); altri danno di questo personaggio una esegesi individuale messianica (l’autore, ispirandosi a un personaggio storico - come Ioakin, re esiliato, o Giosia, re riformatore e giusto, o uno dei maggiori profeti, - avrebbe delineato un uomo del futuro, mediatore di salvezza); altri esegeti, infine, si rifanno alla concezione della personalità corporativa, che permette di vedere nel Servo un personaggio preciso, che però simboleggia e riassume in sé tutto il suo popolo.
Tra i diversi aspetti della figura del Servo, vogliamo qui sottolineare le sue caratteristiche messianiche ed escatologiche. Il Deuteroisaia era stato testimone di gravi insuccessi subiti dal popolo eletto: il ritorno dall’esilio si era compiuto senza prodigi e per un numero limitato di persone (cf. Esdra 8, che si riferisce a circa cent’anni più tardi); le nazioni pagane non si erano convertite come si attendeva (cf. Is. 45,22-24; 54,5). Il ritorno dall’esilio e la conversione dei pagani rimanevano un oggetto di attesa e di speranza per il futuro (Is. 57,18-19; Ag. 2,7-8.22; Zac. 2,15; 8,7; 10,10).
Ora il Deuteroisaia riprende questi elementi essenziali del disegno di Dio e li esprime in una prospettiva totalmente nuova.
Questa volta - assicura l’autore sacro - il disegno di Dio non mancherà di realizzarsi: «Ma a Iahvè è piaciuto prostrarlo con dolori; - poiché offrirà se stesso in espiazione, - vedrà una discendenza longeva, - la volontà di Iahvè si effettuerà per mezzo suo» (Is. 53,10).
Lo strumento di quest’opera di salvezza sarà un personaggio escatologico: non più Ciro (Is. 44,28; 45,1), ma un uomo scelto in mezzo a Israele, che incarnerà e riassumerà in sé il vero popolo di Dio: «Mi disse: Mio servo tu sei, Israele, - attraverso il quale manifesterò la mia gloria» (Is. 49,3).
Questo personaggio viene descritto con elementi che richiamano le figure di Mosè, Ezechiele e soprattutto Geremia: gli è affidato il ministero della parola, dell’intercessione, dell’Alleanza, ministero che lo pone in lotta contro il peccato (cf. Is. 42,1.6-7; 50,4). Egli, però, porterà realmente nella sua carne le stimmate del peccato: «Pertanto egli ha portato i nostri affanni, - egli si è addossato i nostri dolori - e noi lo abbiamo ritenuto come un castigato, - percosso da Dio e umiliato. - Egli è stato trafitto per i nostri delitti, - schiacciato per le nostre iniquità. Il nostro castigo salutare si abbatté su di lui; - per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is. 53,4-5).
Non solo rischierà il martirio, come Geremia, ma lo affronterà effettivamente (Is. 53,10). L’efficacia di questo martirio viene indicata mediante la terminologia liturgica: è un sacrificio di «espiazione» (cf. Lev. 6). Alcuni elementi, desunti dal messianesimo regale (cf. Is. 42,1 e 11,2; 53,12 e 9,2), dicono con sufficiente chiarezza che si tratta di una figura messianica, si tratta però del messia-profeta, e non del messia-re. La sua figura è quella di un salvatore di Israele e dell’umanità, è quella di un «redentore» che espia mediante la sua sofferenza i peccati degli uomini. Questa interpretazione messianica ed escatologica dei carmi del Servo di Iahvè nel Nuovo Testamento diventa chiaramente cristologica: il profeta annuncia la realtà futura orientando gli spiriti nella direzione più giusta. Nel Nuovo Tetsamento è a Gesù che viene riferita la figura del Servo; Gesù stesso applica a sé Is. 53,12 (cf. Lc. 22,37). Giovanni Battista allude indubbiamente a Is. 53 (Gv. 1,29), quando chiama Gesù: «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Tutto Is. 53 è giustamente considerato la più meravigliosa e completa anticipazione profetica dell’opera espiatrice di Cristo, che muore e risorge per la salvezza del suo popolo.


Papa Francesco (Angelus, 14 Settembre 2014): Il 14 settembre la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Qualche persona non cristiana potrebbe domandarci: perché “esaltare” la croce? Possiamo rispondere che noi non esaltiamo una croce qualsiasi, o tutte le croci: esaltiamo la Croce di Gesù, perché in essa si è rivelato al massimo l’amore di Dio per l’umanità. È quello che ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella liturgia odierna: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito» (3,16). Il Padre ha “dato” il Figlio per salvarci, e questo ha comportato la morte di Gesù, e la morte in croce. Perché? Perché è stata necessaria la Croce? A causa della gravità del male che ci teneva schiavi. La Croce di Gesù esprime tutt’e due le cose: tutta la forza negativa del male, e tutta la mite onnipotenza della misericordia di Dio. La Croce sembra decretare il fallimento di Gesù, ma in realtà segna la sua vittoria. Sul Calvario, quelli che lo deridevano gli dicevano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (cfr Mt 27,40). Ma era vero il contrario: proprio perché era il Figlio di Dio Gesù stava lì, sulla croce, fedele fino alla fine al disegno d’amore del Padre. E proprio per questo Dio ha «esaltato» Gesù (Fil 2,9), conferendogli una regalità universale.
E quando volgiamo lo sguardo alla Croce dove Gesù è stato inchiodato, contempliamo il segno dell’amore, dell’amore infinito di Dio per ciascuno di noi e la radice della nostra salvezza. Da quella Croce scaturisce la misericordia del Padre che abbraccia il mondo intero. Per mezzo della Croce di Cristo è vinto il maligno, è sconfitta la morte, ci è donata la vita, restituita la speranza. Questo è importante: per mezzo della Croce di Cristo ci è restituita la speranza. La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** «Con la croce Gesù ha spalancato la porta di Dio, la porta tra Dio e gli uomini. Ora essa è aperta. Ma anche dall’altro lato il Signore bussa con la sua croce: bussa alle porte del mondo, alle porte dei nostri cuori, che così spesso e in così gran numero sono chiuse per Dio. E ci parla più o meno così: se le prove che Dio nella creazione ti dà della sua esistenza non riescono ad aprirti per Lui; se la parola della Scrittura e il messaggio della Chiesa ti lasciano indifferente – allora guarda a me, al Dio che per te si è reso sofferente, che personalmente patisce con te – vedi che io soffro per amore tuo e apriti a me, tuo Signore e tuo Dio» (Benedetto XVI, Omelia, 1 Aprile 2007).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Sostieni sempre, o Padre, la tua famiglia nell’impegno delle buone opere; confortala con il tuo aiuto nel cammino di questa vita e guidala al possesso dei beni eterni. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



IL PENSIERO DEL GIORNO

27 Febbraio 2018



MARTEDì FERIA II SETTIMANA DI QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Imparate a fare il bene, cercate la giustizia” (I Lettura).


Dal Vangelo secondo Matteo 23,1-12: La Chiesa riconosce una sola Guida: Gesù che si è fatto servo di tutti. È un forte richiamo sopra tutto per chi è tentato di strumentalizzare la Chiesa, mettendola al servizio delle proprie idee.


Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei - La tensione creatasi tra Gesù e le guide spirituali del popolo d’Israele, testimoniata nel vangelo di Matteo a partire dal capitolo 21, sfocia qui in invettive così violente da suscitare stupore. Possiamo ben dire che il capitolo 23 di Matteo è una seria e incisiva catechesi contro l’ipocrisia. I peccati sono abbastanza rintracciabili.
Sulla cattedra di Mosè..., sta ad indicare la funzione di insegnare: nelle sinagoghe v’erano dei seggi d’onore, di pietra, riservati ai dottori della Legge che venivano chiamati cattedra di Mosè, perché da essi gli scribi interpretavano per il popolo i testi biblici. In questo modo il loro insegnamento si inseriva nell’alveo magisteriale di Mosé. Ma se erano bravi come maestri, poco meno lo erano nell’osservare la Legge di cui si dicevano sapienti conoscitori. E così finivano coll’essere indulgenti con se stessi, e implacabili giudici con la povera gente tanta da angariarla imponendo fardelli pesanti e difficili da portare, e che loro non volevano muoverli nemmeno con un dito.
Tutte le opere le fanno per essere ammirati... è la lebbra della ipocrisia.
L’ipocrisia, appena accennata qua e là nell’Antico Testamento (Is 29,13; Sir 1,28; 32,15; 36,20), è il ricercare l’approvazione degli altri per mezzo di gesti ostentati di beneficenza, di preghiera e di digiuno (Cf. Mt 6,2), giudica negativamente gli altri uomini (Cf. Mt 7,5) e fa pregare solo con le labbra, ma non col cuore (Cf. Mt 15,7). Gli ipocriti sono pure qualificati da Gesù come sepolcri imbiancati all’esterno “belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”, vipere, stolti ... (Cf. Mt 23,25-26). Ma gli ipocriti sono sopra tutto dei poveri ciechi.
“L’ipocrisia si avvicina così all’indurimento, poiché l’ipocrita, illudendosi di essere veramente giusto, diventa sordo ad ogni appello alla conversione. Nella sua cecità, egli non può togliere la trave che gli impedisce di vedere, dal momento che pensa solo a togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello (Mt 7,4-5). Questa cecità è particolarmente grave quando colpisce coloro che devono essere le guide spirituali del popolo di Dio. Così i  farisei, divenuti delle «guide cieche» [Mt 23,16.17.19.24], ingannano se stessi e guidano anche gli altri alla rovina [Mt 23,13]. Essi, che hanno sostituito alla legge divina le tradizioni umane [Mt 15,6-7], sono ciechi e pretendono di guidare altri ciechi [Mt 15,14], e la loro dottrina non è che un cattivo lievito [Lc 12,1]. Accecati dalla loro stessa malizia, si oppongono alla bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene [Lc 13,15-16]; con le loro accuse a Gesù non fanno che manifestare la loro intima malvagità, poiché la «bocca dice ciò che trabocca dal cuore» [Mt 12,24-34]” (R. Tufariello).
I farisei, tanta era la bramosia di essere reputati ottimi religiosi e osservanti della Legge, arrivavano alla puerilità di allargare i loro filatteri e allungare le frange che ogni Israelita, osservando quanto indicato in Num 15,37-41, portava ai quattro capi della veste e che in aramaico erano chiamate frange di preghiera . I filatteri sono astucci di cuoio, contenenti la riproduzione di alcuni testi biblici, e che venivano allacciate al braccio sinistro e alla fronte con  strisce. Gesù non condanna tali usanze, ma solo lo spirito di ostentazione con cui venivano praticate.
Il brano evangelico si chiude con l’indicare un antidoto a tale veleno: l’umiltà, il servizio disinteressato, la carità e l’amore fraterno. E sopra tutto ognuno impari a stare al suo posto. La Chiesa ha un solo Maestro Cristo Gesù: “Cristo è il modello dei pastori della Chiesa, nell’infaticabile amore con cui ha compiuto la missione, affidatagli dal Padre, di andare in cerca delle “pecore perdute della casa d’Israele” [Mt 15,24]. Per questo nessun altro all’infuori del Cristo può essere chiamato “maestro” dalla comunità dei credenti (A. Lancellotti).
Soltanto Gesù è la Guida: soltanto Lui rivela il Padre e solo Lui può donare la luce necessaria perché il credente entri nel cuore del Padre e ne comprenda la volontà; Lui è la Via (Gv 8,16), l’unica Via che conduce al Padre.


Ambizione ed ostentazione - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): Gesù ha  denunciato la  condotta degli scribi e farisei che facevano tutto solo per essere ammirati e che, pur essendo empi nei loro cuori, posavano a pii e religiosi in pubblico con molta teatralità. Andavano a caccia dei primi e ambivano titoli e riconoscimenti da parte del popolo (Mt 6,1-16; 23,3-24). Il vangelo di oggi riporta anche un ammonimento che riguarda da vicino non più gli scribi e i farisei, ma i discepoli del Cristo e i cristiani. I cristiani sono ammoniti a prendere viva coscienza della loro condizione battesimale di fratelli nella famiglia dell’unico Padre, che è Dio, e di considerarsi tutti discepoli della stessa scuola perché l’unico maestro è Cristo. Questa fratellanza non esclude una diversa graduazione fra i membri, ma vuole che ogni grado sia considerato come un ministero, un servizio. Con ciò si sottolinea l’aspetto di umiltà e carità che deve caratterizzare i rapporti fra i cristiani.
Ma il vangelo non ignora la gerarchia, non livella superiori e sudditi e neppure abolisce il sistema dei richiami, delle sanzioni e di tutte le misure, anche severe, richieste dal buon andamento di una comunità saggia e ordinata.


L’ipocrita - Cieco che inganna se stesso - Xavier Léon Dufour: Il formalismo può essere guarito, ma l’ipocrisia è vicina all’indurimento. I «sepolcri imbiancati » finiscono per prendere come verità ciò che vogliono far credere agli altri: si credono giusti (cfr. Lc 18,9; 20,20) e diventano sordi ad ogni appello alla conversione.
Come un’attore di teatro (in gr. hypocritès), l’ipocrita continua a recitare la sua parte, tanto più che occupa un posto elevato e si obbedisce alla sua parola (Mt 23,2s). La correzione fraterna è sana, ma come potrebbe l’ipocrita strappare la trave che gli impedisce la vista, quando pensa soltanto a togliere la pagliuzza che è nell’occhio del vicino (7,4s; 23,3s)? Le guide spirituali sono necessarie in terra, ma non prendono il posto stesso di Dio quando alla legge divina sostituiscono tradizioni umane? Sono ciechi che pretendono di guidare gli altri (15,3-14), e la loro dottrina non è che un cattivo lievito (Lc 12,1). Ciechi, essi sono incapaci di riconoscere i segni del tempo, cioè di scoprire in Gesù l’inviato di Dio, ed esigono un «segno dal cielo» (Lc 12,56; Mt 16,1ss); accecati dalla loro stessa malizia, non sanno che farsene della bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene (Lc 13,15); se osano immaginare che Beelzebul è all’origine dei miracoli di Gesù, si è perché da un cuore malvagio non può uscire un buon linguaggio (Mt 12,24.34).
Per infrangere le porte del loro cuore, Gesù fa loro perdere la faccia dinanzi agli altri (Mt 23,1ss), denunziando il loro peccato fondamentale, il loro marciume segreto (23,27s): ciò è meglio che lasciarli condividere la sorte degli empi (24,51; Lc 12,46). Qui Gesù si serviva indubbiamente del termine aramaico haneja, che nel Antico Testamento significa ordinariamente «perverso, empio»: l’ipocrita può diventare un empio. Il quarto vangelo cambia l’appellativo di ipocrita in quello di cieco: il peccato dei Giudei consiste nel dire: «Noi vediamo», mentre sono ciechi (Gv 9,40).


Papa Francesco (Angelus, 5 Novembre 2017): Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo atteggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esempio. L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione.
Gesù denuncia apertamente alcuni comportamenti negativi degli scribi e di alcuni farisei: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze» (vv. 6-7). Questa è una tentazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento di vivere solo per l’apparenza.
Poi Gesù dà le consegne ai suoi discepoli: «Non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (vv. 8-11).
Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. Io vi dico che a me personalmente addolora vedere persone che psicologicamente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificenze. Noi, discepoli di Gesù non dobbiamo fare questo, poiché tra di noi ci dev’essere un atteggiamento semplice e fraterno. Siamo tutti fratelli e non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso. No. Siamo tutti fratelli. Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale.
Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per una esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.
La Vergine Maria, «umile e alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2), ci aiuti, con la sua materna intercessione, a rifuggire dall’orgoglio e dalla vanità, e ad essere miti e docili all’amore che viene da Dio, per il servizio dei nostri fratelli e per la loro gioia, che sarà anche la nostra.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “La verità in quanto rettitudine dell’agire e del parlare umano è detta veracità, sincerità o franchezza. La verità o veracità è la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall’ipocrisia” (Catechismo della Chiesa Cattolica 2468).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Custodisci, o Padre, la tua Chiesa con la tua continua benevolenza, e poiché, a causa della debolezza umana, non può sostenersi senza di te, il tuo aiuto la liberi sempre da ogni pericolo e la guidi alla salvezza eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

26 Febbraio 2018

FERIA II SETTIMANA DI QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Perdonate e sarete perdonati” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Luca 6,36-38: Gesù al discepolo che vuole liberarsi dall’egoismo e dalla grettezza della carne indica esplicitamente due strade. Innanzi tutto, guardare al Padre, Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso; guardare a Lui, fissare gli occhi sul suo cuore: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29). Perché nulla resti nel campo della teoria, Gesù chiede praticamente che l’uomo, vincendo se stesso, ami i suoi nemici; faccia del bene a tutti e doni senza sperare nulla in contraccambio; di essere misericordioso, di non giudicare, di non condannare, di perdonare, di dare abbondantemente: proposte tutte concrete, opere che attraversano il quotidiano dell’uomo. Cristo chiede quindi atteggiamenti concreti, e per fare ciò è necessario aprire il cuore e la mente alla potente azione dello Spirito Santo.
  

Non giudicate: Evangelii gaudium 172: Il Vangelo ci propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della malvagità oggettiva delle sue azioni (cfr. Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua responsabilità e colpevolezza (cfr. Mt 7,1; Lc 6,37). In ogni caso un valido accompagnatore non accondiscende ai fatalismi o alla pusillanimità. Invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, ad abbracciare la croce, a lasciare tutto, ad uscire sempre di nuovo per annunciare il Vangelo.


La misericordia - Carlo Tomasini (Misericordia in Schede Bibliche Pastorali EDB): Sul tema della misericordia di Dio, il Nuovo Testamento riprende l’insegnamento dell’Antico Testamento. Anzi, nel Nuovo Testamento l’attributo divino della misericordia acquista particolare rilievo, perché la buona novella, l’evento salvifico giunto al suo compimento in Cristo, è appunto una rivelazione di misericordia.
Maria, nel Magnificat, canta con le parole dei salmi la misericordia divina manifestatasi in lei (Lc 1,50); questa misericordia viene legata alla sua fedeltà, e quindi richiama l’idea del patto: «Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1,54).
Di questa misericordia si dice che Dio è “ricco” (Ef 2,4); questa misericordia viene detta “grande” (1Pt 1,3). La misericordia divina si manifesta con l’aiuto nelle necessità fisiche; così l’uomo che era stato indemoniato viene esortato ad annunciare come frutto della misericordia divina la sua guarigione (Mc 5,19).
Il ministero apostolico di Paolo viene più volte descritto come un frutto della divina misericordia, che liberamente lo ha chiamato e lo ha scelto per fare di lui una manifestazione di essa (1Cor 7,25; 2Cor 4,1); uno scorcio particolarmente suggestivo di questa riflessione di Paolo su se stesso come oggetto di misericordia e sul significato di questa misericordia lo troviamo nella 1Tim 1,l3-16: «... io che per l’innanzi ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento; ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo lontano dalla fede; e la grazia del nostro Signore ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che sono in Cristo Gesù. È sicura questa affermazione e degna di essere accettata: Cristo Gesù venne nel mondo per salvare i peccatori, e di questi il primo sono io! Ma fu usata misericordia con me, perché Gesù Cristo volle dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna».
La misericordia divina è vista qui in quella che ne è la manifestazione più tipica, il perdono dei peccati. Ne viene vista l’espressione fondamentale, l’evento salvifico della redenzione di Cristo; e la chiamata dell’apostolo che era stato persecutore viene vista come un esempio di questo appello misericordioso ai peccatori. Una più profonda riflessione teologica sulle caratteristiche della misericordia divina si trova in Rom 9,15-22. Si riprendono qui dei testi e delle tematiche dell’Antico Testamento per mostrare che la misericordia divina è assolutamente gratuita, si esercita secondo il divino beneplacito, e non le si può chieder conto dei criteri secondo i quali sceglie i suoi eletti.
Tutta la storia della salvezza è vista da Paolo sotto il segno della divina misericordia (Rom 11,30-32; 15,8; Tito 3,5).
Il giudizio finale viene visto come momento di misericordia per i giusti (Mt 5,7).
Cristo viene detto “misericordioso” in Ebr 2,17.
Tutto il suo atteggiamento si manifesta come una rivelazione della misericordia divina.
L’idea del Nuovo Testamento, che presenta Cristo come il rivelatore di Dio, si manifesta particolarmente per quanto riguarda questa caratteristica della misericordia. Tutto il Nuovo Testamento può essere considerato una rivelazione dell’amore misericordioso di Dio, manifestatosi in Gesù Cristo attraverso la morte redentrice che libera i peccatori dal loro stato di inimicizia con Dio. Ricordiamo solo un passo che ci manifesta in maniera tipica questo atteggiamento di Gesù verso gli uomini. Richiesto indirettamente dai farisei sulle motivazioni del suo stare a mensa coi pubblicani e coi peccatori, Gesù risponde: «Non sono i sani ad avere bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa significhi: Voglio la misericordia e non il sacrificio; non sono venuto infatti a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9,12-13).
Una sintesi sul pensiero e i sentimenti di Gesù verso l’umana miseria ci è data nel cap. 15° da Luca, noto come «il vangelo della misericordia».


Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso: Catechismo della Chiesa Cattolica 2842: Questo «come» non è unico nell’insegnamento di Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48); «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36); «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi» (Gv 13,34). È impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce «dalla profondità del cuore», alla santità, alla misericordia, all’amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, del quale «viviamo» (Gal 5,25), può fare «nostri» i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci «a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,32).


Gesù rivela il Padre misericordioso - Catechismo degli Adulti 197: Gesù sa di essere in totale sintonia con la misericordia del Padre. Dio ama per primo, appassionatamente; va a cercare i peccatori e, quando si convertono, fa grande festa: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15,4-6).
L’unità di Gesù con il Padre è tale, che egli si attribuisce perfino il potere divino di rimettere i peccati, sebbene si levi intorno un mormorio di riprovazione e l’accusa di bestemmia: «Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua» (Mc 2,9-11).


Il rispetto e l’amore per gli avversari - Gaudium et spes 28: Il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo. Certamente tale amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l’amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da false o insufficienti nozioni religiose. Solo Dio è giudice e scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque . La dottrina del Cristo esige che noi perdoniamo anche le ingiurie e il precetto dell’amore si estende a tutti i nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i vostri persecutori e calunniatori» (Mt 5,43).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane [peccati veniali] è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito. Ricevendo più frequentemente, attraverso questo sacramento, il dono della misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui” (Catechismo della Chiesa Cattolica 6,36).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai ordinato la penitenza del corpo come medicina dell’anima, fa’ che ci asteniamo da ogni peccato per avere la forza di osservare i comandamenti del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo.


IL PENSIERO DEL GIORNO

25 Febbraio 2018

II DOMENICA DI QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Marco 9,2-10: Il racconto della Trasfigurazione di Gesù è presente, oltre che in Marco, anche nei vangeli di Matteo e di Luca, ma con accenti, intenzioni e sfumature diversi. Mentre Matteo “mette in rilievo la manifestazione di Gesù come nuovo Mosè [cfr. Mt 17,1] e Marco descrive un’epifania del Messia nascosto [cfr. Mc 9,2], Luca, o almeno la fonte che egli combina con Marco, pensa maggiormente a un’esperienza personale di Gesù che, nel corso di una preghiera ardente e trasformante, è illuminato dal cielo sulla «partenza» [alla lettera «esodo»], cioè la morte [cfr. Sap 3,2; 7,6; 2Pt 1,15], che egli deve compiere a Gerusalemme, la città che uccide i profeti [cfr. Lc 13,33-34]” (Bibbia di Gerusalemme). Comunque, i tre evangelisti hanno in comune la certezza che l’Antico Testamento trova il suo culmine nella persona di Gesù. La Trasfigurazione è il mistero svelato (cfr. Mc 9,2): Colui che sul monte cambiò d’aspetto e la cui veste divenne candida e sfolgorante è l’Emanuele, il Dio con noi. Il tempo della Legge e dei Profeti è finito: ora tutto si concentra e fa capo a Lui. Da qui la necessità dettata dalla voce che usciva dalla nube di ascoltare lui e lui solo. Gesù è la Parola conclusiva di Dio Padre e in lui raggiunge il massimo della rivelazione: “Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella.” (CCC 65). Appena la voce cessò, restò Gesù solo: inizia il dramma. I discepoli sollevando gli occhi videro Gesù solo. Inoltre, alla fine del Vangelo si legge: Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. Tutto ciò mette in evidenza l’angosciosa solitudine che si farà grumo di sangue nell’Orto degli Olivi (Lc 22,44). Gesù sa che dovrà affrontare la passione, la morte e la resurrezione, di cui la Trasfigurazione è stata solo un anticipo.


Il significato della Trasfigurazione (Catechismo della Chiesa Cattolica Compendio 110): Nella Trasfigurazione appare anzitutto la Trinità: «Il Padre nella voce, il Figlio nell’uomo, lo Spirito nella nube brillante» (san Tommaso d’Aquino). Evocando con Mosè ed Elia la sua «dipartita» (Lc 9,31), Gesù mostra che la sua gloria passa attraverso la Croce e dà un anticipo della sua risurrezione, e della sua gloriosa venuta, «che trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21).
«Tu ti sei trasfigurato sul monte e, nella misura in cui ne erano capaci, i tuoi discepoli hanno contemplato la tua Gloria, Cristo Dio, affinché, quando ti avrebbero visto crocifisso, comprendessero che la tua Passione era volontaria e annunziassero al mondo che tu sei veramente l’irradiazione del Padre» (Liturgia Bizantina).


Fu trasfigurato... - La mitologia greca con il termine trasfigurazione indica il mutare aspetto o forma degli dèi; nei Vangeli il termine non ha nessuna relazione con il suo uso mitologico, perché «questa scena di gloria, per quanto passeggera, manifesta ciò che è realmente e ciò che sarà presto in modo definitivo colui che deve conoscere per un certo periodo l’abbassamento del servo sofferente» (Bibbia di Gerusalemme).
Gesù, in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, sale sopra un «alto monte, in disparte, loro soli»: la tradizione è unanime nell’identificare l’alto monte con il Tabor. Fu trasfigurato (metemorfode): il verbo greco «indica propriamente il passaggio da una forma ad un’altra, cioè ad un modo diverso di essere, in cui la persona, pur restando se stessa, si manifesta diversa» (Adalberto Sisti, Marco). Sul Tabor, i tre Apostoli, anche se per breve tempo, contemplano il fulgore della divinità del Cristo: il Figlio della Vergine, con il candido splendore delle sue vesti (il bianco è il colore degli esseri celesti: Cf. Mc 16,5; At 1,10; Ap 1,13; 3,4-5; 4,4; 7,9), svela la sua natura celeste e ai testimoni, sbigottiti e stupefatti, manifesta di essere il «figlio dell’uomo» (Dan 7,13-14) atteso dai profeti.
Elia con Mosè: rappresentano rispettivamente i Profeti e la Legge. Appaiono come testimoni dell’adempimento della Legge e dei Profeti in Gesù, nella sua gloria.
Rabbì, è bello... facciamo tre capanne: è un riferimento alla festa delle capanne che si celebrava per ricordare il soggiorno degli israeliti nelle tende durante l’esodo dall’Egitto (Cf. Lev 23,33-43).
L’evangelista Marco, a differenza di Matteo e di Luca, vede nell’evento soprattutto una epifania gloriosa del Messia nascosto, in conformità al tema dominante del suo vangelo. Ma se si tiene conto che la rivelazione dell’identità di Gesù di Nazaret come Figlio di Dio, nelle intenzioni di Marco, è fondata nel precedente annuncio della passione (Cf. Mc 8,31) e che gli stessi Apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, qualche tempo dopo, saranno compagni del Cristo nel giardino del Getsemani (Cf. Mt 26,36-46), sembra allora che Gesù intenzionalmente abbia voluto rivelare la sua gloria a coloro che avrebbero assistito più direttamente al suo annichilimento. La Trasfigurazione quindi, al dire di san Leone Magno, «mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta di Cristo».
Da una lettura attenta del brano marciano, emerge abbastanza chiaramente anche l’intenzione di affermare che Gesù è la Parola di Dio - «Ascoltatelo» (Cf. Dt 18,15) -, che riunisce in sé la Legge e i Profeti e li porta a compimento. La Parola di Gesù è parola divina e ascoltare lui significa ascoltare il Padre celeste: questa corrispondenza «è tipica anche del profeta dell’Antico Testamento; Gesù però non è riducibile a dimensioni puramente profetiche, essendo il Figlio di Dio. La sua parola è definitiva, propria dei tempi ultimi» (G. B.).
Non ascoltarla avrebbe effetti catastrofici per l’uomo, sarebbe per sempre perduto (Cf. Ap 21,8).
La Parola di Gesù è fonte di vita eterna per chi la accoglie (Cf. Gv 5,24); costui non «vedrà la morte in eterno» (Gv 8,51-52). Cristo, infatti, Verbo di Dio, ha «parole di vita eterna» (Gv 6,68); le sue parole sono «spirito e vita» (Gv 6,63). Per questo occorre che l’uomo, deposta «ogni impurità e ogni eccesso di malizia», accolga con docilità la parola di Gesù che è stata seminata in lui e che può salvare la sua anima (Cf. Gc 1,21). Imperiosamente la osservi, la custodisca (Cf. Gv 14,24; 15,20; Ap 3,8), la metta in pratica (Cf. Gc 1,22) e perseveri in essa (Cf. Gv 8,31; 15,7). La voce del Padre, come avvenne per il Battesimo (Cf. Mc 1,11), conferma la filiazione divina di Gesù. I tre discepoli, poi, «guardandosi attorno, non videro più nessuno», questo perché basta lui come dottore della legge perfetta e definitiva.
Il chiedersi «che cosa volesse dire risorgere dai morti», non «verteva circa la possibilità della risurrezione dei morti, allora ammessa comunemente da tutti nel mondo giudaico, ad eccezione dei sadducei [Cf. 12,18], ma circa l’indicazione concreta fornita dallo stesso Gesù, le cui parole “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti” supponevano che il Messia dovesse soffrire e morire. E ciò per loro era ancora inconcepibile [Cf. Mc 8,32]» (Adalberto Sisti, Marco).
Nella 2Pt si fa riferimento alla Trasfigurazione, ma con intenzioni che vanno al di là del semplice ricordo; infatti, è inteso «a scalzare le obiezioni mosse contro la parusia, mostrando, sulla testimonianza dei testi oculari apostolici, che Gesù possiede già le qualità essenziali che saranno manifestate alla sua parusia: maestà, onore e gloria dal Padre, figliolanza messianica e divina» (T. W. Leaby).


Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): La trasfigurazione è una delle più sfolgoranti manifestazioni messianiche per il suo valore certificante in ordine alla identità del Cristo. Nel piano evangelico equivale a una testimonianza altissima da parte di chi la fa, per il suo contenuto e per i destinatari.
È lo stesso Dio Padre che interviene e si manifesta nella voce, nella parola, nello splendore esterno e nella nube, la quale nella Scrittura è il segno della teofania (Es 16,10; Lev 16,2; 1Re 8,10-12).
Rivelando che Cristo è suo Figlio, Iddio lo palesa come Verbo divino, consustanziale con se medesimo, coeterno, coinfinito, coonnipotente, coonnisciente, coonnipresente. Mostra che è lui l’uomo prescelto fra tutti come Messia, Consacrato, Inviato, Salvatore universale, Rivelatore del pensiero divino. Conferma con ciò la confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 9,29), con tutti gli attributi e le prerogative che questo titolo comportava nella tradizione biblica e giudaica. Ratifica tutte le attività del figlio di Maria come adempimento delle volontà divine e manifestazione della vita trinitaria. Conferisce forza di salvezza a tutte le sue azioni, come svolgimento del  grande piano di redenzione.
Dio Padre non rivolge la sua proclamazione sul Tabor ai soli apostoli, a tutti gli uomini di tutte le generazioni, perché il destino di tutti era legato indissolubilmente all’opera del Cristo.
La metamorfosi (tale è il termine greco di 9,2), cioè la deificazione dell’umanità di Cristo, resasi visibile agli occhi materiali dei presenti sul monte, era segno e saggio della partecipazione da parte del cristiano alla vita divina mediante la fede, il battesimo e gli altri sacramenti. Ma preludeva soprattutto al possesso della gloria divina in paradiso. L’evento del Tabor, insieme agli altri misteri Cristo, era anche causa dell’apoteosi riservata ai cristiani (cfr. SC 102).

Benedetto XVI (Angelus, 4 Marzo 2012): Il mistero della Trasfigurazione non va staccato dal contesto del cammino che Gesù sta percorrendo. Egli si è ormai decisamente diretto verso il compimento della sua missione, ben sapendo che, per giungere alla risurrezione, dovrà passare attraverso la passione e la morte di croce. Di questo ha parlato apertamente ai discepoli, i quali però non hanno capito, anzi, hanno rifiutato questa prospettiva, perché non ragionano secondo Dio, ma secondo gli uomini (cfr Mt 16,23). Per questo Gesù porta con sé tre di loro sulla montagna e rivela la sua gloria divina, splendore di Verità e d’Amore. Gesù vuole che questa luce possa illuminare i loro cuori quando attraverseranno il buio fitto della sua passione e morte, quando lo scandalo della croce sarà per loro insopportabile. Dio è luce, e Gesù vuole donare ai suoi amici più intimi l’esperienza di questa luce, che dimora in Lui. Così, dopo questo avvenimento, Egli sarà in loro luce interiore, capace di proteggerli dagli assalti delle tenebre. Anche nella notte più oscura, Gesù è la lampada che non si spegne mai. Sant’Agostino riassume questo mistero con una espressione bellissima, dice: «Ciò che per gli occhi del corpo è il sole che vediamo, lo è [Cristo] per gli occhi del cuore» (Sermo 78, 2: PL 38, 490).
Cari fratelli e sorelle, tutti noi abbiamo bisogno di luce interiore per superare le prove della vita. Questa luce viene da Dio, ed è Cristo a donarcela, Lui, in cui abita la pienezza della divinità (cfr Col 2,9). Saliamo con Gesù sul monte della preghiera e, contemplando il suo volto pieno d’amore e di verità, lasciamoci colmare interiormente della sua luce. Chiediamo alla Vergine Maria, nostra guida nel cammino della fede, di aiutarci a vivere questa esperienza nel tempo della Quaresima, trovando ogni giorno qualche momento per la preghiera silenziosa e per l’ascolto della Parola di Dio.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo Figlio unigenito, ma lo hai dato per noi peccatori; rafforzaci nell’obbedienza della fede, perché seguiamo in tutto le sue orme e siamo con lui trasfigurati nella luce della tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo ...