1 Maggio 2023
 
San Giuseppe Lavoratore - Memoria
 
At 11,1-18; Sal 41 (42) e 42 (43); Gv 10,11-18
 
Colletta
O Dio, che hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro
al disegno della tua creazione,
fa’ che per l’esempio e l’intercessione di san Giuseppe
siamo fedeli ai compiti che ci affidi,
e riceviamo la ricompensa che ci prometti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
San Giuseppe, Patrono della Chiesa del nostro tempo - Redemptoris custos N. 28: In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell’eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282s).
Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù... Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia... E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).
N. 29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove - come ho scritto nell’esortazione apostolica “Christifideles Laici” - la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione e dall’esempio dei suoi santi.
 
I Lettura: Ancora tra le fila della novella Chiesa molti che si sono convertiti dal giudaismo sono arroccati alla Legge di Mosè, e si sentono autorizzati a rimproverare Pietro: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!». testo occ. (è Cristo che dà lo Spirito). Pietro “dà spiegazioni circa il battesimo conferito aun pagano; non risponde invece all’accusa di aver accettato l’ospitalità da un non circonciso (cf. v 3; 10.1+). Secondo Luca, fu Pietro che, almeno idealmente ammise per primo i pagani nella Chiesa. Qualunque sia il valore del battesimo conferito all’eunuco etiope 18.26-39) o la cronologia relativa nell’evangelizzazione di Antiochia, il cui racconto è riservato per il seguito (vv. 19s). In questa prospettiva il concilio di Gerusalemme (15,5-29) apparirà un po’ come il seguito o la riconferma della deliberazione di 11,1-18” (Bibbia di Gerusalemme nota a AT 11,17).
 
Vangelo
 
Il buon pastore dà la vita per le pecore.
 
Bibbia per la formazione cristiana: La parabola del buon pastore mette in evidenza la preoccupazione di Gesù per l’unità. Ci sarà un solo gregge e un solo pastore.
E il gregge non sarà formato soltanto dalle pecore disperse della casa di Israele, ma da tutti coloro che ascolteranno la sua voce e lo seguiranno fino alla vita eterna. Il nuovo popolo di Dio non è unito da vincoli di razza, di nazionalità o di cultura, ma dalla fede in Gesù. Tutti sono chiamati a farne parte, e il pastore cerca e conosce tutti. Gesù coglie l’occasione per annunciare che affronterà liberamente la morte per le sue pecore.
Si avvicina l’ora di compiere con amore la volontà del Padre, perché le pecore abbiano la vita.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,11-18
 
In quel tempo, Gesù disse:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
 
Parola del Signore.
 
Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni - Vol. II): Lo scopo dell’incarnazione del Figlio di Dio è donare la vita in abbondanza (Gv 10,10), è portare la salvezza piena a tutta l’umanità (Gv 3,17; 12,47). Egli infatti è la fonte della vita (Gv 1,4; 1Gv 1,ls; 5,11), è l’acqua viva (Gv 4,10ss), è il pane della vita (Gv 6,35.48), ossia è la vita personificata. Quindi Gesù può concedere la vita al mondo e in effetti la porta in abbondanza (Gv 10,10), come dona lo Spirito senza misura (Gv 3,34) e offre il vino della sua rivelazione salvifica in sovrabbondanza (Gv 2,6ss).
Il Verbo incarnato infatti è il buon Pastore che depone la sua vita per le sue pecore (Gv 10,11). Precedentemente il Maestro aveva già insinuato di essere il vero pastore, con un linguaggio alquanto oscuro e allusivo (Gv 10,2ss.7s). In questi passi il significato primo delle espressioni enigmatiche riguardava i pastori d’Israele, i quali per essere veri devono passare per la porta che è il Cristo.
Tuttavia anche qui possiamo trovare una chiara allusione al Verbo incarnato, il pastore escatologico del popolo di Dio. Que ti infatti conosce profondamente le sue pecore (Gv 10,3.14) e le conduce fuori dal recinto della sinagoga, mettendosi in testa al uo gregge, che lo segue docilmente (Gv 10,3s; 1,37ss). L’insinuazione che Gesù è il buon Pastore appare più chiaramente ancora nell’antitesi tra il ladro, che causa solo rovina, e il Verbo incarnato che porta vita e salvezza (Gv 10,10).
Questi passi, quindi, possono e debbono essere letti a un duplice livello.
Con la solenne proclamazione Io sono il buon Pastore! (Gv 10,11), il Maestro chiarisce in modo inequivocabile le precedenti allusioni alla sua missione pastorale. Gesù è il vero pastore d’Israele, che realizza pienamente le promesse dell’AT (cf. Ger 3,15; 23,3s; Sal 23), tra le quali l’oracolo di Ez 34,1-25 ricopre un ruolo di primo piano. Anzi nel brano finale di questa pericope profetica, Dio promette il pastore escatologico della discendenza davidica, il Messia che regnerà su Israele (Ez 34,23ss).
È il Verbo incarnato questo pastore perfetto, perché non solo conduce il suo gregge ad acque tranquille e lo fa riposare in pascoli di erbe’ fresche, preparandogli una mensa abbondante ( Sal 23,ls.5), ma, per la salvezza delle sue pecore, giunge anche a privarsi della vita (Gv 10,10 ). Gesù dona la sua persona a favore del suo popolo; la sua carne è per la vita del mondo (Gv 6,51). Con l’epsressione deporre l’anima a favore di qualcuno è indicato il dono della vita, il sacrificio supremo di una persona per salvare un amicò.L’uso della preposizione «hypér», in riferimento al dono della vita (Gv 6,51; 10,11.15.17s; cf. Gv 11,50), insinua l’allusione alla morte redentrice di Cristo, come si può costatare nelle formule dell’istituzione dell’eucaristia (cf. Mc 14,24; Lc 22,19s; 1Cor 11,24).
Il verbo deporre («tithénai») in Gv 10,11.15.17s indica l’estrema libertà del Cristo nel sacrificare la sua persona a favore del suo gregge. Egli dispone pienamente della sua vita e può deporla come un vestito (cf. Gv 13,4), per riaverla a suo piacimento (Gv 10,18): egli è il Signore della vita e della morte.
 
Richard Gutzwiller (Meditazioni su Giovanni): La vittima. Il pastore dà la propria vita per le sue pecore. Cristo ha sacrificato agli uomini il suo tempo, le sue forze ed infine la sua vita. La vittima della croce si è immolata per tutti. Perciò S. Paolo scrive: «Mi ha amato e si è donato per me». Ciascuno di noi può e deve ripetere queste parole applicandole a se stesso, perché Cristo si è immolato personalmente per lui. Del pari, anche tutti coloro ai quali è stata affidata la salvezza altrui devono essere pronti a sacrificarsi per gli altri: il dono disinteressato di sé per gli altri è lo spirito di Cristo.
Per tutti. Non si tratta solo di un piccolo gregge, di pochi prescelti, previa abbandono o addirittura disprezzo degli altri. Il cristianesimo non è una società segreta: la chiamata è rivolta a tutti, la salvezza è fondamentalmente aperta a tutti. Nelle parole di Gesù c’è una sfumatura di inquietudine e di ansia: «Ed ho altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io guidi; e daranno ascolto alla mia voce, sicché si avrà un solo gregge ed un solo pastore». Pensa a tutti, conosce tutti, vuole difendere tutti e si immola per tutti. Su quest’affermazione si profila l’universalità del regno di Dio.
La figura del «pastor bonus» ha una grande importanza soprattutto per coloro che sono detti «pastores ecclesiae». Proprio oggi, nell’epoca della partecipazione dei laici al lavoro apostolico, essa assume per tutti un significate che non è puramente passivo, consistente cioè nella coscienza di sentirsi protetti da Cristo, ma è anche attivo, ossia ci mostra il compito e la responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri.
 
San Giuseppe figura degli apostoli: “In seguito, morto Erode, Giuseppe è avvertito da un angelo di riportarsi in Giudea con il bambino e sua madre. Nel far ritorno, avendo appreso che il figlio di Erode, Archelao, era re, ebbe paura di andarvi, e venne ancora avvertito da un angelo di passare in Galilea e di fissare la sua dimora in una cittadina di quella regione, Nazareth [cfr. Mt 2,22-23]. Così, egli riceve avviso di far ritorno in Giudea e, ritornato, ha paura. E, ricevuto nuovo avviso in sogno, ha l’ordine di recarsi in paese di pagani. Tuttavia, non avrebbe dovuto aver paura, dal momento che aveva ricevuto un avvertimento, oppure l’avvertimento che in seguito sarebbe stato modificato non avrebbe dovuto essere apportato da un angelo. Ma è stata osservata una ragione tipologica. Giuseppe è figura degli apostoli, ai quali è stato affidato Cristo per essere portato dovunque. Siccome Erode passava per morto, cioè il suo popolo si era perduto in occasione della Passione del Signore, essi hanno ricevuto il comando di predicare ai Giudei. Erano infatti stati inviati alle pecore perdute della casa d’Israele [cfr. Mt 15,24], ma, permanendo il dominio dell’incredulità ereditaria, essi temono e si ritirano. Avvertiti da un sogno, ovvero contemplando nei pagani il dono dello Spirito Santo [cfr. Gl 2,28-31], portano Cristo a questi ultimi, pur essendo stato inviato alla Giudea, chiamato però vita e salvezza dei pagani” (Ilario di Poitiers, In Matth., 2, 1).
 
Il Santo del Giorno - 1 Maggio 2023 - Giuseppe lavoratore. Il lavoro, partecipazione all’opera della salvezza - Il lavoro di San Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità». Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella lettera apostolica «Patris corde», dedicata proprio allo sposo di Maria. Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere «custode» di un tesoro prezioso, perché, spiega ancora il Papa, egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione». La memoria liturgica odierna fu istituita nel 1955 da Pio XII proprio per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana. (Matteo Liut)
 
O Signore, che ci hai nutriti con il pane del cielo,
fa’ che, sull’esempio di san Giuseppe,
conserviamo nei nostri cuori la memoria del tuo amore,
per godere il frutto della pace senza fine.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 30 Aprile 2023
 
IV Domenica di Pasqua
 
At 2,14a.36-41; Salmo Responsoriale dal Salmo 22 (23); 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10
 
Colletta
 O Dio, nostro Padre,
che hai inviato il tuo Figlio, porta della nostra salvezza,
infondi in noi la sapienza dello Spirito,
perché sappiamo riconoscere la voce di Cristo,
buon pastore, che ci dona la vita in abbondanza.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
Pastores dabo vobis N. 22: L’immagine di Gesù Cristo Pastore della Chiesa, suo gregge, riprende e ripropone, con nuove e più suggestive sfumature, gli stessi contenuti di quella di Gesù Cristo Capo e servo. Inverando l’annuncio profetico del Messia Salvatore, cantato gioiosamente dal salmista e dal profeta Ezechiele, Gesù si autopresenta come il « buon Pastore » non solo di Israele, ma di tutti gli uomini. E la sua vita è ininterrotta manifestazione, anzi quotidiana realizzazione della sua « carità pastorale »: sente compassione delle folle, perché sono stanche e sfinite, come pecore senza pastore; cerca le smarrite e le disperse e fa festa per il loro ritrovamento, le raccoglie e le difende, le conosce e le chiama ad una ad una, le conduce ai pascoli erbosi e alle acque tranquille, per loro imbandisce una mensa, nutrendole con la sua stessa vita. Questa vita il buon Pastore offre con la sua morte e risurrezione, come la liturgia romana della Chiesa canta: « È risorto il Pastore buono che ha dato la vita per le sue pecorelle, e per il suo gregge è andato incontro alla morte. Alleluia ».
Pietro chiama Gesù il « Principe dei pastori », perché la sua opera e missione continuano nella Chiesa attraverso gli apostoli e i loro successori e attraverso i presbiteri. In forza della loro consacrazione, i presbiteri sono configurati a Gesù Buon Pastore e sono chiamati a imitare e a rivivere la sua stessa carità pastorale.
 
I Lettura: Dio lo ha costituito Signore e Cristo: La prima lettura è la conclusione del discorso di Pietro tenuto il giorno di Pentecoste. La parola di Pietro è particolarmente efficace: toccando il cuore della folla, la dispone ad accogliere con gioia il dono della salvezza. Ritroviamo l’atmosfera degli inizi del Vangelo, quando Giovanni Battista invitava il popolo d’Israele alla conversione, alla penitenza, al battesimo (Cf. Lc 3,10).
 
II Lettura: Siete stati ricondotti al pastore delle vostre anime: L’apostolo Pietro esorta gli schiavi a sopportare pazientemente la sofferenza, soprattutto quando è inflitta ingiustamente. Umanamente impossibile, è possibile se si tiene fisso lo sguardo su Gesù, il quale, per la salvezza degli uomini, «di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore» (Eb 12,2; Cf. Eb 12,3). Soffrire pazientemente è gradito a Dio e fa parte della vocazione cristiana: è l’unica via maestra che conduce il discepolo al possesso della gloria eterna.
 
Vangelo
 
Io sono la porta delle pecore.
 
Gesù, con l’allegoria evangelica della «Porta delle pecore», si presenta anche come «il Pastore grande» (Eb 13,20) del popolo eletto e del mondo intero: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Egli si rivolge alle guide spirituali del popolo eletto e contro di esse riprende le accuse che i profeti rivolgevano ai cattivi pastori i quali, pascendo se stessi, disperdevano il gregge loro affidato (Cf. Ez 34,2; Ger 23,1). Gesù è il buon pastore che le pecore seguono perché ne conoscono la voce come egli le conosce una ad una. L’immagine della porta è usata nella sacra Scrittura per designare l’accesso al mondo di Dio (Cf. Gen 28,17). Qui, affermando di essere la porta, Gesù dà all’immagine lo stesso significato positivo: passando attraverso di lui, e soltanto attraverso di lui, si accede alla salvezza, alla vita. Cristo Gesù è dunque il pastore-messia atteso dal popolo d’Israele, è «il pastore che finalmente redimerà il gregge di Iahvé e lo renderà giusto e santo agli occhi di Dio» (Giorgio Fornasari).
 
 Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv  10,1-10
 
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Parola del Signore.
 
 
Io sono la porta delle pecore - La similitudine della Porta delle pecore (Gv 10,1-10) segue il racconto del miracolo del cieco nato (Cf. Gv 9,1-41) e quindi fa ben intendere a chi è rivolta.
... chi non entra nel recinto... L’ovile, costruito in luogo soleggiato, era una costruzione bassa, ad arcate, con un recinto costituito quasi sempre da un muro a secco. Il pastore si sdraiava attraverso l’apertura e fungeva da porta per le pecore. A custodire il gregge era posto un guardiano per impedire ai ladri di rubare le pecore. Solo chi entrava dalla porta veniva riconosciuto dal guardiano e dalle pecore. Il vivere con le pecore «in un luogo isolato fa sì che crei un rapporto speciale tra il pastore e le pecore. I pastori conoscono talmente bene le loro pecore che queste rispondono istantaneamente alla loro voce. Il pastore chiama ogni pecora per nome, e il nome indica qualcosa del carattere e del modo di comportarsi della pecora» (Ralph Gower).
A questa intimità si riferisce Gesù quando dice di conoscere le sue pecore, per cui quando sono chiamate rispondono alla sua voce.
Il termine recinto (greco aulè) nella versione greca dei Settanta è usato per indicare il vestibolo del tempio. Forse, idealmente, Gesù vuole trasportare i suoi ascoltatori in questo luogo santo, tanto amato dal popolo eletto ed emblema e centro spirituale del giudaismo: così facendo, Gesù dà alle sue parole una valenza altamente pregnante di significato teologico-pastorale. Il recinto aveva una porta, o un cancello. Gesù è la porta per la quale entrano i veri pastori e dalla quale si esce per trovare il pascolo, cioè per essere salvi e per avere la vita in abbondanza. Applicando a sé l’immagine della porta, Gesù «esprime in maniera unitaria due fondamentali verità: da una parte, egli è mediatore della salvezza, via di accesso unica ai beni messianici; dall’altra, egli stesso è il nuovo Tempio, che si sostituisce definitivamente a quello vecchio materiale [Cf. Gv 2,13-22], cioè non più tramite ma luogo stesso in cui il nuovo Popolo trova la sua salvezza. Così si spiegano le promesse di una comunione piena e senza ostacoli tra Lui e i credenti [espressa mediante i termini contrari di entrare e di uscire], di pascolo e di nutrimento, anzi di vita data loro in abbondanza» (P. Adriano Schenker, o.p. - Rosario Scognamiglio, o.p.).
Gesù disse loro questa similitudine. Similitudine (paroimía) è un termine esclusivo di Giovanni, che ricorre ancora in 16,25.29, mentre i Sinottici parlano di parabola (parabolè), ma il senso è lo stesso. Gesù, palesemente, si rivolge ai farisei, guide cieche del popolo d’Israele: un duro rimprovero se la parabola è letta sopra tutto alla luce dei testi di Ez 34,1ss e di Zac 23,1-3.
In verità, in verità io vi dico... traslitterazione dell’ebraico amen e sta per certamente, veramente, sinceramente. Il suo uso dà autorevolezza al discorso. Gesù insegna con autorità (Cf. Lc 4,31) al contrario degli scribi (Cf. Mt 7,29) e dei profeti che usavano le parole “Dice il Signore”.
... io sono la porta delle pecore, questa affermazione riporta il lettore-credente a tutta una serie di analoghe affermazioni costruite con il verbo «Io sono», uniche nel discorrere giovanneo: il pane della vita (Gv 6,35.48.51), la luce del mondo (Gv 8,12), la risurrezione e la vita (Gv 11,25), la via, la verità e la vita (Gv 14,6), la vera vite (Gv 15,15). Queste affermazioni nelle menti occluse dei farisei avevano un effetto devastante. Gesù nei suoi insegnamenti si appropriava di questo attributo tipico di IAHWH (Cf. Es 3,14; Is 43,25) per manifestare la sua natura divina. Per le guide cieche d’Israele non poteva non essere che intollerabile e inaccettabile: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33). Scandalizzandosi e non accettando la rivelazione del Cristo, i farisei si pongono tra le fila di tutti coloro che sono venuti prima di lui, autodichiarandosi ladri e briganti. Chi si arroga il diritto di pascere le pecore di Dio rifiutando di passare dall’unica porta piomba nel mondo delle tenebre che, per così dire, è anteriore all’apparire di Cristo, luce del mondo. Vi è un solo modo per reggere legittimamente il gregge: bisogna passare per Gesù (Cf. Gv 21,15-17).
Io sono la porta ... Gesù è la porta delle pecore: è l’unico mediatore della salvezza, «in nessun altro c’è salvezza» (Atti 4,12). Chi cerca «vita e felicità fuori e lungi dal Cristo, si illude: troverà solo amarezza e rovina. Chi si allontana dalla fonte d’acqua viva, si scava cisterne screpolate, incapaci di contenere acqua, o si abbevera ad acque limacciose e inquinate. Chi vuole conseguire la salvezza, servendosi di altri mediatori, giungerà alla perdizione. L’unico mediatore tra Dio e gli uomini è Gesù Cristo [1Tm 2,5]. Egli è l’unico salvatore del genere umano, il sigillo dell’amore del Padre per il mondo [Gv 3,16s; 1Gv 4,14-16]» (Salvatore A. Panimolle)
 
XAVIER LÉON-DUFOUR (Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni): Io sono la porta - La proclamazione iniziale «Io sono la porta delle pecore» può essere compresa in due maniere: Gesù è la porta per la quale si accede alle pecore, oppure è la porta attraverso la quale passano le pecore. La porta è destinata a coloro che vanno verso le pecore, oppure essa è destinata all’entrata e uscita delle pecore. Secondo la prima lettura, la più comune tra i commentatori, Gesù affermerebbe di essere il solo mediatore per arrivare efficacemente alle pecore, e questo è stato interpretato come l’esigenza di fedeltà a Gesù da parte dei pastori della Chiesa. Ma il contesto dei vv. 7-10 si oppone a questa lettura: qui non è questione di molti pastori ma di uno solo, e i personaggi diversi da lui non vengono nell’ovile per pascolare le pecore, essi le uccidono. È totale il contrasto tra il pericolo che essi rappresentano per le pecore e la vita alla quale Gesù dona loro di accedere. Del resto, Gesù non dice che egli è «la porta dell’ovile», ma «delle pecore». Gli sforzi dei critici per legittimare la prima lettura si basano in definitiva su una indebita allegorizzazione della porta menzionata nel quadro simbolico. Gesù non si presenta come il mediatore dei futuri pastori; questa estensione avverrà solo più tardi nella letteratura ecclesiastica. Il v. 8 presenta una difficoltà: chi sono coloro che sono «venuti prima di me», bollati come ladri e briganti? Gesù non si riferisce certamente ai patriarchi e ai profeti d’Israele, di cui ha fatto i suoi testimoni o ha ricordato gli annunci, né al precursore che pure è venuto prima di lui. Costoro, i credenti li hanno ascoltati! D’altra parte, l’esclusione è radicale. Per comprenderla conviene partire dal contesto, dove la Porta, che è Gesù, apre l’ingresso alla vita; Gesù esclude che chiunque altro, all’infuori di lui, possa condurre alla vita sovrabbondante; questo è il senso di «prima di me». Ma per qual motivo qualificare questi intrusi come ladri e briganti?
Il termine «ladro» assume il suo vero significato se, ancora una volta, si tiene conto del contesto. Non si tratta di colui che ruba al suo simile qualcosa che gli appartiene; in questo testo ciò che viene rubato sono le pecore, ed esse appartengono a Dio stesso. Se Gesù le ha chiamate «sue», l’ha detto in quanto gliele ha donate il Padre (v. 29), e il Padre e il Figlio hanno tutto in comune. Il ladro qui è uno che ruba a Dio: ruba a Dio le sue pecore; è un tentativo estremo di usurpazione. Ora Dio è un Dio geloso, dice la Scrittura (Es 20,5; 34,14); e Gesù, il cui zelo per la casa del Padre lo condurrà alla morte (2,17), lo sa bene.
Venendo per derubare ciò che appartiene a Dio, questi intrusi non possono che «farle perire» (apollymi) - termine che designa la perdizione definitiva in senso spirituale (Cf. per es. 12,25) - per il fatto che essi le allontanano dalla voce del Figlio.
Quanto al verbo «sacrificare» (thyo, spesso qui mal tradotto con sgozzare), si adatta a uno che ruba a Dio, poiché evoca una parodia di sacrificio. Inversamente Gesù, che al versetto 9 si designa non più come «la porta delle pecore» ma come «la Porta» semplicemente, conduce alla vita. La «salvezza», ottenuta da colui che passa attraverso il Figlio, è dipinta mediante immagini. L’una deriva dalla metafora della porta, l’altra dalla vita pastorale. L’espressione «entrare e uscire», senza indicazione di luogo, significa per se stessa la libertà di qualcuno nella vita ordinaria, dato che la coppia di termini opposti indica una totalità. La si incontra in Nm 27,17 in connessione col tema del gregge di Jhwh. Nel nostro testo essa dice la piena libertà del credente. I «pascoli», simbolo di vita opulenta, preparano la sovrabbondanza su cui si chiude il v. 10 dove si può cogliere un’eco del Salmo 23.
Questa parola di Gesù non dice una cosa diversa da ciò che abbiamo già letto in precedenza, per es. al capitolo 6 nel discorso sul Padrone della vita. Qui però è sottolineata la situazione di pericolo per le pecore che potrebbero andare perdute se non interviene il Figlio e se esse non ascoltano lui solo.
 
Le pecore ascoltano la sua voce - A. Giabbani: L’ascolto nella esperienza mistica: Dio parla all’uomo e lo invita a un rapporto di comunione e di vita per rispondere alle esigenze più profonde della psiche umana.
Per questo è fondamentale l’ascolto, ed è per questo che Dio ha parlato «mediante eventi e parole intimamente connessi» (D V I,2), affinché possiamo riconoscere la voce stessa di Dio e arrivare a credere sinceramente, poiché «la fede nasce dall’ascolto», afferma s. Paolo (Cf. Rm 10,17). È l’ascolto, dunque, che genera la fede, non soltanto della parola scritta, quanto, e più ancora, della parola interiore pronunciata nell’intimo della nostra coscienza dal Maestro della fede cristiana, lo Spirito Santo. «Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io (Gesù) vi ho detto» (Gv 14,26).
 
Clemente di Alessandria, Protrepticon, I, 10, 2-3 - Le porte del Logos: Quanto a voi, se desiderate davvero vedere Dio, prendete parte a cerimonie di purificazione degne di Dio, senza foglie di lauro, né nastri ornati di lana e di porpora; essendovi coronati di giustizia e con la fronte cinta delle foglie della continenza, occupatevi con cura di Cristo; poiché “io sono la porta” (Gv 10,9), dice egli in un certo passo; porta che occorre imparare a conoscere, se si vuol conoscere Dio, in modo tale che egli apra davanti a noi tutte le porte del cielo.
Sono infatti ragionevoli, le porte del Logos, che la chiave della fede ci apre: “Nessuno conosce Dio, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo ha rivelato” (Mt 11,27). Questa porta chiusa fino ad ora, ne sono sicuro, rivela inoltre a chi la apre ciò che sta all’interno e mostra quel che non si poteva conoscere in precedenza, senza essere passati per il Cristo, unico intermediario che conferisce l’iniziazione rivelatrice di Dio.
 
O Dio, pastore buono,
custodisci nella tua misericordia
il gregge che hai redento con il sangue prezioso del tuo Figlio
e conducilo ai pascoli della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 29 Aprile 2023
 
SANTA CATERINA DA SIENA, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA
PATRONA D’ITALIA E D’EUROPA
 
1Gv 1,5-2,2; Salmo Responsoriale dal Salmo 102 (103); Mt 11,25-30
 
Colletta
O Dio, che in santa Caterina [da Siena],
ardente del tuo Spirito di amore,
hai unito la contemplazione di Cristo crocifisso
e il servizio della Chiesa,
per sua intercessione concedi al tuo popolo
di essere partecipe del mistero di Cristo,
per esultare quando si manifesterà nella sua gloria.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» per la proclamazione di santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena e santa Teresa Benedetta della Croce compatrone d’Europa - Non c’è dubbio che, nella complessa storia dell’Europa, il cristianesimo rappresenti un elemento centrale e qualificante, consolidato sul saldo fondamento dell’eredità classica e dei molteplici contributi arrecati dagli svariati flussi etnico-culturali che si sono succeduti nei secoli. La fede cristiana ha plasmato la cultura del Continente e si è intrecciata in modo inestricabile con la sua storia, al punto che questa non sarebbe comprensibile se non si facesse riferimento alle vicende che hanno caratterizzato prima il grande periodo dell’evangelizzazione, e poi i lunghi secoli in cui il cristianesimo, pur nella dolorosa divisione tra Oriente ed Occidente, si è affermato come la religione degli Europei stessi. Anche nel periodo moderno e contemporaneo, quando l’unità religiosa è andata progressivamente frantumandosi sia per le ulteriori divisioni intercorse tra i cristiani sia per i processi di distacco della cultura dall’orizzonte della fede, il ruolo di quest’ultima ha continuato ad essere di non scarso rilievo.
Il cammino verso il futuro non può non tener conto di questo dato, e i cristiani sono chiamati a prenderne rinnovata coscienza per mostrarne le potenzialità permanenti. [...].
Cresca, dunque, l’Europa! Cresca come Europa dello spirito, sulla scia della sua storia migliore, che ha proprio nella santità la sua espressione più alta. L’unità del Continente, che sta progressivamente maturando nelle coscienze e sta definendosi sempre più nettamente anche sul versante politico, incarna certamente una prospettiva di grande speranza. Gli Europei sono chiamati a lasciarsi definitivamente alle spalle le storiche rivalità che hanno fatto spesso del loro Continente il teatro di guerre devastanti. Al tempo stesso essi devono impegnarsi a creare le condizioni di una maggiore coesione e collaborazione tra i popoli. Davanti a loro sta la grande sfida di costruire una cultura e un’etica dell’unità, in mancanza delle quali qualunque politica dell’unità è destinata prima o poi a naufragare.
Per edificare su solide basi la nuova Europa non basta certo fare appello ai soli interessi economici, che se talvolta aggregano, altre volte dividono, ma è necessario far leva piuttosto sui valori autentici, che hanno il loro fondamento nella legge morale universale, inscritta nel cuore di ogni uomo. Un’Europa che scambiasse il valore della tolleranza e del rispetto universale con l’indifferentismo etico e lo scetticismo sui valori irrinunciabili, si aprirebbe alle più rischiose avventure e vedrebbe prima o poi riapparire sotto nuove forme gli spettri più paurosi della sua storia.
A scongiurare questa minaccia, ancora una volta si prospetta vitale il ruolo del cristianesimo, che instancabilmente addita l’orizzonte ideale. Alla luce anche dei molteplici punti di incontro con le altre religioni che il Concilio Vaticano II ha ravvisato (cfr Decreto Nostra Aetate), si deve sottolineare con forza che l’apertura al Trascendente è una dimensione vitale dell’esistenza. Essenziale è, pertanto, un rinnovato impegno di testimonianza da parte di tutti i cristiani, presenti nelle varie Nazioni del Continente. Ad essi spetta alimentare la speranza di una salvezza piena con l’annuncio che è loro proprio, quello del Vangelo, ossia la « buona notizia » che Dio si è fatto vicino a noi e nel Figlio Gesù Cristo ci ha offerto la redenzione e la pienezza della vita divina. In forza dello Spirito che ci è stato donato, noi possiamo levare a Dio il nostro sguardo e invocarlo col dolce nome di «Abba», Padre! (cfr Rm 8, 15; Gal 4, 6).
 
I Lettura: L’unione con Dio, che è luce, amore e verità, si riconosce dalla fede e dall’amore fraterno. Il peccato che assedia l’uomo non deve essere una forza destabilizzante: il cuore dell’uomo deve aprirsi alla certezza che Dio è fedele e giusto tanto da perdonargli i peccati e purificarlo da ogni iniquità. Giovanni parla qui di mancanze passeggere, sebbene la comunione con Dio comporti di per sé una vita santa e senza peccato.
 
Vangelo
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
 
Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno tre temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio. Il terzo tema è quello del giogo di Gesù che è dolce e sopportabile a differenza di quello imposto dai Farisei, insopportabile perché reso pesante da minuziose norme di fatto impraticabili.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 11,25-30
 
In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
 
Parola del Signore
 
Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra... - L’espressione Signore del cielo e della terra, evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale [Mt 13,11], rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,26-29).
... nessuno conosce il Figlio... La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
... nessuno conosce il Padre se non il Figlio... Gesù è l’unico rivelatore dei misteri divini, in quanto il Padre ne ha comunicato a lui, il Figlio, la conoscenza intera. Da questa affermazione si evince che Gesù è uguale al Padre nella natura e nella scienza, è Dio come il Padre, di cui è il Figlio Unico.
Venite a me... Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di leggi e precetti meramente umani (Mt 15,9); una giustizia ipocrita, ma strisciante da sempre in tutte le religioni. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono stanchi e oppressi, in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, le condizioni che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno, senza infingimenti o accomodamenti: «Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”» (Lc 9,23). È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre stoltezza o scandalo (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti, anche cristiani, tendono a porre al centro di tutta la loro vita, spesso disordinata, le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o avvinti dai loro gusti e programmi, tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità capricciosa di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
Gesù è mite e umile di cuore: è la via maestra per tutti i discepoli, è la via dell’annichilimento (Cf. Fil 2,5ss), dell’incarnarsi nel tempo, nella storia, nel quotidiano dei fratelli, non come maestri arroganti o petulanti, ma come servi (Cf. 1Cor 9,22).
 
La bontà, la mitezza e la clemenza richieste ai credenti - Giuseppe Barbaglio (Mitezza, Schede Bibliche Pastorali): Anzitutto è doveroso analizzare la beatitudine matteana: «Beati i miti (hóipraéìs), perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Il riferimento al salmo 37,11 [...], la mancanza di questa beatitudine nella versione di Luca, la constatazione che essa costituisce un doppione con la prima beatitudine («Beati i poveri in spirito») inducono a credere che si tratti di un passo redazionale, non privo di legittimazione storica. Matteo ha collocato la mitezza nell’elenco delle condizioni necessarie per poter entrare nel regno dei cieli.
Di grande rilievo è poi il passo di Gal 5,22-23 in cui la bontà e la mitezza sono presentate come frutto dello Spirito. Non siamo dunque di fronte, come nel mondo greco, a comportamenti etici e nobili e virtuosi in cui la persona eccelle, ma al risultato dell’animazione dello Spirito. Essere «buoni» e «miti» è grazia, dono: natu­ralmente grazia che responsabilizza e impe­gna. Ecco le parole dell’apostolo: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé».
Inoltre 1Cor 13,4 connette così strettamente l’agape con la mitezza da attribuire al dinamismo dell’agape la specificazione della mitezza: «La carità è paziente, è benigna la carità». Si noti che per l’apostolo l’agape non è una virtù tra le altre, ma il principio fontale, il dinamismo soprannaturale che abilita il soggetto ad agire in maniera coerente, nel nostro caso in maniera mansueta.
In questo profondo e vasto orizzonte si devono interpretare le numerose e molteplici esortazioni alla bontà e alla mitezza presenti nel Nuovo Testamento.
Le realtà implicate dello Spirito e dell’agape escludono che sia un discorso puramente moralistico. In Col 3,12 l’autore indica questi comportamenti come doverosi per l’esistenza della comunità cri­stiana: «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudi­ne, di pazienza» (Cf. anche il passo parallelo di Ef 4,2, che però collega l’esortazione con il motivo della vocazione cristiana). In Gal 6,1 l’apostolo afferma che l’ammonizione fraterna nella chiesa deve avvenire «con dolcezza». Fil 4,5 esorta all’affabilità.
Tra le doti spirituali e morali necessarie ai ministri della comunità, le lettere pastorali elencano anche la benevolenza, la mitezza: «(l’episcopo) sia benevolo e non litigioso» (1Tm 3,3); «Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti» (2Tm 2,25); Timoteo è esortato, come uomo di Dio, a tendere alla mitezza (2Tm 6,11) e Tito a farsi efficace maestro dei credenti perché questi siano mansueti e dimostrino ogni dolcezza con tutti (Tt 3,2).
Gc 1,21 sollecita ad accogliere «con docilità (en praytétì) la parola che è stata seminata» in loro. La stessa lettera afferma che la mitezza e la sapienza superiore sono strettamente connesse (3,13; 3,17).
Ancora una volta emerge che gli autori del Nuovo Testamento restano racchiusi in prospettive puramente moralistiche.
La 1Pt fa obbligo ai domestici di stare sottomessi ai padroni, non solo a quelli miti, ma pure a coloro che sono difficili (2,18). La mitezza poi per lo stesso scritto è preziosa dote dell’anima incorruttibile (3,4). Infine l’autore della 1Pt sollecita i credenti a farsi testimoni autentici della speranza da essi vissuta, ma senza alterigia «con dolcezza» (metà praytètos) (3,15-16).
 
Santa Caterina da Siena: Benedetto XVI (Udienza Generale, 24 novembre 2010): Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 21: Ad uno il cui nome si tace). Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363). Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa.
Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio. Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (...) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia” (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.
 
San Giovanni Crisostomo: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati, e io vi darò sollievo [Mt 11,28]. Non chiama questo o quello in particolare, ma si rivolge a tutti quanti sono tormentati dalle preoccupazioni, dalla tristezza, o si trovano in peccato. «Venite», non perché io voglia chiedervi conto delle vostre colpe, ma per perdonarle. «Venite», non perché io abbia bisogno delle vostre lodi, ma perché ho una ardente sete della vostra salvezza. «Io» - infatti, egli dice - «vi darò sollievo». Non dice semplicemente: io vi salverò, ma ciò che è molto di più: vi porrò in assoluta sicurezza, perché questo è il senso delle parole «vi darò sollievo». Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore... [Mt 11,29-30]. Non vi spaventate dunque, quando sentite parlare di «giogo», perché esso è «soave»; non abbiate timore quando udite parlare di «peso», perché esso è leggero. Ma perché, allora, - voi direte, - ha parlato precedentemente della porta stretta e della via angusta? Pare così quando noi siamo pigri e spiritualmente abbattuti. Ma se tu metti in pratica e adempi le parole di Cristo, il peso sarà leggero. È in questo senso che così lo definisce. Ma come si può adempire ciò che Gesù dice? Puoi far questo se tu diventi umile, mite e modesto. Questa virtù è infatti la madre di tutta la filosofia cristiana. Per questo motivo quando egli incomincia a insegnare quelle sue divine leggi, inizia dall’umiltà [cfr. Mt 7,14]. Egli conferma qui quanto disse allora, e promette che questa virtù sarà grandemente ricompensata. Essa non sarà - dice in sostanza - utile solo agli altri, in quanto voi prima di tutti ne riceverete i frutti, poiché «troverete conforto alle anime vostre». Ancor prima della vita eterna il Signore ti dà già la ricompensa e ti offre la corona del combattimento: in questo modo e col fatto che propone se stesso come esempio, rende accettabili le sue parole.
 
Santo del giorno - 29 Aprile 2023: Santa Caterina da Siena, Vergine: «Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre.
Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana [o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero]. La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi» (Avvenire)
 
O Signore,
questo cibo spirituale,
che fu nutrimento e sostegno di santa Caterina
nella vita terrena,
comunichi a noi la tua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 28 Aprile 2023
 
Venerdì III Settimana di Pasqua
 
At 9,1-20; Salmo Responsoriale dal Salmo 116 (117); Gv 6,52-59
 
Colletta
 Dio onnipotente,
che ci hai fatto conoscere la grazia della risurrezione del Signore,
donaci di rinascere a vita nuova
per la forza del tuo Spirito di amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
… se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna - Evangelium vitae 37: La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è «in lui» e costituisce «la luce degli uomini» (Gv 1,4), consiste nell’essere generati da Dio e nel partecipare alla pienezza del suo amore: «A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).
A volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente così: «la vita»; e presenta la generazione da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l’uomo: «Se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). Il dono di questa vita costituisce l’oggetto proprio della missione di Gesù: egli «è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6,33), così che può affermare con piena verità: «Chi segue me... avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Altre volte Gesù parla di «vita eterna», dove l’aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. «Eterna» è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell’ «Eterno». Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv 3,15; 6,40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le «parole di vita eterna» che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già fin d’ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina.
 
I Lettura: Cristo risorto sulla via di Damasco infrange i progetti delittuosi di Saulo, l’anima del persecutore si apre alla fede, e gli occhi  si riempiono di luce nuova: la sua mente, pur sconvolta dall’apparizione del Risorto, comprende che Gesù è il Signore, e che vi è perfetta identità tra il Gesù che ora ha incontrato e i cristiani che aveva perseguitato: è  il mistero del corpo mistico di Cristo, Gesù è il Capo, i cristiani le membra. Sconvolto, si affida alla preghiera di Anania, recupera la vista ed già in marcia per proclamare che Gesù è il Signore, il Messia che colma le attese delle antiche profezie.   
 
Vangelo
 La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
 
Gesù è il pane disceso dal cielo, di cui la manna era una pallida idea. Gli ebrei nel deserto avevano mangiato la manna ed erano morti, chi mangia la carne del Figlio dell’uomo e beve il suo sangue avrà la vita eterna. È una chiara allusione al significato redentore e sacrificale dell’Eucarestia.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 6,52-59
 
In quel tempo, i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.
Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.
 
Parola del Signore.
 
Bruno Maggioni (Il Vangelo di Giovanni): La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda (v. 55), Un autore del I secolo non avrebbe potuto scrivere le espressioni contenute nei vv. 51-58 senza pensare all’eucarestia. E nessun lettore del tempo le avrebbe intese diversamente. Ma quale concezione dell’eucarestia ci viene data? E quale è il suo rapporto con la tradizione comune del Nuovo Testamento?
I testi eucaristici dei sinottici (Mc 14,22-25; Mt 26,20-29; Lc 22,14-20) e della prima lettera ai Corinti (11,23-26) testimoniano la presenza di elementi costanti, quasi strutture fondamentali nella fede comune: la cornice del tradimento (dei capi, di Giuda, di Pietro e dei discepoli); il gesto del pane spezzato e del vino rosso distribuito; le parole di commento che esplicitano il riferimento all’antica alleanza, al servo di Iahvè e alla croce; la sottolineatura della «vita in dono» (per) come elemento centrale dell’esistenza del Cristo; la sequela come invito a condividere il dono del Cristo «prendete»; «bevete»).
Tutti questi elementi sono presenti in Giovanni, ma a modo suo. Le diversità non meravigliano: Giovanni non intende raccontarci la cena, ma ci offre una omelia eucaristica Ma si direbbe un omelia costruita sugli elementi comuni: la cornice di incomprensione e di tradimento: i giudei, i discepoli (vv. 61.66), Giuda (v. 70); il riferimento all’antica alleanza (alla manna, al banchetto della Sapienza e al banchetto escatologico); l’affermazione della vita in dono ( per»), che costituisce un chiaro riferimento a Is 53,11-12, alla Croce e alla tradizione neotestamentaria comune: l’invito alla sequela («mangiare» e «bere»).
Naturalmente questi elementi della fede comune sono sviluppati, come al solito, all’interno di un pensiero fortemente originale. I tratti eucaristici non riguardano soltanto l’eucarestia-sacramento, e neppure - più ampiamente - la parola e la fede: ma è tutta l’esistenza di Cristo, è l’incarnazione che viene spiegata nel suo significato di fondo. Espressioni come «disceso dal cielo» (vv. 33.50.58), «dato dal Padre» (v. 32), «mandato dal Padre» (v. 57) si riferiscono all’incarnazione. E altre come «sangue» e «dato» si riferiscono alla Passione e alla  Croce. È dunque tutta l’esistenza del Cristo che ci viene svelata nel suo profondo.
Possiamo indicare altre particolarità: l’insistenza e il realismo del «mangiare» e del «bere» (vv. 53-55); l’affermazione che la partecipazione al sacramento è condizione indispensabile per avere la vita (v. 53); l’esplicita dimensione universale del dono di Cristo (e per la vita del mondo»: v. 51); la dichiarazione che frutto della comunione con Cristo è la vita, nel suo aspetto presente e futuro e da intendere come estensione a noi della medesima vita che unisce il Padre e il Figlio (v. 57); infine il ricorso al termine «carne» anziché «corpo» (una polemica antidoceta? Oppure, più semplicemente, una traduzione giovannea del comune termine aramaico?).
 
Come il Padre, ha la vita ... - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 57 La proposizione istituisce un parallelo, differentemente articolato nelle sue due parti, tra la vita di Cristo e quella del credente. Come Gesù trova nel Padre la fonte ed il fine della sua vita, così anche il credente trova in Cristo la fonte ed il fine della sua esistenza. Questa duplice considerazione deriva dalla preposizione διά (per), la quale designa il principio efficiente (in forza di...) e il motivo finale (in favore di,..). L’evangelista intende proporre questa ricchezza di senso (iovivo per il Padre; così anche colui che mi mangia vivrà per me); come Gesù vive dal Padre e per il Padre, così il suo discepolo vive da lui e per lui. Il parallelismo non si esaurisce in questo insegnamento; il testo indica che l’Eucaristia comunica ai credenti la vita divina che Gesù riceve dal Padre; il Padre infatti ha dato al Figlio di disporre della vita divina in favore dei credenti (cf. Giov., 5, 26).
versetto 58 Gesù applica all’Eucaristia le espressioni che ricorrono nei verss. 49-50; si ha così unainclusio, cioè si conclude una sezione allo stesso modo con il quale è stata introdotta. Non è come quello che hanno mangiato i padri; questa sembra essere la lezione criticamente più sicura; molti codici offrono una lettura più ampia per desiderio di maggiore chiarezza e di armonizzazione con i testi precedenti (essi aggiungono le parole: manna, vostri, oppure: nostri, nel deserto); la Volgata offre la seguente lettura: non sicut manducaverunt patres vestri manna et mortui sunt.
versetto 59 Insegnando nella sinagoga; espressione che conclude l’intero discorso di Gesù. L’evangelista rileva che il discorso fu tenuto nella sinagoga per sottolinearne l’importanza; le verità rivelate da Cristo furono esposte durante un’istruzione sinagogale. La formula quindi «nella sinagoga» (letteral.: in sinagoga) non ha un senso esclusivamente locale che richiama l’attenzione su una circostanza esterna al discorso, ma riveste un senso più determinato, perché designa una circostanza che qualifica il discorso, perché esso fu tenuto in un’assemblea sinagogale ed ebbe il carattere di insegnamento autorevole e qualificato. Il codice D ed altri codici minuscoli, dopo le parole «a Cafarnao», aggiungono la precisazione «di sabato».
 
La vocazione di Saulo (9,1-19a) - Richard J. Dillon e Joseph A. Fitzmyer (Atti, Grande Commentario Biblico): Avendo prefigurato la propagazione della Parola ai gentili nell’episodio dell’eunuco della regina etiopica, Luca ritorna ora alla persona che sarà l’eroe della seconda parte del suo libro.
Prima che venga ufficialmente iniziata la missione ai pagani, è necessario che Luca incorpori il suo eroe nella Chiesa primitiva. Viene perciò introdotto a questo punto il racconto della conversione di Saulo.
Non è semplicemente un racconto di conversione, poiché ci informa su qualcosa che va oltre la semplice descrizione della conversione psicologica di Saulo; abbiamo qui piuttosto il racconto della sua vocazione ad essere «lo strumento da me scelto per portare il mio nome dinanzi alle nazioni» (9,15). Questo è soltanto il primo dei tre racconti della conversione di Saulo registrati in At (v. 22,1-6; 26,9-18). I tentativi fatti per mettere questi racconti in relazione con le varie fonti a cui attinse Luca (cap. 9 dalla chiesa antiochena; cap. 22 dalla chiesa gerosolimitana; cap. 26 da Paolo), non sono riusciti a convincere molto. (Per commenti sulle somiglianze e divergenze nelle tre narrazioni lucane della conversione di Saulo, Vita di Paolo, 46: 17-18).
Il racconto della conversione di Paolo che si trova in Gal 1,11-16 è assai simile a quello lucano del cap. 26. La triplice ripetizione del racconto in At è inserita in momenti decisivi nella storia della propagazione della Parola da Gerusalemme, e l’accento che Luca pone su quella conversione in quei particolari momenti sembra deliberatamente voluto. Nel cap. 9 il racconto è posto in relazione con la predicazione della Parola ai gentili (inserito tra l’episodio dell’eunuco etiopico e quello della conversione di Cornelio); nel cap. 22 esso è posto in relazione alla grande battaglia sostenuta dal cristianesimo per emanciparsi e liberarsi dalla sua matrice giudaica; nel cap. 26 la conversione è raccontata in un tempo in cui l’autorità di Roma è stata invocata per proteggere il cristianesimo, e sotto tale protezione esso s’incammina simbolicamente verso l’«estremità della terra».
Un’altra differenza che si potrebbe notare nei tre racconti riguarda il modo in cui viene presentato Saulo nelle varie edizioni. Benché Luca sia riluttante nell’assegnare a Saulo l’appellativo di «apostolo» (soltanto in 14,4.14), la descrizione della sua vocazione all’evangelizzazione dei gentili nel cap. 9 gli ascrive certe qualità peculiari che erano state già sperimentate dagli apostoli. Raffronta 9,15-17 con At 1,9; 2,4.40: egli ha visto il Kyrios; è ripieno dello Spirito; e ha iniziato a proclamare Gesù. Luca suggerisce implicitamente una certa uguaglianza tra Saulo e gli apostoli, anche se egli non s’esprimerebbe mai esplicitamente in tale modo. Nel cap. 22 si nota un accento posto sul ruolo di Saulo in quanto testimone; si può notare nello stesso racconto l’uso abbondante di termini quali martys, martyrein, ecc. (22,5.12.15.18.20) e il riferimento a Stefano (22,20). Ciò spiega la maggiore accentuazione della visione della luce, della doxa, e del «Giusto» (22,14). Infine, nel cap. 26 il ruolo di Saulo è quello del profeta. Nei vv. 16-1 ci sono allusioni alle visioni inaugurali di Ez 2,1.6; Ger 1,8, e in modo ancor più chiaro a Is 35,5; 42, 7; 61,1. Mosè e i profeti confermano il suo messaggio riguardante il Cristo (26,21); infine egli interroga Agrippa se crede nei profeti (26,27). In tutto questo si nota la tendenza lucana di presentare Saulo come colui che sta continuando l’opera di Gesù, il Kyrios; egli è all’opera nella persona di Saulo. Saulo diventa in tal modo un degno successore dei Dodici.
 
Chi mangia questo pane vivrà in eterno: “Occorre notare che c’è un nutrirsi spirituale e un nutrirsi sacramentale. Quello spirituale avviene con la fede e la carità, quello sacramentale col sacramento. Senza il cibo sacramentale ci può essere salvezza, perché non è indispensabile quel che si riferisce all’istituzione sacramentale; invece il cibo spirituale è indispensabile. Agostino dice che il credere è già un mangiare: «Perché prepari denti e stomaco? Basta che tu creda e hai già mangiato!»” (Bonaventura, In Io., VI).
 
Il Santo del giorno - 28 Aprile 2023 - Beato Lucchese, Terziario: Lucchese nacque presso Poggibonsi (SI) lo stesso anno di S. Francesco d’Assisi (1181). In gioventù combatté per il partito dei Guelfi; ma poi, abbandonata la vita militare, si sposò con Bona Segni e si mise a commerciare in granaglie e fare il cambiavalute approfittando dei pellegrini che si recavano a Roma lungo la via Francigena. Nell’ottobre1212 Lucchese ebbe modo di ascoltare una predica di S. Francesco a S. Gimignano e da lì iniziò la sua conversione: risarcì tutti coloro che aveva impoveriti con i suoi traffici, fece penitenza, si mise al servizio dei frati, donò tutti i suoi beni e insieme alla moglie trasformò la sua casa in ospedale. Oltre all’amore verso il prossimo si distinse nella pratica della povertà e dell’umiltà. Quando S. Francesco tornò in Valdelsa, nel 1221, donò a questa coppia di sposi l’abito della Penitenza, facendone i primi Terziari francescani. Morì a Poggibonsi il 28 aprile 1260.

Santifica e rinnova, o Padre, i tuoi fedeli,
che hai convocato a questa mensa,
ed estendi a tutti gli uomini
la libertà e la pace donate sulla croce.
Per Cristo nostro Signore.