1 Agosto 2020

Sant’Alfonso Maria De’ Liguori

Vescovo e Dottore della Chiesa 

Ger 26,11-16.24; Sal 68 (69); Mt 14,1-12

Dal Martirologio: Memoria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa, che rifulse per la sua premura per le anime, i suoi scritti, la sua parola e il suo esempio. Al fine di promuovere la vita cristiana nel popolo, si impegnò nella predicazione e scrisse libri, specialmente di morale, disciplina in cui è ritenuto un maestro, e, sia pure tra molti ostacoli, istituì la Congregazione del Santissimo Redentore per l’evangelizzazione dei semplici.
Eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti, si impegnò oltremodo in questo ministero, che dovette lasciare quindici anni più tardi per il sopraggiungere di gravi malattie. Passò, quindi, il resto della sua vita a Nocera dei Pagani in Campania, tra grandi sacrifici e difficoltà.

Colletta: O Dio, che proponi alla tua Chiesa modelli sempre nuovi di vita cristiana, fa’ che imitiamo l’ardore apostolico del santo vescovo Alfonso Maria de’ Liguori nel servizio dei fratelli, per ricevere con lui il premio riservato ai tuoi servi fedeli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Benedetto XVI (Udienza Generale 1 Agosto 2012): L’odierna ricorrenza ci offre l’occasione di soffermarci sugli insegnamenti di sant’Alfonso riguardo alla preghiera, quanto mai preziosi e pieni di afflato spirituale. Risale all’anno 1759 il suo trattato Del gran mezzo della Preghiera, che egli considerava il più utile tra tutti i suoi scritti. Infatti, descrive la preghiera come «il mezzo necessario e sicuro per ottenere la salvezza e tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per conseguirla» (Introduzione). In questa frase è sintetizzato il modo alfonsiano di intendere la preghiera.
Innanzitutto, dicendo che è un mezzo, ci richiama al fine da raggiungere: Dio ha creato per amore, per poterci donare la vita in pienezza; ma questa meta, questa vita in pienezza, a causa del peccato si è, per così dire, allontanata - lo sappiamo tutti - e solo la grazia di Dio la può rendere accessibile. Per spiegare questa verità basilare e far capire con immediatezza come sia reale per l’uomo il rischio di «perdersi», sant’Alfonso aveva coniato una famosa massima, molto elementare, che dice: «Chi prega si salva, chi non prega si danna!». A commento di tale frase lapidaria, aggiungeva: «Il salvarsi insomma senza pregare è difficilissimo, anzi impossibile … ma pregando il salvarsi è cosa sicura e facilissima» (II, Conclusione). E ancora egli dice: «Se non preghiamo, per noi non v’è scusa, perché la grazia di pregare è data ad ognuno … se non ci salveremo, tutta la colpa sarà nostra, perché non avremo pregato» (ibid.). Dicendo quindi che la preghiera è un mezzo necessario, sant’Alfonso voleva far comprendere che in ogni situazione della vita non si può fare a meno di pregare, specie nel momento della prova e nelle difficoltà. Sempre dobbiamo bussare con fiducia alla porta del Signore, sapendo che in tutto Egli si prende cura dei suoi figli, di noi. Per questo, siamo invitati a non temere di ricorrere a Lui e di presentargli con fiducia le nostre richieste, nella certezza di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.

Il re Erode, tristemente debole nella carne e nella volontà, soggiace ai perversi desideri della regina Erodiade. All’adulterio si assomma il delitto, pianificato e portato a compimento con freddezza e determinazione. Un innocente cade sotto i colpi della mannaia, un debole è vinto dalla danza sensuale di una fanciulla spudorata, un’adultera ciecamente seguita a percorrere un cammino di perversione. Nel mondo il sangue innocente continua ad essere versato dai malvagi, il peccato e il male continuano a dilagare sulla terra ad opera degli empi: “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è una novità”? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto” (Qo 1,9-10).

Dal Vangelo secondo Matteo 14,1-12: In quel tempo al tetrarca Erode giunse notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!». Erode infatti aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo. Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla con te!». Erode, benché volesse farlo morire, ebbe paura della folla perché lo considerava un profeta. Quando fu il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle quello che avesse chiesto. Ella, istigata da sua madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re si rattristò, ma a motivo del giuramento e dei commensali ordinò che le venisse data e mandò a decapitare Giovanni nella prigione. La sua testa venne portata su un vassoio, fu data alla fanciulla e lei la portò a sua madre. I suoi discepoli si presentarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informare Gesù.

Opinione di Erode su Gesù (14,1-2) - Angelico Poppi (Sinossi e Commento Esegetico-Spirituale dei Quattro Vangeli)): Gesù, il profeta incompreso “nella sua patria” sarà perseguitato e assassinato come il Battista, eliminato da Erode Antipa per avergli rimproverato l’unione incestuosa con la moglie del fratellastro Filippo. Il tetrarca, che risiedeva a Tiberiade e governava la Galilea e la Perea, incominciò a interessarsi di Gesù. In Matteo e Marco appare un uomo superstizioso, che considerava Gesù il Battista redivivo. Nel contesto di Matteo, dove questo passo è inserito dopo il rifiuto dei nazaretani, l’attenzione sospettosa di Antipa suggerisce che stava verificandosi una situazione di pericolo anche per Gesù.
L’episodio funge da transizione al racconto della morte del Battista. La fine drammatica del Precursore, anche se storicamente avvenne in antecedenza (come appare da Marco che la colloca subito dopo la missione dei Dodici), qui è collegata con l’episodio del rifiuto di Gesù a Nazaret, quale prefigurazione della mede ima orte tragica per lui.
Morte di Giovanni Battista (14,3-12) - Anche Matteo narra questo avvenimento in forma retrospettiva, per indicare il pericolo che incombeva pure su Gesù da parte dell’impudico tetrarca. L’ evangelista attribuisce a Erode Antipa l’intenzione di uccidere il Battista (v. 5). Invece Marco addossa la responsabilità dell’omicidio alla moglie Erodiade, che odiava mortalmente il Precursore. Si noti però come anche Matteo presenti il tetrarca “rattristato” (v. 9) per l’imbroglio in cui si era cacciato con la promessa di donare alla figlia di Erodiade quello che avesse richiesto (v. 7).
Matteo ha semplificato il racconto di Marco, molto più dettagliato, per sottolineare la valenza cristologica dell’avvenimento. Lo redige come un resoconto di martirio, la sorte comune riservata ai profeti.
v. 5 È interessante questa notazione: Erode aveva timore di uccidere il Battista, perché le folle “lo consideravano come un profeta”. È evidente il richiamo al detto pronunciato da Gesù a Nazaret, con il quale si attribuiva il titolo di “profeta disprezzato” nella sua patria (l3,57c). Matteo stabilisce uno stretto parallelismo tra Gesù e il Battista, entrambi “profeti” perseguitati.
v.12 I discepoli di Giovanni, dopo avergli data sepoltura, andarono a “riferirlo a Gesù”. Questa aggiunta in Matteo è significativa. Le vicende del Battista assumono il significato simbolico di profezie in azione, in riferimento alla persona e all’opera di Gesù. Tutta la vita del Precursore appare così intrecciata con quella del Cristo e orientata a prefigurare il significato della sua missione e della sua morte. Inoltre, tale annotazione indica il buon rapporto esistente tra i cristiani e i giovanniti, anche se costoro restavano ancora legati al passato, n n aderendo pienamente al Vangelo (cf. At 18,24-19,7).

La missione della Chiesa - Dignitatis humanae 14: La Chiesa cattolica per obbedire al divino mandato: « Istruite tutte le genti (Mt 28,19), è tenuta ad operare instancabilmente «affinché la parola di Dio corra e sia glorificata» (2Ts 3,1). La Chiesa esorta quindi ardentemente i suoi figli affinché « anzitutto si facciano suppliche, orazioni, voti, ringraziamenti per tutti gli uomini... Ciò infatti è bene e gradito al cospetto del Salvatore e Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2, 1-4).
I cristiani, però, nella formazione della loro coscienza, devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità e sua missione è di annunziare e di insegnare autenticamente la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare autoritativamente i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana. Inoltre i cristiani, comportandosi sapientemente con coloro che non hanno la fede, s’adoperino a diffondere la luce della vita con ogni fiducia e con fortezza apostolica, fino all’effusione del sangue, « nello Spirito Santo, con la carità non simulata, con la parola di verità» (2 Cor 6,6-7).
Infatti il discepolo ha verso Cristo Maestro il dovere grave di conoscere sempre meglio la verità da lui ricevuta, di annunciarla fedelmente e di difenderla con fierezza, non utilizzando mai mezzi contrari allo spirito evangelico. Nello stesso tempo, però, la carità di Cristo lo spinge a trattare con amore, con prudenza e con pazienza gli esseri umani che sono nell’errore o nell’ignoranza circa la fede. Si deve quindi aver riguardo sia ai doveri verso Cristo, il Verbo vivificante che deve essere annunciato, sia ai diritti della persona umana, sia alla misura secondo la quale Dio attraverso il Cristo distribuisce la sua grazia agli esseri umani che vengono invitati ad accettare e a professare la fede liberamente.

L’uomo è capace con un colpo di mannaia a mettere fine a un sogno di un uomo giusto, ma non può fermare i “sogni di Dio”. Dio “sogna” un uomo libero dal peccato, affrancato dalla morte, e il “sogno”, un giorno, si è “fatto carne” in Cristo Gesù: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ma l’uomo, molto abile nel perseverare nel male e nell’empietà, sarà capace di intrufolarsi, con tutta la sua malvagità, anche in questa vicenda di amore, l’Incarnazione del Figlio di Dio. L’uomo se è stato capace per una ballerina decapitare un innocente, per perversi obiettivi sarà capace di mandare a morte il Figlio di Dio. Nella morte di Giovanni Battista si è dispiegata la malvagità e la gelosia di una donna, pur sempre disonesta anche se nella società occupava l’alto rango di regina; nella morte del Giusto scendono in campo l’albagia, l’oscurità mentale di poveri uomini che si proclamavano uomini liberi e invece erano schiavi della loro ottusità, e peggio ancora della spada romana. Come Erodiade fa ricorso a una giovinetta facendola danzare spudoratamente dinanzi al re, debole di carattere e di carne davanti a certi spettacoli, così il Sinedrio farà ricorso alla pavidità di un procuratore romano interessato soltanto a conservare la seggiola del potere che l’imperatore gli aveva conferito. Due storie che per il sangue versato si intrecciano, mettono a nudo la malvagità e la cecità dell’uomo, dall’altra mettono in luce, assai chiara, l’amore di Dio, la sua pazienza nel perseverare nel suo progetto di salvezza. L’uomo è uscito dalle sue mani, è sua fattura, l’ha fatto a sua immagine è somiglianza; è vero, è diventato cattivo e perverso, ma Dio sa che nel cuore dell’uomo, nel cuore di Erode, di Erodiade, dei Sinedriti, e ancora oggi li incontriamo sulla nostra strada, pur sempre brilla una “luce tutta divina” che nessuna tenebra potrà mai oscurare, e questa luce è la carità che Dio ha infuso nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo (Rm 5,5). E per questo “continua a sognare”!

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Cari amici, sant’Alfonso ci ricorda che il rapporto con Dio è essenziale nella nostra vita. Senza il rapporto con Dio manca la relazione fondamentale e la relazione con Dio si realizza nel parlare con Dio, nella preghiera personale quotidiana e con la partecipazione ai Sacramenti, e così questa relazione può crescere in noi, può crescere in noi la presenza divina che indirizza il nostro cammino, lo illumina e lo rende sicuro e sereno, anche in mezzo a difficoltà e pericoli” (Benedetto XVI Udienza Generale 1 Agosto 2012).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che nel vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori
hai dato alla tua Chiesa un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi al tuo popolo di partecipare assiduamente a questo mistero,
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.



31 Luglio 2020

Venerdì XVII Settimana T. O.

Ger 26,1-9; Sal 68 (69); Mt 13,54-58

Dal Martirologio: Memoria di santIgnazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.

Colletta: O Dio, che a gloria del tuo nome hai suscitato nella Chiesa sant'Ignazio di Loyola, concedi anche a noi, con il suo aiuto e il suo esempio, di combattere la buona battaglia del Vangelo, per ricevere in cielo la corona dei santi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Sant’Ignazio di Loyola: Benedetto XVI (Discorso, 22 aprile 2006): Sant’Ignazio di Loyola fu anzitutto un uomo di Dio, che pose al primo posto nella sua vita Dio, la sua maggior gloria e il suo maggior servizio; fu un uomo di profonda preghiera, che aveva il suo centro e il suo culmine nella Celebrazione Eucaristica quotidiana. In tal modo egli ha lasciato ai suoi seguaci un’eredità spirituale preziosa che non deve essere smarrita o dimenticata. Proprio perché uomo di Dio, sant’Ignazio fu fedele servitore della Chiesa, nella quale vide e venerò la sposa del Signore e la madre dei cristiani. E dal desiderio di servire la Chiesa nella maniera più utile ed efficace è nato il voto di speciale obbedienza al Papa, da lui stesso qualificato come “il nostro principio e principale fondamento” (MI, Serie III, I, p. 162). Questo carattere ecclesiale, così specifico della Compagnia di Gesù, continui ad essere presente nelle vostre persone e nella vostra attività apostolica, cari Gesuiti, affinché possiate venire incontro fedelmente alle urgenti attuali necessità della Chiesa. Tra queste mi pare importante segnalare l’impegno culturale nei campi della teologia e della filosofia, tradizionali ambiti di presenza apostolica della Compagnia di Gesù, come pure il dialogo con la cultura moderna, che se da una parte vanta meravigliosi progressi in campo scientifico, resta fortemente segnata dallo scientismo positivista e materialista.
Certamente, lo sforzo di promuovere in cordiale collaborazione con le altre realtà ecclesiali, una cultura ispirata ai valori del Vangelo, richiede una intensa preparazione spirituale e culturale. Proprio per questo, sant’Ignazio volle che i giovani gesuiti fossero formati per lunghi anni nella vita spirituale e negli studi. È bene che questa tradizione sia mantenuta e rafforzata, data pure la crescente complessità e vastità della cultura moderna. Un’altra grande preoccupazione per lui fu l’educazione cristiana e la formazione culturale dei giovani: di qui l’impulso che egli diede all’istituzione dei “collegi”, i quali, dopo la sua morte, si diffusero in Europa e nel mondo. 

È inspiegabile l’incredulità degli abitanti di Nazaret ed è incomprensibile come i suoi paesani facilmente passino dallo stupore e dalla ammirazione alla incredulità con aperto dissenso e clamore. Ma questo è il destino di tutti i profeti. Gesù non viene risparmiato da questa prova che si farà ancora più drammatica nel giorno in cui Pilato, nel tentativo di liberarlo, lo presenterà alla folla: in quel giorno, il popolo ingrato, dimenticando gli innumerevoli doni ricevuti, si farà servo dell’odio dei farisei (cfr. Mt 27,11-26).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,54-58: In quel tempo Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.

Incredulità a Nazaret - Felipe F. Ramos: La presentazione «ufficiale» di Gesù nella sinagoga del suo paese, a Nazaret, fu un insuccesso. Dalla sorpresa iniziale per i suoi insegnamenti i suoi conterranei giunsero fino allo scandalo; e la loro incredulità tagliò tutte le vie alla parola e persino al miracolo.
Il nostro racconto è parallelo a quello di Marco (6,1-6) dal quale dipende. Matteo introduce due cambiamenti: a) invece di chiamare Gesù «carpentiere», lo presenta come «figlio del carpentiere», forse per conferire maggior dignità a Gesù affermando che, dal momento in cui cominciò a predicare, cessò d’essere un lavoratore del legno; b) attenua la frase di Marco: «non vi poté operare nessun prodigio» dicendo che «non fece molti miracoli». Questa differenza fra i due evangelisti si può giustificare tenendo conto dei loro diversi punti di vista. Marco raccoglie la mentalità, generalizzata nella Bibbia, secondo la quale Dio è vicino a coloro che lo invocano, e quindi il suo inviato può agire solo là dove trova la fede. Per Matteo, questo vorrebbe dire condizionare eccessivamente il potere di Gesù, il quale può compiere miracoli indipendentemente dai condizionamenti che l’uomo gli può imporre.
La frase più significativa di tutto il brano evangelico è la seguente: si scandalizzavano per causa sua. Con essa l’evangelista ci introduce nel mistero di Gesù. L’atteggiamento dei nazaretani è rappresentativo di tutti coloro che cercano di comprendere Gesù partendo unicamente da quello che si può sapere di lui: è del nostro stesso paese, è figlio del carpentiere, conosciamo la sua famiglia, non ha frequentato l’università... Tentar di spiegare il mistero di Gesù, partendo da tutte le possibilità e da tutti gli aspetti umani vuol dire cacciarsi in un vicolo chiuso. Quello che è detto dei suoi concittadini, è già stato detto anche dei «suoi»: lo considerarono come pazzo (Mc 3,21). La stessa cosa e detta anche dei discepoli, e la ripeterà san Paolo parlando dello scandalo della croce (Mc 14,27-29; 1Cor 1,23). Gesù fu incompreso e disprezzato (Is 50,6: Mt 27,27-31.39-4,4; Eb 12,2). Non avrebbe avuto una sorte migliore, se si fosse tenuto al semplice livello dei profeti. Il profeta porta con sé l’incomprensione. Tanto più la porta in sé il profeta (Dt 18,15) che in più è il servo di Yahveh. Ma anche qui si dovrebbe ricordare la sentenza di Gesù: «Alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere» (11,19).

II profetismo nel Nuovo Testamento. Lisa Cremaschi: AI tempo di Gesù è assai viva lattesa del Messia, la cui venuta sarebbe stata preparata da un profeta . Nella comunità di Qumran si attende “la venuta del profeta c di due messia: uno di Aronne e uno di Israele” (Regola della comunità, 9,1); lo storico Giuseppe Flavio parla di molti profeti presenti tra gli esseni (Antichità Giudaiche 3,311). I Vangeli dell'infanzia presentano Zaccaria (Lc 1,67), Simeone (Lc 2,25-32) e Anna che profetizzano (Lc 2,36). Giovanni Battista è riconosciuto profeta dal popolo: è l'Elia redivivo (cfr. Mt 14,5; 21,26). Raramente nel Nuovo Testamento il titolo di profeta è applicato a Gesù (Mt 16,14; Lc 7,16); altri titoli (Messia, Figlio di Dio ecc.) sono ritenuti più idonei a indicare la sua presenza e la sua missione.
L'evento della Pentecoste viene letto da Paolo come un compimento della profezia di Giole 3,l che annunciava la discesa dello Spirito su ogni uomo. Gli Atti degli apostoli attestano la presenza di diversi profeti nella Chiesa primitiva: è il caso di Agabo (At 11,27-28), di Giuda e Sila (Mt 15,32), delle figlie di Filippo (At 21,9). An­che di Paolo e Barnaba si dice che appartengono al gruppo dei profeti (At 13,1). Paolo enumera il dono della profezia tra i carismi dello Spirito e chiede che sia indirizzato al bene comune (lCor 14,1-5 e 29-33). Contro il pericolo dei falsi profeti già annunciato da Gesù (Mt 7,15-20) e contro quello di spegnere lo spirito di profezia (1Ts 5,19-21), si danno dei criteri per discernere l'autenticità di questo ministero; come nell'Antico Testamento così anche nel Nuovo il profeta ha il compito di edificare, esortare, consolare (1Cor l4,3), ma tutta la sua vita e la sua predicazione dovranno essere animate dalla fede in Gesù Cristo, che “è venuto nella carne” (1Gv l,1-3). Di generazione in generazione lo Spirito suscita profeti, che fedeli alla tradizione ricevuta, ridicono il Vangelo per gli uomini del loro tempo.

Paul Beauchamp: «Le profezie un giorno spariranno», spiega Paolo (1 Cor 13,8). Ma allora sarà la fine dei tempi. La venuta di Cristo in terra, lungi dall'eliminare il carisma della profezia, ne ha provocato, al contrario, l'estensione che era stata predetta.
«Possa tutto il popolo essere profeta!», augurava Mosè (Num 11,29). E Gioele vedeva realizzarsi questo augurio « negli ultimi tempi» (Gioe 3,1-4). Nel giorno della Pentecoste, Pietro dichiara compiuta questa profezia: lo Spirito di Gesù si è effuso su ogni carne: visione e profezia sono cose comuni nel nuovo popolo di Dio. Il carisma delle profezie è effettivamente frequente nella Chiesa apostolica (cfr. Atti 11,27s; 13,1; 21,l0s). Nelle Chiese da lui fondate, Paolo vuole che esso non sia deprezzato (1Tess 5,20). Lo colloca molto al di sopra del dono delle lingue (1Cor 14,1-5); ma non di meno ci tiene a che sia esercitato nell'ordine e per il bene della comunità (14,29-32).
Il profeta del NT, non diversamente da quello del VT, non ha come sola funzione quella di predire il futuro: egli «edifica, esorta, consola» (14,3), funzioni che riguardano da vicino la predicazione. L'autore profetico dell'Apocalisse incomincia con lo svelare alle sette Chiese ciò che esse sono (Apoc 2-3), come facevano gli antichi profeti. Soggetto egli stesso al controllo degli altri profeti (1Cor 14,32) ed agli ordini dell'autorità (14,37), il profeta non potrebbe pretendere di portare a sé la comunità (cfr. 12,4-11), né di governare la Chiesa. Fino al termine, il profetismo autentico sarà riconoscibile grazie alle regole del discernimento degli spiriti. Già nel VT il Deuteronomio non vedeva forse nella dottrina dei profeti il segno autentico della loro missione divina (Deut 13,2-6)? Cosi è ancora. Infatti il profetismo non si spegnerà con l'età apostolica.
Sarebbe difficile comprendere la missione di molti santi della Chiesa senza riferimento al carisma profetico, il quale rimane soggetto alle regole enunciate da S. Paolo.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua: Il profeta è perseguitato perché è una voce fuori dal coro; è inviso «perché la sua vita non è come quella degli altri» (Sap 2,15). Non è ascoltato perché «del tutto diverse sono le sue strade» (Sap 2,15). È di imbarazzo (cfr. Sap 2,11) perché di fronte ai legami parentali e di paese, di fronte alla mentalità e al parere comune, al conformismo e alle formalità, al ‘così si fa perché lo fanno tutti’, ha il coraggio di rimproverare le trasgressioni della legge di Dio (cfr. Sap 2,12). Dà fastidio perché dinanzi all’ipocrisia del ‘altrimenti chissà cosa pensa la gente’ e al ‘così si è sempre fatto’ è portatore della Parola di Dio che non ammette deroghe o accomodamenti. Il profeta non è una mummia irrancidita dentro le sue verità scontate. È un uomo venduto all’amore di Dio e da questo legame trae speranze per l’uomo. Il profeta, in quanto possiede «la conoscenza di Dio» (Sap 2,13), sa incoraggiare chi ama la verità e la giustizia; chi ama osare al di là di ogni andazzo umano. Il profeta è un uomo che fa sognare: perché in Cristo «le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove» (1Cor 5,17). Il profeta, come Gesù, è un uomo concreto, con i piedi ben piantati alla terra; sa partire sempre dalle necessità e dai bisogni reali della gente, perché non fa filosofia (cfr. Gc 2,14-17). Il profeta, in quanto è un uomo concreto, riesce a cambiare le norme, le consuetudini e ribaltare le regole; riesce a vincere le tradizioni che ammuffiscono l’uomo e le abitudini che spengono lo spirito e paralizzano ogni iniziativa. Il profeta è l’uomo di Dio che urla l’amore del suo Signore abbandonato dal popolo. Ma grida a squarciagola anche la misericordia infinita di Dio. Anche se l’amore non è corrisposto, l’unica rivincita del Signore Dio sarà quella di continuare ad amare il suo popolo, nonostante le loro infedeltà: gli Israeliti quanto «al vangelo, sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rom 11,1ss). Questa è la misericordia di Dio e il suo amore infinito: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio (cfr. Sal 68 [67],19).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Apri, Signore, il nostro cuore e comprenderemo le parole del Figlio tuo. (Cfr. At 16,1.4b)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, il sacrificio che ci hai dato la gioia di celebrare
nel ricordo di sant'Ignazio di Loyola,
orienti tutta la nostra vita alla lode perenne del tuo nome.
Per Cristo nostro Signore.





30 Luglio 2020

Giovedì XVII Settimana T. O.

Ger 18,1-6; Sal 145 (146); Mt 13,47-53

Colletta: O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Giovanni Paolo II (Udienza Generale 28 Luglio 1999): 3 Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (n. 1033).
La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.
4. La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all’amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801). Per noi esseri umani questa loro vicenda suona come ammonimento: è richiamo continuo ad evitare la tragedia in cui sfocia il peccato e a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù che si è svolta nel segno del ‘sì’ a Dio.
La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno - tanto meno l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche - non deve creare psicosi o angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà, all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto Satana, donandoci lo Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre” (Rm 8, 15; Gal 4, 6).
Questa prospettiva ricca di speranza prevale nell’annuncio cristiano. Essa viene efficacemente riflessa nella tradizione liturgica della Chiesa, come testimoniano ad esempio le parole del Canone Romano: “Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia … salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti”.

La parabola della “rete gettata in mare” può essere paragonata a quella della zizzania. La Chiesa è la ‘rete’ che pesca “ogni genere di pesci”, il mare è il mondo. A differenza della zizzania, in cui il giudizio termina mettendo in evidenza il castigo e il premio (l’Inferno e il Paradiso:  “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”. [Mt 13,30]), nella parabola della “rete” si parla solo dell’Inferno: “Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.
In questa parabola “è luminosamente insegnata la verità dogmatica del giudizio finale; alla fine dei tempi Dio giudicherà i buoni e i cattivi, separando gli uni dagli altri. E significativa la reiterata allusione del Signore ai novissimi, specialmente al giudizio e all’inferno; la divina pedagogia di Gesù è in contrasto con l’atteggiamento dell’uomo troppo facilmente incline a dimenticare tali verità. «Tutte queste cose sono dette perché nessuno possa addurre come scusa di non essere stato a sufficienza istruito, come e il supplizio eterno fosse stato presentato con parole oscure o incerte» [In Evangelia homiliae. II] (Bibbia di Navarra).
La parabola è un monito rivolto a tutti gli uomini: Dio pazienta, ma prima o dopo tutti saremo pescati dalla “morte” e il giudizio di Dio sarà incontrovertibile, se siamo stati “pesci cattivi” saremo gettati nella “fornace ardente”, se stiamo stati “grano buono” saremo riposti “nel granaio” di Dio.
L’evangelista Matteo, nell’ultima affermazione di Gesù, Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, indica velatamente se stesso, poiché è “l’evangelista che nel suo scritto accentua più degli altri la parentela e la continuità che esiste tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento” (Benedetto Prete, I Quattro Vangeli).

Dal Vangelo secondo Matteo 13,47-53:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Terminate queste parabole, Gesù partì di là.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 47 È simile ad una rete (σαγήνη); la rete per la pesca ha una lunghezza di 400 o 500 metri ed un’altezza dai 2 ai 3 metri; essa viene calata a semicerchio nell’acqua del lago e tirata dalla spiaggia.
Raccoglie ogni sorta (di pesci); il testo può essere tradotto: raccoglie ogni sorta (di cose), come alghe, resti gettati nell’acqua...
versetto 48 Quando è piena; per l’autore della parabola la rete dev’esser piena di pesci, così l’immagine rende perfettamente il pensiero; infatti dopo la pesca vi è una separazione definitiva. I buoni... i cattivi; secondo gli ittiologi nel lago di Tiberiade vivono una trentina di specie di pesci; tra di essi, quantunque vi sia una differenza di qualità, nessuna specie è tuttavia commestibile. Forse la distinzione richiama la divisione legale tra pesci puri ed impuri. Il Levitico, 11, 9 (cf. Deuteronomio,14, 9) proibiva la manducazione di quei pesci che essendo sprovvisti di squame (come una specie dei Siluridi, i Clarias Macracanthus) non erano considerati come tali. Per lo scopo dottrinale della parabola non è necessaria una precisazione scientifica sulle varie specie di pesci; inoltre se si traduce: ogni sorta di cose (cf. nota al versetto precedente), l’immagine conserva tutto il suo valore, poiché essa intende stabilire che buoni e cattivi sono insieme.
versetti 49-50 È indicata l’applicazione morale della parabola con termini analoghi a quelli dell’immagine della zizzania. La parabola della rete fissa due tempi: un primo periodo nel quale buoni e cattivi stanno insieme; un secondo in cui i cattivi sono separati definitivamente dai buoni e condannati ad un tormento di fuoco. L’affinità dottrinale tra la parabola della rete e quella della zizzania non sfugge a nessun lettore. Perché queste due parabole, che molto verosimilmente furono pronunziate nella stessa circostanza, non sono narrate da Matteo una dopo l’altra, come egli ha fatto per quelle del tesoro e della perla, del chicco di senape e del lievito? Probabilmente l’evangelista volle chiudere il suo discorso parabolico con un’immagine che accentuasse l’aspetto escatologico del regno di Dio. Nella parabola della zizzania si accenna alla tolleranza divina e ad un tempo di attesa, in quella della rete si passa immediatamente dalla pesca alla separazione definitiva dei buoni dai cattivi.
versetti 51-52 I discepoli affermano di aver afferrato il senso delle parabole intorno al regno di Dio. Gesù replica indicando loro i vantaggi della comprensione di tali dottrine. Chi giunge a capire l’economia del regno dei cieli diventa un dottore (scriba) della nuova legge e può essere paragonato ad un saggio padrone di casa, il quale dispone delle cose vecchie e nuove che possiede secondo i bisogni. L’immagine (che costituisce una breve parabola conclusiva dell’intero discorso compilato da Matteo nel capitolo 13) è concepita e presentata con espressioni ebraiche. Lo scriba ebreo (dottore della Legge antica), quando diviene discepolo di Cristo, possiede ed usa tutta la ricchezza del Vecchio Testamento ampliata e perfezionata dal Nuovo (cf. Mt., 13, 12; dove è indicata la situazione opposta). Matteo, riportando questo elogio dello “scriba” cristiano, rievoca l’insegnamento che Cristo impartiva quando affermava che il panno nuovo non deve servire a rattoppare un abito vecchio (cf. 9, 16) e che la nuova Legge non distrugge, bensì perfeziona la vecchia (cf. 5, 17). Lo scriba antico che si lascia ammaestrare da Gesù nella Legge nuova entra nel pieno possesso della verità intorno al regno di Dio.

Bibbia di Navarra: «Scriba»: presso il popolo giudaico era l’uomo che si dedicava allo studio della Sacra Scrittura e alla sua applicazione nella vita; suo compito era l’insegnamento religioso. Il Signore si serve di quest’antica parola per designare gli apostoli, che sono i nuovi maestri nella Chiesa. Pertanto gli apostoli e i loro successori, i vescovi, vengono a costituire quella che è chiamata Chiesa docente, cioè la Chiesa che insegna, e hanno quindi la missione di insegnare con autorità. Il Papa e i vescovi, oltre a esercitare questa potestà di insegnamento in modo diretto, la esercitano coadiuvati dai sacerdoti. Gli altri membri della Chiesa formano la Chiesa discente, cioè la Chiesa che apprende. Ma il discepolo di Cristo, il cristiano che ha assimilato l’insegnamento, deve aiutare a sua volta gli altri con la dottrina ricevuta, esposta in linguaggio accessibile, e quindi deve cono cere a fondo la dottrina cristiana. Il tesoro della Rivelazione è così ricco, che se ne possono trarre insegnamenti pratici per tutti i momenti e per tutte le circostanze della vita. Sono infatti quei momenti e quelle circostanze a dover essere interpretati e ordinati in armonia con la parola di Dio, e non viceversa. Pertanto la Chiesa e i suoi pastori non predicano novità, ma l’unica verità contenuta nel tesoro della Rivelazione: il vangelo, da duemila anni, continua a essere la “buona novella”.

Come si vive nell’inferno Claudio Crescimanno (I Novissimi): L’inferno è anzitutto «separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1035). Per comprendere la portata di questa privazione occorre rendersi conto che e nella vita terrena il vuoto dell’ assenza di Dio può essere mitigato dall’immersione nei beni materiali o in altri surrogati, passata la scena di questo mondo l’uomo si trova di fronte alla verità di se stesso, cioè che tutto in lui dice relazione al Creatore. Tale vuoto resta dunque incolmabile e lacerante.
Ma nell’inferno i dannati subiscono anche la pena di un “fuoco eterno” (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1035). È evidente che non si tratta di fuoco come quello che brucia in questo mondo, poiché non potrebbe nuocere all’anima dannata; molto opportunamente san Tommaso d’Aquino lo concepisce come un “carcere” che avvolge e immobilizza il dannato.
La sintesi di queste due pene può essere così rappresentata: al momento della morte, l’anima del malvagio, separata dal corpo, “entra” in una nuova dimensione; sola con e stessa sarebbe naturalmente spinta alla ricerca di una relazione, ma nessuna relazione è possibile: - non con Dio, da cui è inesorabilmente separata; - non con altre creature, poiché non ha più i sensi corporei che sono i veicoli naturali della relazione, né l’unione con Dio, da cui deriva l’unione spirituale con tutti coloro che sono uniti a Dio.
Dunque si trova imprigionata in se stessa, avvolta da una solitudine abissale, immersa in un’ombra di esistenza che è lucida consapevolezza di restare per sempre inerte, deforme, contraddittoria.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Apri, Signore, il nostro cuore e comprenderemo le parole del Figlio tuo. (Cfr. At 16,1.4b)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, nostro Padre, che ci hai dato la grazia
di partecipare al mistero eucaristico,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che questo dono del suo ineffabile amore
giovi sempre per la nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.



29 Luglio 2020

Santa Marta - Memoria

1Gv 4,7-16; Sal 33 (34); Gv 11,19-27 oppure Lc 10,38-42

Avvenire: Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262.

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, il tuo Figlio fu accolto come ospite a Betania nella casa di santa Marta, concedi anche a noi di esser pronti a servire Gesù nei fratelli, perché al termine della vita siamo accolti nella tua dimora. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Gaudium et spes 22: [Il Figlio di Dio] Soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l’esempio perché seguiamo le sue orme ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato.
Il cristiano poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm 8,23) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore.
In virtù di questo Spirito, che è il «pegno della eredità» (Ef 1,14), tutto l’uomo viene interiormente rinnovato, nell’attesa della «redenzione del corpo» (Rm 8,23): «Se in voi dimora lo Spirito di colui che risuscitò Gesù da morte, egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza.
E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.
Tale e così grande è il mistero dell’uomo, questo mistero che la Rivelazione cristiana fa brillare agli occhi dei credenti. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della vita, perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre! 

Se tu fossi stato qui..., nella richiesta di Marta c’è qualcosa che va al di là dell’umana speranza, l’insperabile: lei è certa che, nonostante la decomposizione organica del corpo, Gesù può operare un miracolo: Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà, anche quella di risuscitare ora Lazzaro. Gesù comprende appieno la richiesta, ma rimanda la donna alla comune fede nella risurrezione dei morti. Marta, che forse sperava in un qualcosa di straordinario, si acquieta e accetta l’evidenza dei fatti: Lazzaro è morto, so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno. Di rimando, Gesù, inaspettatamente, spazza via qualsiasi equivoco o dubbio: Io sono la risurrezione e la vita. Gesù è venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10): Marta accoglie la rivelazione, crede e professa la sua fede: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo.

Dal Vangelo secondo Giovanni 11,19-27: In quel tempo, molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Io sono la risurrezione è la vita … - Bibbia di Navarra: Siamo innanzi a una di quelle definizioni concise che il Signore ha dato di sé, e che san Giovanni ci tramanda con fedeltà (cfr Gv 10,9.14; 14-16; 15,1): Gesù è la risurrezione e la vita. È la risurrezione, perché con la sua vittoria sopra la morte è cagione della risurrezione di tutti gli uomini. Il miracolo che si accinge a compiere verso Lazzaro è un segno del potere vivificatore di
Cristo. Così, per la fede in Cristo Gesù che risorse primogenito dai morti, il cristiano è certo di risuscitare anch’egli un giorno (cfr lCor 15,23; Col 1,18).
Per il credente, quindi, la morte non è la fine, ma il passaggio alla vita eterna.
un cambiamento di dimora, come dice uno dei prefazi della liturgia per i defunti: «Ai tuoi fedeli, a Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo».
Nell’affermare che egli è la vita, Gesù si riferisce non solamente alla vita oltreterrena, ma anche alla vita soprannaturale che la grazia produce nell’anima dell’uomo ancora in cammino sulla terra.

Cristo trionfa della morte - Pierre Grelot (Morte in Dizionario di Teologia Biblica): Cristo morendo tolse ogni potere al peccato (Rom 6,10): benché innocente, assunse sino alla fine la condizione dei peccatori, «gustando la morte» come essi tutti (Ebr 2,8s; Cf. 1Tess 4,14; Rom 8,34) e discendendo con essi «agli inferi». Ma recandosi così «dai morti», egli apportava la buona novella che la vita sarebbe stata loro restituita (1Piet 3,19; 4,6). Di fatto la morte di Cristo era feconda come la morte del granello di frumento gettato nel solco (Gv 12,24-32). Imposta apparentemente come un castigo del peccato, essa in realtà era un sacrificio espiatorio (Ebr 9; Cf. Is 53,10). Cristo, realizzando alla lettera, ma in altro senso, la profezia involontaria di Caifa, è morto «per il popolo» (Gv 11,50s; 18,14) e non soltanto per il suo popolo, ma «per tutti gli uomini» (2Cor 5,14s). È morto «per noi» (1Tess 5,10), mentre eravamo peccatori (Rom 5,6ss), dandoci in tal modo il segno supremo di amore (Gv 5,7; 15,13; 1Gv 4,10).
Per noi: non al nostro posto, ma a nostro beneficio; infatti, morendo «per i nostri peccati» (1Cor 15,3; 1Piet 3,18), ci ha riconciliati con Dio mediante la sua morte (Rom 5,10) cosicché possiamo ricevere l’eredità promessa (Ebr 9,15s).
Donde viene che la morte di Cristo abbia potuto avere questa efficacia salutare? Dal fatto che, avendo affrontato la vecchia nemica del genere umano, ne ha trionfato. Già durante la sua vita trasparivano i segni di questa vittoria futura, quando richiamava i morti alla vita (Mt 9,18-25 par.; Lc 7,14s; Gv 11): nel regno di Dio che egli inaugurava, la morte indietreggiava dinanzi a colui che era «la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). Infine, l’ha affrontata nel suo stesso regno, e l’ha vinta nel momento in cui essa credeva di vincerlo. Negli inferi egli è penetrato da padrone per uscirne a suo piacere, «avendo ricevuto la chiave della morte e dell’Ade» (Apoc 1,18). E poiché aveva sofferto la morte, Dio lo ha coronato di gloria (Ebr 2,9). Si è realizzata per lui la risurrezione dei morti annunziata dalle Scritture (1Cor 15,4); egli è diventato «il primogenito di tra i morti» (Col 1,18;  Apoc 1,5). Ora, «liberato da Dio dagli orrori dell’Ade» (Atti 2,24) e dalla corruzione infernale (Atti 2,31) è chiaro che la morte ha perso su di lui ogni potere (Rom 6,9); per ciò stesso, colui che aveva il potere della morte, cioè il demonio, si è visto ridotto all’impotenza (Ebr 2,14). Fu il primo atto della vittoria di Cristo. «La morte e la vita si affrontano in un duello prodigioso. Il Signore della vita morì; vivo, regna» (Sequenza di Pasqua).
A partire da questo momento fu mutato il rapporto fra gli uomini e la morte; infatti Cristo vincitore illumina ormai «coloro che sedevano nell’ombra della morte» (Lc 1,79); li ha liberati da quella «legge del peccato e della morte» di cui fino allora erano schiavi (Rom 8,2; Cf. Ebr 2,15). Infine, al termine dei tempi, il suo trionfo avrà una splendida consumazione nella risurrezione universale. Allora la morte sarà distrutta per sempre, «ingoiata nella vittoria» (1Cor 15,26.54ss). Infatti la morte e l’Ade dovranno allora restituire le loro prede, dopo di che saranno gettati con Satana nel lago di fuoco e di zolfo, il che è la seconda morte (Apoc 20,10.13s).
Tale sarà il trionfo finale di Cristo: «O morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso» (Antifona delle Lodi del Sabato Santo).

Maria ha scelto la parte migliore - Lc 10,38-42: Si comprende bene cosa abbia scelto. Maria alle faccende di casa ha preferito la preghiera, l’intimità con il Cristo, l’ascolto della Parola: l’unica cosa di cui c’è bisogno (Lc 10,42). Senza voler enfatizzare la scelta di Maria, possiamo però ammettere che Marta nello scegliere le pentole commise un grossolano errore: quello di non comprendere il valore prezioso dell’ascolto orante e della preghiera; quello di non comprendere che la preghiera è il vero, insostituibile motore che muove tutto; quello di non capire chi le stava dinanzi e con chi stava parlando. Marta, più che le mani e i piedi, avrebbe dovuto far muovere il cuore e da esso far sgorgare un’ardente preghiera. L’errore di Marta è l’errore di molti uomini e non solo contemporanei. Un mondo disposto ad ammirare unicamente l’uomo faber immerso in una vita attiva, fatta esclusivamente di opere concrete, ha trasformato il cristianesimo in una religione quasi solo al femminile: per cui, la preghiera è il rifugio di chi non sa o non vuole impegnarsi nel mondo; dell’inetto che non sa comprendere le grandi cause sociali e politiche e lottare per esse; o di chi non sa comprendere che il primo impegno è la promozione umana. Oggi «si fa un gran parlare di impegno nel mondo, di impegno nel sociale, di ‘promozione umana’. E sta bene... Ma dobbiamo oggi asserire che più necessario di tutto, di ogni altro impegno, è amare Dio, quindi onorarlo, servirlo e poi farlo amare, farlo onorare, farlo servire... Attenzione dunque ad un cristianesimo fatto tutto e solo orizzontale! Attenzione all’attivismo che tarpa le ali ai voli dello spirito, alla preghiera, alla contemplazione! Il rimprovero di Gesù a Marta è per tutti questi travisamenti della vocazione cristiana. Può essere per noi...» (Andrea Gemma, vescovo). Solo la preghiera, e una vita nascosta in Dio, può rendere accettabile e imitativa l’affermazione di Paolo: «sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi» (Col 1,24). Solo la preghiera può trasformare il dolore in letizia e la sofferenza in gioia. Solo la preghiera può svelare «il mistero nascosto da secoli» e renderlo intelligibile e comprensibile al cuore dell’uomo. Solo la preghiera può dare forza al servo della Parola nelle fatiche apostoliche. Solo la preghiera fa sì che la carità «come buon seme, cresca e fruttifichi» (LG 46). Solo la preghiera può svelare all’uomo il volto radioso del Risorto e solo la preghiera permette di ritrovarlo luminoso nei poveri, negli ultimi, negli indigenti.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita.  (Cfr. Gv 8,12)  
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La comunione al corpo e sangue del tuo unico Figlio
ci liberi, o Padre, dagli affanni delle cose che passano,
perché sull’esempio di santa Marta
collaboriamo con entusiasmo all’opera del tuo amore,
per godere in cielo la visione del tuo volto.
Per Cristo nostro Signore.