1 Maggio 2018

Martedì Feria V Settimana di Pasqua di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Vangelo).


Oggi celebriamo la “memoria facoltativa” di “San Giuseppe Lavoratore”. Questa memoria, tanto cara ai cristiani, richiama e mette in evidenza la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell’uomo, esercizio e potestà del suo dominio sul creato “l’uomo infatti, creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e cosi pure di riferire a Dio il proprio essere e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra. Ciò vale anche per gli ordinari lavori quotidiani” (Gaudium et spes, 34). Pio XII  (1955) istituì questa memoria liturgica nel contesto della festa dei lavoratori che si celebra universalmente il 1° maggio.


Giovanni XXIII (RADIOMESSAGGIO 1 Maggio 1960): Diletti figli e figlie, guardate fiduciosamente avanti sulle vie che sono aperte al vostro cammino! La Chiesa conta su di voi, per diffondere nel mondo del lavoro la dottrina e la pace di Cristo. Il vostro operato sia per voi sempre una nobile missione, di cui Dio solo può essere l’ispiratore e il premio. Regni nei rapporti reciproci della vita sociale la vera carità, il mutuo rispetto, la volontà di collaborazione, un clima familiare e fraterno, secondo i luminosi suggerimenti della Lettera di Paolo ai Colossesi, letta nella Messa odierna: «Qualunque cosa diciate o facciate, fate tutto nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo per Lui grazie a Dio e Padre. Qualunque cosa facciate, fatela di cuore, come per il Signore, e non per gli uomini: sapendo che dal Signore avrete la mercede della eredità. Servite a Cristo Signore ».
I lavoratori sanno che la Chiesa maternamente li segue con vivo e sollecito affetto: ed è soprattutto vicina a quanti compiono nel nascondimento lavori ingrati e pesanti, che gli altri forse non conoscono o non abbastanza stimano: vicina a chi ancora non ha una stabile occupazione, ed è esposto ad angosciosi interrogativi per l’avvenire della famiglia che cresce: vicina a chi la malattia o la sventura sul lavoro ha dolorosamente provato. Da parte Nostra non lasceremo occasione per invitare quanti hanno responsabilità di poteri o di mezzi, ad adoperarsi affinché sempre migliori condizioni di vita e di lavoro vi siano garantite, e specialmente affinché il diritto ad una stabile e dignitosa occupazione sia assicurato a tutti. E fermamente confidiamo che si sappiano comprendere, con sempre più sollecita sensibilità, le pene dei lavoratori: si vada spontaneamente incontro alle loro legittime aspirazioni di uomini liberi, creati a immagine e somiglianza di Dio: e si cerchi di alleviarne le ansie in spirito di giustizia e carità, e di leale collaborazione nel mutuo rispetto dei corrispondenti diritti e doveri.
Ma gli sforzi, anche più generosi, non approderebbero che a poca cosa, senza l’aiuto divino: perciò vi invitiamo a elevare in questa giornata ferventi suppliche al Signore, affinché la sua protezione, per intercessione di S. Giuseppe, accompagni ed allieti i vostri sforzi, e compia i vostri desideri.
Oh, S. Giuseppe, Custode di Gesù, Sposo castissimo di Maria, che hai trascorso la vita nell’adempimento perfetto del dovere, sostentando col lavoro delle mani la Sacra Famiglia di Nazareth, proteggi propizio coloro che, fidenti, a Te si rivolgono. Tu conosci le loro aspirazioni, le loro angustie, le loro speranze: ed essi a Te ricorrono, perché sanno di trovare in Te chi li capisce e protegge. Anche Tu hai sperimentato la prova, la fatica, la stanchezza: ma, pure in mezzo alle preoccupazioni della vita materiale, il tuo animo, ricolmo della più profonda pace, esultò di gioia inenarrabile per l’intimità col Figlio di Dio, a Te affidato, e con Maria, sua dolcissima Madre. Fa’ che anche i tuoi protetti comprendano di non essere soli nel loro lavoro, ma sappiano scoprire Gesù accanto a sé, accoglierlo con la grazia, custodirlo fedelmente, come Tu hai fatto. E ottieni che in ogni famiglia, in ogni officina, in ogni laboratorio, ovunque un cristiano lavora, tutto sia santificato nella carità, nella pazienza, nella giustizia, nella ricerca del ben fare, affinché abbondanti discendano i doni della celeste predilezione.
Diletti figli e figlie!
Con questa preghiera, Noi invochiamo su tutti voi la continua assistenza del Signore: e affinché l’odierna festa trovi in ogni cuore fervida corrispondenza di consensi e di propositi santi, amiamo salutare le vostre persone, la famiglia di ciascuno di voi, i luoghi della quotidiana fatica con una particolare, confortatrice Benedizione Apostolica, affinché in tutti e sempre si compia la volontà del Signore.


Redemptoris Custos nn. 22-24: Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.
Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).
L’importanza del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24 [...]).
Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono "grandi cose", ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).


Benedetto XVI (Omelia 19 Marzo 2006): Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società, e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del bene comune. Al tempo stesso, è indispensabile che l’uomo non si lasci asservire dal lavoro, che non lo idolatri, pretendendo di trovare in esso il senso ultimo e definitivo della vita. Al riguardo, giunge opportuno l’invito contenuto nella prima lettura: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio” (Es 20, 8-9). Il sabato è giorno santificato, cioè consacrato a Dio, in cui l’uomo comprende meglio il senso della sua esistenza ed anche dell’attività lavorativa. Si può, pertanto, affermare che l’insegnamento biblico sul lavoro trova il suo coronamento nel comandamento del riposo. Opportunamente nota al riguardo il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: “All’uomo, legato alla necessità del lavoro, il riposo apre la prospettiva di una libertà più piena, quella del sabato eterno (cfr Eb 4, 9-10). Il riposo consente agli uomini di ricordare e di rivivere le opere di Dio, dalla Creazione alla Redenzione, di riconoscersi essi stessi come opera Sua (cfr Ef 2, 10), di rendere grazie della propria vita e della propria sussistenza a lui, che ne è l’autore” (n. 258). L’attività lavorativa deve servire al vero bene dell’umanità, permettendo “all’uomo come singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione” (Gaudium et spes, 35). Perché ciò avvenga non basta la pur necessaria qualificazione tecnica e professionale; non è sufficiente nemmeno la creazione di un ordine sociale giusto e attento al bene di tutti. Occorre vivere una spiritualità che aiuti i credenti a santificarsi attraverso il proprio lavoro, imitando san Giuseppe, che ogni giorno ha dovuto provvedere alle necessità della Santa Famiglia con le sue mani e che per questo la Chiesa addita quale patrono dei lavoratori. La sua testimonianza mostra che l’uomo è soggetto e protagonista del lavoro. Vorrei affidare a lui i giovani che a fatica riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale. Insieme con Maria, sua Sposa, vegli san Giuseppe su tutti i lavoratori ed ottenga per le famiglie e l’intera umanità serenità e pace. Guardando a questo grande Santo apprendano i cristiani a testimoniare in ogni ambito lavorativo l’amore di Cristo, sorgente di solidarietà vera e di stabile pace. Amen!


Papa Francesco (Udienza Generale 1 Maggio 2013): Nel Vangelo di san Matteo, in uno dei momenti in cui Gesù ritorna al suo paese, a Nazaret, e parla nella sinagoga, viene sottolineato lo stupore dei suoi paesani per la sua sapienza, e la domanda che si pongono: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55). Gesù entra nella nostra storia, viene in mezzo a noi, nascendo da Maria per opera di Dio, ma con la presenza di san Giuseppe, il padre legale che lo custodisce e gli insegna anche il suo lavoro. Gesù nasce e vive in una famiglia, nella santa Famiglia, imparando da san Giuseppe il mestiere del falegname, nella bottega di Nazaret, condividendo con lui l’impegno, la fatica, la soddisfazione e anche le difficoltà di ogni giorno.
Questo ci richiama alla dignità e all’importanza del lavoro. Il libro della Genesi narra che Dio creò l’uomo e la donna affidando loro il compito di riempire la terra e soggiogarla, che non significa sfruttarla, ma coltivarla e custodirla, averne cura con la propria opera (cfr Gen 1,28; 2,15). Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione. E qui penso alle difficoltà che, in vari Paesi, incontra oggi il mondo del lavoro e dell’impresa; penso a quanti, e non solo giovani, sono disoccupati, molte volte a causa di una concezione economicista della società, che cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale.
Desidero rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai Responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto vorrei dire di non perdere la speranza; anche san Giuseppe ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia e ha saputo superarli, nella certezza che Dio non ci abbandona. E poi vorrei rivolgermi in particolare a voi ragazzi e ragazze a voi giovani: impegnatevi nel vostro dovere quotidiano, nello studio, nel lavoro, nei rapporti di amicizia, nell’aiuto verso gli altri; il vostro avvenire dipende anche da come sapete vivere questi preziosi anni della vita. Non abbiate paura dell’impegno, del sacrificio e non guardate con paura al futuro; mantenete viva la speranza: c’è sempre una luce all’orizzonte.
Aggiungo una parola su un’altra particolare situazione di lavoro che mi preoccupa: mi riferisco a quello che potremmo definire come il “lavoro schiavo”, il lavoro che schiavizza. Quante persone, in tutto il mondo, sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità. Chiedo ai fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e donne di buona volontà una decisa scelta contro la tratta delle persone, all’interno della quale figura il “lavoro schiavo”.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Lasciamoci “contagiare” dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. (Benedetto XVI).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nella tua provvidenza hai chiamato l’uomo a cooperare con il lavoro al disegno della creazione, fa’ che per l’intercessione e l’esempio di san Giuseppe siamo fedeli alle responsabilità che ci affidi, e riceviamo la ricompensa che ci prometti. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



30 Aprile 2018

Lunedì Feria V Settimana di Pasqua di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (Gv 14,26).


Dal Vangelo secondo Giovanni 14,21-26: L’amore verso Dio Padre si manifesta nell’accogliere e nell’osservare i suoi comandamenti. E l’amore, a sua volta, è fondamento della perfetta inabitazione della santissima Trinità del credente. L’amore trasforma il discepolo in tempo vivo, santo,  di Dio Uno e Trino. Gesù promette il dono dello Spirito Santo. Nella Chiesa, avrà la funzione di consolare, di insegnare e donare ai credenti l’intelligenza della Parola.


Sul finire della sua vita terrena, Gesù promette ai suoi amici (Cf. Gv 15,15) il dono dello Spirito Santo: lo Spirito Santo sarà nella vita della Chiesa, e nell’intimo dei credenti, il Consolatore, il Maestro, la memoria.
Dai testi di Giovanni sullo Spirito Santo si possono rilevare i tratti seguenti: lo Spirito Santo verrà quando Gesù se ne sarà «andato» (16,7). Gesù pregherà il Padre ed Egli darà ai discepoli «un altro Consolatore» (14,16.26; 15,26). I discepoli lo conoscono, perché Egli dimora presso di loro e sarà in loro (14,17). Dimorerà in loro (14,17) insegnerà ad essi ogni cosa (14,26) e li guiderà sulla via della verità (16,13). Annunzierà ai discepoli le cose future (16,13). Prenderà da Gesù per dare ai discepoli (16,14), glorificando Gesù (16,14) e rendendo testimonianza di lui, facendo ricordare ai discepoli ciò che Gesù ha fatto e ha detto loro (14,26). Non parlerà da se stesso (16,13), dirà solamente quanto sentirà. Il mondo non lo può accogliere (14,17), non lo vede e non lo conosce (14,17). Lo Spirito darà testimonianza in favore di Gesù di fronte all’incredulità e all’odio del mondo (15,26; 16,8); confuterà il mondo in fatto di peccato, di giustizia e di giudizio (16,8). Dimostrerà ai credenti che il mondo è nel peccato e in errore, e quindi in stato di condanna.


Catechismo della Chiesa Cattolica

Gesù promette lo Spirito Santo

788 Quando la sua presenza visibile è stata tolta ai discepoli, Gesù non li ha lasciati orfani. Ha promesso di restare con loro sino alla fine dei tempi, ha mandato loro il suo Spirito. In un certo senso, la comunione con Gesù è diventata più intensa: “Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo Corpo i suoi fratelli, chiamati da tutte le genti”.

243 Prima della sua Pasqua, Gesù annunzia l’invio di un “altro Paraclito” (Difensore), lo Spirito Santo. Lo Spirito che opera fin dalla creazione, che già aveva “parlato per mezzo dei profeti” (Simbolo di Nicea-Costantinopoli), dimorerà presso i discepoli e sarà in loro, per insegnare loro ogni cosa e guidarli “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Lo Spirito Santo è in tal modo rivelato come un’altra Persona divina in rapporto a Gesù e al Padre.

692 Gesù, quando annunzia e promette la venuta dello Spirito Santo, lo chiama “Paraclito”, letteralmente: “Colui che è chiamato vicino”, “ad-vocatus” (Gv 14,16; 14,26; 15,26; 16,7). “Paraclito” viene abitualmente tradotto “Consolatore”, essendo Gesù il primo consolatore [1Gv 2,1]. Il Signore stesso chiama lo Spirito Santo “Spirito di verità” (Gv 16,13).

693 Oltre al suo nome proprio, che è il più usato negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, in san Paolo troviamo gli appellativi: lo Spirito della promessa, lo Spirito di adozione, lo “Spirito di Cristo” (Rm 8,9), “lo Spirito del Signore” (2Cor 3,17), “lo Spirito di Dio” (Rm 8,9; 8,14; 15,19; 1Cor 6,11; 7,40), e in san Pietro, “lo Spirito della gloria” (1Pt 4,14).

729 Solo quando giunge l’Ora in cui sarà glorificato, Gesù promette la venuta dello Spirito Santo, poiché la sua morte e la sua risurrezione saranno il compimento della Promessa fatta ai Padri: lo Spirito di verità, l’altro Paraclito, sarà donato dal Padre per la preghiera di Gesù; sarà mandato dal Padre nel nome di Gesù; Gesù lo invierà quando sarà presso il Padre, perché è uscito dal Padre. Lo Spirito Santo verrà, noi lo conosceremo, sarà con noi per sempre, dimorerà con noi; ci insegnerà ogni cosa e  ci ricorderà tutto ciò che Cristo ci ha detto e gli renderà testimonianza; ci condurrà alla verità tutta intera e glorificherà Cristo; convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio.


La missione dello Spirito Santo - Ad gentes 4: ...tutto quanto il Signore ha una volta predicato o in lui si è compiuto per la salvezza del genere umano, deve essere annunziato e diffuso fino all’estremità della terra , a cominciare da Gerusalemme. In tal modo quanto una volta è stato operato per la salvezza di tutti, si realizza compiutamente in tutti nel corso dei secoli.
Per il raggiungimento di questo scopo, Cristo inviò da parte del Padre lo Spirito Santo, perché compisse dal di dentro la sua opera di salvezza e stimolasse la Chiesa a estendersi. Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato. Ma fu nel giorno della Pentecoste che esso si effuse sui discepoli, per rimanere con loro in eterno; la Chiesa apparve ufficialmente di fronte alla moltitudine ed ebbe inizio attraverso la predicazione la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani; infine fu prefigurata l’unione dei popoli nell’universalità della fede attraverso la Chiesa della Nuova Alleanza, che in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell’amore intende e abbraccia, vincendo così la dispersione babelica. Fu dalla Pentecoste infatti che cominciarono gli «atti degli apostoli», allo stesso modo che per l’opera dello Spirito Santo nella vergine Maria Cristo era stato concepito, e per la discesa ancora dello Spirito Santo sul Cristo che pregava questi era stato spinto a cominciare il suo ministero. E lo stesso Signore Gesù, prima di immolare in assoluta libertà la sua vita per il mondo, organizzò il ministero apostolico e promise l’invio dello Spirito Santo, in modo che entrambi collaborassero, sempre e dovunque, nella realizzazione dell’opera della salvezza. Ed è ancora lo Spirito Santo che in tutti i tempi «unifica la Chiesa tutta intera nella comunione e nel ministero e la fornisce dei diversi doni gerarchici e carismatici» vivificando - come loro anima - le istituzioni ecclesiastiche ed infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito missionario da cui era stato spinto Gesù stesso. Talvolta anzi previene visibilmente l’azione apostolica, come incessantemente, sebbene in varia maniera, l’accompagna e la dirige.


Bibbia di Navarra (Vangelo secondo Giovanni): Gesù ha esposto con chiarezza la sua dottrina, ma gli apostoli non erano in grado di comprenderla appieno; sarà intesa più tardi, quando riceveranno lo Spirito Santo, lo Spirito di verità, che li guiderà alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13).
«Lo Spirito Santo venne infatti a insegnare e a ricordare: insegnò tutte quelle cose che Cristo non aveva potuto dire perché superavano le nostre capacità; e ricordò ciò che il Signore aveva insegnato e che, sia per la oscurità dei temi sia per la torpidezza del loro intelletto, gli apostoli non erano riusciti a serbare nella memoria» (Agostino, Enarratio in Evang. Joannis. in loc.).
Il verbo che traduciamo con “ricordare” racchiude altresì l’idea di “ispirare”: lo Spirito Santo richiamerà alla memoria degli apostoli le cose che avevano ascoltato da Gesù, ma con una luce così vivida da renderli capaci di scoprire la ricchezza e la profondità di quello che avevano visto e udito.
«Gli apostoli poi [...] trasmisero ai loro ascoltatori ciò che Gesù aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità (cfr Gv 14,26; 16,13), godevano (cfr Gv 2,22)» (Dei Verbum, n. 19).
«Cristo non ha abbandonato i suoi seguaci senza guida nel compito di capire e vivere il vangelo. Prima di ritornare al Padre, promise di inviare il suo Santo Spirito alla Chiesa: “Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). Questo stesso Spirito guida i successori degli apostoli, i vostri vescovi, uniti con il Vescovo di Roma, al quale fu affidato il compito di preservare la fede e di “predicare il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Ascoltate le loro voci, perché essi vi portano la Parola del Signore» (Giovanni Paolo II, Omelia al Santuario di Knock).
Nei Vangeli sono consegnati per iscritto, mediante la grazia dell’ispirazione divina, i ricordi e la comprensione che, all’indomani della Pentecoste, gli apostoli avevano di quelle cose di cui erano stati testimoni. Ne segue che tali scritti sacri “trasmettono fedelmente quanto Gesù figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro salvezza eterna, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)” (Dei Verbum, n. 19). Per questo la Chiesa ha raccomandato e raccomanda la lettura della Sacra Scrittura. particolarmente dei quattro Vangeli: «Fossero tali il tuo contegno e la tua conversazione che tutti, nel vederti e nel sentirti parlare, potessero dire: ecco uno che legge la vita di Gesù Cristo» (Cammino, n. 2).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte” (Sal 1,1-2). 
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa:  O Padre, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



29 Aprile 2018

V Domenica di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Giovanni 15,1-8: Il brano evangelico è nella seconda parte del Vangelo di Giovanni e fa parte dei discorsi dell’addio di Gesù ai suoi discepoli. Gesù è la vera vite, il padre il vignaiolo, i discepoli i tralci: al di là delle immagini, Giovanni vuol suggerire che la fecondità dei discepoli, «io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16), dipende dalla conoscenza del Signore e dal loro rapporto di comunione con la vera vite.


Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): Io sono la vite vera; io sono ...  è la nota formula di rivelazione che ricorre di frequente nel quarto vangelo (cf.: io sono la luce del mondo; io sono il pane di vita, ecc.). L’insegnamento che Gesù propone con l’immagine della vite (versa, 1-6) contiene elementi allegorici ed elementi parabolici; tuttavia nel racconto prevalgono gli elementi allegorici. La vite richiama l’immagine della vigna, immagine molto usata, particolarmente dai profeti, per illustrare le relazioni tra Israele, il popolo eletto, e Jahweh suo Dio (cf. Osea, 10,1-2; Isaia, 5,1-7; 27,2-5; Geremia, 2,21-22; 12,1-11; Ezechiele, 15,1-8; 17,5-10; 19,10-14; Salmo, 80 [79],9-17); tuttavia l’immagine della vigna, nei testi indicati, serve a mettere in luce il contrasto tra l’amore di Dio per Israele e l’incorrispondenza di questo popolo. Israele è una vigna che ha deluso le aspettative di Dio e che non ha dato il raccolto atteso; di conseguenza questo popolo sarà punito con l’abbandono e la rovina. La formula usata da Cristo si ricollega alle formule che ricorrono nei libri sapienziali. L’Ecclesiastico applica il simbolo della vite alla Sapienza divina ed invita gli uomini ad andare a nutrirsi dei suoi frutti (cf. Ecclesiastico, 24,17,18,20). Il Salvatore impiega l’immagine della vigna per strutturarne una parabola del regno dei cieli (cf. Mt., 20,1-8; 21,28-31,33-41; Mc., 12,1-12; Lc., 20, 9-19) e trae dal frutto della vite» l’Eucaristia, il sacrificio della Nuova Alleanza (Mt., 26,29; Mc., 14,25; Lc., 22,16).
La novità dell’immagine usata nel presente testo consiste nell’affermazione che Gesù è la vite vera. Dallo sviluppo del racconto si vedrà come questa vite è una vite che comunica la vita; in tal modo la formula che ricorre sulle labbra del Maestro richiama l’altra nella quale egli afferma: Io sono il pane della vita (Giov., 6,35). Il Padre mio è l’agricoltore; noi avremmo detto: vignaiolo; in Palestina, data l’estensione della cultura della vite, ogni agricoltore era vignaiolo, doveva cioè occuparsi della vigna·


Io sono la vera vite - La vite nel mondo agricolo palestinese occupava un posto di estremo valore esistenziale: per il popolo significava innanzi tutto un segno della predilezione e delle benedizioni divine: «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere» (Qo 9,7). Ma voleva dire anche benessere economico, sicurezza e quindi allegrezza, gioia, serenità di vita: «Per stare lieti si fanno banchetti e il vino allieta la vita» (Qo 10,19).
Da qui la vigna passò ad indicare immagini ora dal sapore poetico ora dal valore simbolico.
Il suo squisito frutto, il vino, è l’amabile bevanda che la sapienza offre ai suoi adepti-amici: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Sap 9,5). È il dolce liquore che fa dimenticare agli infelici affanni e pene: «Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore. Beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene» (Pro 31,6-7; cfr. Mt 27,34).
Se il vino bevuto «a tempo e misura» è «allegria del cuore e gioia dell’anima», è «amarezza dell’anima» se bevuto «in quantità, con eccitazione e per sfida» (Sir 31,28-29).
In molti testi veterotestamentari, la scarsità del raccolto o la cattiva qualità del vino sta ad indicare il giudizio e la collera di Dio verso Gerusalemme a motivo dei suoi peccati: «Come mai è diventata una prostituta la città fedele? Era piena di rettitudine, la giustizia vi dimorava; ora invece è piena di assassini! Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino migliore è diluito con acqua» (Is 1,22).
La miseria agricola segue al giudizio di Dio: «Il fico infatti non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo» (Ab 3,17).
La vigna, come segno di benedizione, sopra tutto nei Profeti, diventa il simbolo del popolo d’Israele: «Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti» (Is 5,1-2). Ma poiché la vigna-Israele aveva prodotto «uva selvatica», dal Signore sarà trasformata in pascolo e calpestata dai suoi nemici. Questo tema, della vigna-Israele scelta poi rigettata, già preparato da Osea (10,1), sarà ripreso da Geremia (Ger 2,21; 5,10; 6,9; 12,10).
A motivo dell’idolatria del popolo la punizione del Signore sarà durissima e repentina. Dio ha abbandonato al suo destino Israele, da lui «scelto come vigna scelta, tutta di vitigni genuini» (Ger 2,21); gli invasori invaderanno il paese e devasteranno la vigna: «Salite sui suoi filari e distruggeteli, compite uno sterminio; strappatene i tralci, perché non sono del Signore» (Ger 2,10).
Pur tuttavia, «sebbene i profeti abbiano utilizzato la vigna come immagine che serviva ad esprimere con forza e vivacità poetica il castigo divino, l’immagine rimaneva comunque aperta ad un ulteriore sviluppo che, sulla linea del Salmo 80, si sarebbe operato in un orizzonte di speranza e di salvezza» spingendo in questo modo «il credente a guardare in avanti, verso quel futuro nel quale rifulgerà in tutta la sua pienezza l’azione imprevedibile, ma sempre amorosa, di Dio» (G. Odasso).
Effettivamente, nella pienezza del tempo (Gal 4,4), queste promesse incontreranno in Gesù, perfettissimo Amen del Padre (2Cor 1,10), la loro insospettata realizzazione.


Rimanete in me: Il rimanere in lui non è una realtà statica, avvenuta una volta per sempre nel battesimo, ma una realtà dinamica: occorre lasciarsi «potare» dal Padre, ossia è un cammino di conversione che non conosce sosta, un rinnovamento che conosce tutte le tappe della vita, una scelta da verificare e rinnovare continuamente. In questo modo si diviene discepoli di Gesù e si glorifica il Padre.
Una vita cristiana infruttuosa, doppia, attraversata dalle tenebre della menzogna, appesantita dall’inerzia e dall’indolenza, si apre inesorabilmente all’impotenza, che è preludio di morte. Una vita insipida a null’altro serve che ad essere gettata via e calpestata dagli uomini (cf Mt 5,13); un’esistenza siffatta è infeconda e non ha scampo: il tralcio infruttuoso è tagliato e gettato nel fuoco. I credenti, invece, proprio perché sono uniti alla Vite, sono predisposti alla potatura perché portino più frutto; inoltre, sono già mondi per la Parola, la quale purifica mediante la fede.
Quindi, il portare frutto è la premessa e nello stesso tempo la conseguenza del rimanere in Cristo.
Ma che significa portare frutto? Come si rimane in Cristo? A queste domande, l’apostolo Giovanni, nella seconda lettura, da una risposta molto esauriente e inappellabile.
Portiamo frutto e restiamo in Lui se amiamo non a parole né con la lingua, ma con i fatti.
Dimoriamo e rimaniamo in Dio se osserviamo i suoi comandamenti, in particolare quello che concerne l’amore e l’effettiva solidarietà con i propri fratelli e conosciamo che Dio dimora in noi dallo Spirito che ci è stato dato.
Se pratichiamo ciò che è a lui gradito e conforme alla sua volontà, otteniamo qualunque cosa nella preghiera; infatti, che possono “chiedere i fedeli se non quanto a Cristo è bene accetto? Che cosa possono volere, se restano uniti al Salvatore, se non ciò che non oppone alla loro salvezza? ...
Rimanendo dunque noi in Lui e in noi restando le sue parole, potremo chiedergli qualunque cosa, ed egli la compirà in noi” (Ruperto di Deutz).
Portare frutto significa, allora, cercare ciò che piace al Padre, fare la sua volontà come ci è stata manifestata nel Cristo: e questa è la volontà di Dio, la nostra santificazione, che ci asteniamo dall’impudicizia (cf 1Tess 4,3.7). Il frutto che il Padre cerca in noi “è la santità di una vita fecondata dall’unione con Cristo. Quando crediamo in Gesù Cristo, comunichiamo ai suoi misteri e osserviamo i suoi comandamenti, il Salvatore stesso viene ad amare in noi il Padre suo ed i suoi fratelli, Padre nostro e nostri fratelli. La sua persona diventa, grazie allo Spirito, la regola vivente ed interiore della nostra condotta: «Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati» [Gv 15,12]” (CCC, n. 2074).
Appoggiandosi sull’amore di Dio, il credente non teme nulla (cf Rm 8,28-39), nemmeno il giudizio della propria coscienza, perché nell’amore “non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,18).


D. M. Turoldo - G. Ravasi (Opere e Giorni del Signore): Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo sono essenziali per la fecondità dei frutti: non per nulla il quarto vangelo ripete nella sezione ben cinque volte l’espressione «in me», Il rimanere in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere un senso e possa sopravvivere. Se il fedele si stacca da Gesù, è condannato alla perdizione: il v. 6 che contiene questa dichiarazione non ha solo valore futuro. Infatti per Giovanni la salvezza è già iniziata con l’incarnazione del Cristo; già ora l’uomo decide il suo destino. Dietro il simbolo del tralcio secco e arido, perso ai bordi del campo, c’è il mistero del rifiuto che l’uomo può opporre alla vita e all’amore, c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre.
Ma i tralci rigogliosi e verdeggianti, che inco­ronano il corpo di Cristo che è la chiesa, conoscono anche il momento della potatura (v. 2). È la purificazione necessaria che Dio compie per avere una chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27): la fede non è data una volta per sempre, ma è una realtà viva come l’amore ed esige una continua crescita e una continua liberazione da scorie e limitazioni. La purificazione può avvenire anche attraverso la dolorosa esperienza della persecuzione e della prova.


Siamo arrivati al terminePossiamo mettere in evidenza:
*** Rimanete in me e io in voi, dice il Signore, chi rimane in me porta molto frutto. (Gv 15,4a.5b)   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 



28 Aprile 2018

Sabato IV Settimana di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, e conoscerete la verità” (Gv 8,31b-32 - Acclamazione al Vangelo)


Dal Vangelo secondo Giovanni 14,7-14: Miracoli, guarigioni di lebbrosi, di paralitici, liberazione di ossessi e di indemoniati, risurrezioni prodigiose... eppure Tommaso, e gli Apostoli con lui, non hanno ancora capito che Gesù è la rivelazione del Padre, non hanno ancora compreso che Gesù e il Padre sono una cosa sola (cfr. Gv 10,30). E questa ignoranza suscita in Gesù stupore, e se ne lamenta: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”. Credere questo, e avere fede in Gesù significa per il discepolo partecipare della sua opera taumaturgica. Il discepolo evangelizzerà gli uomini, compirà prodigi, e qualunque cosa chiederà nel nome di Gesù, che rappresenta la persona, egli lo farà, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. 


Bibbia di Navarra: Prima di lasciare questo mondo, il Signore promette agli apostoli che li renderà partecipi dei propri poteri, affinché la salvezza di Dio possa manifestarsi per mezzo loro. Le opere che attueranno sono i miracoli compiuti nel nome di Gesù Cristo (cfr. At 3,1-10; 5,15-16; e altri luoghi), ma soprattutto la conversione degli uomini alla fede cristiana e la loro santificazione, mediante la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti. Tali opere si possono ritenere più grandi di quelle compiute da Gesù in quanto che, grazie al mini­stero degli apostoli, il vangelo sarà predicato non solo in tutta la Palestina, ma si diffonderà fino agli estremi confini della terra; e tuttavia, questa singolare efficacia della parola apostolica deriva da Gesù Cristo asceso al Padre: dopo essere passato attraverso l’umiliazione della Croce, Gesù è stato reso glorioso e dal cielo manifesta la sua potenza agendo per mezzo degli apostoli. Il potere degli apostoli promana, dunque, da Cristo glorificato. Il Signore esprime questa realtà con le parole: «Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò...». «Non potrà essere più grande di me chi crede in me, ma allora sarò io che farò cose più grandi di quanto ho fatto ora. Per mezzo di chi crede in me, farò cose più grandi di quelle che ho fatto da me senza di lui» (Agostino In Ioannis Evang. tractatus, 72,1).
Gesù Cristo è nostro intercessore in cielo, e pertanto ci promette che qualunque cosa chiederemo nel nome suo, egli la farà. Chiedere nel nome suo (cfr Gv 15,7.16; 16,23-24) significa fare appello al potere di Cristo risorto, credendo che egli è onnipotente e misericordioso perché è vero Dio; così come significa impetrare ciò che giova ai fini della nostra salvezza, perché Cristo Gesù è il nostro Salvatore. Pertanto le parole “qualunque cosa chiederete” sottintendono che l’oggetto delle petizioni debba essere il bene di colui che chiede. Quando il Signore non ci concede quello che gli chiediamo vuol dire che ciò non è congruo alla nostra salvezza. Di maniera che Cristo si rivela sempre Salvatore, sia che ci neghi le cose che gli chiediamo sia che ce le conceda.


Signore, mostraci il Padre e ci basta - Henri van den Bussche (Giovanni): Filippo, nel suo entusiasmo un po’ puerile, ha afferrato qualcosa. Si prepara una teofania, una apparizione grandiosa della divinità, simile a quelle che contemplarono un tempo Mosè sul Sinai ed Elia sull’Horeb  o Isaia nel Tempio (Is. 6). Ogni giudeo aspirava a beneficiare di questo favore divino, tuttavia non senza apprensione, perché si diceva che esso comportava un pericolo di morte. Il desiderio di questo spettacolo rende il discepolo impaziente.
Il Signore deve avere accolto questa sua preghiera scuotendo il capo. Avrebbe dunque fatto discendere il Padre dal cielo per offrir loro tale spettacolo? Nessuno ha mai veduto Dio (1,18; 6,46); anzi nessuno può vedere Dio, se non nel Cristo. Filippo attende una manifestazione teatrale di Dio in qualche posto, sulle nubi, mentre Dio-nel-Cristo è davanti a lui. Dio non si manifesta più nel tuono e nei lampi, né appare in visioni, ormai è nell’aspetto umano del Cristo che egli si rivela, del Cristo che presto sarà circondato dallo splendore della gloria. La gloria che Isaia aveva contemplato nel Tempio era soltanto la prefigurazione lontana della rivelazione di Dio nel Figlio (Is. 6,1; Gv. 12,41). I giudei si appellano agli eroi della loro stirpe che udirono la voce di Dio e contemplarono il suo Volto, ma non ne sussiste più per essi né un’eco né un riflesso, nonostante la loro conoscenza delle Scritture, perché le rivelazioni preparatorie di Dio nell’Antico Testamento non avevano altro scopo che di condurli all’ultimo Messaggero della rivelazione divina, al Cristo (5,37-38). Tutta la rivelazione di Dio nell’Antico Testamento non ha senso se non in vista della Parola, e da quando questa Parola si è fatta carne (1,14), Dio non è più accessibile se non in Gesù. Tutti i santuari cessano dalla loro funzione, quello di Gerusalemme come quello dei Samaritani sul Garizim; uno solo sussiste, un luogo unico di incontro con Dio, nella persona del Figlio suo (4,21-24; 2,13-22). Chiunque possiede la vera pietà arriva alla Luce-Gesù (3,21), e chiunque si apre al soffio del Padre ricevendo il suo insegnamento viene a Gesù (6,45). Non esiste nessuna via di accesso al Padre all’infuori del Figlio.
E come dici tu, Filippo: mostraci il Padre? Domandando una manifestazione sensibile del Padre al di fuori di Gesù, Filippo dimostra di non aver conosciuto, di non aver compreso il Maestro. Perché vederlo, contemplarlo, è vedere in lui il, Padre, come credere in lui, è credere in colui che lo ha mandato (12,44-45). Padre e Figlio sono insepara­bili: il Figlio ha la sua più profonda essenza nel Padre, e questi si nasconde dietro il Figlio, abita nel Figlio, parla e agisce attraverso il Figlio. Se Filippo non può crederlo sulla parola, creda almeno a motivo delle sue opere, dei suoi miracoli (10,25.37.38)! Quante volte Gesù lo ha dovuto ripetere! Le parole e le opere di Gesù sono le parole e le opere del Padre. La sua unità col Padre nell’agire suppone l’unità nell’essere. Se Gesù è in accordo costante col Padre, è perché è essenzialmente uno con lui.


In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre - Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio; le opere indicano i « segni », cioè i miracoli; queste opere sono destinate a suscitare la fede. L’opera della rivelazione e della salvezza iniziata da Gesù sarà continuata ed ultimata dagli apostoli. E ne farà di più grandi, perché io vado al Padre; le opere che compiranno i discepoli, anche se non superano i miracoli operati da Cristo, mostreranno tutta la potenza d’espansione del regno di Dio, che raggiungerà i confini della terra (cf. Atti 1,8). Tuttavia questo successo del regno di Dio è dovuto all’andata di Gesù presso il Padre («perché io vado al Padre»). Le parole di Cristo contengono una solenne promessa: i discepoli, dopo che il Maestro sarà andato al Padre è sarà glorificato (cf. 12,32; 16,7-8), compiranno opere grandi; di conseguenza essi non devono turbarsi per l’andata di Gesù al Padre, cioè per la sua morte. Esprimendosi in tal modo il Maestro viene a dire che il suo compito di inviato del Padre è terminato.


Il nome di Gesù - Alice Baum: Il nome di Gesù (Mt 1,21; Lc 1,31; Fil 2,9) fu dato espressamente da Dio e viene spiegato con “egli (infatti) salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Il nome Gesù contiene quella che è l’affermazione decisiva del Nuovo Testamento, che cioè la separazione tra Dio e uomo è annullata e in lui giunge a compimento l’attesa dell’Antico testamento (At 10,43). Le autoasserzioni di Gesù introdotte da “io sono” (cf. Gv 6,35.51; 8,12; 10,9 ecc.) riprendono l’asserzione veterotestamentaria “Io sono JHWH” (cf. Es 3,14; Is 42,8; Ez 5,13 ecc.) e intendono presentarlo come rivelatore. Al tempo stesso vi si trova una pretesa di assolutezza (Gv 10,12.14: “buon pastore”; Gv 15,1.5: “vera vite”) che vuole affermare che senza di lui i suoi non possono vivere e che soltanto in lui c’è salvezza (At 4,12) e nel suo nome liberazione (cf. At 10,43; ICor 6,11), ma anche giudizio; chi infatti non crede nel suo nome, è giudicato (Gv 3,18) [...] Credere nel nome di Gesù (Gv 2,23) significa accettare la sua missione messianica, perché Dio ha agito in maniera prodigiosa nel suo Cristo, nella sua morte e risurrezione (cf. 1Cor 15,20ss).
I discepoli, essendo collocati nella sfera d’azione di Gesù Cristo, possono agire nel suo nome (Mt 18,5; Lc 10,17; At 3,6; 4,10 ecc.) perché egli si rende presente nel suo nome. È vocazione dei credenti glorificare in sé il nome del Signore Gesù (2Ts 1,12), per giungere così personalmente alla gloria. Chi invoca il nome di Gesù Cristo appartiene alla comunione dei santi (1Cor 1,2), e così viceversa il nome di Cristo è pronunciato su di loro (Gc 2,7) ed essi vengono chiamati secondo il suo nome (At 11,26).


Catechismo della Chiesa Cattolica

Il nome di Gesù

430 Gesù in ebraico significa: “Dio salva”. Al momento dell’Annunciazione, l’angelo Gabriele dice che il suo nome proprio sarà Gesù, nome che esprime ad un tempo la sua identità e la sua missione. Poiché Dio solo può rimettere i peccati, è lui che, in Gesù, il suo Figlio eterno fatto uomo, “salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Così, in Gesù, Dio ricapitola tutta la sua storia di salvezza a vantaggio degli uomini.

431 Nella storia della salvezza, Dio non si è limitato a liberare Israele “dalla condizione servile” (Dt 5,6) facendolo uscire dall’Egitto; lo salva anche dal suo peccato. Poiché il peccato è sempre un’offesa fatta a Dio,  solo Dio lo può cancellare. Per questo Israele, prendendo sempre più coscienza dell’universalità del peccato, non potrà più cercare la salvezza se non nell’invocazione del nome del Dio Redentore.

432 Il nome di Gesù significa che il Nome stesso di Dio è presente nella persona del Figlio suo fatto uomo per l’universale e definitiva Redenzione dei peccati. È il nome divino che solo reca la salvezza, e può ormai essere invocato da tutti perché, mediante l’Incarnazione, egli si è unito a tutti gli uomini in modo tale che “non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

433 Il Nome del Dio Salvatore era invocato una sola volta all’anno, per l’espiazione dei peccati d’Israele, dal sommo sacerdote, dopo che questi aveva asperso col sangue del sacrificio il propiziatorio del Santo dei Santi. Il Il propiziatorio era il luogo della presenza di Dio. Quando san Paolo dice di Gesù che “Dio l’ha stabilito a servire come strumento di espiazione... nel suo sangue” (Rm 3,25), intende affermare che nella sua umanità “era Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19).

434 La Risurrezione di Gesù glorifica il nome di Dio Salvatore perché ormai è il nome di Gesù che manifesta in pienezza la suprema potenza del “Nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9-10). Gli spiriti malvagi temono il suo nome ed è nel suo nome che i discepoli di Gesù compiono miracoli; infatti tutto ciò che essi chiedono al Padre nel suo nome, il Padre lo concede.

435 Il nome di Gesù è al centro della preghiera cristiana. Tutte le orazioni liturgiche terminano con la formula “per Dominum nostrum Jesum Christum... per il nostro Signore Gesù Cristo...”. L’“Ave, Maria” culmina in “e benedetto il frutto del tuo seno, Gesù”. La preghiera del cuore, consueta presso gli orientali è chiamata “preghiera di Gesù”, dice: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Parecchi cristiani muoiono con la sola parola “Gesù” sulle labbra, come santa Giovanna d’Arco.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Nessuno ha mai veduto Dio (1,18; 6,46); anzi nessuno può vedere Dio, se non nel Cristo.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, rendi sempre operante in noi il mistero della Pasqua, perché, nati a nuova vita nel Battesimo, con la tua protezione possiamo portare molto frutto e giungere alla pienezza della gioia eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...