1 Novembre 2020
 
TUTTI I SANTI - SOLENNITÀ
 
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3.,1-3; Mt 5,1-12a
 
Dal Martirologio: Solennità di tutti i Santi uniti con Cristo nella gloria: oggi, in un unico giubilo di festa la Chiesa ancora pellegrina sulla terra venera la memoria di coloro della cui compagnia esulta il cielo, per essere incitata dal loro esempio, allietata dalla loro protezione e coronata dalla loro vittoria davanti alla maestà divina nei secoli eterni.
 
Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
Godete e rallegratevi, perché grande è la vostro ricompensa nei cieli - Benedetto XVI (Omelia, 1 novembre 2006): La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6,3). Nella seconda Lettura, l’apostolo Giovanni osserva: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all’amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.
Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all’annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5,3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato e l’assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l’impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell’ago (cfr Mc 10,25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5,48).
 
I Lettura: La prima lettura della solennità odierna ci aiuta a capire chi sono i santi. Essi sono coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello. La santità è un dono, si riceve da Cristo, non è frutto dell’ingegno umano. Nell’Antico Testamento essere santi voleva dire essere separati da tutto ciò che è impuro, nella riflessione cristiana vuol dire il contrario e cioè essere uniti a Dio.
 
Salmo Responsoriale: Nell’interno di questo salmo arcaico sono intrecciati in un’unica trama tre composizioni: un inno cosmico al Creatore (vv. 1-2), una «liturgia d’ingresso» simile a quella incontrata nel Salmo 15 (vv. 3-6) e una solenne epifania del Signore degli astri, il Dio degli eserciti celesti (vv. 7-10). Il carme ha il tono di una marcia che accompagna la processione sacra. Dopo aver celebrato la signoria suprema di JHWH sul creato, il corteo si arresta alle porte del Tempio ove i sacerdoti elencano le tre condizioni per accedere al culto (leggi il v. 4). A questo punto, in un crescendo di grande potenza sonora, le porte del Tempio sono invitate a spalancarsi, sollevando i loro frontoni e i loro archi per accogliere il Re della Gloria che entra nel suo Tempio. Forse il testo riflette la prassi liturgica della processione con l’Arca dell’alleanza. Plinio il Giovane in una lettera a Traiano (103 d.C.) ricorda che questo salmo era divenuto la preghiera della liturgia cristiana dell’aurora” (Gianfranco Ravasi).
 
II Lettura: Pochi versetti, ma colmi di grandi verità. Innanzi tutto, il mondo non conosce i cristiani perché non conosce Gesù Cristo. Come dire che il mondo odia, perseguita i credenti in Cristo perché odia Cristo. Ma questo non deve abbattere i cristiani, essi sono figli di Dio e quindi già al presente vivono nella certezza di essere amati da Dio come figli carissimi. Quando si compirà ogni cosa e Gesù verrà nella gloria, allora si manifesterà in pienezza il vero essere dei credenti e potranno così vedere Dio faccia a faccia. Nell’oggi dei cristiani c’è posto solo per il desiderio della patria celeste.
 
Vangelo: La parola chiave del brano evangelico è beati, e ha il senso di una esclamazione di gioia. Gesù Maestro «indica ai suoi seguaci come si dovrebbe vivere: non semplicemente in conformità a una serie di regole, ma rivoluzionando dall’interno il proprio atteggiamento e la propria mentalità. La cosa straordinaria è che egli ha dato all’uomo la capacità di vivere questo ideale apparentemente impossibile» (Howard Marshall).
 
Dal Vangelo secondo Matteo 5,1-12a: In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
 
Beati - L’evangelista Matteo ha nove beatitudini a differenza di Luca che ne ha quattro e alle quali fa seguire “quattro guai” (Cf. Lc 6,20-26).
Gesù salì sul monte: si pose a sedere. Due note da non trascurare. Il monte per i semiti è il luogo che Dio preferenzialmente sceglie per manifestarsi ai suoi eletti: ai lettori ebrei per assonanza sarà venuto in mente il monte Sinai. Su quella montagna Dio si era rivelato a Mosè e aveva dato al popolo d’Israele la Legge (Cf. Es 19). Il sedersi è invece la postura propria del Maestro ai cui piedi si congregano i discepoli. Le intenzioni dell’evangelista Matteo quindi sono chiare: Gesù è Dio che si manifesta ai suoi discepoli sul monte ed è il Maestro che dona al “nuovo Israele” la nuova Legge, la “Magna Charta” del Regno di Dio.
L’evangelista Matteo, «che presenta Gesù come il Maestro definitivo di Israele, lo colloca in questo stesso contesto del luogo della rivelazione di Dio e della sua Legge e gli attribuisce un’autorità superiore a quella di Mosé e di tutti i maestri [gli scribi] di Israele. È nel contesto del “discorso della montagna”, infatti, che Gesù è definito come “uomo che insegna con autorità e non come i loro scribi” [Mt 7,29]» (Don Primo Gironi).
Queste note comunque non cancellano la storicità dell’episodio evangelico realmente accaduto su «una delle colline vicino a Cafarnao» (Bibbia di Gerusalemme).
Beati è una formula ricorrente nei Salmi, nei libri sapienziali e nel Nuovo Testamento, soprattutto nel libro dell’Apocalisse. Beato è l’uomo che cammina nella legge del Signore e per questo è ricolmo delle benedizioni di Dio, dei suoi favori e delle sue consolazioni divine soprattutto nei momenti cruciali in cui deve sopportare umiliazioni, affanni e persecuzioni. Gesù apre il suo discorso proclamando beati i “poveri in spirito”, una aggiunta questa che fa bene intendere che il Maestro fa riferimento non agli indigenti, ma ai “poveri di Iahvé”, cioè a coloro che nonostante tutto restano fedeli al Signore, anzi le prove sono spinte a fidarsi di Dio, a chiudersi nel suo cuore, a rinserrarsi tra le sue braccia. I “poveri in spirito” sono coloro che fanno del dolore una scala per salire fino a Dio. Sono coloro che restano nonostante tutto saldi nelle promesse di Dio (Cf. Mt 27,39-44). In questa ottica sono beati quelli che sono nel pianto, i perseguitati per la giustizia, i diffamati. Ai miti fanno corona coloro che hanno fame e sete della giustizia, cioè coloro che amano vivere all’ombra della volontà di Dio, attuandola nella loro vita e mettendola sempre al primo posto. Beati sono i misericordiosi cioè coloro che imitano la bontà, la pietà e la misericordia di Dio soprattutto a favore dei più infelici e dei più bisognosi. I puri di cuore sono beati per la purezza delle intenzioni, l’onestà della vita, perché sempre disponibili ai progetti divini. E infine, gli operatori di pace, che «nella Bibbia esprime la comunione con Dio e con gli uomini ed è il dono che riassume il vangelo [Cf. Lc 2,14], sono i più evidenti figli del Padre celeste» (S. Garofalo).
Il “discorso della Montagna” si chiude con due beatitudini rivolte ai perseguitati. Israele in tutta la sua storia aveva dovuto fare i conti con numerosi persecutori e se, quasi sempre, aveva accettato l’umiliazione delle catene, della tortura fisica e  dell’esilio, come purificazione e liberazione dal peccato, mai avrebbe pensato alla persecuzione come a una fonte di gioia e di felicità. Il discorso di Gesù va poi collocato proprio in un momento doloroso della storia ebraica: Israele gemeva sotto il durissimo e spietato giogo di Roma.
Nel nuovo Regno bandito da Gesù di Nazaret invece la persecuzione, e anche la calunnia, l’ingiustizia o l’odio gratuito, sono sorgenti di felicità se sopportate per «causa sua». Ancora di più, la sofferenza vicaria dà «compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Solo in questa prospettiva la persecuzione è la via grande, spaziosa e larga, spalancata al dono della salvezza e apportatrice di ogni bene e dono: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Un discorso che è rivolto a tutti: ai discepoli e alla folla, nessuno escluso.
 
Giovanni Paolo II, 1 novembre 2000: L’odierna liturgia parla tutta di santità. Per sapere però quale sia la strada della santità, dobbiamo salire con gli Apostoli sul monte delle Beatitudini, avvicinarci a Gesù e metterci in ascolto delle parole di vita che escono dalle sue labbra. Anche oggi Egli ripete per noi: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli! Il divin Maestro proclama “beati” e, potremmo dire, “canonizza” innanzitutto i poveri in spirito, cioè coloro che hanno il cuore sgombro da pregiudizi e condizionamenti, e sono perciò totalmente disponibili al volere divino. L’adesione totale e fiduciosa a Dio suppone lo spogliamento ed il coerente distacco da se stessi. Beati gli afflitti! È la beatitudine non solo di coloro che soffrono per le tante miserie insite nella condizione umana mortale, ma anche di quanti accettano con coraggio le sofferenze derivanti dalla professione sincera della morale evangelica. Beati i puri di cuore! Sono proclamati beati coloro che non si contentano di purezza esteriore o rituale, ma cercano quell’assoluta rettitudine interiore che esclude ogni menzogna e doppiezza. Beati gli affamati e assetati di giustizia! La giustizia umana è già una meta altissima, che nobilita l’animo di chi la persegue, ma il pensiero di Gesù va a quella giustizia più grande che sta nella ricerca della volontà salvifica di Dio: beato è soprattutto chi ha fame e sete di questa giustizia. Dice infatti Gesù: “Entrerà nel regno dei cieli chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” [Mt 7,21]. Beati i misericordiosi! Felici sono quanti vincono la durezza di cuore e l’indifferenza, per riconoscere in concreto il primato dell’amore compassionevole, sull’esempio del buon Samaritano e, in ultima analisi, del Padre “ricco di misericordia” [Ef 2,4]. Beati gli operatori di pace! La pace, sintesi dei beni messianici, è un compito esigente. In un mondo, che presenta tremendi antagonismi e preclusioni, occorre promuovere una convivenza fraterna ispirata all’amore e alla condivisione, superando inimicizie e contrasti. Beati coloro che si impegnano in questa nobilissima impresa! I Santi hanno preso sul serio queste parole di Gesù. Hanno creduto che la “felicità” sarebbe venuta loro dal tradurle nel concreto della loro esistenza. E ne hanno sperimentato la verità nel confronto quotidiano con l’esperienza: nonostante le prove, le oscurità, gli insuccessi, hanno gustato già quaggiù la gioia profonda della comunione con Cristo. In Lui hanno scoperto, presente nel tempo, il germe iniziale della futura gloria del Regno di Dio. Questo scoprì, in particolare, Maria Santissima che col Verbo incarnato visse una comunione unica, affidandosi senza riserve al suo disegno salvifico. Per questo le fu dato di ascoltare, in anticipo rispetto al “discorso della montagna”, la beatitudine che riassume tutte le altre: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” [Lc 1,45]»
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. (Mt 11,28)
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
O Padre, unica fonte di ogni santità,
mirabile in tutti i tuoi Santi,
fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore,
per passare da questa mensa eucaristica,
che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno,
al festoso banchetto del cielo.
Per Cristo nostro Signore.

1 Novembre 2020
 
Tutti i Santi
 
La festa di tutti i Santi, il 1 novembre si diffuse nell’Europa latina nei secoli VIII-IX. Si iniziò a celebrare la festa di tutti i santi anche a Roma, fin dal sec. IX. Un’unica festa per tutti i Santi, ossia per la Chiesa gloriosa, intimamente unita alla Chiesa ancora pellegrinante e sofferente. Oggi è una festa di speranza: “l’assemblea festosa dei nostri fratelli” rappresenta la parte eletta e sicuramente riuscita del popolo di Dio; ci richiama al nostro fine e alla nostra vocazione vera: la santità, cui tutti siamo chiamati non attraverso opere straordinarie, ma con il compimento fedele della grazia del battesimo.
 
Dai “Discorsi” di san Bernardo, abate
A che serve dunque la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità? Perché ad essi gli onori di questa stessa terra quando, secondo la promessa del Figlio, il Padre celeste li onora? A che dunque i nostri encomi per essi? I santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. È chiaro che, quando ne veneriamo la memoria, facciamo i nostri interessi, non i loro. Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri. Il primo desiderio, che la memoria dei santi o suscita o stimola maggiormente in noi, é quello di godere della loro tanto dolce compagnia e di meritare di essere concittadini e familiari degli spiriti beati, di trovarci insieme all’assemblea dei patriarchi, alle schiere dei profeti, al senato degli apostoli, agli eserciti numerosi dei martiri, alla comunità dei confessori, ai cori delle vergini, di essere insomma riuniti e felici nella comunione di tutti i santi. Ci attende la primitiva comunità dei cristiani, e noi ce ne disinteresseremo? I santi desiderano di averci con loro e noi e ce ne mostreremo indifferenti? I giusti ci aspettano, e noi non ce ne prenderemo cura? No, fratelli, destiamoci dalla nostra deplorevole apatia. Risorgiamo con Cristo, ricerchiamo le cose di lassù, quelle gustiamo. Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipano con i voti dell’anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l’aspirazione più intensa a condividerne la gloria. Questa bramosia non é certo disdicevole, perché una tale fame di gloria é tutt’altro che pericolosa. Vi é un secondo desiderio che viene suscitato in noi dalla commemorazione dei santi, ed é quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro, e noi pure facciamo con lui la nostra apparizione nella gloria. Frattanto il nostro capo si presenta a noi non come é ora in cielo, ma nella forma che ha voluto assumere per noi qui in terra. Lo vediamo quindi non coronato di gloria, ma circondato dalle spine dei nostri peccati. Si vergogni perciò ogni membro di far sfoggio di ricercatezza sotto un capo coronato di spine. Comprenda che le sue eleganze non gli fanno onore, ma lo espongono al ridicolo. Giungerà il momento della venuta di Cristo, quando non si annunzierà più la sua morte. Allora sapremo che anche noi siamo morti e che la nostra vita é nascosta con lui in Dio. Allora Cristo apparirà come capo glorioso e con lui brilleranno le membra glorificate. Allora trasformerà il nostri corpo umiliato, rendendolo simile alla gloria del capo, che é lui stesso. Nutriamo dunque liberamente la brama della gloria. Ne abbiamo ogni diritto. Ma perché la speranza di una felicità così incomparabile abbia a diventare realtà, ci é necessario il soccorso dei santi. Sollecitiamolo premurosamente. Così, per loro intercessione, arriveremo là dove da soli non potremmo mai pensare di giungere. (Disc. 2; Opera omnia, ed. Cisterc. 5 [1968] 364-368)
 
Godete e rallegratevi, perché grande è la vostro ricompensa nei cieli.
La beatitudine, consiste nel raggiungimento di ciò che colma e fa felice definitivamente il cuore dell’uomo. È la felicita che hanno conseguito i santi, che oggi celebriamo riuniti in un’unica festa. È una schiera che nessuno può numerare e che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’ Agnello, hanno cioè sperimentato in vita e in morte l’infinita misericordia di divina e vivono, anche per le loro virtù, nella beatitudine eterna. Una beatitudine a cui ogni fedele aspira nella speranza che lo stesso Cristo ci infonde. Il Cristo annuncia una felicità che non è nell’ordine dei valori terreni, ma è in vista del Regno, proclamato da lui, e, pur cominciando già su questa terra per coloro che accolgono Cristo e le sue esigenze, sarà definitiva solo nell’eternità. La Chiesa, formata da tutti i santi, ci invita oggi a guardare al futuro e al premio che Dio ha riservato a coloro che lo seguono nel difficile cammino della perfezione evangelica. Tutti vorremmo che, dopo la nostra morte, questo giorno fosse anche la nostra festa. Gesù ci invita a godere e rallegrarci già durante il percorso in vista dell’approdo finale. La santità quindi non è la meta di pochi privilegiati, ma l’aspirazione continua e costante di ogni credente, nella ferma convinzione che questa è innanzi tutto un progetto divino che nessuno esclude e che ci è stata confermata a prezzo del sacrificio di Cristo, che ha dato la vita per la nostra salvezza, quindi per la nostra santità. Non conseguire la meta allora significherebbe rendersi responsabile di quel grande peccato, che nessuno speriamo commetta, di vanificare l’opera redentiva del salvatore. Sant’Agostino, mosso da santa invidia soleva ripetersi: “Se tanti e tante perché non io?”.  Autore: Monaci Benedettini Silvestrini
 

Benedetto XVI (Omelia, 1 novembre 2006)

Il Santo Padre ha introdotto la Celebrazione e l’atto penitenziale con le seguenti parole:
Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell’amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.
 
Cari fratelli e sorelle,
la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l’esortazione “Rallegriamoci tutti nel Signore”. La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio. Quest’oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di “madre dei santi, immagine della città superna” (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l’autore del libro dell’Apocalisse li descrive come “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7, 9). Questo popolo comprende i santi dell’Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell’inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l’impulso dell’eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo. Ma “a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?”. Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: “I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri” (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell’odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.
Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All’interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà. “Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà” (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (cfr Gv 12, 24-25). L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, “sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell’Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (v. 14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L’esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l’unica vera causa di tristezza e di infelicità per l’uomo è vivere lontano da Lui.
La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). Nella seconda Lettura, l’apostolo Giovanni osserva: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all’amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il “perdere se stessi”, e proprio così ci rende felici.
Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all’annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5, 3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato e l’assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l’impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell’ago (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5, 48).
Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.
 
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Santa Caterina da Siena (1347-1380),  (Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 41)
«Credo nella comunione dei santi » (Credo)
 
Dio ha detto a santa Caterina: L’anima giusta che ha finito la sua vita nella carità è ormai incatenata nell’amore e non può più crescere in virtù; è passato il tempo. Ma essa può sempre amare dell’amore che aveva quando è venuta a me, e questa è la misura del suo amore (Lc 6,38). Sempre mi desidera, sempre mi ama, e il suo desiderio non è mai sazio: ha fame ed è saziata; saziata, ha ancora fame; sfugge alla nausea della sazietà come alla sofferenza della fame. Nell’amore i beati godono della mia vita eterna, nell’amore partecipano a quel bene che io possiedo in me e che comunico a ciascuno di loro secondo la loro misura; questa misura è il grado di amore che avevano quando sono venuti a me.
Perché sono rimasti nella mia carità e nella carità per il prossimo, e poiché sono uniti nella carità, ognuno si rallegra di partecipare al bene degli altri, oltre al bene universale che possiede. I santi condividono la gioia e la felicità degli angeli, in mezzo ai quali sono posti... Partecipano particolarmente anche alla felicità di coloro che amavano sulla terra più strettamente, con affetto particolare. Con questo amore crescevano insieme in grazia e in virtù; uno era per l’altro occasione di manifestare la mia gloria e di lodare il mio nome. Non hanno perso questo amore nell’eterna vita, lo conservano sempre. Anzi, esso fa sovrabbondare la loro felicità, con la gioia che ciascuno prova della felicità dell’altro.
  
Pratica: “Se tanti e tante perché non io?” (Sant’Agostino)
 
Preghiera: Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

 

 

 

 

 

 31 Ottobre 2020
 
Sabato XXX Settimana T. O.
 
Fil 1,18b-26; Sal 41 (42); Lc 14,7-11
 
Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi.
 
Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto: Benedetto XVI (Angelus, 29 agosto 2010): Nel Vangelo di questa domenica (Lc 14,1.7-14), incontriamo Gesù commensale nella casa di un capo dei farisei. Notando che gli invitati sceglievano i primi posti a tavola, Egli raccontò una parabola, ambientata in un banchetto nuziale. “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cèdigli il posto!» ... Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto” (Lc 14,8-10). Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità. Egli insiste piuttosto su un punto decisivo, che è quello dell’umiltà: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’“ultimo posto” può infatti rappresentare la condizione dell’umanità degradata dal peccato, condizione dalla quale solo l’incarnazione del Figlio Unigenito può risollevarla. Per questo Cristo stesso “ha preso l’ultimo posto nel mondo - la croce - e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta” (Enc. Deus caritas est, 35).
Al termine della parabola, Gesù suggerisce al capo dei farisei di invitare alla sua mensa non gli amici, i parenti o i ricchi vicini, ma le persone più povere ed emarginate, che non hanno modo di ricambiare (cfr Lc 14,13-14), perché il dono sia gratuito. La vera ricompensa, infatti, alla fine, la darà Dio, “che governa il mondo ... Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza” (Enc. Deus caritas est, 35). Ancora una volta, dunque, guardiamo a Cristo come modello di umiltà e di gratuità: da Lui apprendiamo la pazienza nelle tentazioni, la mitezza nelle offese, l’obbedienza a Dio nel dolore, in attesa che Colui che ci ha invitato ci dica: “Amico, vieni più avanti!” (cfr Lc 14,10); il vero bene, infatti, è stare vicino a Lui. San Luigi IX, re di Francia – la cui memoria ricorreva mercoledì scorso – ha messo in pratica ciò che è scritto nel Libro del Siracide: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore” (3,18). Così egli scriveva nel suo “Testamento spirituale al figlio”: “Se il Signore ti darà qualche prosperità, non solo lo dovrai umilmente ringraziare, ma bada bene a non diventare peggiore per vanagloria o in qualunque altro modo, bada cioè a non entrare in contrasto con Dio o offenderlo con i suoi doni stessi” (Acta Sanctorum Augusti 5 [1868], 546).
 
Gesù accetta l’invito a pranzo, ogni occasione è buona per un insegnamenti, per una parola buona, per un gesto di carità. Gesù sa di essere sotto lo sguardo di tutti e sa che questo è lo scopo dell’invito, conosce bene i farisei, e sa che sono alla ricerca di un qualsiasi cavillo per trarlo in errore. Ma i farisei così attenti agli errori degli altri non stanno attenti ai propri e così mettono a nudo la loro vera identità: sceglievano i primi posti. Questa è la loro fissazioni essere i primi e per raggiungere questo obiettivo sono pronti a tutto, anche ad togliere di mezzo fisicamente chiunque può offuscare il loro ipocrita e fasullo primato, e Gesù è uno di questi.
Ma tutto concorre al bene anche la plateale ipocrisia dei farisei perché Gesù ne approfitti per dare una “lezione sull’umiltà”, una lezione che va data anche ai suoi discepoli.
Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato è una buona regola per tutti gli uomini del mondo, purché l’umiliazione sia sincera, cioè che nasca da un cuore veramente umile.
 
Dal Vangelo secondo Luca 14,7-11: Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cédigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
 
Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo, Gesù è sotto lo sguardo di tutti, ma Egli non è da meno: osservando e notando come i notabili cercano di accaparrarsi i primi posti, propone ai commensali una lezione sulla virtù dell’umiltà: parole severe, ma scontate in quanto non fanno che svelare l’ipocrisia e la vanità degli scribi e dei farisei notoriamente affamati di lodi, di onori e inoltre amanti dei primi posti (Cf. Mt 23,1 -12).
Gesù «vuol mettere in luce che tutti i presenti, invitante ed invitati sono una massa di cafoni, pieni di pregiudizi egoistici, di banali arrivismi e di preoccupazioni gerarchiche. Gesù con le sue nette affermazioni vuole smantellare i pregiudizi mettendo a nudo i loro sentimenti. A parte la questione delle precedenze imposte dal galateo e dalle tradizioni giudaiche, in fondo si tratta anche di non cadere nel ridicolo. C’è sempre tanta ambizione e tanto arrivismo nella società di tutti i tempi: contro di essi Gesù oppone un caloroso invito all’umiltà» (C. Ghidelli).
Seguendo l’insegnamento della sacra Scrittura, l’umiltà, che Gesù addita ai commensali, oltre ad essere una virtù morale è un modo di essere: una «posizione della creatura di fronte al creatore, del peccatore di fronte al redentore» (I. M. Danieli).
Ovvero, al dire di san Bernardo, è la virtù «per la quale l’uomo si disprezza perché possiede una perfetta conoscenza di se stesso».
E nella logica evangelica solo «chi si umilia sarà esaltato» da Dio (Cf. Lc 18,9-14).
È l’insegnamento che Gesù non si stanca di proporre ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,1-4).
Farsi umili, diventare come bambini, significa disporsi ad accettare d’essere dipendenti senza sentirsi feriti nel proprio orgoglio. Nella vita cristiana questo è molto importante perché spalanca il credente al mistero della comunione con i fratelli e con Dio. Essere umili-bambini non significa farsi più piccoli di quel che si è, ma fare la verità in se stessi; significa sapere stimare colui con il quale si condivide un cammino di vita e comprendere quanto veramente si è piccoli di fronte a Dio.
Gesù ha percorso questo cammino, umiliando se stesso e facendosi ubbidiente alla volontà del Padre fino alla morte di croce (Cf. Fil 2,5ss).
Così ammaestrato, e dinanzi a tale modello divino, il discepolo serve il suo Signore con le opere e con il dono della sua vita senza ritenerlo un merito, ma un dovere: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
Questa parola di Gesù sarà ancora più chiara nella sala del grande banchetto del Regno dove i meno abbienti, i poveri, i diseredati occuperanno i primi posti. I farisei per la loro stupida vanità «hanno reso vano per loro il disegno di Dio» (Lc 7,30), ecco perché i pubblicani e le prostitute passano avanti a loro nel regno di Dio (Cf. Mt 21,28-32).
maniera
 
Umiltà - Gottfried Hierzenberger: Nell’AT è un atteggiamento dello spirito che esplica i propri positivi effetti nei confronti di Dio e nei confronti dei propri simili. Nei confronti di Dio umiltà significa pietà, giustizia. Dio protegge gli umili (Mi 6,8), li consola (1s 57,15), li innalza (Sal 147,6) ed entra in comunione con loro (Sal 51,19). I superbi, invece, Dio li distrugge e dimostra che la loro apparente potenza è in realtà impotenza e nullità. Per mezzo dell’umiltà nei confronti dei propri simili si può trovare Dio (2Cr 36,12); in questo caso l’umiltà, è l’atteggiamento veramente umano del servire. Accanto all’atteggiamento dello spirito, l’umiltà, indica anche la situazione della piccolezza. della necessità o povertà, cosicché i poveri possono esser considerati gli umili. Questa concezione veterotestamentaria permane ancora nella beatitudine in Luca (6,20). Per il resto, invece, l’umiltà nel NT acquisisce una motivazione nuova e un significato più profondo, quale comportamento adeguato del redento.
l. L’irrompente signoria di Dio richiama a un atteggiamento nuovo che Gesù stesso aveva vissuto in maniera esemplare (Mt 11,28s). Non è intesa come virtù nel senso di mansuetudine personale, ma affonda le sue radici nella disponibilità attiva a servir nell’amore (Mc 10,45).
2. Ciò esige dal cristiano un cosciente abbassamento (Lc 14,11) del superbo e autoritario voler-vivere-di-se-stessi all’atteggiamento del bambino (Mt 18,3s), Ogni autoesaltazione è assurda (1Cor 1,28-31) di fronte alla col4pa e ai limiti della propria fed (Rm 12,3); la consapevolezza di dipendere dalla pietà di Dio (Rm 3,21ss) deve portare a far proprio questo amore pietoso di Dio e di concretizzarlo (Col 3,12-14) nel servizio al prossimo (Rm 12,10) e al debole (Rm 14,1). Detto ciò l’umiltà non ha nulla a che vedere con la debolezza o la passività, al contrario, essa esige pieno impegno al servizio di Dio e degli uomini. L’umiltà non è l’atteggiamento di schiavi (da qui deriva la negatività del significato), ma di esseri umani liberi e pieni di amore.
 
L’umiltà del Figlio di Dio  - M. F. Lacan (Umiltà, Dizionario di Teologia Biblica): Gesù è il messia umile annunziato da Zaccaria (Mt 21,5). È il messia degli umili che egli proclama beati (Mt 5,4 = Sal 37, 11; gr. prays = l’umile che la sottomissione a Dio rende paziente e mite). Gesù benedice i bambini e li presenta Come modelli (Mc 10,15s). Per diventare Come uno di questi piccoli cui Dio si rivela e che, soli, entreranno nel regno (Mt 11, 25; 18,3s), bisogna mettersi alla scuola di Cristo, «maestro mite ed umile di Cuore» (Mt 11, 29). Ora questo maestro non è soltanto un uomo; è il Signore venuto a salvare i peccatori prendendo una carne simile alla loro (Rom 8,3). Lungi dal cercare la propria gloria (Gv 8,50), egli si umilia fino a lavare i piedi dei suoi discepoli (Gv 13,14ss); egli, che è eguale a Dio, si annienta fino a morire in croce per la nostra redenzione (Fil 2,6ss; Mc 10,45; cfr. Is 53). In Gesù si rivela non soltanto la potenza divina senza la quale noi non esisteremmo, ma la carità divina senza la quale noi saremmo perduti (Lc 19,10). Questa umiltà («segno di Cristo», dice S. Agostino), è quella del Figlio di Dio, quella della carità. Bisogna seguire la via di questa «nuova» umiltà, per praticare il comandamento nuovo della carità (Ef 4,2; 1Piet 3,8s; «dov’è l’umiltà, ivi è la carità», dice S. Agostino). Coloro che «si rivestono di umiltà nei loro rapporti reciproci» (1Piet 5,5; Col 3,12) cercano gli interessi degli altri e prendono l’ultimo posto (Fil 2,3s; 1Cor 13,4s). Nella serie dei frutti dello Spirito, Paolo pone l’umiltà accanto alla fede (Gal 5,22s); queste due virtù (tratti essenziali di Mosè, secondo Eccli 45,4) sono di fatto connessi, essendo entrambi due atteggiamenti di apertura a Dio, di sottomissione fiduciosa alla sua grazia ed alla sua parola.
 
L’ultimo posto: Giovanni Paolo II (Omelia, 31 Agosto 1986): Gesù “partecipando a un pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, coglie l’occasione per insegnare ad essere umili. Ci dice di scegliere l’ultimo posto, di accontentarci del poco, di cercare non l’appariscenza del sembrare, ma la realtà dell’essere. Davanti a Dio siamo nulla; e anche davanti agli uomini siamo ben poco, anzi diventiamo ridicoli, persino miserevoli se prendiamo pose e atteggiamenti di autosufficienza, di vanagloria. Gesù, pero, non vuole soltanto suggerire delle indicazioni di buona educazione e di comportamento avveduto; egli vuole soprattutto quadrare la mente, e dare idee grandi e luminose per la nostra vita. Egli infatti soggiunge: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11) Questo talvolta può già avvenire su questa terra, in questa nostra vita; ma ciò è secondario. Essenziale è che l’umile sarà esaltato in cielo da Dio stesso. “Vuoi essere grande?”, chiedeva sant’Agostino; e rispondeva: “Comincia dalle cose più piccole. Vuoi innalzare una costruzione di grande altezza? Prima pensa al fondamento della bassezza” (Sermo 69,1,2). Se vogliamo veramente costruire l’edificio della nostra santificazione, bisogna fondarlo sull’umiltà. Gesù ci è di modello. Egli, come dice san Paolo, “pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo...; umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8)). Come non sentirsi, come non essere piccoli e umili davanti al mistero dell’incarnazione e della redenzione, davanti al Figlio di Dio che vagisce a Betlemme, che si avvolge di silenzio a Nazaret, che vive un’esistenza di povero, che muore su una nuda croce? È Gesù il primo, il vero umile, l’unico che ha veramente glorificato Dio - infatti Dio è “glorificato dagli umili”, ci ha ancora detto il Siracide (Sir 3,20) - perché si è umiliato in tutta la sua esistenza, pur manifestando vittoriosamente la sua potenza di Signore, ed è stato ciò che egli stesso si è definito: “mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Cristo ci ha amati: per noi ha sacrificato se stesso, offrendosi a Dio in sacrificio di soave profumo. (Ef 5,2)
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.


31 Ottobre 2020
 
Santa Maria dell’Immacolata Concezione (Maria Isabel Salvat Romero) Vergine
 
 
Nacque a Madrid il 20 febbraio 1926, nell’abitazione, situata in calle Claudio Coello 25 (oggi 23), dai coniugi Ricardo Salvat Albert e Margarita Romero Ferrer. Era stata preceduta da un fratello e una sorella e, dopo di lei, ne vennero altri cinque. Fu battezzata sette giorni dopo la nascita nella parrocchia dell’Immacolata Concezione a Madrid e le vennero dati i nomi di Maria Isabel. La bambina trascorse l’infanzia tra la casa paterna e quella di campagna a Cercedilla, a 59 chilometri da Madrid. Venne poi iscritta nello stesso collegio della sorella Margarita, tenuto dalle “Madri irlandesi”, ossia quelle fondate dalla Venerabile Mary Ward. Si trovò subito molto bene: il suo sorriso conquistava sia le suore sia le altre bambine. Il 24 maggio 1932 fece la sua Prima Comunione. Allo scoppio della guerra civile spagnola, nel 1936, dovette fuggire a Figueira da Foz, in Portogallo; tornò in patria due anni dopo. Maria Isabel godeva complessivamente di buona salute, anche se era incline a prendere il raffreddore. In una di quelle occasioni, rimasta in casa, confidò un segreto a Margarita: alcuni giorni prima, era rimasta commossa per aver visitato con la zia Carmen, suora delle “irlandesi”, una famiglia bisognosa. Da allora, le era sorto in cuore il desiderio di vivere come i bambini poveri che ne facevano parte, perché Gesù li amava molto e lei stessa sentiva di amare molto Gesù. Appena guarì, andò a portare di persona delle scarpe nuove a quei piccoli. La vita di collegio proseguì e, di pari passo, cresceva nella ragazza l’amore per la Vergine Maria. Con alcune compagne, il 10 dicembre 1943, aderì all’associazione delle Figlie di Maria e ogni sabato s’impegnava a compiere qualche azione speciale per farle piacere. Un giorno bussò alla porta di casa per la questua una religiosa, suor Ana Maria, che faceva parte delle Sorelle della Compagnia della Croce, fondate da suor Angela della Croce (al secolo Maria de los Ángeles Guerrero González) nel 1875. Tornò altre volte per aggiornare la signora Margarita sulla situazione di alcuni ammalati, che lei aiutava come poteva. In Maria Isabel, che ascoltava quelle conversazioni, iniziò a sorgere il desiderio di seguire quella stessa strada. Prese quindi a frequentare il convento delle Sorelle e, dopo aver lungamente pregato, si confidò in primo luogo con Margarita, che però l’avrebbe vista meglio tra le “irlandesi”. Infine, comunicò la sua decisione alla madre, che l’abbracciò felice e, prendendola per mano, la condusse di fronte a un busto del Sacro Cuore di Gesù, che si trovava nel salone di casa. Pregarono insieme, poi l’incoraggiò a non perdere tempo nel rispondere a quella chiamata. Mancava da avvisare il padre, ma la madre seppe preparare bene il terreno. Così, ormai diciottenne, l’8 dicembre 1944 entrò come postulante nella Compagnia delle Sorelle della Croce. Compì la vestizione religiosa il 9 giugno 1945, assumendo il nuovo nome di suor Maria della Purissima della Croce. La professione temporanea avvenne il 27 giugno 1947, mentre quella perpetua fu il 9 dicembre 1952. Sin dal noviziato le sue virtù si accrebbero continuamente. Inoltre, grazie all’educazione ricevuta, conosceva bene tre lingue: il francese, l’inglese e l’italiano. Per le sue doti umane e spirituali, appena professa fu destinata alla casa di Estepa e 5 anni dopo, nel 1959, fu eletta Superiora di questa comunità. Nel 1966 venne chiamata alla Casa madre di Siviglia, dove servì come ausiliare del noviziato e poi come maestra delle novizie.
Tre anni dopo, la Compagnia della Croce tentò un’organizzazione in Province: suor Maria della Purissima fu responsabile di una di esse, ma
Tre anni dopo, la Compagnia della Croce tentò un’organizzazione in Province: suor Maria della Purissima fu responsabile di una di esse, ma l’esperienza non ebbe seguito. Divenne quindi Consigliera Generale e, in seguito, Superiora della comunità di Villanueva del Río y Minas, provincia di Siviglia. Durante quel mandato si svolse il Capitolo Generale: l’11 febbraio 1977 venne eletta Madre Generale. Per altre due volte fu rieletta all’unanimità. L’evento più grande del suo generalato fu la beatificazione di suor Angela della Croce, svolta a Siviglia nel novembre 1982 per opera di san Giovanni Paolo II, durante il suo primo viaggio apostolico in Spagna. Terminata la celebrazione, il Papa visitò il convento delle suore per pregare davanti al corpo incorrotto della neo-beata e parlò a lungo con madre Maria della Purissima. Pur rivestendo una responsabilità così grande, ella cercò sempre di passare inosservata e di attirare l’attenzione il meno possibile. Le sue cure maggiori erano rivolte verso le donne anziane e ammalate: quand’era superiora a Villanueva del Rio y Minas, scendeva personalmente nelle caverne dove abitavano e, con sua gran gioia, preparava loro da mangiare, le lavava e faceva il bucato. Grande era anche la sua preoccupazione per le consorelle, in particolare per quelle che incontravano difficoltà: era per tutte una madre comprensiva, dedicava tempo ad ascoltare e consigliare le sue figlie, infondendole amore e fedeltà alla vocazione, spirito di fede, di abbondono e ubbidienza alla vontà di Dio. In una sua lettera circolare, lasciò scritto: «Quanto più è forte il nostro amore per il Signore, tanto più amiamo la nostra vocazione e ci entusiasma tutto ciò che ci compete: l’amore per i poveri, lo stare ai piedi di tutti… perché vediamo in esso delle occasioni per dimostrare a Lui il nostro amore». Nel frattempo, la Compagnia della Croce crebbe di numero, tanto da rendere necessarie le nuove fondazioni di Puertollano, Huelva, Cadice, Lugo, Linares e Alcázar de S. Juan. Anche in Italia se ne creò una, a Reggio Calabria (nel 1984), per l’assistenza delle anziane inferme e ammalati a domicilio. Nel 1994 apparve la grave malattia che la condurrà alla morte: durante l’estate di quell’anno fu sottoposta a una mastectomia e in poco tempo riprese la sua attività normale, adempiendo tutti gli obblighi inerenti alla sua carica come se nulla fosse successo. Nei quattro anni che sopravvisse raddoppiò il suo sforzo per infondere unione, gioia, e un grande amore a Dio in tutte le Sorelle: accanto a lei si respirava Dio. A settembre del 1998, madre Maria della Purissima iniziò una ulteriore visita canonica alle comunità in America del Sud. Intraprese il viaggio accusando già febbre alta, ma non si fermò fino al ritorno a Siviglia. A causa del malessere era divenuta inappetente, ma cercava di non pesare alle consorelle.  Nel mese di novembre si recò dal medico per avere i referti di alcuni esami, chiedendogli di essere sincero nei suoi confronti: aveva ormai cinquant’anni di professione religiosa alle spalle e la morte non le faceva paura. Il medico, ringraziandola per avergli facilitato il compito di darle una notizia tanto gravosa, le spiegò la natura del suo male: un tumore al fegato e ai polmoni. Sorridendo, la religiosa citò il Salmo 122: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andiamo alla casa del Signore!”». Il 30 ottobre 1998, dopo aver ricevuto un ciclo di chemioterapia, si ritirò in infermeria perché si sentiva stanca: all’alba dell’indomani si addormentò per sempre. Aveva 72 anni. Fu sepolta nella cripta della Casa Madre, nello stesso punto dove per 50 anni era rimasta seppellita la Fondatrice. La sua fama di santità, non solo tra le consorelle, fu da subito tanto vasta che già il 16 dicembre 1999 il Consiglio Generale della Compagnia della Croce domandò all’Arcivescovo di Siviglia di richiedere, presso la Congregazione vaticana per le Cause dei Santi, la dispensa per l’avvio del processo diocesano per la beatificazione e canonizzazione di madre Maria della Purissima. Il nulla osta per l’avvio della causa venne comunicato il 13 gennaio 2004; nel frattempo, si era già cominciato a raccogliere testimonianze “ad futuram rei memoriam”. Anche per questo motivo, la fase diocesana fu rapidissima: durò dal 20 febbraio al 15 novembre 2004. Il decreto sulla validità del processo fu emesso il 2 luglio 2005. Nel frattempo, venne individuato un presunto miracolo. Ana Maria Rodríguez Casado, di Palma del Condado, era nata con una cardiopatia congenita e senza la vena cava inferiore, motivo per cui era portatrice di un pace-maker da quando aveva tredici mesi. Una notte del gennaio 2004, quando aveva 3 anni, svenne tra le braccia della madre: era stata colpita da un arresto cardiorespiratorio, causato dalla rottura di un cavo del dispositivo che le era stato installato. Per via della carenza di ossigeno al cervello, dopo una lunga degenza in ospedale, venne ricondotta a casa in sedia a rotelle: era come una bambola di stoffa. Due Sorelle della Compagnia della Croce diedero alla mamma di Ana Maria un’immaginetta di madre Maria della Purissima: lei, mossa dal dolore e dalla disperazione, iniziò a passarla sulla testa della bambina. Pochi minuti dopo, appena le suore si furono allontanate, la bambina chiamò la madre e la nonna, chiedendo di essere aiutata a scendere dalla carrozzella perché voleva camminare. Nel giro di pochi giorni, riprese a parlare normalmente.  Il processo sul miracolo, dietro richiesta del postulatore generale, venne istruito non nella diocesi di Huelva, nel cui territorio si trova Palma del Condado, ma in quella di Siviglia: durò dal 4 novembre 2005 al 13 febbraio 2006. Il 29 settembre dello stesso anno venne presentata in Vaticano la “positio super virtutibus” della Serva di Dio. Ottenuto parere positivo da parte dei periti teologi della Congregazione delle Cause dei Santi, riuniti il 6 giugno 2008, il 17 gennaio 2009 papa Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del decreto con cui madre Maria della Purissima era dichiarata Venerabile. Il 2 luglio 2009 i membri della Consulta Medica della Congregazione dichiararono che la guarigione presa in esame era scientificamente inspiegabile. Il 5 dicembre, quindi, i periti teologi si pronunciarono unanimemente circa l’effettivo miracolo, come anche i cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 2 marzo 2010. Infine papa Benedetto XVI firmò, il 27 marzo 2010, il decreto con cui la guarigione di Ana Maria era dichiarata miracolosa. Sabato 18 settembre 2010, alle 10 di mattina, lo Stadio Olimpico de la Cartuja a Siviglia era pieno di fedeli, suore, sacerdoti per la Messa della beatificazione, presieduta dal cardinal Angelo Amato, Prefetto delle Cause dei Santi, in qualità d’inviato del Santo Padre. In quell’occasione, la piccola miracolata, che aveva dieci anni, fece la sua Prima Comunione. Come secondo miracolo per ottenere la canonizzazione è stato preso in esame il caso di Francisco José Carretero Diez, detto “el Carre”, membro della confraternita della Madonna della Speranza (la “Macarena”) di Siviglia. Nel settembre 2012, a 44 anni, era finito in coma in seguito a un arresto cardiorespiratorio durato 27 minuti con i conseguenti danni cerebrali irreversibili: dopo due settimane, quando i medici parlavano già di donazione di organi e di morte clinica, si riprese all’improvviso e completamente. Nel periodo in cui fu incosciente i suoi amici avevano messo in moto, grazie anche alle reti sociali, una catena di preghiere alla Beata Maria della Purissima. Ricevendo il cardinal Amato il 5 maggio 2015, papa Francesco ha firmato il decreto con cui questa guarigione è stata effettivamente riconosciuta come evento inspiegabile, aprendo la via per la canonizzazione. Il rito, che comprendeva l’elevazione al massimo onore degli altari anche dei coniugi Martin e di don Vincenzo Grossi, è stato celebrato a Roma il 18 ottobre 2015, nel corso della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo». Come ha fatto notare il giornalista Giorgio Bernardelli su «Vatican Insider», santa Maria della Purissima della Croce risulta essere, alla data di pubblicazione del decreto sul miracolo, seconda solo a Giovanni Paolo II per la breve distanza tra data di morte e quella di canonizzazione, se ci si limita ai santi dell’epoca contemporanea. I suoi resti mortali riposano nella cappella accanto al sepolcro dove riposa il corpo incorrotto della Fondatrice, sant’Angela della Croce, nella Casa Madre delle Sorelle della Compagnia della Croce a Siviglia.

NOTA: Il nome religioso, in spagnolo, suona come “Maria de la Purísima de la Cruz”. La traduzione presente nei bollettini della Sala Stampa vaticana a partire dall’annuncio della canonizzazione è invece “Maria dell’Immacolata Concezione”. Nel testo, tranne che nel titolo, abbiamo utilizzato l’altra traduzione perché è quella adoperata nelle comunità italiane (Roma e Reggio Calabria) delle Sorelle della Compagnia della Croce.
Autore: Emilia Flocchini
 
 
Spagna. Vescovi: canonizzazione Madre Maria è grande gioia
 
“Un esempio per alimentare gli ideali della famiglia cristiana e della misericordia di Dio, attraverso la testimonianza dei credenti”: così la Conferenza episcopale spagnola (Cee) definisce la religiosa Maria dell’Immacolata Concezione, superiora generale della Congregazione delle Sorelle della Compagnia della Croce, che Papa Francesco canonizzerà il prossimo 18 ottobre. Un evento significativo, sottolinea la Cee, considerato che la futura Santa salirà agli onori degli altri durante il Sinodo ordinario sulla famiglia, in programma dal 4 al 25 ottobre, e alla vigilia del Giubileo straordinario della misericordia, che si aprirà l’8 dicembre.
Portava il sorriso nella casa dei poveri In un messaggio diffuso al termine della 236.ma riunione della Commissione permanente, svoltasi a Madrid il 29 e 30 settembre, i presuli iberici scrivono: “Madre Maria dell’Immacolata ha molto da dire ai cristiani di oggi: è stata una vera samaritana nell’accostarsi agli indigenti, vedendo in essi il volto di Cristo sulla terra”. “Davanti ai poveri - continua la Chiesa di Madrid - la futura Santa non avanzava critiche o valutazioni, ma si poneva semplicemente al servizio di ciò che era realmente necessario, come il portare un sorriso nella casa di un povero”.
 
Esempio di esercizio delle opere di misericordia
I vescovi iberici ne ricordano, quindi, la “gioia evangelica, la fedeltà alla preghiera, l’amore per l’Eucaristia e gli altri Sacramenti della Chiesa, la devozione filiale alla Vergine, e l’esercizio delle opere di misericordia” nei confronti dei bisognosi, degli ammalati e degli indigenti, perché, come recitava il suo motto, “I poveri sono i nostri signori”.
 
Pratica: “Santa Maria dell’Immacolata Concezione, attingendo dalle sorgenti della preghiera e della contemplazione, visse in prima persona con grande umiltà il servizio agli ultimi, con una attenzione particolare ai figli dei poveri e agli ammalati” (Papa Francesco).
 
Preghiera: O Dio, che oggi ci allieti con la festa di santa Maria dell’Immacolata Concezione, fa’ che il ricordo della sua testimonianza evangelica segni un rinnovamento nella nostra vita. Per il nostro Signore.

 


 

 

 

 30 Ottobre 2020

 Venerdì XXX Settimana T. O.

 Fil 1,1-11; Sal 110 (111); Lc 14,1-6

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi.

Decreto Apostolato dei Laici n. 8: La santa Chiesa, come fin dalle sue prime origini, unendo insieme l’«agape» con la cena eucaristica, si manifestava tutta unita nel vincolo della carità attorno a Cristo, così, in ogni tempo, si riconosce da questo contrassegno della carità, e mentre gode delle iniziative altrui, rivendica le opere di carità come suo dovere e diritto inalienabile. Perciò la misericordia verso i poveri e gli infermi con le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, destinate ad alleviare ogni umano bisogno, sono da essa tenute in particolare onore.
Oggi che i mezzi di comunicazione sono divenuti più rapidi, le distanze tra gli uomini quasi eliminate e gli abitanti di tutto il mondo resi membri quasi di una unica famiglia, tali attività ed opere sono divenute molto più urgenti e devono prendere di più le dimensioni dell’universo. L’azione caritativa ora può e deve abbracciare tutti assolutamente gli uomini e tutte quante le necessità. Ovunque vi è chi manca di cibo, di bevanda, di vestito, di casa, di medicine, di lavoro, di istruzione, dei mezzi necessari per condurre una vita veramente umana, ovunque vi è chi afflitto da tribolazioni e da malferma salute, chi soffre l’esilio o il carcere, la carità cristiana deve cercarli e trovarli, consolarli con premurosa cura e sollevarli porgendo loro aiuto. E quest’obbligo si impone prima di tutto ai singoli uomini e popoli che vivono nella prosperità .
Affinché tale esercizio di carità possa essere al di sopra di ogni critica e appaia come tale, si consideri nel prossimo l’immagine di Dio secondo cui è stato creato, e Cristo Signore, al quale veramente è donato quanto si dà al bisognoso; si abbia estremamente riguardo della libertà e della dignità della persona che riceve l’aiuto; la purità di intenzione non macchiata da ricerca alcuna della propria utilità o desiderio di dominio; siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in t modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventi sufficienti a se stessi.
 
Gesù accettando di recarsi «in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare» fa bene intendere che la sua opposizione verso di essi non è per partito preso o per pregiudizi, ma che si fonda su ragioni molto più profonde delle solite diatribe scolastiche (Cf. Mt 23,13-36; Lc 11,37-52).
stavano ad osservarlo, questa nota fa comprende che l’invito aveva i suoi fini certamente non amichevoli. L’uomo malato di idropisia è dinanzi a Gesù, e forse anche questo posto a tavola era stato scelto con cura. Gesù non tiene conto di queste accorgimenti ambigui, e prende l’iniziativa, e con una domanda rivolta ai dottori della Legge e ai farisei fa cadere dal loro cuore e dal loro volto la maschera della ipocrisia.
Gesù sorprende i dottori della Legge e i farisei “non nelle analisi degli articoli della Legge [in base ai quali essi avrebbero potuto rispondere di no], ma nella pratica osservanza della Legge [a questo proposito essi non sanno cosa rispondere]. Così egli smantella ancora una volta [cfr 6,42; 12,56] la loro intransigenza e la loro ipocrisia” (Carlo Ghidelli, Luca)
Se avessero risposto che era lecito guarire di sabato avrebbero accusato se stessi di essere trasgressori della Legge, se avessero risposto negativamente avrebbero messo a nudo la loro ipocrisia e la loro durezza di cuore. Gesù guarisce l’ammalato e spiazza i dottori della Legge e i farisei con una affermazione lapidaria: Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?
Le guide spirituali del popolo eletto non possono che continuare a tacere: “E non potevano rispondere nulla a queste parole”.
Una guarigione accettata anche se malvolentieri, ma naturalmente tutto questo costituiva una miscela esplosiva e che avrebbe acceso nuove violente diatribe.
 
Dal Vangelo secondo Luca 14,1-6: Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano ad osservarlo. Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia. Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: “È lecito o no guarire di sabato?” Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. Poi disse loro: “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?”. E non potevano rispondere nulla a queste parole.
 
Discorso durante un convito - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Con il vangelo di oggi inizia un discorso di Gesù ai commensali di un convito. Il primo versetto serve da introduzione generale e indica le circostanze di tempo e luogo: un sabato e durante un pasto in casa di un illustre fariseo. In questo contesto, Luca incastra con maestria i diversi episodi e temi di conversazione (che leggeremo fino a lunedì prossimo). Si crea così un’interdipendenza di idee; quello che accade lì ha una relazione simbolica con il grande banchetto escatologico e messianico del regno di Dio.
Nello sviluppo dell’insieme Luca segue le regole dello stile greco, richieste da questo genere letterario, il cui prototipo sul terreno filosofico è il convito di Platone: ogni invitato faceva un discorso o ascoltava con venerazione i maestri, in questo caso Gesù.
L’inaspettata presenza dell’uomo malato di idropisia - accumulo di acqua nei tessuti - ricorda la scena della guarigione del paralitico nella sinagoga (Lc 6,6ss) e della donna incurvata (lunedì di questa settimana: 13,10ss). In ognuno di questi casi - forse varianti di uno solo - si può indovinare un secondo piano di lettura.
I malati incarnano la situazione del popolo, oppresso dai giuristi con le prescrizioni della legge mosaica, e non solo quella riguardante il sabato, così come essi le spiegavano alla gente. Gesù viene a liberarli da questo giogo insopportabile. Libertà di spirito che allieta i semplici ed è rifiutata dalle guide religiose; per questo decidono di eliminare un soggetto così «sovversivo» come Gesù.
Dato che Gesù è consapevole che scribi e farisei lo spiano per poterlo accusare, prima di curare l’idropico fa loro questa domanda diretta e impegnativa: «È lecito o no curare di sabato?». Egli conosceva molto bene i trentanove lavori proibiti di sabato secondo le tradizioni rabbiniche riepilogate nella Mishnah: curare era tra questi, dato che era considerato come esercizio della medicina. Ma conosceva anche i sotterfugi e le eccezioni a cui ricorrevano i legulei per salvaguardare la proprietà privata; così permettevano di soccorrere un animale infortunato di sabato.
Allora Gesù, che valutava più l’uomo che non i beni, disse loro: «Chi di voi, se un asino (suo figlio, secondo i migliori manoscritti) o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?». A maggior ragione sarà permesso curare un malato restituendogli la salute, che è, insieme alla vita, il maggior bene umano. « Perciò è permesso fare del bene anche di sabato » (Mt 12,12); perché fare del bene al prossimo non può violare nessuna legge di Dio.
 
Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia - Detlev Dormeyer / Anton Grabner (Prontuario della Bibbia): Malattia. a) Secondo l’Antico Testamento la malattia è mandata da Dio. Dapprima si crede che Dio la infligga come castigo personale (Is 1,5s), ma negli scritti più tardi dell’Antico Testamento si ricerca un’altra motivazione. Giobbe viene colpito dal Satana con la malattia, ma col permesso di Dio (Gb 1). Poiché Giobbe ha condotto una vita retta, senza alcuna colpa, non si può non riconoscere che il malvagio può vivere sano e felice, mentre il giusto può venir colpito dalla malattia. Perciò si evidenziano le ripercussioni sociali del peccato. Le azioni umane non danno e non tolgono nulla a Dio, colpiscono però il proprio simile; il peccato può causare una malattia propria o quella di altri. Il fatto che la malattia visiti uno anziché l’altro, deriva dalla causalità intramondana, in ultima analisi, però, dall’imperscrutabile volontà di Dio. Come mezzi per guarire la malattia sono perciò indicati, nell’Antico Testamento, opere di pietà, preghiera, digiuno, voti e sacrifici per implorare la pietà di Dio. Non si rinuncia, tuttavia, all’ausilio di metodi umani in vista della guarigione (Sir 38,1ss).
b) Anche nel Nuovo Testamento domina la concezione veterotestamentaria che la malattia provenga da Dio. Gesù però, come il libro di Giobbe, rifiuta decisamente l’interpretazione degli scribi per cui la malattia sarebbe il castigo per una colpa personale o famigliare. Al contrario, egli guarisce la malattia con i suoi prodigi, perché questo è il segno che con lui è iniziato il tempo escatologico: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella (Mt 11,5). Con ciò si adempie la promessa del profeta (Is 35,5s e 61,1). Gesù è venuto per guarire l’uomo. Gesù suscita un mondo risanato, il regno di Dio. Malattia significa per il cristiano partecipazione alla croce di Cristo; la sofferenza di Cristo continua nei suoi (Col l,24), finché la “nuova creazione” di Dio non sia compiuta.
 
Gli Apostoli e la Chiesa dinanzi alla malattia - J. Giblet e P. Grelot (Dizionario di Teologia Biblica):  1. Il segno del regno di Dio, costituito dalle guarigioni miracolose, non è rimasto confinato nella vita terrena di Gesù. Egli aveva associato i suoi apostoli, sin dalla loro prima missione, al suo potere di guarire le malattie (Mt 10,1). Al momento della missione definitiva promette loro una realizzazione continua di questo segno per accreditare l’annunzio del vangelo (Mc 16,17s). Perciò gli Atti notano a più riprese le guarigioni miracolose (Atti 3,1ss; 8,7; 9,32ss; 14,8ss; 28,8s) che mostrano la potenza del nome di Gesù e la realtà della sua risurrezione. Così pure Paolo, tra i carismi, ricorda quello di guarigione (1Cor 12,9.28.30): questo segno permanente continua ad accreditare la Chiesa di Gesù facendo vedere che lo Spirito Santo agisce in essa. Tuttavia la grazia di Dio viene ordinariamente agli ammalati in un modo meno spettacolare. Riprendendo un gesto degli apostoli (Mc 6,13), i «presbiteri» della Chiesa compiono su di essi, che pregano con fede e confessano i loro peccati, unzioni con olio nel nome del Signore; questa preghiera li salva, perché i peccati sono loro rimessi ed essi possono sperare, se così piace a Dio, la guarigione (Giac 5,14ss).
2. Questa guarigione non avviene tuttavia in modo infallibile, come se fosse l’effetto magico della preghiera o del rito. Finché dura il mondo presente, l’umanità deve continuare a portare le conseguenze del peccato. Ma «prendendo su di sé le nostre malattie» al momento della sua passione, Gesù ha dato loro un nuovo senso: come ogni sofferenza, esse hanno ormai un valore di redenzione. Paolo, che ne ha fatto l’esperienza a più riprese (Gal 4,13; 2Cor 1,8ss; 12,7-10), si sa che esse uniscono l’uomo a Cristo sofferente: «Portiamo nei nostri corpi le sofferenze di morte di Gesù, affinché la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro Corpo» (2 Cor 4,10). Mentre Giobbe non arrivava a comprendere il senso della sua prova, il cristiano si rallegra di «completare nella sua carne ciò che manca alle prove di Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,24).
Nell’attesa che giunga questo ritorno al paradiso dove gli uomini saranno guariti per sempre dai frutti dell’albero della vita (Apoc 22,2; cfr. Ez 47,12), la malattia stessa è inserita, come la sofferenza e come la morte, nell’ordine della salvezza. Non che essa sia facile da portare: rimane una prova, ed è carità aiutare il malato a sopportarla, visitandolo e consolandolo. «Portate le malattie di tutti», consiglia Ignazio di Antiochia.
Ma servire gli ammalati significa servire Gesù stesso nelle sue membra sofferenti: «Ero ammalato e mi avete visitato», dirà nel giorno del giudizio (Mi 25,36). Il malato, nel mondo cristiano, non è più un maledetto dal quale ci si scosta (cfr. Sal 38,12; 41,6-10; 88,9); è l’immagine ed il segno di Cristo Gesù.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Renderò grazie al Signore con tutto il cuore, tra gli uomini retti riuniti in assemblea. Grandi sono le opere del Signore: le ricerchino coloro che le amano.  (Salmo Responsoriale)
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.


30 Ottobre 2020
 
Beato Michele Rua,  1° successore di San Giovanni Bosco
 
Ricordiamo oggi il Beato Michele Rua, anche se  la Famiglia Salesiana lo ricorda il 29 ottobre, giorno della sua beatificazione. Lo ricordiamo sia per le sue virtù e i suoi carismi, ma sopra tutto perché ci è modello di missionarietà per aver arricchito la Chiesa di innumerevoli vocazioni sacerdotali, ed oggi più che mai abbiamo bisogno di questi testimoni.
 
Michele Rua nasce a Torino il 9 giugno 1837, nel popolare quartiere di Borgo Dora, ultimo di nove figli.
Rimane presto orfano di padre, Giovanni Battista, che muore il 2 agosto 1845, e vive con la madre che ha un alloggio nell’azienda dove lavora (arsenale regio). Nell’autunno dello stesso anno incontra don Bosco e partecipa fin da subito all’oratorio diventando un entusiasta amico del futuro santo. Spinto sempre da don Bosco prende la strada del sacerdozio e il 3 ottobre 1853 riceve l’abito clericale ai Becchi di Castelnuovo Don Bosco in una cappella fatta costruire dal sacerdote astigiano.
Il 26 gennaio 1854 don Bosco radunò nella sua camera quattro giovani compagni, dando vita, forse inconsapevolmente, alla congregazione salesiana. Alla riunione erano presenti Giovanni Cagliero e Michele Rua che fu incaricato di stenderne il “verbale”.
Il 25 marzo, nella stanza di don Bosco, Michele fece la sua “professione” semplice: era il primo salesiano. A Valdocco sorgevano laboratori di calzoleria, di sartoria, di legatoria. Molti ragazzi vedevano cambiare la propria esistenza: alcuni poterono studiare, altri vi si radunavano la sera dopo il lavoro, altri ancora solo la domenica. Michele divenne il principale collaboratore del santo, nonostante la giovane età; ne conquistò la totale fiducia, aiutandolo anche nel trascrivere le bozze dei suoi libri, sovente di notte, rubando le ore al sonno. Di giorno si recava all’oratorio S. Luigi, dalle parti di Porta Nuova, in una zona piena di immigrati. I più emarginati erano i ragazzi che, dalle valli, scendevano in città in cerca di lavoro come spazzacamini. Michele, facendo catechismo e insegnando le elementari nozioni scolastiche, conobbe infinite storie di miseria.
Nel febbraio 1858 don Bosco scrisse le Regole della congregazione e il “fidato segretario” passò molte notti a copiare la sua pessima grafia. Insieme, le portarono a Roma, all’approvazione del Beato Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1846-1878), che, di proprio pugno, le corresse.
Nel 1859 Pio IX ufficializzò la congregazione salesiana: don Bosco è Superiore Generale e  Michele diventa di fatto il “braccio destro" del santo. Un giorno disse: “traevo maggior profitto nell’osservare don Bosco, anche nelle sue azioni più umili, che a leggere e meditare un trattato di ascetismo.
Il 28 luglio 1860 Michele Rua venne finalmente ordinato sacerdote. Sull’altare della prima messa c’erano i fiori bianchi donati dagli spazzacamini dell’oratorio S. Luigi. Tre anni dopo fu mandato ad aprire la prima casa salesiana fuori Torino: un piccolo seminario a Mirabello Monferrato. Vi stette due anni e tornò in città mentre a Valdocco si costruiva la basilica di Maria Ausiliatrice. Don Rua divenne il riferimento di molteplici attività, rispondendo persino alle lettere indirizzate a don Bosco. Lavorava senza soste e nel luglio 1868 sfiorò persino la morte a causa di una peritonite. Dato per moribondo dai medici, guarì; qualcuno disse per intercessione di Don Bosco. Tra i ragazzi dell’oratorio, oltre settecento, nascevano diverse vocazioni religiose.
Nel 1868 si conclusero i lavori del santuario; nel 1872 si consacrarono le prime Figlie di Maria Ausiliatrice; nel 1875 partirono i primi missionari per l’Argentina guidati da don Cagliero. Nacquero i cooperatori e il bollettino salesiano. Valdocco aveva raggiunto proporzioni enormi, mentre a Roma Pp Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci, 1878-1903) chiedeva alla congregazione la costruzione della basilica del Sacro Cuore. Don Bosco era spesso in viaggio per la Francia e la Spagna e don Rua gli era accanto.
Nel 1884 la salute del fondatore ormai declinava e fu il papa stesso a suggerirgli di pensare ad un successore. Don Rua il 7 novembre fu nominato, dal pontefice, vicario con diritto di successione.
Nel gennaio del 1888, nella notte tra il 30 e il 31, alla presenza di molti sacerdoti, accompagnò la mano del santo, nel dare l’ultima benedizione. Rimase poi inginocchiato, davanti alla salma, per oltre due ore. 
Don Michele Rua fu un missionario instancabile, fedele interprete del sistema educativo preventivo. Percorrendo migliaia di chilometri visitò le case della congregazione sparse per il mondo, coordinandole come una sola grande famiglia. Diceva che i suoi viaggi gli avevano fatto vedere la “povertà ovunque”. La prima grande industrializzazione fece abbandonare ai contadini le proprie terre, per un misero salario guadagnato in fabbrica dopo interminabili giornate di lavoro. I salesiani toglievano dalla strada molti bambini aprendo oratori e scuole che, pur nella loro semplicità, diventavano in poco tempo centri di accoglienza e istruzione. Fu un grande innovatore in campo educativo: oltre alle scuole, in cui introdusse corsi professionali, organizzò ostelli e circoli sociali. Dopo aver avuto la gioia di vedere don Bosco dichiarato “venerabile” (1907) e di aver finito di costruire la chiesa di Maria Liberatrice a Roma (1908), don Michele Rua si ammalò e fu costretto a restare al letto. Il suo aiutante Filippo Rinaldi (beatificato il 29 aprile 1990), lo assistette fino all’ultimo.
Muore nella notte tra il 5 e il 6 aprile 1910, mormorando una giaculatoria insegnatagli da don Bosco quando era un ragazzino: “Cara Madre, Vergine Maria, fate ch’io salvi l’anima mia”.
Aveva ricevuto da don Bosco 700 religiosi in 64 case disseminate in 6 paesi; lasciò, al suo successore, 4000 religiosi in 341 case sparse in 30 nazioni, tra cui Brasile, Messico, Ecuador, Cina, India, Egitto, Sudafrica.
Il “secondo padre della famiglia salesiana” fu sepolto a fianco del maestro; la sua tomba è ora venerata nella cripta della Basilica di Maria Ausiliatrice.
Michele Rua è stato proclamato beato il 29 ottobre 1972 dal Beato Paolo VI (Giovanni Battista Montini, 1963-1978).   Fonte: www.ilvagelodelgiorno.
 
Paolo VI (Omelia, 29 ottobre 1972)
 
Venerabili Fratelli e Figli carissimi! Benediciamo il Signore!
Ecco: Don Rua è stato ora da noi dichiarato «beato»!
Ancora una volta un prodigio è compiuto: sopra la folla della umanità, sollevato dalle braccia della Chiesa, quest’uomo, invaso da una levitazione che la grazia accolta e secondata da un cuore eroicamente fedele ha reso possibile, emerge ad un livello superiore e luminoso, e fa convergere a sé l’ammirazione e il culto, consentiti per quei fratelli che, passati all’altra vita, hanno ormai raggiunta la beatitudine del regno dei cieli.
 
BONTÀ , MITEZZA, SACRIFICIO
Un esile e consunto profilo di prete, tutto mitezza e bontà, tutto dovere e sacrificio, si delinea sull’orizzonte della storia, e vi resterà ormai per sempre: è Don Michele Rua, «beato»!
Siete contenti? Superfluo chiederlo alla triplice Famiglia Salesiana, che qui e nel mondo esulta con noi, e che trasfonde la sua gioia in tutta la Chiesa. Dovunque sono i Figli di Don Bosco, oggi è festa. Ed è festa specialmente per la Chiesa di Torino, patria terrena del nuovo Beato, la quale vede inserita nella schiera possiamo dire moderna dei suoi eletti una nuova figura sacerdotale, che ne documenta le virtù della stirpe civile e cristiana, e che certo ne promette altra futura fecondità.
Don Rua, «beato». Noi non ne tracceremo ora il profilo biografico, né faremo il suo panegirico. La sua storia è ormai a tutti ben nota. Non sono certamente i bravi Salesiani, che lasciano mancare la celebrità ai loro eroi; ed è questo doveroso omaggio alle loro virtù che, rendendoli popolari, estende il raggio del loro esempio e ne moltiplica la benefica efficacia; crea l’epopea, per l’edificazione del nostro tempo.
E poi, in questo momento nel quale la commozione gaudiosa riempie i nostri animi, preferiamo piuttosto meditare che ascoltare. Ebbene meditiamo, un istante, sopra l’aspetto caratteristico di Don Rua, l’aspetto che lo definisce, e che con un solo sguardo ce lo dice tutto, ce lo fa capire. Chi è Don Rua?
È il primo successore di Don Bosco, il Santo Fondatore dei Salesiani. E perché adesso Don Rua è beatificato, cioè glorificato? è beatificato e glorificato appunto perché suo successore, cioè continuatore: figlio, discepolo, imitatore; il quale ha fatto con altri ben si sa, ma primo fra essi, dell’esempio del Santo una scuola, della sua opera personale un’istituzione estesa, si può dire, su tutta la terra; della sua vita una storia, della sua regola uno spirito, della sua santità un tipo, un modello; ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume. Ricordate la parabola del Vangelo: «il regno dei cieli è simile a grano di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo; esso è tra i piccoli di tutti i semi, ma quando è cresciuto è tra i più grandi di tutti gli erbaggi e diventa pianta, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi fra i suoi rami» (Matth. 13, 31-32). La prodigiosa fecondità della famiglia Salesiana, uno dei maggiori e più significativi fenomeni della perenne vitalità della Chiesa nel secolo scorso e nel nostro, ha avuto in Don Bosco l’origine, in Don Rua la continuità. È stato questo suo seguace, che fin dagli umili inizi di Valdocco, ha servito l’opera Salesiana nella sua virtualità espansiva, ha capito la felicità della formula, l’ha sviluppata con coerenza testuale, ma con sempre geniale novità. Don Rua è stato il fedelissimo, perciò il più umile ed insieme il più valoroso dei figli di Don Bosco.
 
UNA TRADIZIONE GLORIOSA
Questo è ormai notissimo; non faremo citazioni, che la documentazione della vita del nuovo Beato offre con esuberante abbondanza; ma faremo una sola riflessione, che noi crediamo, oggi specialmente, molto importante; essa riguarda uno dei valori più discussi, in bene ed in male, della cultura moderna, vogliamo dire della tradizione.
Don Rua ha inaugurato una tradizione. La tradizione, che trova cultori e ammiratori nel campo della cultura umanistica, la storia, per esempio, il divenire filosofico, non è invece in onore nel campo operativo, dove piuttosto la rottura della tradizione - la rivoluzione, il rinnovamento precipitoso, la originalità sempre insofferente dell’altrui scuola, l’indipendenza dal passato, la liberazione di ogni vincolo - sembra diventata la norma della modernità, la condizione del progresso, Non contestiamo ciò che vi è di salutare e di inevitabile in questo atteggiamento della vita tesa in avanti, che avanza nel tempo, nell’esperienza e nella conquista delle realtà circostanti; ma metteremo sull’avviso circa il pericolo e il danno del ripudio cieco dell’eredità che il passato, mediante una tradizione saggia e selettiva, trasmette alle nuove generazioni. Non tenendo nel debito conto questo processo di trasmissione, noi potremmo perdere il tesoro accumulato della civiltà, ed essere obbligati a riconoscerci regrediti, non progrediti, e a ricominciare da capo un’estenuante fatica. Potremmo perdere il tesoro della fede, che ha le sue radici umane in determinati momenti della storia che fu, per ritrovarci naufraghi nel pelago misterioso del tempo, senza più avere né la nozione, né la capacità del cammino da compiere. Discorso immenso, ma che sorge alla prima pagina della pedagogia umana, e che ci avverte, se non altro, quale merito abbia ancora il culto della sapienza dei nostri vecchi, e per noi, figli della Chiesa, quale dovere e quale bisogno noi abbiamo di attingere dalla tradizione quella luce amica e perenne, che dal lontano e prossimo passato proietta i suoi raggi sul nostro progrediente sentiero.
 
CI INSEGNA AD ESSERE DISCEPOLI D’UN SUPERIORE MAESTRO
Ma per noi il discorso, davanti a Don Rua, si fa semplice ed elementare, ma non per questo meno degno di considerazione. Che cosa c’insegna Don Rua? Come ha egli potuto assurgere alla gloria del paradiso e all’esaltazione che oggi la Chiesa ne fa? Precisamente, come dicevamo, Don Rua c’insegna ad essere dei continuatori; cioè dei seguaci, degli alunni, dei maestri, se volete, purché discepoli d’un superiore Maestro. Amplifichiamo la lezione che da lui ci viene: egli insegna ai Salesiani a rimanere Salesiani, figli sempre fedeli del loro fondatore; e poi a tutti egli c’insegna la riverenza al magistero, che presiede al pensiero e alla economia della vita cristiana. Cristo stesso, come Verbo procedente dal Padre, e come Messia esecutore e interprete della rivelazione a lui relativa, ha detto di Sé: «la mia dottrina non è mia, ma è di Colui che mi ha mandato» (Io. 7, 16). La dignità del discepolo dipende dalla sapienza del Maestro. L’imitazione nel discepolo non è più passività, né servilità; è fermento, è perfezione (Cfr. 1 Cor. 4, 16). La capacità dell’allievo di sviluppare la propria personalità deriva infatti da quell’arte estrattiva, propria del precettore, la quale appunto si chiama educazione, arte che guida l’espansione logica, ma libera e originale delle qualità virtuali dell’allievo. Vogliamo dire che le virtù, di cui Don Rua ci è modello e di cui la Chiesa ha fatto titolo per la sua beatificazione, sono ancora quelle evangeliche degli umili aderenti alla scuola profetica della santità; degli umili ai quali sono rivelati i misteri più alti della divinità e dell’umanità (Cfr. Matth. 11, 25).
Se davvero Don Rua si qualifica come il primo continuatore dell’esempio e dell’opera di Don Bosco, ci piacerà ripensarlo sempre e venerarlo in questo aspetto ascetico di umiltà e di dipendenza; ma noi non potremo mai dimenticare l’aspetto operativo di questo piccolo-grande uomo, tanto più che noi, non alieni dalla mentalità del nostro tempo, incline a misurare la statura d’un uomo dalla sua capacità d’azione, avvertiamo d’avere davanti un atleta di attività apostolica che, sempre sullo stampo di Don Bosco, ma con dimensioni proprie e crescenti, conferisce a Don Rua le proporzioni spirituali ed umane della grandezza. Infatti missione grande è la sua. I biografi ed i critici della sua vita vi hanno riscontrato le virtù eroiche, che sono i requisiti che la Chiesa esige per l’esito positivo delle cause di beatificazione e di canonizzazione, e che suppongono e attestano una straordinaria abbondanza di grazia divina, prima e somma causa della santità.
La missione che fa grande Don Rua si gemina in due direzioni esteriori distinte, ma che nel cuore di questo poderoso operaio del regno di Dio s’intrecciano e si fondono, come di solito avviene nella forma dell’apostolato che la Provvidenza a lui assegnò: la Congregazione Salesiana e l’oratorio, cioè le opere per la gioventù, e quante altre fanno loro corona. Qui il nostro elogio dovrebbe rivolgersi alla triplice Famiglia religiosa che da Don Bosco dapprima e poi da Don Rua, con lineare successione ebbe radice, quella dei Sacerdoti Salesiani, quella delle Figlie di Maria Ausiliatrice, e quella dei Cooperatori Salesiani, ognuna delle quali ebbe meraviglioso sviluppo sotto l’impulso metodico e indefesso del nostro Beato. Basti ricordare che nel ventennio del suo governo da 64 case salesiane, fondate da Don Bosco durante la sua vita, esse crebbero fino a 314. Vengono alle labbra, in senso positivo, le parole della Bibbia: «Qui vi è il dito di Dio!» (Ex. 8, 19). Glorificando Don Rua, noi rendiamo gloria al Signore, Che ha voluto nella persona di lui, nella crescente schiera dei suoi Confratelli e nel rapido incremento dell’opera Salesiana manifestare la sua bontà e la sua potenza, capaci di suscitare anche nel nostro tempo l’inesausta e meravigliosa vitalità della Chiesa e di offrire alla sua fatica apostolica i nuovi campi di lavoro pastorale, che l’impetuoso e disordinato sviluppo sociale ha aperto davanti alla civiltà cristiana. E salutiamo, festanti con loro di gaudio e di speranza, tutti i Figli di questa giovane e fiorente Famiglia Salesiana, che oggi sotto lo sguardo amico e paterno del loro nuovo Beato rinfrancano il loro passo sulla via erta e diritta dell’ormai collaudata tradizione di Don Bosco.

IN CRISTO OGNI ARMONIA E FELICITÀ
Poi le opere Salesiane si accendono davanti a noi illuminate dal Santo Fondatore e con novello splendore del Beato continuatore. È a voi che guardiamo, giovani della grande scuola Salesiana! Vediamo riflesso nei vostri volti e splendente nei vostri occhi l’amore di cui Don Bosco e con lui Don Rua e tutti i loro Confratelli di ieri e di oggi, e certo di domani, vi ha fatto magnifico schermo. Quanto siete a noi cari, quanto siete per noi belli, quanto volentieri vi vediamo allegri, vivaci e moderni; voi siete giovani cresciuti e crescenti in codesta multiforme e provvidenziale opera Salesiana! Come preme sul cuore la commozione delle straordinarie cose che il genio di carità di San Giovanni Bosco e del Beato Michele Rua e dei mille e mille loro seguaci ha saputo produrre per voi; per voi, specialmente, figli del popolo, per voi, se bisognosi di assistenza e di aiuto, di istruzione e di educazione, di allenamento al lavoro e alla preghiera; per voi, se figli della sventura, o confinati in terre lontane aspettate chi vi venga vicino, con la sapiente pedagogia preventiva dell’amicizia, della bontà, della letizia, chi sappia giocare e dialogare con voi, chi vi faccia buoni e forti facendovi sereni e puri e bravi e fedeli, chi vi scopra il senso e il dovere della vita, e vi insegni a trovare in Cristo l’armonia d’ogni cosa! Anche voi oggi noi salutiamo, e vorremmo tutti voi, alunni piccoli e grandi della gioconda studiosa e laboriosa palestra Salesiana, e con voi tanti vostri coetanei delle città e delle campagne, voi delle scuole e dei campi sportivi, voi del lavoro e della sofferenza, e voi delle nostre aule di catechismo e delle nostre chiese, sì, vorremmo tutti un istante chiamarvi sull’«attenti!», ed invitarvi a sollevare gli sguardi verso questo nuovo Beato Don Michele Rua, che vi ha tanto amati e che ora per mano nostra, la quale vuol essere quella di Cristo, a uno a uno, e tutti insieme vi benedice.
 
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Pratica: “Il nostro caro Gesù, venga a regnare nella mente e nel cuore di tutti gli uomini del mondo, e possa presto ripetersi in tutta l’estensione del suo significato il Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat” (Beato Michele Rua).
 
Preghiera: O Dio, sorgente di verità e giustizia, che nel beato Michele Rua hai dato alla tua Chiesa uno splendido esempio di virtù, fa’ che, imitandolo, possiamo resistere alle vane attrattive dei mondo, per camminare alla luce dei tuo Verbo, nell’umile e paziente servizio dei fratelli. Per Cristo Nostro Signore. Amen