1 Gennaio 2020

MARIA SANTISSIMA MADRE DIO - SOLENNITÀ

Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]:  Il Concilio in Efeso (431) ha proclamato che Maria è la Madre di Dio - Theotokos - e la fede della Chiesa trova la sua espressione nelle preghiere del giorno di oggi. Maria ha concepito l’Unigenito Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo e «sempre intatta nella sua gloria verginale ha irradiato sul mondo la luce eterna, Gesù Cristo nostro Signore», Datore della Vita. Maria è pervenuta ad una grande elezione, è stata dotata di privilegi particolari, ma tutti i doni li ha ottenuti in vista del suo ruolo nella storia della salvezza: ella porta al mondo il Salvatore. Maria, essendo Madre di Gesù quanto al corpo, è anche Madre del suo corpo mistico, è Madre della Chiesa: questo nuovo titolo è stato conferito a Maria durante il Concilio Vaticano II. I testi liturgici non si riferiscono all’inizio del nuovo anno, ma a Maria che medita nel suo cuore il mistero di Cristo e manifesta Cristo al mondo; essa indica ai credenti come devono vivere il dono del tempo.

Colletta: Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono. Per il nostro Signore Gesù Cristo...   

La Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, la prima festa mariana comparsa nella Chiesa occidentale, proclama il mirabile mistero della divina Maternità di Maria. Maria è vera Madre di Cristo, che è vero Figlio di Dio: una verità tanto cara al popolo cristiano. Nestorio aveva negato questa verità e sfrontatamente aveva dichiarato: “Dio ha dunque una madre? Allora non condanniamo la mitologia greca, che attribuisce una madre agli dèi”. San Cirillo di Alessandria però aveva replicato: “Si dirà: la Vergine è madre della divinità? Al che noi rispondiamo: il Verbo vivente, sussistente, è stato generato dalla sostanza medesima di Dio Padre, esiste da tutta l’eternità... Ma nel tempo egli si è fatto carne, perciò si può dire che è nato da donna”. Gesù, Figlio di Dio, è nato da Maria: è da questa eccelsa ed esclusiva prerogativa che derivano alla Vergine tutti i titoli di onore che le attribuiamo. Con il sì, Maria, si è consacrata totalmente al mistero della redenzione: “figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù e, abbracciando con tutto l’animo e senza peso alcuno di peccato la volontà salvifica di Dio, consacrò totalmente se stessa quale Ancella del Signore alla persona e all’opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione sotto di Lui e con Lui, con la grazia di Dio onnipotente” (Lumen gentium, 56). Ma la liturgia esalta anche la verginità feconda e l’umiltà di Maria e per questa sua virtù diventa per noi un modello affinché, imitandola accogliamo in noi il Verbo fatto uomo, nell’interiore ascolto delle Scritture e nella partecipazione più viva ai misteri della salvezza, onde poi testimoniarla con opere di giustizia e di santità, nella vita di ogni giorno.

Dal Vangelo secondo Luca 2,16-21: In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugi… Benedetto Prete (I Quatto Vangeli): veretto 16 Si avviarono quindi in fretta; si rileva come l’annunzio dell’angelo abbia messo nei pastori un vivo desiderio di andare a trovare il neonato Messia. L’espressione «in fretta» non indica tanto il camminare rapido e veloce quanto invece l’ardente e religioso desiderio di vedere un fatto meraviglioso noto soprannaturalmente. Tutta la frase più che un tratto descrittivo è una testimonianza della fede con la quale i pastori hanno accolto l’annunzio dell’angelo. Lo stesso rilievo era stato fatto per Maria, quando si recò a visitare la parente Elisabetta (cf. Lc., 1,39). Trovarono Maria, Giuseppe ed il bambino; «trovarono» può implicare anche una qualche ricerca; l’evangelista tuttavia è estremamente sobrio e non dice come i pastori poterono giungere al luogo dove si trovava il neonato fanciullo. Il messaggio dell’angelo tuttavia doveva contenere una comunicazione sufficientemente chiara per un orientamento al cammino di quei pii e docili pastori. Maria è ricordata prima di Giuseppe; a lei infatti è rivolta l’attenzione dell’evangelista. Il bambino che giaceva nella mangiatoia; questa precisazione è data per constatare la verità del segno indicato loro dall’angelo.
versetto 17 Quando l’ebbero veduto fecero conoscere ciò che...: l’evangelista, senza aver detto nulla dei sentimenti di quegli umili pastori alla vista del Messia, né aver aggiunto una breve parola di commento al fatto, li presenta già sulla via del ritorno. «Fecero conoscere»: quella gente semplice, tutta ammirata per la visione notturna avuta e per la visita compiuta al Messia, trovato in un luogo tanto umile, non riesce a tenere per sé le cose viste e sentite ma incomincia a divulgarle; le prime persone alle quali i pastori narrarono i fatti meravigliosi, di cui erano stati spettatori durante la notte, furono Maria e Giuseppe. Intorno a quel bambino; qui l’evangelista usa il termine παιδίον (letteral.: piccolo fanciullo), nel versetto precedente invece aveva scritto: βρέφος (neonato, infante); la differenza è semplicemente una variante stilistica. I pastori hanno notificato ciò che nell’apparizione dell’angelo avevano sentito intorno alle qualità di quel prodigioso bambino.

Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori… Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): La meraviglia delle persone che udirono (v. 18), un motivo letterario ricorrente nell'infanzia (1,21.63; 2,33), indica lo stupore ammirato per la nascita del Messia. In realtà, non dovette trattarsi di un fatto clamoroso. Infatti, non ha lasciato tracce in Israele: dal passo parallelo dei magi (Mt 2,1-12) risulta che Gerusalemme era completamente all'oscuro dell'evento prodigioso, e all'inizio del ministero pubblico Gesù appare uno sconosciuto. Maria è descritta come modello dell'ascolto della Parola: ella conservava queste cose (parole-evento), meditandole nel suo cuore (v. 19). L'espressione indica una riflessione assidua per «interpretare» il senso enigmatico delle cose accadute. Il verbo symbàllein, tradotto con «meditare», più propriamente significa «mettere accanto», «confrontare». Emerge quindi l'atteggiamento sapienziale della Vergine (cf. Sir 39,1-3; Pro 3,1; Sal 119,11), l'unica testimone nella chiesa primitiva degli eventi narrati, forse trasmessi da lei con discrezione a qualche confidente (cf. At 1,14). Il versetto conclusivo (v. 20) ribadisce il motivo della lode a Dio, caratteristico in Luca, e include il ritornello delle partenze.
Circoncisione e imposizione del nome (2,21): È un episodio di transizione, senza un particolare rilievo teologico; forse è ricordato da Le per simmetria con il racconto della nascita di Giovanni. L'unica accentuazione riguarda l'imposizione del nome, conforme al comando dell'angelo (1,31), per preludere alla futura missione salvifica di Gesù.

Maternità divina Catechismo degli Adulti 773: Fin dalle origini la dignità della divina maternità ha attirato l’attenzione e lo stupore della Chiesa. L’evangelista Luca onora Maria come la Madre del Signore, tenda della divina presenza, arca della nuova alleanza. I cristiani cominciano presto a invocarla come Madre di Dio. Lo attesta già una bella preghiera del III secolo: «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta». Più tardi, nel 431, il concilio di Efeso definisce che Maria è Madre di Dio. Ovviamente con ciò non intende affermare che Maria è stata principio della divinità, cosa evidentemente assurda; ma che ha generato nella sua umanità il Figlio eterno, che è vero Dio e veramente è diventato uomo. Per ogni donna la maternità comporta un legame personale permanente con il figlio. La maternità di Maria integra questa dimensione umana ordinaria in una comunione con Dio senza pari. Il Padre celeste le comunica lo Spirito di infinita tenerezza, con cui egli si compiace del Figlio generandolo nell’eternità; la fa partecipare alla propria fecondità perché il Figlio nasca anche nella storia, come uomo e come primogenito di molti fratelli. Madre di Dio è «il nome proprio dell’unione con Dio, concessa a Maria Vergine», «che realizza nel modo più eminente la predestinazione soprannaturale... elargita a ogni uomo». Maria vive questa grazia singolarissima con atteggiamento di accoglienza grata, amante e adorante, in modo simile a tutti i credenti, ma con una radicalità e pienezza inaudita. Questo è il suo modo di ricevere la Parola e di partecipare alla vita divina. Allo stesso tempo è il modo più sublime di attuare la femminilità, come accoglienza e donazione di vita.
774 «Vergine Madre di Dio, colui che il mondo non può contenere facendosi uomo si chiuse nel tuo grembo».

Maria vergine e madre, modello della Chiesa - Lumen Gentium 63: La beata Vergine, per il dono e l'ufficio della divina maternità che la unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant'Ambrogio, nell'ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo. Infatti nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine, la beata vergine Maria occupa il primo posto, presentandosi in modo eminente e singolare quale vergine e quale madre. Ciò perché per la sua fede ed obbedienza generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio, senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come una nuova Eva credendo non all'antico serpente, ma, senza alcuna esitazione, al messaggero di Dio. Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (cfr. Rm 8,29), cioè tra i credenti, alla rigenerazione e formazione dei quali essa coopera con amore di madre.
64 Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo; imitando la madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità.

Benedetto XVI (Omelia 1 Gennaio 2008): Il titolo di Madre di Dio è il fondamento di tutti gli altri titoli con cui la Madonna è stata venerata e continua ad essere invocata di generazione in generazione, in Oriente e in Occidente. Al mistero della sua divina maternità fanno riferimento tanti inni e tante preghiere della tradizione cristiana, come ad esempio un’antifona mariana del tempo natalizio, l’Alma Redemptoris mater con la quale così preghiamo: “Tu quae genuisti, natura mirante, tuum sanctum Genitorem, Virgo prius ac posterius – Tu, nello stupore di tutto il creato, hai generato il tuo Creatore, Madre sempre vergine”. Cari fratelli e sorelle, contempliamo quest’oggi Maria, madre sempre vergine del Figlio unigenito del Padre; impariamo da Lei ad accogliere il Bambino che per noi è nato a Betlemme. Se nel Bimbo nato da Lei riconosciamo il Figlio eterno di Dio e lo accogliamo come il nostro unico Salvatore, possiamo essere detti e lo siamo realmente figli di Dio: figli nel Figlio. Scrive l’Apostolo: “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli2 (Gal 4,4).
L’evangelista Luca ripete più volte che la Madonna meditava silenziosa su questi eventi straordinari nei quali Iddio l’aveva coinvolta. Lo abbiamo ascoltato anche nel breve brano evangelico che quest’oggi la liturgia ci ripropone. “Maria serbava queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Il verbo greco usato “sumbállousa” letteralmente significa “mettere insieme” e fa pensare a un mistero grande da scoprire poco a poco. Il Bambino che vagisce nella mangiatoia, pur apparentemente simile a tutti i bimbi del mondo, è al tempo stesso del tutto differente: è il Figlio di Dio, è Dio, vero Dio e vero uomo. Questo mistero - l’incarnazione del Verbo e la divina maternità di Maria - è grande e certamente non facile da comprendere con la sola umana intelligenza.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Vangelo).  
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Con la forza del sacramento che abbiamo ricevuto guidaci,
Signore, alla vita eterna, perché possiamo gustare
la gioia senza fine con la sempre Vergine Maria,
che veneriamo madre del Cristo e di tutta la Chiesa.
Per Cristo nostro Signore.



31 Dicembre 2019

MARTEDÌ VI GIORNO FRA OTTAVA DI NATALE

1Gv 2,18-21; Sal 95 (96); Gv 1,1-18

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che nella nascita del tuo Figlio hai stabilito l’inizio e la pienezza della vera fede, accogli anche noi come membra del Cristo, che compendia in sé la salvezza del mondo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Vangelo - In principio era il Verbo... Gesù è l’Icona perfetta del Padre, è il rivelatore del Padre, è il missionario del Padre: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.” (Gv 3,16). Gesù è il progetto del Padre: in Cristo “mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.” (Ef 1,7-10). Gesù è la Parola del Padre: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.” (Eb 1,1-2). Gesù “è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb1,1-3). Gesù viene nel mondo nella debolezza della carne e a chi lo accoglie da il potere di diventare figli di Dio: in Gesù il “mondo invisibile” si fa visibile e si dona alla contemplazione amorosa dell’uomo.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,1-18: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto - Henri van den Bussche (Giovanni): «Conoscere» per il semita comporta tutta la gamma delle azioni coscienti con una netta insistenza sull’aspetto sperimentale di queste azioni. L’orientale non è né filosofo né metafisico; per lui conoscere una persona comporta più di una conoscenza nominale, di una semplice identificazione; conoscere qualcuno è sapere ciò che rappresenta, ciò che vale. Una simile conoscenza impone un comportamento, un atteggiamento. Quindi conoscere Dio significa sapere ciò che Dio vale, è venerare la sua santità, la sua grandezza infinita. Conoscere Iahvé significa sapere ciò che possiamo attendere dal Dio dell’Esodo, la protezione condiscendente e duratura di Iahvé. Conoscere la luce è per san Giovanni riconoscerla come la luce definitiva, unica, valida per ogni uomo. Il lamento giovanneo si fa l’eco del lamento profetico: Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce nulla, il mio popolo non comprende nulla (Is. 1,3).
Egli è venuto tra i suoi e i suoi non l’hanno ricevuto. L’espressione greca (eis ta idia) traduce l’espressione ebraica «la sua casa propria» (beitho). Alcuni autori pensano che l’espressione «in casa sua» indichi il mondo che appartiene in proprio alla luce, perché essa lo ha creato. I suoi designerebbe allora i suoi sudditi, quelli che le appartengono perché essa li ha creati, tutti gli uomini. Ma se si osserva che nel pensiero di Giovanni il mondo indica il mondo giudaico, si può cogliere il crescendo del brano. Israele doveva conoscere Iahvé, riconoscerlo come Creatore ma soprattutto come il Dio dell’elezione e dell’alleanza. Il popolo di Israele è proprietà di Iahvé; nella formula dell’alleanza, Iahvé chiama Israele mio popolo. Però la venuta della luce tra i suoi ricorda non tanto gli avvenimenti dell’Esodo quanto la dimora della Sapienza divina in Israele. La luce non è venuta in un mondo estraneo, ma nel suo ambiente proprio, tra persone alle quali essa avrebbe dovuto essere familiare a motivo di una preparazione secolare al suo avvento. Ma, anch’essi, i familiari non l’accolsero (Gv 8,35).

A quanti però lo hanno accolto - Bibbia di Navarra (nota a Gv 1,12): Accogliere il Verbo vuol dire riceverlo con la fede, poiché è per mezzo della fede che Cristo dimora nei nostri cuori (cfr Ef 3,17). Credere nel Nome suo significa credere nella sua Persona, in Gesù che è il Cristo, il Figlio di Dio. In altri termini, i credenti nel suo Nome sono coloro che serbano integro il nome di Cristo, in maniera tale da non sottrarre alcunché alla sua natura divina o alla sua umanità” (SAN TOMMASO D’AQUINO, In Evangelium Ioannis expositio et lectura).
«Ha dato potere» equivale a dire “ha concesso” in virtù di un dono: la grazia santificante; infatui “non è in nostro potere diventare figli di Dio” (Ivi). Per mezzo del Battesimo questo dono viene esteso a tutti gli uomini senza limitazione di razza, di età, di cultura o altro (cfr At 10,45; Gal 3,28). L’unica condizione richiesta è la fede.
«Il Figlio di Dio si fece uomo - osserva sant’Atanasio - perché i figli dell’uomo, cioè i figli di Adamo, potessero diventare figli di Dio [...]. Cristo è Figlio di Dio per natura, mentre noi lo siamo per grazia» (De Incarnatione contro arianos, 8). Si tratta della nascita alla vita soprannaturale, nella quale “tutti fruiamo della medesima dignità: schiavi e liberi, Greci e barbari, sapienti e ignoranti, uomini e donne, fanciulli e vecchi, ricchi e poveri... Tanto grande è la forza della fede in Cristo, così possente è la grazia!» (Omelia sul Vangelo di san Giovanni, 10,2).
«L’unione di Cristo «con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione: di san Giovanni nel prologo del suo Vangelo: “Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio”. Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna (cfr Gv 4,14)» (Redemptor hominis, n. 18).

E il Verbo si è fatto carne - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): E il Verbo si è fatto carne; secondo il P. Boismard la congiunzione «e» lascia supporre che nel testo immediatamente precedente si parli del Verbo; ciò confermerebbe la posizione critica che egli accetta (la lettura: «... ma da Dio è generato»). La generazione del Verbo da Dio e la sua nascita da Dio preparerebbero, secondo questo esegeta, l’affermazione storica dell’apparizione del Verbo incarnato tra gli uomini (nascita terrestre). In verità la congiunzione «e» inizia la seconda sezione del Prologo. Carne; designa l’intera natura umana; il termine tuttavia accentua la condizione di mortalità e di debolezza in cui si trova l’uomo (cf. Genesi, 6,3; Isaia, 40,6; Salmo, 56 [55],5). Il Verbo assume la natura umana senza cessare di essere Dio; l’affermazione dell’autore esprime in forma inequivocabile la realtà dell’incarnazione (cf. 1Giov., 4,2; 2Giov.,7). Ha dimorato; in greco ἐσκήνωσεν, letteral.: «fissò la tenda», «dimorò sotto la tenda». Il verbo fa pensare alla piena realizzazione della presenza o abitazione di Jahweh nel tabernacolo (tenda) o nel tempio dell’antica alleanza (cf. Esodo, 25,8; Numeri, 35,34); l’idea indicata dal verbo greco si richiama a tutta una tradizione biblica che parla della presenza di Dio tra il popolo eletto e della sua presenza nella Gerusalemme dei tempi messianici (cf. Gioele, 4,17,21; Zaccaria, 2,14); nell’Ecclesiastico si trova un’ampia illustrazione della dimora della Sapienza in Israele, dimora che la Sapienza attua per mezzo della legge mosaica (cf. Ecclesiastico, 24,7-22). Vari esegeti pensano che l’evangelista abbia usato intenzionalmente il verbo σκηνόω perché richiama la radice verbale shakan, da cui deriva il sostantivo ebraico shekinah, che significa «abitazione» ed è una metonimia per designare Jahweh stesso. I rabbini ricorrevano a questa metonimia per motivi di riverenza religiosa, per evitare cioè l’impiego del nome ineffabile di Jahweh. Tra noi; l’espressione sottolinea con accento compiaciuto l’importanza ed il significato della presenza del Verbo tra gli uomini. Noi abbiamo veduto la sua gloria; «noi»: indica i testimoni oculari dell’attività e particolarmente dei miracoli di Gesù; l’evangelista insiste nel suo scritto sul valore della testimonianza (cf. anche 1Giov., 1,1). Per il Lamarche «noi» designerebbe il popolo ebraico. Abbiamo veduto; la formula non implica soltanto il fatto fisico e materiale del vedere le opere di Gesù, ma anche l’atto della fede che scopre al credente la natura divina di Cristo; infatti tra gli spettatori dei miracoli di Gesù, soltanto una parte ha veduto la «gloria» del Figlio di Dio (si richiami quanto è rilevato in Giov., 6,11-12 a proposito del miracolo della moltiplicazione dei pani). La sua gloria; nell’Antico Testamento una nube ricopriva lo splendore della gloria di Jahweh presente nel santuario (cf. Esodo, 40,34-35; 1Re, 8,10-13; Isaia, 6,1-4 ecc.); nel Nuovo Testamento invece il Figlio di Dio manifesta la propria «gloria». La «gloria» (δόξα) è un sostantivo caro al quarto evangelista e ne caratterizza lo scritto; il termine designa un attributo proprio di Dio e si ricollega a tutta una tradizione contenuta nell’Antico Testamento, secondo la quale la gloria si identifica con una manifestazione sensibile della presenza di Dio. In Cristo la «gloria» si rivela nelle opere divine che egli compie, nominatamente nei miracoli (cf. Giov., 2,11); tale gloria, come si è accennato, si rivela a coloro che credono (cf. Giov., 11,40). Gloria [che hacome unigenito dal Padre; «come»: greco ὡς; questa preposizione, tradotta dalla Volgata quasi, non ha valore comparativo, ma asseverativo; essa indica una qualità del soggetto e va intesa nel modo seguente: la gloria che è propria e compete all’Unigenito. «Unigenito»; μονογενής, è attribuito a Gesù soltanto dal quarto evangelista (cf. Giov., 1,14,18; 3,16j,18; 1Giov., 4,9); il sostantivò mette in evidenza il carattere singolare ed unico della figliolanza del Verbo (Figlio unico). Pieno di grazia e di verità, l’evangelista indica il seguente sviluppo di pensiero: il Logos si è fatto carne ed ha dimorato tra noi... pieno di grazia e di verità. L’aggettivo πλήρης, quantunque distante dal soggetto, che si trova all’inizio della frase, si riferisce ad esso, poiché tutte le affermazioni contenute nel vers. gravitano intorno al Logos. La proposizione è ridondante e sovraccarica; le parole: «e noi abbiamo veduto... dal Padre» costituiscono una parentesi. «Pieno di grazia e di verità»; i due sostantivi designano in modo compendioso tutti i benefici che il Verbo incarnato comunica agli uomini (cf. vers. 17). La formula espressiva «grazia e verità» deriva dal Vecchio Testamento (cf. Esodo, 34,6); tuttavia nel Prologo il senso della frase è molto più ricco; infatti là grazia e la verità (hesed we’emeth) non significano soltanto il favore e la fedeltà di Dio, ma il dono della vita e della verità sostanziale, fonte della rivelazione cristiana, dono che viene elargito ai credenti dal Verbo fatto uomo. La «grazia» (χάρις), termine frequentissimo in San Paolo, non ricorre più nel quarto vangelo; la «verità» (ἀλήθεια) invece diverrà uno dei temi più cari a Giovanni.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Sostieni, Signore, con la tua provvidenza
questo popolo nel presente e nel futuro,
perché con le semplici gioie che disponi sul suo cammino
aspiri con serena fiducia alla gioia che non ha fine.
Per Cristo nostro Signore.



30 Dicembre 2019

LUNEDÌ VI GIORNO FRA OTTAVA DI NATALE

1Gv 2,12-17; Sal 95 (96); Lc 2,36-40

Colletta: Dio grande e misericordioso, la nuova nascita del tuo unico Figlio nella nostra carne mortale ci liberi dalla schiavitù antica, che ci tiene sotto il giogo del peccato. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La profetessa Anna, molto avanzata in età, non annuncia alcuna nuova rivelazione, ma si mette a lodare Dio e a parlare del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. La liberazione messianica del popolo eletto (Lc 1,68; 24,21) interessava innanzi tutto la sua capitale (cf. Is 40,2; 52,9). Gerusalemme è per l’evangelista Luca il centro predestinato per l’opera salvifica (Lc 9,31.51.53; 13,22-23; 17,11; 18,31; 19,11; 24,47-49.24,52; At 1,8). La lode della profetessa Anna, modello della vedova giudea e cristiana, facendo eco al cantico di Simeone, permette all’evangelista Luca di chiudere il racconto della presentazione al Tempio con una nota gioiosa. La conclusione (vv. 39-40) ricorda ancora una volta la fedeltà dei genitori alla Legge. Poi c’è il ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret.

Dal Vangelo secondo  Luca 2,36-40: [Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.] C’era una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Maria e Giuseppe… - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): vv. 36-38 Alla presenza maschile nel tempio in attesa del Messia, Luca associa quella femminile, come fa spesso nel corso del suo libro. Per Anna si rifà a un ricordo storico, probabilmente trasmesso nella comunità di Gerusalemme. Anna aveva 84 anni; si può anche intendere che era rimasta vedova per 84 anni, dopo sette anni di convivenza matrimoniale. Siccome il matrimonio avveniva a 14 anni circa, sarebbe vissuta 105 anni (14+ 7 +84), l’età di Giuditta (Gdt 16,23), prototipo della donna forte, piena d’amor patrio. Luca forse vuole farne il modello per le vedove cristiane, molto onorate nella chiesa per il loro generoso servizio.
vv. 39-40 Due ritornelli, della partenza (v. 39) e della crescita di Gesù (v. 40), concludono l’episodio della presentazione. Il domicilio e la crescita di Gesù a Nazaret sono confermati dalla tradizione autonoma di Matteo (2,23). La sacra famiglia, secondo Luca, vi ritornò subito dopo la presentazione, cioè una quarantina di giorni dopo la nascita di Gesù a Betlemme. L’evangelista ne ignora la fuga e il soggiorno in Egitto (cf. Mt 2,14.23). Il ritornello della crescita corrisponde a quello che conclude la narrazione della nascita del Battista (1,80); ma viene accentuata la superiorità di Gesù, che era pieno di sapienza, ciò che viene comprovato dall’episodio seguente. La grazia indica la benevolenza di Dio in suo favore.

La profetessa Anna, «figlia di Fanuèle», riconosce nel bambino Gesù il Messia e per questo favore si mette «a lodare Dio e a parlare del bambino». Per molti, poiché il termine bambino non ricorre nel testo, la «traduzione l’aggiunge per evitare la strana ambiguità, che sembra identificare questo piccolo con Dio. Questa applicazione a Cristo di testi concernenti Jahve non è specifica di Luca, ma costante nel Nuovo Testamento per esprimere la divinità di Cristo» (René Laurentin).
Della tribù di Aser, l’ultima nel tradizionale elenco delle tribù d’Israele: in questo modo «tutte le tribù d’Israele, anche l’ultima, almeno nelle anime ben disposte e pie», riconoscono «in Gesù bambino il redentore di Israele» e ne divengono «apostole. Ecco il tocco finale di Luca in questo secondo trittico: è un monito a tutti gli israeliti ad aprirsi al Signore, e a noi cristiani a non stimarci sicuri della salvezza per il solo fatto che siamo nati nel nuovo Israele» (Giovanni Leonardi).

C’era una profetessa, Anna, … era poi rimasta vedova: P. Sandevoir: Sola (Bar 4,12-16), la vedova rappresenta un caso tipico di sventura (Is 47,9). La sua condizione rende manifesto un duplice lutto: a meno di contrarre un nuovo matrimonio, essa ha perduto la speranza della fecondità; è rimasta senza difesa.
1. L’assistenza alle vedove. - Come l’orfano e lo straniero, la vedova è oggetto di una particolare protezione da parte della legge (Es 22,20-23; Deut 14,28-29; 24,17-22) e di Dio (Deut 10,17s) che ascolta il suo lamento (Eccli 35,14s) e si fa il suo difensore e vendicatore (Sal 96,6-10). Guai a coloro che abusano della sua debolezza (Is 10,2; Mt 12,40 par.). Gesù, come Elia, restituisce a una vedova il suo unico figlio (Lc 7,11-15; 1 Re 17,17-24) e affida Maria al discepolo prediletto (Gv 19,26s). Nel servizio quotidiano della Chiesa primitiva, ci si preoccupa di sovvenire alle necessità delle vedove (Atti 6,1). Se non hanno più parenti (1Tm 5,16; cfr. Atti 9,36-39), la comunità deve assumersene la responsabilità, come esige la pietà autentica (Giac 1,27; cfr. Deut 26,1 s; Giob 31,16).
2. Valore riconosciuto alla vedovanza. - Già verso la fine del VT, si assiste alla nascita di una particolare stima per la vedovanza definitiva di Giuditta (Giudit 8,4-8; 16,22) e di Anna la profetessa (Lc 2,36s), consacrata a Dio nella preghiera e nella penitenza. In Giuditta balza agli occhi il contrasto tra la naturale debolezza e la forza attinta in Dio. Allo stesso modo Paolo, pur tollerando un secondo matrimonio, per evitare i pericoli di una cattiva condotta (1Cor 7,9.39), e arrivando fino ad auspicarlo per le giovani vedove (1Tim 5,13-15), considera però migliore la vedovanza (1Cor 7,8) e vi vede una provvidenziale indicazione della necessità di rinunciare al matrimonio (7,17.24). Infatti, la vedovanza, al pari della verginità, è un ideale spirituale che apre all’azione di Dio e libera per il suo servizio (7,34).
3. L’istituzione delle vedove. - Nella Chiesa, tutte le vedove devono essere irreprensibili (1Tim 5,7.14). Certune, veramente sole, libere da ogni impegno familiare e aliene da ogni dissipazione, si dedicheranno alla preghiera (5,5s). Esiste anche un impegno ufficiale alla vedovanza permanente (5,12). Vi sono ammesse solo vedove Che siano state sposate una volta sola e abbiano raggiunto i sessant’anni (5,9); è probabile che esercitassero funzioni caritative, perché dovevano fornire per il passato garanzie di dedizione (510). L’ideale proposto alle vedove all’ultima tappa della loro esistenza si riassume quindi nella preghiera, nella castità e nella carità. 

… si mise anche a lodare Dio - A. Ridouard: La lode cristiana - Nel suo movimento essenziale la lode rimane identica dall’uno all’altro testamento. Essa tuttavia è ormai cristiana, anzitutto perché è suscitata dal dono di Cristo, in occasione della potenza redentrice manifestata in Cristo. Per il senso della lode degli angeli e dei pastori a Natale (Lc 2,13s.20), nonché della lode delle folle dopo i miracoli (Mc 7,36s; Lc 18,43; 19,37); è pure il senso fondamentale dell’Hosanna della domenica delle palme (cfr. Mt 21,16 = Sal 8,2s), ed anche del cantico dell’agnello nell’Apocalisse (cfr. Apoc 15,3).
Alcuni frammenti di inni primitivi, conservati nelle lettere, rimandano l’eco di questa lode cristiana rivolta a Dio Padre, che ha già rivelato il mistero della pietà (1Tim 3,16), e farà rifulgere il ritorno di Cristo (1Tim 6,15s); lode che confessa il mistero di Cristo (Fil 2,5...; Col 1,15 ...), od il mistero della salvezza (2Tim 2,11ss), diventando così talvolta vera confessione della fede e della vita cristiana (Ef 5,14).
Fondata sul dono di Cristo, la lode del Nuovo Testamento è cristiana anche nel senso che sale a Dio con Cristo ed in Cristo (cfr. Ef 3,21); lode filiale sull’esempio della preghiera stessa di Cristo (cfr. Mt 11,25); lode rivolta anche direttamente a Cristo in persona (Mt 21,9; Atti 19,17; Ebr 13,21; Apoc 5,9). In tutti i sensi è giusto affermare: ormai la nostra lode è il Signore Gesù.
Fiorendo così sulla base della Scrittura, la lode doveva sempre rimanere primordiale nel Cristianesimo, ritmando la preghiera liturgica con gli Alleluia ed i Gloria Patri, animando gli spiriti in preghiera sino a permearli ed a trasformarli in una pura «lode di gloria» (cfr. Ef 1,12).

Quando ebbero adempiuto ogni cosa - Carlo Ghidelli (Luca): 39-40: Si ricompone, a questo punto, la famiglia di Maria, Giuseppe e Gesù nella loro casa di Nazaret e si conclude così la storia dell’infanzia di Gesù in senso stretto. Matteo ci ragguaglia circa altri fatti intervenuti prima del ritorno alla loro città (la visita dei Magi, la strage degli innocenti e la fuga in Egitto). Luca ha davanti a sé uno schema letterario al quale vuol rimanere fedele e al quale ha annesso un significato teologico, che a noi è dato ancor oggi riscoprire, sia pure a prezzo di attente analisi. Per questo, con estrema sobrietà, cerca di ricomporre la narrazione, per preparare l’episodio finale ed estremamente significativo, quello del ritrovamento di Gesù fra i dottori nel tempio.
Il v. 40 richiama da un lato 1,80 e anticipa dall’altro 2,41-52: si delinea così quel grande ideale della vita nascosta di Gesù a Nazaret, dove egli viveva sottomesso ai suoi, ma soprattutto dedito a quella formazione totale e globale che doveva fare di lui un uomo perfetto, un predicatore instancabile, un araldo intrepido, un testimone fedele, un martire invitto. Cresceva significa sviluppo fisico del fanciullo; sapienza indica la maturazione psicologica, essendo Gesù, come uomo, soggetto allo sviluppo psichico mediante l’acquisizione di nuove esperienze e mediante gli incontri con le persone; grazia sta ad indicare la compiacenza di Dio ed il favore degli uomini verso Gesù, che cresceva e si fortificava (v. 40): due espressioni equivalenti, queste, con cui si vuol sottolineare l’armonioso sviluppo fisico, psichico e spirituale di Gesù.

Anna era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni - Paolo Curtaz: Come Simeone, anche Anna, un’anziana vedova a servizio del tempio, vede il bambino, e il suo cuore si riempie di Gioia. Simeone e Anna rappresentano tutte le persone che, con semplicità e fedeltà, seguono il Signore, nelle nostre parrocchie, prestando qualche servizio, partecipando ogni giorno alle celebrazioni. Il Signore accetta anche questo tipo di presenza, gradisce queste persone che rappresentano lo zoccolo duro delle nostre povere comunità. E dice: anche vivendo la fedeltà con abitudine, senza grandi eventi, possiamo accogliere il Signore nel suo Natale. Dio chiede di essere accolto, di nascere nel cuore di ogni discepolo, di ogni uomo: i giorni che stiamo vivendo ci aiutano a spalancare il nostro cuore e la nostra vita alla fede del Dio che viene. Paradossalmente, dopo duemila anni di cristianesimo, il rischio è quello di anestetizzare il Natale di stravolgerne il significato, di renderlo insopportabile, inutile. Le persone che soffrono, che vivono sole, vivono il Natale come una festa infinitamente dolorosa. A loro, invece, Dio dice che sono i privilegiati, i prescelti, coloro che possono riconoscere il Dio fattosi povero.

 Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Anna è “profetessa”, donna saggia e pia che interpreta il senso profondo degli eventi storici e del messaggio di Dio in essi celato. Per questo può “lodare Dio” e parlare “del Bambino a tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). La lunga vedovanza dedita al culto nel tempio, la fedeltà ai digiuni settimanali, la partecipazione all’attesa di quanti anelavano il riscatto d’Israele si concludono nell’incontro con il Bambino Gesù» (Benedetto XVI).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che edifichi la tua Chiesa per mezzo dei sacramenti,
suscita in noi nuove energie di vita,
perché il dono ricevuto ci prepari a riceverlo ancora.
Per Cristo nostro Signore.




29 Dicembre 2019

DOMENICA FRA OTTAVA DI NATALE

SANTA FAMIGLIA

Sir 3,3-7.14-17a; Sal 127 (128); Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23


Colletta: O Dio, nostro creatore e Padre, tu hai voluto che il tuo Figlio, generato prima dell’aurora del mondo, divenisse membro dell’umana famiglia; ravviva in noi la venerazione per il dono e il mistero della vita, perché i genitori si sentano partecipi della fecondità del tuo amore, e i figli crescano in sapienza, età e grazia, rendendo lode al tuo santo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura: Il testo del Siracide sottolinea che i figli che onorano i genitori sono benedetti da Dio, questo significa che per tanto amore filiale saranno esauditi nel giorno della loro preghiera e vivranno a lungo. L’osservanza del quarto comandamento, «onora tuo padre e tua madre», non solo è fonte di benedizioni celesti, ma è anche espiazione dei peccati e dà sicurezza di avere gioia dai propri figli e di non essere dimenticati da Dio.

Salmo: “La tua sposa, come vite feconda... Quanti concepiscono una Gerusalemme spirituale e sanno che è celeste, che scende dall’alto, che è nostra madre, vedranno realizzate le benedizioni di questo salmo. La sposa spirituale è la Sapienza” (Origene, In Luc., 39).

II Lettura: San Paolo nella seconda lettura indica alcune virtù proprie del cristianesimo, che per loro natura sono adatte a mantenere la fraternità in Cristo e a favorirla: la misericordia, la bontà, l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza, soprattutto il perdono, sull’esempio del Signore Gesù Cristo. Infine, i rapporti familiari, sia degli sposi fra loro, sia dei genitori con i loro figli e viceversa, devono svolgersi nel più autentico spirito cristiano, «come si conviene nel Signore» Gesù.

Vangelo: Giuseppe fugge con «il bambino e sua madre» in Egitto, il più agevole luogo di rifugio per gli abitanti della Palestina quando su di loro sovrastava qualche minaccia. Matteo applica la profezia di Osea (11,1) a Gesù, perché «secondo la credenza generalizzata del giudaismo, il tempo del Messia avrebbe riattualizzato il tempo di Mosè. L’evangelista, quindi, afferma che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio per eccellenza, che subisce la stessa sorte del popolo che viene a salvare» (F. F. Ramos). Morto il re Erode, Giuseppe fa ritorno «nel paese d’Israele» scegliendo, per prudenza, di stabilirsi a Nazareth, fuori dalla giurisdizione di Archelao, erede di Erode. Anche qui Matteo fa cenno a una profezia, ma non è chiaro a quale oracolo faccia allusione. Si può pensare a nazîr di Gdc 13,5.7 o a neçer, «virgulto», di Is 11,1. Sembra che Matteo voglia affermare che Gesù, derivando da Nazaret il titolo di nazareno, ha anche meritato quello di virgulto, apparendo così suscitatore di speranza messianica. È da ammirare la docilità di Giuseppe alla volontà di Dio, per questo Matteo ama chiamarlo uomo «giusto» (1,19).

Dal Vangelo secondo Matteo 2,13-15.19-23: I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».  Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

I Magi erano appena partiti - Felipe F. Ramos: Il nostro testo riflette non solo quello che avvenne al momento della nascita di Gesù, ma anche la situazione che viveva la Chiesa quando fu scritto il vangelo di Matteo. Una delle accuse giudaiche contro i cristiani era questa: che Gesù aveva praticato la magia che aveva appresa in Egitto. Il nostro racconto ribatte decisamente quest’accusa dimostrando che Gesù era stato bensì in Egitto, ma quando era neonato e che l’accusa era priva di valore. Abbiamo dunque, qui, un racconto apologetico.
A grandi uomini dell’antichità furono attribuite simili storie di crudele persecuzione con l’intento di eliminarli.
Così avvenne a Romolo e Remo, ad Augusto, a Sargon e a Ciro. E qui appunto troveremmo il tenore leggendario della nostra storia. Ma il nostro autore si eleva al di sopra della leggenda, non ricordando l’eco di eroi pagani, ma di Mosè, il fondatore dell’antico popolo di Dio. Un faraone empio tentò d’eliminare anche lui. Così Matteo appagò il suo desiderio di presentare Gesù come un novello Mosè, cosa che dovrà essere tenuta presente in altre circostanze del vangelo.
Abbiamo così raggiunto il fine teologico di questa lettura: Gesù è il novello Mosè e subisce la sua stessa sorte: è perseguitato e deve fuggire (Es 4,19). Ma il contenuto teologico non si ferma qui: nel ritorno di Gesù in Palestina, si adempie la Scrittura che dice: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». La citazione è presa dal profeta Osea (11,1) e, originariamente, si riferiva all’uscita di Israele dall’Egitto: «Israele è il mio figlio primogenito» (Es 4,22). Matteo applica la citazione a Gesù, perché, secondo la credenza generalizzata nel giudaismo, il tempo del Messia avrebbe riattualizzato il tempo di Mosè. L’evangelista, quindi, afferma che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio per eccellenza, che subisce la stessa sorte del popolo che egli viene a salvare.

La famiglia in tutti i popoli è la pietra angolare della società. In Israele, uniti dai legami della più stretta solidarietà, i membri della famiglia formano un solo corpo e una sola anima. Secondo una espressione molto conosciuta nella sacra Scrittura, ciascuno è «l’osso e la carne» di coloro che gli sono apparentati (Gen 2,23; 29,14; 37,27; 2Sam 5,1; 19,13). Gesù manifesta palesemente tutto il suo interesse per la famiglia. Per sant’Agostino il fatto che Egli «abbia accettato l’invito e sia andato alle nozze [di Cana], è una conferma che egli è l’autore del matrimonio». Per quanto riguarda il divorzio Egli si pone al di sopra di ogni controversia e di ogni scuola del suo tempo e rifacendosi alle intenzioni di Dio nella creazione dell’uomo e della donna lo condanna con fermezza. Per Gesù il matrimonio rientra nel disegno primordiale di Dio, il quale non prevede alcuna eccezione alla indissolubilità, proprio perché questa è iscritta nella natura dell’uomo e della donna in quanto esseri complementari. La disposizione mosaica circa il divorzio (Dt 24,1ss) aveva valore transitorio e dimostrava non tanto un’accondiscendenza di Dio, quanto la durezza di cuore degli ebrei, chiusi alle esigenze dell’autentica volontà di Dio. Come conseguenza, il divorzio, con passaggio ad altre nozze, è semplicemente adulterio e l’adulterio è espressamente proibito dal sesto comandamento (Es 20,14; Dt 5,18). Gesù non si è mai discostato da questi insegnamenti proprio per difendere l’integrità della famiglia. E così fa la Chiesa.

Gesù nato e vissuto in una famiglia umana ne rispetta la struttura e le leggi che le tradizioni del suo popolo avevano formato. Con la Madre e i discepoli, partecipa a Cana alle nozze di due giovani, forse parenti o amici (Gv 2,1-2), intendendo «così dimostrare quanto la verità della famiglia sia iscritta nella Rivelazione di Dio e nella storia della salvezza» (Giovanni Paolo II). Ai farisei Gesù ricorda il comandamento che impone il rispetto dei genitori, rifacendosi all’insegnamento della Legge (Mc 7,9-13) e che loro trascuravano. Insegna con forza l’unità e l’indissolubilità del matrimonio (Mt 18,1-12). Nella sua parola «emerge la figura del padre, come garante fondamentale della famiglia [...]. In molte parabole, il protagonista è il capo della «casa», il pater familias. La chiamata ad entrare nel regno è assimilata all’invito che fa un padre che prepara le nozze del figlio [Mt 22,2]; la vigilanza nell’attesa del regno ha come riscontro l’atteggiamento del padre che veglia sulle sorti della sua casa [Mt 24,43], e il giudizio escatologico è paragonato ad un padre che trae dal patrimonio familiare cose vecchie e nuove [Mt 13,52]» (B. Liverani). Tanto era importante la famiglia per i cristiani della prima ora che essa viene descritta come il primissimo luogo nel quale si svolgevano le celebrazioni liturgiche e come nucleo centrale della vita della comunità (cfr. At 2,46; 16,15). Oggi a pagare per le tante famiglie disastrate sono i giovani. L’eclissi della famiglia dalla scena dei valori ha spinto i giovani ad affidarsi, per la loro formazione, a realtà surrogate che si sono dimostrate scuole alienanti e deformanti con danni a volte irreversibili. Non si risolve il problema con le perizie psichiatriche, ma ricostruendo la famiglia. L’educazione spetta innanzi tutto alla famiglia, che è «una scuola di umanità più ricca» (GS 52). Dire sì alla famiglia significa riconquistare il diritto all’educazione e aprire il mondo alla vita. 

Famiglia ed Eucarestia - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): La Chiesa riattualizza il mistero della santa Famiglia specialmente nell’Eucaristia, che è per l’appunto il sacramento nel quale vengono stretti i vincoli dell’amore, della pace, della felicità familiare e sociale. Coloro che partecipano con le dovute disposizioni alla celebrazione eucaristica ottengono di rivestirsi di misericordia, bontà e di tutti gli altri sentimenti raccomandati da san Paolo, e ricevono la forza di agire secondo le indicazioni della legge divina. Nell’Eucaristia, soprattutto, la famiglia può elevare, nel più perfetto dei modi, il suo rendimento di grazie a Dio Padre per mezzo di Cristo, come dice ancora san Paolo nella seconda lettura.
L’Eucaristia è il banchetto che vede riuniti alla mensa del Signore i membri di ogni famiglia autenticamente cristiana e fa prendere maggiormente coscienza del loro inserimento nella più grande famiglia di Dio, quella costituita dalla Chiesa. È soprattutto all’altare che essi stringono la comunione con Cristo e, mediante la luce e la forza compaginante dello Spirito Santo, sperimentano l’esigenza dell’unità mistica e della fraternità spirituale fra i cristiani.
Il patto, la mutua donazione, la complementarietà, la cooperazione, l’amore fra coniugi e, su altro piano, fra i diversi membri della famiglia cristiana entrano nell’ordine della salvezza in quanto sono segni espressivi del patto, della mutua donazione, della complementarietà, della cooperazione e dell’amore intercorrenti fra Cristo e la Chiesa. Ma questi rapporti fra Cristo e la Chiesa caratterizzano anche l’Eucaristia, nella quale si rinnova, fra lo Sposo divino e la sua Sposa, l’alleanza e la donazione mutua: «corpo dato» «sangue versato» per voi e per tutti - Lc 22, 19; la Chiesa offre a Dio tutta se stessa.
L’Eucaristia dunque esprime la realtà fondante del matrimonio-sacramento e della famiglia cristiana e, in quanto segno specificamente sacramentale e quindi produttivo, la rinvigorisce, la ricostruisce, l’alimenta, la purifica, la rende luminosa ed edificante anche per gli altri.
La partecipazione all’Eucaristia «diventa inesauribile sorgente del dinamismo missionario ed apostolico della famiglia cristiana» (Esortaz. apost. «Familiaris consortio» di Giovanni Paolo II del 22 nov. 1981, n. 57) ed anche della sua capacità di rinnovamento della società e di sviluppo della Chiesa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** L’educazione spetta innanzi tutto alla famiglia, che è «una scuola di umanità più ricca».
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Padre misericordioso, che ci hai nutriti alla tua mensa,
donaci di seguire gli esempi della santa Famiglia,
perché dopo le prove di questa vita
siamo associati alla sua gloria in cielo.
Per Cristo nostro Signore.