1 SETTEMBRE 2019

XXII Domenica T. O. - Anno C

Sir 3,19-21.30.31 (NV) [gr. 3,17-20.28-29]; Sal 67 (68);
Eb 12,18-19.22-24a; Lc 14,1.7-14


Colletta: O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, fa’ che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Prima Lettura - Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso... Il libro del Siracide prende nome dal suo autore, un ebreo di Gerusalemme chiamato «Gesù figlio di Sirach, figlio di Eleàzaro» (Sir 50,27), maestro di sapienza e appassionato studioso della Legge di Dio. Per l’autore di questo libro sapienziale, l’umiltà viene da Dio ed è un dono che il Signore largisce ai suoi amici. Un dono da ricercare perché soltanto l’umile sarà ricolmato dei favori divini: «Numerosi sono gli uomini alteri e superbi, ma agli umili (Dio) rivela i suoi segreti». ([19] greco 248 e sin). L’umile, vivendo modestamente, glorifica Dio con la sua vita. L’umiltà, che è verità e conoscenza dei propri limiti, indica la vera posizione dell’uomo davanti a Dio sia come creatura che come peccatore. Nel libro è sottolineato anche il valore preziosissimo dell’elemosina: oltre ad essere una fonte di retribuzione divina è anche un tesoro che viene depositato in Cielo (Cf. Mt 6,2-4; Lc 12,21.33ss).

Salmo Responsoriale - Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora: «È bello e salutare visitare gli orfani e le vedove, in particolare quelle povere e aggravate da figli; ma soprattutto i nostri familiari nella fede che sono in bisogno: la loro vita splende e riluce agli occhi dei servi di Dio che sono veramente al servizio della verità. Ed è anche conveniente e bello che i fratelli in Cristo visitino quelli che sono tormentati dagli spiriti cattivi... Rechiamoci dunque dal fratello o dalla sorella ammalati e visitiamoli come si conviene, senza inganno, senza desiderio di guadagno, senza strepito né chiacchiere, senza rivestirci di una falsa pietà e senza superbia; ma con lo spirito umile e sommesso di Cristo» (Pseudo Clemente).

Seconda Lettura - La lettera agli Ebrei mette a confronto le due alleanze: quella Antica e quella Nuova. L’Antica è simboleggiata dal monte Sinai dove Dio si manifestò al suo popolo con segni terrificanti che resero impossibile la visione del suo volto. Nella Nuova Alleanza, simboleggiata dal monte Sion, Dio si manifesta nella debolezza della carne umana (Gv 1,14). Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo, è l’unico Mediatore di questa Nuova Alleanza e anche via pacifica e amabile attraverso la quale l’uomo arriva alla contemplazione del volto del Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). La Nuova Alleanza a differenza dell’Antica, è eterna ed immutabile perché sancita nel sangue del Figlio Unigenito, Cristo Gesù.

Vangelo - Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto… Gesù vuole che i suoi discepoli siano umili, piccoli, «poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il bene va fatto senza alcuna mira di contraccambio umano e l’amore verso i poveri e gli ultimi deve essere schietto, sincero ad imitazione di Dio che è «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 67,6). Solo agli umili Dio rivela i segreti del Regno (Cf. Mt 11,25 ) e ad essi mostra il suo volto.

Dal Vangelo secondo Luca 14,1.7-14: Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Gesù è sotto lo sguardo di tutti, ma Egli non è da meno: osservando e notando come i notabili cercano di accaparrarsi i primi posti, propone ai commensali una lezione sulla virtù dell’umiltà: parole severe, ma scontate in quanto non fanno che svelare l’ipocrisia e la vanità degli scribi e dei farisei notoriamente affamati di lodi, di onori e inoltre amanti dei primi posti (Cf. Mt 23,1-12).
Gesù «vuol mettere in luce che tutti i presenti, invitante ed invitati sono una massa di cafoni, pieni di pregiudizi egoistici, di banali arrivismi e di preoccupazioni gerarchiche. Gesù con le sue nette affermazioni vuole smantellare i pregiudizi mettendo a nudo i loro sentimenti. A parte la questione delle precedenze imposte dal galateo e dalle tradizioni giudaiche, in fondo si tratta anche di non cadere nel ridicolo. C’è sempre tanta ambizione e tanto arrivismo nella società di tutti i tempi: contro di essi Gesù oppone un caloroso invito all’umiltà» (C. Ghidelli).
Seguendo l’insegnamento della sacra Scrittura, l’umiltà, che Gesù addita ai commensali, oltre ad essere una virtù morale è un modo di essere: una «posizione della creatura di fronte al creatore, del peccatore di fronte al redentore» (I. M. Danieli). E nella logica evangelica solo «chi si umilia sarà esaltato» da Dio (Cf. Lc 18,9-14).
È l’insegnamento che Gesù non si stanca di proporre ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,1-4).
Farsi umili, diventare come bambini, significa disporsi ad accettare d’essere dipendenti senza sentirsi feriti nel proprio orgoglio. Nella vita cristiana questo è molto importante perché spalanca il credente al mistero della comunione con i fratelli e con Dio. Essere umili-bambini non significa farsi più piccoli di quel che si è, ma fare la verità in se stessi; significa sapere stimare colui con il quale si condivide un cammino di vita e comprendere quanto veramente si è piccoli di fronte a Dio.
Gesù ha percorso questo cammino, umiliando se stesso e facendosi ubbidiente alla volontà del Padre fino alla morte di croce (Cf. Fil 2,5ss). Così ammaestrato, e dinanzi a tale modello divino, il discepolo serve il suo Signore con le opere e con il dono della sua vita senza ritenerlo un merito, ma un dovere: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).

Quando offri un pranzo poveri, storpi, zoppi, ciechi…  - Rinaldo Fabris (Il Vangelo di Luca): [...] il secondo insegnamento prende lo spunto da quanto capita normalmente: le relazioni sociali tra gruppi e classi sono espresse e rinsaldate mediante festini, conviti, ricevimenti. Anche in questo caso Gesù non propone semplicemente una nuova regola, stravagante ed estrosa. Un festino per i poveri, i disgraziati e gli esclusi dai ranghi sociali lo si può anche fare ogni tanto, soprattutto se esso dà lustro e fama di beneficenza. Oltretutto è un buon alibi per la falsa coscienza. L’evangelo invece suggerisce un criterio alternativo per le relazioni sociali nella loro globalità. In altre parole vuole che le nostre scelte siano motivate non più dal criterio delle caste, della mafia o del clan socio-economico o culturale, ma da un criterio di decentramento reale. La scelta dei poveri non può essere fatta sulla base di un tatticismo astuto o di un’abile demagogia. Scegliere i poveri, quelli che non contano, vuol dire sposare in pieno la loro causa. Con quali prospettive? Non ci sono né ci possono essere per il vangelo secondi fini. La beatitudine e la prospettiva della «risurrezione dei giusti», cioè il futuro promesso da Dio, è l’unica prospettiva che rende completamente libero il discepolo di impegnarsi coi poveri senza cedere al rischio di strumentalizzarli.

... e sarai beato - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Invita i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi; sono elencati quattro tipi di infelici, come nel versetto precedente erano state nominate quattro specie di invitati. «I poveri» figurano per primi poiché per Luca la povertà è una caratteristica ed una condizione fondamentale per l’appartenenza al regno del cielo.
Allora sarai beato; l’espressione svela l’autentico senso religioso di questo singolare ammaestramento del Redentore; la vera beatitudine consiste nel dar prova di un amore disinteressato che si compiace di esser generoso con i più infelici e diseredati, i quali non possono dar nulla in ricompensa del bene ricevuto. Questo elevato insegnamento riprende e completa quello già riferito dall’evangelista in un testo precedente (cf. Lc., 6,32-34). Nella risurrezione dei giusti; cioè: alla risurrezione avrai parte con i giusti; l’espressione designa la vita beata ed eterna. Non bisogna fraintendere la presente dichiarazione evangelica, quasi che in essa si parli di una risurrezione riservata unicamente ai buoni, come ritenevano alcuni gruppi di Ebrei e come è attestato da affermazioni conservate negli scritti rabbinici. Per i giusti la risurrezione è piena di speranza, poiché introduce nella vita futura beata; essa quindi è ricordata come la più grande ricompensa riservata a coloro che hanno accolto gli insegnamenti di Cristo. Per la risurrezione universale si vedano i testi di Lc., 11,31-32; Mt., 12,41-42; Mc., 12,26. La dottrina racchiusa in questi pochi versetti è di notevole rilievo per il messaggio evangelico, poiché insiste sull’unico e superiore motivo - la carità disinteressata – al quale deve ispirarsi l’azione del discepolo di Gesù. La forma con cui tale dottrina è proposta rivela il metodo scelto dal Maestro nell’illustrare le verità più elevate e più caratteristiche del suo messaggio; Gesù, rifacendosi ad osservazioni semplici e quotidiane, che non sfuggono nemmeno allo sguardo più superficiale, sa elevare gli ascoltatori ad insegnamenti di alta spiritualità che aprono prospettive superiori ed inducono ad un’azione fruttuosa per la vita eterna.

 L’umiltà ed i suoi gradi - M-F Lacan: L’umiltà biblica è anzitutto la modestia che si oppone alla vanità. Il modesto, alieno da pretese irrazionali, non si fida del proprio giudizio (Prov 3,7; Rom 12,3.16; cfr. Sal 131,1). L’umiltà, che si oppone all’orgoglío, sta ad un livello più profondo; è l’atteggiamento della creatura peccatrice dinanzi all’onnipotente ed al tre volte santo; l’umile riconosce di aver ricevuto da Dio tutto ciò che ha (1Cor 4,7); servo senza valore (Lc 17,10), da sé non è nulla (Gal 6,3), se non un peccatore (Is 6,3ss; Lc 5,8). Questo umile che si apre alla sua grazia (Giac 4,6 = Prov 3,34), Dio lo glorificherà (1Sam 2,7s; Prov 15,33). Incomparabilmente più profonda ancora è l’umiltà di Cristo che col suo abbassamento ci salva, ed invita i suoi discepoli a servire i loro fratelli per amore (Lc 22,26s), affinché in tutti sia glorificato Dio (1Piet 4,10s).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.

 

 





31 AGOSTO 2019

Sabato XXI Settimana T. O.

1Ts 4,9-11; Sal 97 (98); Mt 25,14-30

Colletta: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

È inutile continuare a minimizzare o a trovare pezze di appoggio per giustificare una vita infeconda, ipocrita, ammantata soltanto di una labile vernice di cristianesimo; è inutile perché la Parola è a tutto tondo: Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Molti hanno un buon mestiere: quello del voltagabbana, in Chiesa pii e devoti, fuori cani arrabbiati alla ricerca dell’osso da spolpare, e, se c’è bisogno, strapparlo, anche con la forza e la prepotenza, dai denti del vicino, del compagno, dell’amico, del coniuge. Si dice di essere cristiani quando è conveniente, e, spesso per facciata, come il maritarsi in Chiesa, o portare la prole al fonte battesimale, o accompagnare la figlia all’altare, magari commossi e con pancia e petto all’infuori. Ma quando c’è di fare soldi, di impinguare il conto corrente, o spassarsela in qualche isola sperduta con qualche bella fanciulla lasciando a casa figli, nipoti e coniuge, allora si diventa tutt’altro. La scusa del servo malvagio e pigro può trovare un appiglio: aveva paura di sbagliare e aveva paura del castigo conoscendo la severità del padrone. Ma oggi così è? Abbiamo paura dei castighi del padrone? Tradotto in altre parole, molti cristiani, oggi, non credono più alla severità del padrone, d’altronde l’Inferno non esiste oppure è vuoto, e poi il padrone è buono e perdona tutto e tutti, e quindi, con grande faccia tosta, continuano a nascondere sotto terra i loro talenti. E così, oltre ad essere voltagabbana e infingardi, sono pure ingrati calpestando e sciupando i doni di Dio. Ma alla fine tutti ci presenteremo al tribunale di Dio [...], quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio (Rm 14,10-12).

Dal Vangelo secondo Matteo 25,14-30: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone
.  Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.  Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetti 28-29: Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13,12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni. Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13, 12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.
versetto 30: Al primo servo fedele ed attivo è dato anche il talento del servitore infingardo. Questo gesto del padrone scopre maggiormente il vero senso del racconto. Il servo attivo ha una grande ricompensa ed è associato sempre di più agli interessi del padrone. Secondo la prospettiva della parabola risulta che il servitore di Cristo riceve maggiore autorità e responsabilità nel governo del regno (cf. Lc., 16,12). A chiunque ha, sarà dato... a chi invece non ha, sarà tolto anche ciò che ha; il proverbio, espresso in forma paradossale, spiega la risoluzione del padrone di togliere il talento al servo infingardo per affidarlo a quello attivo (cf. 13,12); queste parole possono anche svelare un aspetto dell’economia divina nelle anime: Dio moltiplica le sue grazie a coloro che le apprezzano e sfruttano; le ritira invece da quelli che se ne mostrano indegni.

Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha:  Rosalba Manes (Vangelo secondo Matteo): A chi ha, sarà dato nell’abbondanza (quell’abbondanza promessa in Mt 13,12), che vuol dire che solo chi non teme di coinvolgersi nella dinamica del dono può crescere. A chi non ha, invece, viene tolto tutto, perché reticente al dono e pago solo di se stesso. Il talento viene tolto al servo per darlo a colui che aveva raddoppiato i suoi cinque. Solo chi è senza paura cresce e fa crescere. Quanto al servo pauroso e pigro, il padrone lo fa cacciare nelle tenebre e lo abbandona alla disperazione (v. 30, cf Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51), espressione di un’esistenza non riuscita, non giunta alla pienezza che il messia è venuto a portare. Il servo pigro appare quindi in profonda antitesi con lo stile del regno dei cieli, realtà estremamente dinamica. In tutte le parabole del regno si è confrontati all’idea del portare frutto, del crescere, di una “sporgenza di un di più” che mal si accorda con la logica del calcolo e il bisogno di sicurezza. Chi vuole trattenere, perde. Nulla cresce se non si dona e ciò che si conserva muore.

E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti -  Liselotte Mattern: Tutto il Nuovo Testamento parla del giudizio di Dio. Il momento esatto della venuta del giudizio di Dio non lo si può calcolare. Il giudizio di Dio interessa vivi e morti, presuppone quindi l’idea della risurrezione. Dio è il giudice, o meglio Dio investe Cristo del ministero di giudice. L’uomo è posto davanti al giudice e deve render conto della propria vita: nessuna parola, nessun bicchiere d’acqua saranno dimenticati. A differenza del giudaismo, il risultato del giudizio non viene generalmente descritto. Il giudizio sui non-credenti, la condanna, interessa generalmente poco. Talvolta si trova anche la stringata menzione di “pianto e stridore di denti”. Nemmeno le circostanze del verdetto del giudizio di Dio sui cristiani vengono descritte. Importante è soltanto l’affermazione: Dio prende così sul serio il suo servitore, che il cristiano deve render conto a Dio di tutta la propria vita. Le asserzioni riguardanti il giudizio di Dio non permettono dunque, nel Nuovo Testamento, che si speculi sul futuro dimenticando il presente. Si tratta, piuttosto, di credere oggi, vale a dire di vivere come servitori del Signore. Si può tuttavia certo parlare di ricompensa che il Signore darà al cristiano - ma si tratta di una concezione del giudizio di Dio fondamentalmente diversa da quella del giudaismo rabbinico: nel giudaismo il pio cerca, con l’aiuto delle sue buone opere, di meritarsi il paradiso. Gesù invece demolisce ogni pretesa di merito. Quando il giudice del mondo compare e compie la divisione degli uomini fra la sua destra e la sua sinistra, quanti sono accettati non presenteranno a Dio le loro buone opere, ma chiederanno meravigliati quando abbiano servito Dio: hanno aiutato i bisognosi senza mirare alla ricompensa (Mt 25,31ss). Anche se il cristiano avesse fatto tutto - che cosa è alla fine se non un misero servo che ha fatto soltanto il proprio dovere (Lc 17,10) e dipende dalla grazia di Dio? 

Conviene parlare spesso del Giudizio - Catechismo Tridentino (Parte Prima - Articolo 7, 96): Tutto questo i Pastori devono frequentemente inculcare al popolo fedele, perché la verità di questo articolo, concepita con viva fede, ha un’efficacia immensa a frenare le prave cupidigie dell’animo e allontanare gli uomini dal peccato. Perciò nell’Ecclesiastico è detto: In tutte le tue opere ricorda i tuoi novissimi e non peccherai in eterno (Si 7,40). È ben difficile infatti che uno sia cosi proclive al peccato, da non sentirsi richiamato al dovere dal pensiero che un giorno dovrà rendere ragione innanzi al giustissimo Giudice, non solo delle opere e delle parole, ma anche dei pensieri più occulti, e pagare la pena dei suoi demeriti. Mentre il giusto verrà sempre più spronato a praticare la virtù e proverà letizia grande, anche in mezzo alla povertà, all’infamia e ai dolori, pensando a quel giorno nel quale, dopo le lotte di questa vita d’angosce, sarà dichiarato vincitore davanti a tutti gli uomini, e, entrato nella patria celeste, vi riceverà onori divini ed eterni. Quel che importa, dunque, è di esortare i fedeli ad abbracciare un santo tenore di vita ed esercitarsi in ogni pratica di pietà, onde possano con maggior sicurezza d’animo aspettare il grande giorno del Signore, anzi, desiderarlo con sommo ardore, come si conviene ai figli di Dio.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Porta a compimento, Signore,
l’opera redentrice della tua misericordia
e perché possiamo conformarci in tutto alla tua volontà,
rendici forti e generosi nel tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.

 




30 AGOSTO 2019

Venerdì XXI Settimana T. O.

1Ts 1,4-8; Sal 96 (97); Mt 25,1-13

Colletta: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Presso gli Ebrei le nozze venivano celebrate di notte. Il buio della notte era rischiarato da torce e da lampade ad olio portate dagli invitati. La sposa, nella casa del padre, in compagnia di giovani non maritate, attendeva la venuta dello sposo. Nel racconto di Gesù lo sposo arrivò in ritardo, per cui l’olio delle lampade incominciò a scarseggiare. Solo coloro che avevano portato olio in abbondanza furono in grado di rifornire le lampade e di accogliere lo sposo.
Se la parabola è un’allegoria delle nozze di Cristo-Sposo con la Chiesa, sua diletta Sposa, è anche un pressante invito alla vigilanza. Stolti e saggi, tutti sono invitati a partecipare alle nozze, tutti vanno incontro al Signore, ma occorre l’olio della vigilanza per non essere colti dal sonno colpevole della infedeltà.

Dal Vangelo secondo Matteo 25,1-13: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.  Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola - Angelo Lacellotti (Matteo): La parabola delle dieci vergini, ossia: il giudizio di ammissione a di esclusione dalle nozze celesti di quanti sono stati saggiamente perseveranti a meno nell’attesa dell’incontro finale con Cristo. La parabola, propria di Matteo, è letterariamente legata alla precedente mediante il motivo del ritardo dello sposo (v. 5, cf 24,48) e del suo sopraggiungere inatteso (v. 6, cf 24,50). Analogo, inoltre, è l’insegnamento fondamentale: l’opposta sorte toccata all’opposto comportamento del servo fedele e saggio come delle vergini prudenti da una parte, e del servo malvagio e delle vergini stolte dall’altra.
I dieci vergini ... incontro allo sposo: le «vergini» sono le anime cristiane che, fidanzate a Cristo, loro « unico sposo» (cf 2Cor 11,2), sono in attesa di essere presentate a lui per le nozze celesti. La vita cristiana è, secondo la parabola, un cammino la cui meta è un festino nuziale; un cammino però fra le tenebre che solo la fioca luce di una «lampada», simbolo della fede vigilante (cf Lc 12,35), può rischiarare. La metafora nuziale per esprimere il rapporto di amore e di fedeltà intercorrente fra Dio e la nazione eletta nell’ Antico Testamento, e tra il Cristo e le anime battezzate nel Nuovo Testamento, è una delle più note e più efficaci della tradizione biblica (cf tutto il Cantico dei Cantici; Gr 2,2; Is 54,5; Ez 16 8; S 2,1; Mc 2,19; Mt 9 15; Lc ,34; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,25).

Le dieci vergini sono presentate con un aggettivo, cinque sono dette stolte, insensate, moraì; e cinque sagge, accorte, frónimoi. L’aggettivo moròs, nella terminologia biblica, non indica soltanto lo sciocco, ma anche l’empio che è così insensato da opporsi alla legge di Dio e giunge fino a negare l’esistenza di Dio. Ecco perché nella sacra Scrittura, il «concetto di stolto acquista il significato di empio, bestemmiatore [passi tipici sono: Sal 14,1 e 53,2; però anche Sal 74,18.22; Gb 2,10; Is 32,5s; cf. Sir 50,26]. Lo stolto si ribella a Dio, distrugge in pari tempo la comunità umana: fa mancare il necessario agli affamati [Is 32,6], accumula ricchezze ingiuste [Ger 17,11] e calunnia il suo prossimo [Sal 39,9]. Anche nella letteratura sapienziale posteriore, dove il concetto è meno duro, rimane il senso della colpevolezza» (J. Goetzmann).
Se accettiamo anche questa sfumatura, allora le cinque vergini stolte della parabola non sono soltanto delle sempliciotte, o ragazzotte sprovvedute, ma veri e propri oppositori della legge divina; sono coloro che non entrano nel Regno di Dio a motivo della loro empietà e così l’accusa contro i farisei si fa più pesante: essi sono religiosi nelle parole, ma empi perché di fatto ribelli alla volontà divina, «dicono e non fanno» (Mt 23,3), e tanto stolti da respingere la proposta di salvezza che Dio fa loro nella persona del suo Figlio unigenito.
La parabola nel mettere in evidenza l’incertezza del tempo della venuta gloriosa del Cristo, vuole instillare nei cuori degli uomini la necessità della vigilanza, senza fidarsi di calcoli in base ai segni dei tempi: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo e né il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36).
Questa venuta improvvisa deve indurre gli uomini ad assumere un serio atteggiamento di vigilanza e un comportamento saggio al quale nessuno può sottrarsi se non vuole essere escluso dal regno di Dio. Poi, alla vigilanza e al comportamento saggio va aggiunto il timore: «Comportatevi con timore nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,17-19). Se Cristo Gesù, «nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), per salvarci si è annichilito nel mistero dell’Incarnazione, se è morto su una croce come un volgare malfattore, «è segno che la nostra anima è assai preziosa e dobbiamo perciò affaticarci “con timore e tremore per la nostra salvezza”, per non distruggere in noi l’opera della grazia di Dio. Tutto infatti viene dalla “grazia”: la redenzione di Cristo è opera di grazia e anche l’accettazione della redenzione da parte nostra è opera di grazia, poiché è Dio stesso colui “che opera in noi il volere e l’agire” secondo i suoi disegni di benevolenza e di amore» (Settimio Cipriani).
Le vergini, le stolte e le sagge, non sopportando il tedio dell’attesa vengono colte dal sonno al quale cedono ben volentieri. Questo particolare suggerisce che il progetto di Dio, «ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra» (Ef 1,10), andrà a buon fine, lo voglia o non lo voglia l’uomo e sarà svelato all’intelligenza degli uomini quando Dio vorrà, anche senza il loro apporto. Gesù aveva suggerito la stessa cosa nella parabola del seme che spunta da solo anche mentre il contadino dorme (Mc 4,26): c’è, quindi, nella crescita e nella diffusione del Regno di Dio una componente che non dipende dall’uomo. Il regno di Dio porta in sé un principio di sviluppo, una forza segreta che lo condurrà al pieno compimento.

Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): No; altrimenti non basterebbe né a noiné a voi; l’espressione, presa in senso assoluto e fuori del contesto, può suonar male ed indicare una forma riprovevole di egoismo. L’autore ha interesse nel rilevare la preveggenza delle giovani sagge e di presentarle come un esempio di prudenza. Dal contesto risulta che l’olio è una provvista personale e che non può essere affidata ad altri. La parabola infatti mette in particolare rilievo i pronomi riflessivi e gli aggettivi possessivi (le loro lampade, con sé, per sé; cf. 25, 3, 4, 7, 9). Andate e compratevene; le vergini sagge offrono una prova ulteriore della loro preveggenza; la loro risposta è decisa e non ammette replica, poiché vogliono esser provviste e sicure per il futuro.

Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora - Ortensio da Spinetoli (Matteo): Vegliare è pensare a Cristo, desiderare la sua presenza, sentire la sua mancanza come un vuoto incolmabile. Gesù sa che quest’attesa è difficile; che vi possono essere ore di stanchezza e di sonnolenza, ma anche allora non si dovrà desistere dall’attendere. Bisogna procurarsi abbastanza olio per poter restar svegli sino alla fine e non mancare all’ultimo momento. Gesù ama le anime ma esige che ricambino il suo amore. Cessare di pensare a lui, trovarsi egualmente contente durante la sua assenza, addirittura dimenticarlo è ciò che egli non potrà mai perdonare: «In verità vi dico, non vi conosco» (25, 3). La porta chiusa è già una parabola a sé. Se su questa terra la vita è un’attesa, nell’al di là è un banchetto nuziale, addirittura uno sposalizio: le metafore più familiari e più toccanti a cui la Bibbia abbia fatto ricorso per ridare i rapporti dell’uomo con Dio. Affinché l’immagine venga smaterializzata Gesù parla di vergini e non di semplici s’pose. La vita del cielo è una vita di unione con Dio, ma verginale, l’n un testo vicino Luca afferma che gli uomini del «secolo futuro» «non prendono moglie e non si sposano, perché sono eguali agli angeli, essendo figli della risurrezione». I rapporti di Gesù con i fedeli sono rinsaldati e sublimati.

La parabola nel vangelo - D. Sesboué: Il mistero del regno e della persona di Gesù è talmente nuovo che anch’esso non può manifestarsi se non gradualmente, e secondo la ricettività diversa degli uditori. Perciò Gesù, nella prima parte della sua vita pubblica, raccomanda a suo riguardo il «segreto messianico», posto in così forte rilievo da Marco (1,34.44; 3,12; 5,43 ...). Perciò pure egli ama parlare in parabole che, pur dando una prima idea della sua dottrina, obbligano a riflettere ed hanno bisogno di una spiegazione per essere perfettamente comprese. Si perviene così a un insegnamento a due livelli, ben sottolineato da Mc 4,33-34: il ricorso a temi classici (il re, il banchetto, la vite, il pastore, le semine...) mette sulla buona strada l’insieme degli ascoltatori; ma i discepoli hanno diritto a un approfondimento della dottrina, impartito da Gesù stesso. I loro quesiti ricordano allora gli interventi dei veggenti nelle apocalissi (Mt 13,10-13.34s-36.51; 15,15; cfr. Dan 2,18ss; 7,16). Le parabole appaiono così una specie di mediazione necessaria affinché la ragione si apra alla fede: più il credente penetra nel mistero rivelato, più approfondisce la comprensione delle parabole; viceversa, più l’uomo rifiuta il messaggio di Gesù, più gli resta interdetto l’accesso alle parabole del regno. Gli evangelisti sottolineano appunto questo fatto quando, colpiti dalla ostinazione di molti Giudei di fronte al vangelo, rappresentano Gesù che risponde ai discepoli con una citazione di Isaia: le parabole mettono in evidenza l’accecamento di coloro che rifiutano deliberatamente di aprirsi al messaggio di Cristo (Mt 13,10-15 par.). Tuttavia, accanto a queste parabole affini alle apocalissi, ce ne sono di più chiare che hanno di mira insegnamenti morali accessibili a tutti (così Lc 8,16ss; 10,30-37; 11,5-8)

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Porta a compimento, Signore,
l’opera redentrice della tua misericordia
e perché possiamo conformarci in tutto alla tua volontà,
rendici forti e generosi nel tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.

 





29 AGOSTO 2019

Giovedì XXI Settimana T. O.

 MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA – MEMORIA

 Ger 1,17-19; Sal 70 (71); Mc 6,17-29

Dal Martirologio: Memoria della passione di san Giovanni Battista, che il re Erode Antipa tenne in carcere nella fortezza di Macheronte nell’odierna Giordania e nel giorno del suo compleanno, su richiesta della figlia di Erodiade, ordinò di decapitare. Per questo, Precursore del Signore, come lampada che arde e risplende, rese sia in vita sia in morte testimonianza alla verità.

Colletta: O Dio, che a Cristo tuo Figlio hai dato come precursore, nella nascita e nella morte, san Giovanni Battista, concedi anche a noi di impegnarci generosamente nella testimonianza del tuo Vangelo, come egli immolò la sua vita per la verità e la giustizia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La morte cruenta di Giovanni Battista, uomo giusto e santo, fedele al suo mandato e messo a morte per la sua libertà di parola, fa presentire l’arresto e la condanna ingiusta di Gesù. Giovanni Battista muore per la malvagità di una donna e la debolezza di un sovrano, ma la sua morte non è uno dei tanti fatti di cronaca che da sempre fanno parte della storia umana, è invece una Parola che Dio rivolge a tutti gli uomini: morire per la Verità è farsi discepolo del Cristo, ed è offrire la propria vita per la salvezza degli uomini: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando.” (Gv 15,12-14).

Dal Vangelo secondo Marco 6,17-29: In quel tempo, Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Erode infatti aveva arrestato Giovanni... un drammatico evento confermato anche dallo storico Flavio Giuseppe. Intrighi politici, dissolutezza, adulterio... sono passioni che ingombrano la mente e l’anima di Erode Antipa rendendolo dissoluto nella vita privata, carnefice senza scrupoli, despota nel governo. Erode Antipa, Erodiade sono la vittime di questi torbidi sentimenti: Erode Antipa è schiavo della sua peccaminosa debolezza, “Erodiade rimane chiusa in se stessa, nel suo mondo, non riesce a sollevare lo sguardo per leggere i segni di Dio e non esce dal male” (Benedetto XVI, 16 Maggio 2012), e proprio sull’altare di questi osceni vizi viene immolato Giovanni il Battista, il figlio santo di Zaccaria e di Elisabetta muore per la sua fedeltà rigorosa alla Legge e la spada lo costituisce testimone della Verità.

La morte violenta di Giovanni Battista - Rinaldo Fabris (Vangelo di Marco): Con la sua morte violenta Giovanni Battista è un segno premonitore della sorte che attende anche Gesù di Nazaret. Questo può essere il motivo per cui Marco dà uno spazio così ampio al racconto della morte di Giovanni. L’evangelista aveva già riferito la notizia dell’arresto di  Giovanni, quando Gesù andò in Galilea per dare avvio alla proclamazione del regno di Dio, 1,14. Ora, utilizzando forse una fonte scritta, Marco ricostruisce la passione del Battista, l’arresto con la motivazione, l’esecuzione e la sepoltura. Il ruolo principale in questo dramma lo ha una donna. Erodiade, attuale moglie di Erode Antipa, ex moglie del fratellastro di Antipa, lui pure chiamato Erode. Il motivo dell’arresto, secondo il vangelo di Marco, è precisamente la denuncia fatta da Giovanni di questo matrimonio illegale. Il Battista, come già il profeta Elia, è perseguitato con tenace perfidia da questa nuova Gezabele che raggira il debole e incoerente Erode. L’atto deciso della morte del profeta del Giordano è ambientato in un banchetto. Il modello letterario del racconto di Marco è la vicenda di Ester; essa incontra il favore del re Assiro e questa è l’occasione per ottenere la morte di Aman Est 1,3; 2,17; 5,3.

Giovanni Battista, il precursore ed il suo battesimo - M.-P. Lacan (Dizionario di Teologia Biblica): Giovanni, ancor prima di nascere da una madre fino allora sterile, è consacrato a Dio e ripieno dello Spirito Santo (Lc 1,7.15; cfr. Giud 13,2-5; 1Sam 1,5-11). Colui che deve essere un nuovo Elia (Lc 1,16 s) evoca il grande profeta con le sue vesti e la vita austera (Mt 3,4 par.) che conduce nel deserto fin dalla giovinezza (Lc 1,80). Fu egli formato da una comunità come quella di Qumràn? In ogni Caso, giunto il tempo della sua manifestazione ad Israele, accuratamente datato da Luca (3,1s), egli appare come un maestro circondato da discepoli (Gv 1,35), cui insegna a digiunare ed a pregare (Mc 2,18; Lc 5,33; 11,1). La sua voce potente scuote la Giudea; egli predica una conversione, il cui segno è un bagno rituale accompagnato dalla confessione dei peccati, ma che esige inoltre uno sforzo di rinnovamento (Mc 1,4s); infatti è inutile essere figli di Abramo, se non si pratica la giustizia (Mt 3,8s par.) di cui egli dà le regole alla folla degli umili (Lc 3,10-14). Ma i farisei ed i dottori della legge non credono in lui (Mt 21,25 par. 32); taluni lo trattano da indemoniato (Mt 11,18; Lc 7,33); quando perciò, essi vennero a lui, egli annunciò loro che l’íra avrebbe consumato ogni albero sterile (Mt 3,10 par.). Del re Erode, denunzia l’adulterio e si attira così la prigione, e poi la morte (Mt 14,3-12 par.; Lc 3,19 s; 9,9). Per il suo zelo, Giovanni è appunto il nuovo Elia atteso, che deve preparare il popolo alla venuta del Messia (Mt 11,14); ma non è riconosciuto, e il suo martirio annuncia prefigurandola la passione del figlio dell’uomo (Mc 9,11ss par.; Gv 5,33 ss).

Il martire cristiano - C. Augrain: Il glorioso martirio di Cristo ha fondato la Chiesa: «Quando sarò innalzato da terra, aveva detto Gesù, attirerò a me tutti gli uomini» (Gv 12, 32). La Chiesa, corpo di Cristo, è chiamata a sua volta a dare a Dio la testimonianza del sangue per la salvezza degli uomini. La comunità ebraica aveva già avuto i suoi martiri, specialmente all’epoca dei Maccabei (2Mac 6-7). Ma nella Chiesa cristiana il martirio assume un senso nuovo, che Gesù stesso rivela: è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione perfetta alla sua testimonianza ed alla sua opera di salvezza: «Il servo non è maggiore del padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 51,20). Ai suoi tre intimi Gesù annunzia che lo seguiranno nella passione (Mc 10,39 par.; Gv 21,18ss); ed a tutti rivela che soltanto il seme che muore in terra porta molto frutto (Gv 12,24). Così il martirio di Stefano - che evoca con tanta forza la passione - determinò la prima espansione della Chiesa (Atti 8,4s; 11,19) e la conversione di Paolo (22,20). L’Apocalisse, infine, è veramente il Libro dei Martiri, di coloro che sulle orme del Testimone fedele e veridico (Apoc 3,14) hanno dato alla Chiesa e al mondo la testimonianza del loro sangue. L’intero libro ne celebra la prova e la gloria, di cui la passione e la glorificazione dei due testimoni del Signore sono il simbolo (Apoc 6,9s; 7,14-17; 11,11s; 20,4ss).

Giovanni Battista fedele alla Verità: Catechismo degli Adulti 1149: La veracità cristiana è contemporaneamente fedeltà alla dignità dell’uomo e alla verità. Il significato originario dell’ottavo comandamento si limita a proibire la falsa testimonianza contro il prossimo in tribunale; ma altri testi biblici estendono il divieto a qualsiasi frode che possa recar danno; anzi arrivano a riprovare la menzogna in genere, in quanto corrode l’affidabilità delle relazioni umane: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no» (Mt 5,37); «Il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no” no» (Gc 5,12). La veracità è anche fedeltà a se stessi, alla propria identità. Ognuno è chiamato a cercare, accogliere e praticare la verità. La libertà è per la verità, resistendo alla eventuale pressione contraria degli istinti e dell’ambiente sociale. Quando si tratta di testimoniare valori decisivi, come la fede in Dio, la coerenza deve essere mantenuta fino al martirio.

La vita non è un bene assoluto: Evangelium viate 47: ... la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (cfr. Gv 10,17) e ai suoi (cfr. Gv 10,15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l’esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cfr. Mc 6,17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cfr. At 7,59-60), aprendo la strada all’innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall’inizio.

Vivere il Vangelo “sine glossa”: Giovanni Paolo II (Angelus, 29 Agosto 2004): Nell’Enciclica Veritatis splendor, ricordando il sacrificio di Giovanni Battista (cfr. n. 91), notavo che il martirio è “un segno preclaro della santità della Chiesa” (n. 93). Esso infatti “rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale” (ibid.). Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però “una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici” (ibid.). Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo “sine glossa”. L’eroico esempio di Giovanni Battista fa pensare ai martiri della fede che lungo i secoli hanno seguito coraggiosamente le sue orme. In modo speciale, mi tornano alla mente i numerosi cristiani, che nel secolo scorso sono stati vittime dell’odio religioso in diverse nazioni d’Europa. Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo “sine glossa”.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che ci hai riuniti alla tua mensa
nel glorioso ricordo del martirio di san Giovanni Battista,
donaci di venerare con fede viva
il mistero che abbiamo celebrato
e di raccogliere con gioia il frutto di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.


28 AGOSTO 2019

Mercoledì XXI Settimana T. O.

Sant’Agostino, Vescovo e Dottore della Chiesa - Memoria

 1Ts 2,9-13; Sal 138 (139); Mt 23,27-32

Dal Martirologio: Memoria di sant’Agostino, vescovo e insigne dottore della Chiesa: convertito alla fede cattolica dopo una adolescenza inquieta nei princípi e nei costumi, fu battezzato a Milano da sant’Ambrogio e, tornato in patria, condusse con alcuni amici vita ascetica, dedita a Dio e allo studio delle Scritture. Eletto poi vescovo di Ippona in Africa, nell’odierna Algeria, fu per trentaquattro anni maestro del suo gregge, che istruì con sermoni e numerosi scritti, con i quali combatté anche strenuamente contro gli errori del suo tempo o espose con sapienza la retta fede. 

Colletta: Suscita sempre nella tua Chiesa, Signore, lo spirito che animò il tuo vescovo Agostino, perché anche noi, assetati della vera sapienza, non ci stanchiamo di cercare te, fonte viva dell’eterno amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire, e cieco di chi non vuol vedere, così un saggio adagio che bene si applica ai farisei e agli scribi del racconto evangelico di oggi. Sette guai che avrebbero dovuto illuminare le loro coscienze ottenebrate e aprirle a un serio esame di coscienza. Invece si sentono offesi, lesi nella loro dignità di maestri e di guide spirituali. Sono ipocriti perché bravi a erigere monumenti ai profeti ammazzati dai loro padri, ma dai quali si dissociano disconoscendo la paternità; sono solerti nel perpetuare la memoria dei giusti lapidati, ma ipocriti perché con le stesse pietre con le quali erigono monumenti e mausolei lapidano i giusti che hanno la brutta avventura di incrociare il loro cammino. Storia passata? Storia che si perpetua anche oggi, dentro e fuori la Chiesa. Certo oggi i monumenti sono affidati a scultori famosi e sono assai più pregevoli, deformando magari il messaggio evangelico come certi “Crocifissi” o “Madonne” che si vedono in tante Chiese moderne, e oggi più elegantemente non si usano più le pietre per ammazzare qualcuno, ma si usano le parole che spesso sono più pesanti di macigni, e oggi, grazie ai social, volano più in fretta e con maggiore precisione colpiscono il bersaglio. Farisei, scribi, sadducei, erodiani colmarono la misura dei loro padri perché la loro vittima non era un giusto o un profeta, ma il Figlio di Dio, il Giusto. Colpevoli? Non è facile dare un giudizio, ma certamente colpevoli sul piano intellettuale, perché la loro intelligenza, assai brillante nel conoscere la sacra Scrittura, doveva informarli che in Colui che li rimproverava c’era qualcosa che chiaramente sfuggiva a tutti i parametri umani. E, poi con un po’ di umiltà avrebbero potuto, dinanzi a tali rimbrotti, chinare il capo, ammettere di essere dalla parte del torto ed emendare la loro vita. Non l’hanno fatto e forse è questa albagia a renderli veramente colpevoli dinanzi agli occhi di Dio e degli uomini.

Dal Vangelo secondo Matteo 23,27-32: In quel tempo, Gesù parlò dicendo: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri». 

Colmando la misura - Basilio Caballero (La Parola Per Ogni Giorno): Con la sesta e la settima invettiva terminano le forti apostrofi di Gesù contro scribi e farisei. Oggi il testo è dominato dall’immagine e dal tema del sepolcro: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume». Questo rimprovero continua la seconda invettiva di ieri sulla corruzione interiore in contrasto con le purificazioni esteriori. Cambia solo l’immagine: prima il bicchiere, ora il sepolcro. L’uso palestinese di imbiancare i sepolcri con la calce aveva lo scopo di identificare facilmente le tombe, affinché i passanti si tenessero lontani, evitando così la contaminazione legale. La bella apparenza di un mausoleo dissimulava anche la realtà del suo interno, che comportava il massimo grado di impurità. Cosi sono i farisei, dice Gesù: di fuori sembrano giusti, ma dentro sono pieni di ipocrisia e di crimini. La stretta osservanza legale di cui faceva mostra la maggior parte di loro non era altro che un velo per nascondere una vita in contraddizione con la legge di Dio, i cui punti essenziali Gesù ricordava ieri. La settima e ultima minaccia denuncia un’ipocrisia farisaica con sfumature che la differenziano dalle altre apostrofi. Innalzando sepolcri e monumenti ai giusti e ai profeti del passato, monopolizzano per la loro gloria la fedeltà delle grandi figure della storia israelita. Ma di fatto, gli unici profeti che tollerano e sopportano sono quelli morti. Questo vano ritorno al passato rende evidente la loro ascendenza assassina, e lo dimostrano «colmando la misura dei loro padri» con la morte di Gesù e la persecuzione degli apostoli e missionari della prima comunità cristiana. È lo stesso ammonimento che Gesù espresse con la parabola dei vignaioli omicidi (Me 12,lss). Il Signore conclude le sue invettive con una profezia inquietante: «La vostra casa vi sarà lasciata deserta» (Mt 29,38). Allusione evidente alla distruzione di Gerusalemme e alla rovina del tempio nell’anno 70 a opera delle legioni romane di Tito.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati...: toccare un morto o una sepoltura significava rendersi impuri e per evitare ciò, sopra tutto per chi viaggiava di notte, era diventata prassi imbiancare i sepolcri in modo da renderli visibili. Nel rimprovero di Gesù, il “punto centrale del paragone è chiaro, contrapposizione tra l’esterno e l’interno. La malvagità dello spirito farisaico sta nel fatto che, col pretesto di osservare la legge, mirano a evitarne le esigenze più profonde” (Felipe F. Ramos). Gesù, prendendo spunto dalle tombe, denuncia anche la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi dagli stessi Ebrei, a partire da Abele per giungere fino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal re Ioas di Giuda. Non accogliendo Gesù e tramando contro la sua vita colmano la misura dei loro padri, ma ormai la sorte del popolo infedele è segnata per sempre: Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta! (Mt 23,37-38).

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti -  J. Cantinat e X. Léon-Dufour: Storicamente sembra che la responsabilità della morte di Gesù ricada anzitutto sulla casta sacerdotale e sui Sadducei; i Farisei non sono nominati nei racconti della passione (salvo Gv 18,3); molti sembra siano stati quelli che vollero prendere contatto con Gesù invitandolo alla loro tavola (Lc 7,36; 11,37; 14,1); taluni di essi presero apertamente la difesa di Gesù (Lc 13,31; Gv 7,50) e dei cristiani (Atti 5,34; 23,9); parecchi videro in Gesù Cristo colui che portava a compimento la loro fede giudaica (Atti 15,5); così Paolo, il loro rappresentante più illustre (Atti 26,5). Nondimeno è certo che un gran numero di essi si oppose ferocemente all’insegnamento ed alla persona di Gesù. Questa opposizione, e non l’opportunismo dei sommi sacerdoti, presentava interesse agli occhi degli evangelisti, perché caratterizzava il conflitto tra giudaismo e cristianesimo. Per non giudicare farisaicamente i Farisei del tempo passato, è necessario riconoscere le qualità che stanno all’origine dei loro eccessi. Gesù ammira il loro zelo (Mt 3,15), la loro preoccupazione della perfezione e della purità (5,20); Paolo sottolinea la loro volontà di praticare minuziosamente la legge; sono ammirevoli nel loro attaccamento a tradizioni orali vive. Ma, forti della loro scienza legale, certuni di essi annientano il precetto di Dio sotto le loro tradizioni umane (Mt 15,1-20), disprezzano gli ignoranti, in nome della loro propria giustizia (Lc 18,11s); impediscono ogni contatto con i peccatori ed i pubblicani, limitando così al loro orizzonte l’amore di Dio; considerano persino di avere diritti su Dio, in nome della loro pratica (Mt 20,1-15; Lc 15,25-30). E poiché, secondo Paolo (Rom 2,17-24), non possono mettere in pratica questo ideale, si comportano da ipocriti, «sepolcri imbiancati» (Mt 23,27). Questo è l’universo legalista che hanno dipinto i vangeli, non senza precisare come deve essere il comportamento di questo o quello. È già chiara l’intenzione degli autori di non fermarsi a degli individui, ma di considerare l’atteggiamento di coloro che sono ciechi a qualsiasi luce che venga da fuori e che si rifiutano di riconoscere in Gesù altro che un impostore od un alleato del demonio.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti - Giuseppe Barbaglio (Il Vangelo di Matteo): I maestri della legge e i farisei costruivano monumenti sepolcrali ai profeti e ai personaggi più esemplari dell’Antico Testamento. Mostravano così di dissociarsi dall’atteggiamento ostile e persecutorio dei loro antenati. Ma in realtà essi erano i degni discendenti degli assassini dei profeti, anzi ne prolungavano fino alle estreme conseguenze la linea operativa di in credulità e di ribellione omicida. Con sottile sarcasmo Gesù li esorta a portare a compi mento l’opera dei loro padri (versetto 32). L’allusione a tradurre in atto i loro propositi omicidi nei suoi confronti è abbastanza scoperta. Così la sua morte violenta si colloca nel solco delle esecuzioni sommarie dei profeti, e la loro violenza segue la logica degli antenati. Con la differenza che l’uccisione di Gesù raggiunge l’apice nella storia del rifiuto ostinato opposto ai messaggeri di Dio. Perché egli incarna l’appello estremo del Signore al popolo infedele, la chiamata definitiva alla conversione c alla fede, l’ultima possibilità di salvezza. In confronto ai profeti Gesù è come il figlio della parabola dei vignaioli omicidi in confronto ai servi mandati prima di lui (22,114). Nel contesto della vita di Cristo il vertice dell’ipocrisia farisaica consisteva dunque nel rendere omaggio alla memoria dei profeti e nell’uccidere il messia.

Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Settima invettiva: uccisori degli inviati di Dio. Con un’ironia penetrante e con una logica avvolgente Gesù prova che gli Scribi ed i Farisei sono i discendenti di coloro i quali hanno perseguitato ed ucciso gli inviati di Jahweh (cf. 21,35-36). Essi continuano ancora nella linea tracciata dai loro padri, anzi ne colmano la misura. Gli Ebrei non sono condannati perché erigono sepolcri ai profeti ed ai giusti, ma per i loro intenti omicidi e sanguinari che non rimangono nascosti alla loro coscienza, né allo sguardo di Cristo. I Farisei ammettono di essere discendenti di coloro che hanno ucciso dei profeti e dei giusti, ma vogliono allontanare da sé ogni responsabilità. Questo sforzo di scagionarsi è inutile, perché essi appaiono degni dei loro padri. Voi colmate la misura..., altri codici leggono: colmerete; avete colmato. Le parole del Maestro lasciano profondamente impressionato il lettore: gli antenati dei Farisei hanno ucciso gli inviati di Jahweh (cf. Mt., 21,35-36), gli Ebrei della presente generazione colmano la misura dei padri uccidendo il Figlio di Dio.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume» (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, la partecipazione al tuo sacramento
c’inserisca come membra vive nel Cristo tuo Figlio,
perché siamo trasformati
in colui che abbiamo ricevuto.
Per Cristo nostro Signore.