GIOVEDÌ 1 OTTOBRE 2020
 
S. TERESA DI GESÙ BAMBINO, VERGINE E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA
 
Gb 19,21-27b; Sal 26 (27); Lc 10,1-12
 
Dal Martirologio: Memoria di santa Teresa di Gesù Bambino, vergine e dottore della Chiesa: entrata ancora adolescente nel Carmelo di Lisieux in Francia, divenne per purezza e semplicità di vita maestra di santità in Cristo, insegnando la via dell’infanzia spirituale per giungere alla perfezione cristiana e ponendo ogni mistica sollecitudine al servizio della salvezza delle anime e della crescita della Chiesa. Concluse la sua vita il 30 settembre, all’età di venticinque anni.
 
Colletta: O Dio, nostro Padre, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli, fa’ che seguiamo con serena fiducia la via tracciata da santa Teresa di Gesù Bambino, perché anche a noi si riveli la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
   
Pastores dabo vobis 13-14: Con l’unico e definitivo sacrificio della croce, Gesù comunica a tutti i suoi discepoli la dignità e la missione di sacerdoti della nuova ed eterna alleanza. Si adempie così la promessa che Dio ha fatto a Israele: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Ex 19,6). È tutto il popolo della nuova alleanza – scrive san Pietro – ad essere costituito come “un edificio spirituale”, “un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5). Sono i battezzati le “pietre vive”, che costruiscono l’edificio spirituale stringendosi a Cristo “pietra viva... scelta e preziosa davanti a Dio” (1Pt 2,4-5). Il nuovo popolo sacerdotale che è la chiesa, non solo ha in Cristo la propria autentica immagine, ma anche da lui riceve una partecipazione reale e ontologica al suo eterno e unico sacerdozio, al quale deve conformarsi con tutta la sua vita.
A servizio di questo sacerdozio universale della nuova alleanza, Gesù chiama a sé, nel corso della sua missione terrena, alcuni discepoli (cf. Lc 10,1-12) e con un mandato specifico e autorevole chiama e costituisce i dodici, affinché “stessero con lui e anche per mandarli a predicare, e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14-15).
Per questo, già durante il suo ministero pubblico (cf. Mt 16,18) e poi in pienezza dopo la morte e risurrezione (cf. Mt 28,16-20; Gv 20,21), Gesù conferisce a Pietro e ai dodici poteri del tutto particolari nei confronti della futura comunità e per l’evangelizzazione di tutte le genti. Dopo averli chiamati alla sua sequela, li tiene accanto a sé e vive con loro, impartendo con l’esempio e con la parola il suo insegnamento di salvezza e, infine, li manda a tutti gli uomini. E per il compimento di questa missione Gesù conferisce agli apostoli, in virtù di una specifica effusione pasquale dello Spirito Santo, la stessa autorità messianica che gli viene dal Padre e che gli è conferita in pienezza con la risurrezione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20).
Gesù stabilisce così uno stretto collegamento tra il ministero affidato agli apostoli e la sua propria missione: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40); “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10,16). Anzi, il quarto Vangelo, nella luce dell’evento pasquale della morte e della risurrezione, afferma con grande forza e chiarezza: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21 cf. Gv13,20; 17,18). Come Gesù ha una missione che gli viene direttamente da Dio e che concretizza l’autorità stessa di Dio (cf. Mt 7,29; 21,23; Mc 1,27.28; Lc 20,2; 24,19), così gli apostoli hanno una missione che viene loro da Gesù. E come “il Figlio non può fare nulla da se stesso” (Gv 5,19), sicché la sua dottrina non è sua ma di colui che lo ha mandato (cf. Jn 7,16), così agli apostoli Gesù dice: “Senza di me non potete far nulla” (Gv15,5): la loro missione non è loro, ma è la stessa missione di Gesù. E ciò è possibile non a partire dalle forze umane, ma solo con il “dono” di Cristo e del suo Spirito, con il “sacramento”: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv20,22-23). Così, non per qualche loro merito particolare, ma soltanto per la gratuita partecipazione alla grazia di Cristo, gli apostoli prolungano nella storia, sino alla consumazione dei tempi, la stessa missione di salvezza di Gesù a favore degli uomini.
Segno e presupposto dell’autenticità e della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con Gesù e, in lui, tra di loro e col Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione (cf. Gv 17,20-23).

Gesù è venuto a portare la pace destinandola a tutti gli uomini. Lo fa intendere anche il numero dei missionari inviati ad annunciare la Parola: settantadue erano, secondo i Giudei, i popoli della terra e presumibilmente l’evangelista Luca vuol prefigurare la missione universale. La missione ha le note della massima sollecitudine svolgendosi «sotto il segno di un’urgenza escatologica: si deve annunziare che il Regno è vicino; non è consentito attardarsi per via negli interminabili saluti caratteristici degli Orientali. È scoccata ormai l’ora della mietitura: tradizionale immagine del “Giorno di Jahvé”, l’intervento definitivo di Dio, salvifico e giudiziale al tempo stesso» (Don Vittorio Fusco).
 
Dal Vangelo secondo Luca 10,1-12: In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
 
Vi mando come agnelli in mezzo a lupi - Dopo la missione dei Dodici (cfr. Lc 9,3-5), Gesù manda settantadue discepoli ad annunziare il regno di Dio che è già vicino. Il numero dei discepoli forse è intenzionale. Gen 10, nella versione dei Settanta, elenca settantadue nazioni, se Luca si attiene a questo dato il numero dei discepoli inviati vuole indicare l’universalità della missione: la salvezza supera gli angusti confini d’Israele per raggiungere tutti gli uomini. Sono mandati a due a due perché, per la legge mosaica, sono necessari due testimoni per attestare la veridicità di un avvenimento (cfr. Dt 19,15). I settantadue sono mandati davanti a Gesù come precursori.
La missione già si presenta ardua in quanto le forze sono impari: «vi mando come agnelli in mezzo a lupi». I discepoli si trovano come pecore tra i denti affilati dei lupi. E i lupi quando azzannano scarnificano la preda.
Una missione che parte con il piede sbagliato, tutta in salita. La persecuzione sarà sempre in agguato (cfr. Lc 6,22-23). Gli inviati avranno in eredità il destino di Colui che li manda nel mondo: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). Non è una probabilità, è pura certezza: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). Dalla loro parte avranno soltanto lo Spirito Santo: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Il loro sangue non sarà sparso invano, testimonierà contro i carnefici perché ricada su di loro «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria [...] ucciso tra il santuario e l’altare» (Mt 23,35).
Gesù esige, data l’urgenza della missione, la massima povertà e anche essenzialità nelle relazioni: non bisogna perdersi in chiacchiere inutili.
Gesù poi tratteggia il bon ton del missionario. Innanzi tutto egli è un uomo di pace; è colui che porta la pace che per un israelita è la pienezza dei doni divini. Non bisogna vagabondare di casa in casa e di buon grado mangiare quello che sarà messo dinanzi. Una regola d’oro con la quale viene abrogata la distinzione mosaica tra cibi puri e impuri (cfr. Mc 7,19). Ridonare la salute agli infermi entra nell’opera missionaria: con essa si attesta il potere affidato agli inviati. Gesù è sempre presente e continua a insegnare e a guarire (cfr. Mc 16,20). Se il missionario non viene accolto deve ritirarsi senza recriminare o polemizzare, anche se il ritiro deve essere accompagnato da un gesto molto forte ed eloquente:  Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi. Quando i pellegrini giungevano in Terra santa scrupolosamente pulivano i loro piedi per non portare alcuna impurità sul suolo di Dio. Gesù suggerisce di fare il gesto inverso: ai piedi dei missionari non deve restare attaccato alcunché di impuro. Un gesto che diventerà usuale della prima comunità cristiana (cfr. At 13,51).
 
Equa retribuzione - Presbyterorum Ordinis 20: I presbiteri si dedicano pienamente al servizio di Dio nello svolgimento delle funzioni che sono state loro assegnate; è logico pertanto che siano equamente retribuiti, dato che «l’operaio ha diritto alla sua paga» (Lc 10,7), e «il Signore ha disposto che coloro ai quali annunciano il Vangelo vivano del Vangelo» (1Cor 9,14). In base a ciò, se non si provvede in un altro modo a retribuire equamente i presbiteri, sono i fedeli stessi che vi devono pensare, dato che è per il loro bene che essi lavorano; i fedeli, cioè, sono tenuti da vero obbligo a procurare che non manchino ai presbiteri i mezzi per condurre una vita onesta e dignitosa. Spetta ai vescovi ricordare ai fedeli questo loro grave obbligo, e provvedere - ognuno per la propria diocesi, o meglio ancora riunendosi in gruppi interessati a uno stesso territorio - all’istituzione di norme che garantiscano un mantenimento dignitoso per quanti svolgono o hanno svolto una funzione al servizio del popolo di Dio. Quanto poi al tipo di retribuzione che deve essere assegnata a ciascuno, bisogna considerare sia la natura stessa della funzione sia le diverse circostanze di luogo e di tempo. Comunque è bene che tale retribuzione sia fondamentalmente la stessa per tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni, e che soddisfi veramente i loro bisogni ed esigenze: il che significa che deve anche consentire ai presbiteri di retribuire il personale che presta servizio presso di loro e di soccorrere personalmente in qualche modo i bisognosi, dato che questo ministero a favore dei poveri è stato tenuto in grande considerazione da parte della Chiesa fin dalle origini. Nello stabilire la quantità della retribuzione per i presbiteri, occorre pensare che essa deve consentire anche un tempo sufficiente di ferie ogni anno; e i vescovi hanno il dovere di controllare se i presbiteri dispongono di questo necessario riposo.
Comunque, il rilievo maggiore va dato all’ufficio che svolgono i sacri ministri. Per questo, il sistema noto sotto il nome di sistema beneficiale deve essere abbandonato, o almeno riformato a fondo, in modo che la parte beneficiale - ossia il diritto al reddito di cui è dotato l’ufficio ecclesiastico - sia trattata come cosa secondaria, e venga messo in primo piano, invece, l’ufficio stesso. D’ora in avanti, inoltre, per ufficio ecclesiastico si deve intendere qualsiasi incarico conferito in modo stabile per un fine spirituale.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
La comunione al tuo sacramento, Signore,
ci infiammi di quel fuoco di carità che ispirò
la tua santa vergine Teresa di Gesù Bambino
a offrirsi a te per la salvezza di tutti gli uomini.
Per Cristo nostro Signore.
 
1 Ottobre 2018
 
Santa Teresa di Gesù Bambino, Carmelitana, Dottore della Chiesa
 
Teresa, al secolo Marie Françoise Thérèse Martin,  nasce il 2 gennaio 1873, ultimogenita di Louis Martin e Marie Zélie Guérin, in rue Saint-Blaise, 36 (oggi 42), ad Alençon, cittadina della Normandia situata nel nord della Francia. I suoi genitori (beatificati il 19 ottobre 2008 a Lisieux, a l’occasione della Giornata Mondiale delle Missioni) avevano desiderato entrambi di abbracciare la vita monastica: tuttavia i due si conobbero e, dopo un breve fidanzamento, il 13 luglio 1858, decisero di sposarsi pur vivendo il loro matrimonio nella castità. Andati ad abitare in via del Pont-Neuf, vissero per dieci mesi come fratello e sorella. Accadde invece che il loro confessore e padre spirituale li dissuase da questo proposito: nacquero loro così nove figli di cui quattro morirono ancora neonati.
Dopo la morte della madre, avvenuta il 28 agosto 1877, Teresa si trasferisce con tutta la famiglia nella città di Lisieux. Verso la fine del 1879 si accosta per la prima volta al sacramento della penitenza. Nel giorno di Pentecoste del 1883 ha la singolare grazia della guarigione da una grave malattia, per l’intercessione di nostra Signora delle Vittorie. Educata dalle Benedettine di Lisieux, riceve la prima comunione l’8 maggio 1884, dopo una intensa preparazione, coronata da una singolare esperienza della grazia dell’unione intima con Cristo.
Poche settimane più tardi, il 14 giugno dello stesso anno, riceve il sacramento della cresima, con viva consapevolezza di ciò che comporta il dono dello Spirito Santo nella personale partecipazione alla grazia della Pentecoste. Desiderosa di abbracciare la vita contemplativa, come le sue sorelle Paolina e Maria nel Carmelo di Lisieux, ma impedita per la sua giovane età, durante un pellegrinaggio in Italia, dopo aver visitato la Santa Casa di Loreto e i luoghi della Città Eterna, nell’udienza concessa dal Papa ai fedeli della diocesi di Lisieux, il 20 novembre 1887, con filiale audacia chiede a Papa Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci, 1878-1903) di poter entrare nel Carmelo all’età di 15 anni.
Fu così che, a poco più di quindici anni, il 9 aprile 1888, Teresa fa il suo ingresso al Carmelo di Lisieux. Il 10 gennaio dell’anno seguente riceve l’abito dell’Ordine della Vergine ed emette la sua professione religiosa l’8 settembre del 1890, festa della Natività della Vergine Maria; assume il nome di “Teresa di Gesù Bambino”, aggiungendovi in seguito “del Volto Santo” così che il nome completo di Thèrèse da religiosa è “Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo”. Intraprende nel Carmelo il cammino della perfezione, tracciato dalla Madre Fondatrice, Teresa di Gesù, con autentico fervore e fedeltà, nell’adempimento dei diversi uffici comunitari a lei affidati. Illuminata dalla Parola di Dio, provata in modo particolare dalla malattia del suo amatissimo padre, Louis Martin, che muore il 29 luglio del 1894, si incammina verso la santità, ispirata dalla lettura del Vangelo, insistendo sulla centralità dell’amore.
Teresa ci ha lasciato nei suoi manoscritti autobiografici non solo i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche il ritratto della sua anima e le sue esperienze più intime. Scopre e comunica alle novizie affidate alla sue cure la piccola via dell’infanzia spirituale; riceve come dono speciale di accompagnare con il sacrificio e la preghiera due “fratelli missionari”. Penetra sempre di più nel mistero della Chiesa e, attirata dall’amore di Cristo, sente crescere in sé la vocazione apostolica e missionaria che la spinge a trascinare tutti con sé, incontro allo Sposo divino. Il 9 giugno del 1895, nella festa della SS. Trinità, si offre vittima di olocausto all’Amore misericordioso di Dio. Nel frattempo redige il primo manoscritto autobiografico, che consegna a Madre Agnese di Gesù nella sua festa, il 21 gennaio 1896.
Pochi mesi più tardi, il 3 aprile, durante la notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ha una prima manifestazione della malattia che la condurrà alla morte e che lei accoglie come la misteriosa visita dello Sposo divino. Nello stesso tempo entra nella prova della fede che durerà fino alla sua morte e della quale offrirà una sconvolgente testimonianza nei suoi scritti. Durante il mese di settembre conclude il Manoscritto B, che costituisce una stupenda illustrazione della piena maturità della Santa, specialmente mediante la scoperta della sua vocazione nel cuore della Chiesa.
Mentre peggiora la sua salute e continua il tempo della prova, nel mese di giugno 1897 inizia il Manoscritto C, dedicato alla Madre Maria di Gonzaga; nuove grazie la conducono ad una più alta perfezione ed ella scopre nuove luci sull’estensione del suo messaggio nella Chiesa a vantaggio delle anime che seguiranno la sua via.
L’8 luglio 1897 viene trasferita in infermeria. Le sue sorelle ed altre religiose raccolgono le sue parole, mentre i dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificano fino a culminare con la morte, nel pomeriggio del 30 settembre del 1897.
“Io non muoio, entro nella vita”, aveva scritto al suo fratello spirituale missionario don Bellier. Le sue ultime parole “Dio mio, io ti amo”sono il sigillo della sua esistenza, che all’età di 24 anni si spegne sulla terra per entrare, secondo il suo desiderio, in una nuova fase di presenza apostolica in favore delle anime, nella comunione dei Santi, per spargere una pioggia di rose sul mondo.
Fu canonizzata da Papa Pio XI il 17 maggio 1925 e dallo stesso Papa proclamata “Patrona universale delle missioni”, insieme a S. Francesco Saverio, il 14 dicembre 1927; dal 1944, assieme a Giovanna d’Arco, è considerata anche patrona di Francia. Dal 19 ottobre 1997, dopo che la richiesta di dottorato era stata fatta alla Santa Sede, una prima volta nel 1932 e poi ripresa nel 1987, Giovanni Paolo II l’ha nominata Dottore della Chiesa: è il 33° Dottore della Chiesa e la terza donna a ricevere questo riconoscimento dopo Teresa d’Avila e Caterina da Siena, entrambe dichiarate Dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970.
Fonte principale: vatican.va (“RIV./gpm”). 
 
 
BENEDETTO XVI (UDIENZA GENERALE, 6 aprile 2011)
 
Santa Teresa di Lisieux
 
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlarvi di santa Teresa di Lisieux, Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, che visse in questo mondo solo 24 anni, alla fine del XIX secolo, conducendo una vita molto semplice e nascosta, ma che, dopo la morte e la pubblicazione dei suoi scritti, è diventata una delle sante più conosciute e amate. La “piccola Teresa” non ha mai smesso di aiutare le anime più semplici, i piccoli, i poveri e i sofferenti che la pregano, ma ha anche illuminato tutta la Chiesa con la sua profonda dottrina spirituale, a tal punto che il Venerabile Papa Giovanni Paolo IInel 1997, ha voluto darle il titolo di Dottore della Chiesa, in aggiunta a quello di Patrona delle Missioni, già attribuitole da Pio XI nel 1927. Il mio amato Predecessore la definì “esperta della scientia amoris” (Novo Millennio ineunte, 27). Questa scienza, che vede risplendere nell’amore tutta la verità della fede, Teresa la esprime principalmente nel racconto della sua vita, pubblicato un anno dopo la sua morte sotto il titolo di Storia di un’anima. E’ un libro che ebbe subito un enorme successo, fu tradotto in molte lingue e diffuso in tutto il mondo. Vorrei invitarvi a riscoprire questo piccolo-grande tesoro, questo luminoso commento del Vangelo pienamente vissuto! La Storia di un’anima, infatti, è una meravigliosa storia d’Amore,raccontata con una tale autenticità, semplicità e freschezza che il lettore non può non rimanerne affascinato! Ma qual è questo Amore che ha riempito tutta la vita di Teresa, dall’infanzia fino alla morte? Cari amici, questo Amore ha un Volto, ha un Nome, è Gesù! La Santa parla continuamente di Gesù. Vogliamo ripercorrere, allora, le grandi tappe della sua vita, per entrare nel cuore della sua dottrina.
Teresa nasce il 2 gennaio 1873 ad Alençon, una città della Normandia, in Francia. È l’ultima figlia di Luigi e Zelia Martin, sposi e genitori esemplari, beatificati insieme il 19 ottobre 2008. Ebbero nove figli; di essi quattro morirono in tenera età. Rimasero le cinque figlie, che diventarono tutte religiose. Teresa, a 4 anni, rimase profondamente ferita dalla morte della madre (Ms A, 13r). Il padre con le figlie si trasferì allora nella città di Lisieux, dove si svolgerà tutta la vita della Santa.  Più tardi Teresa, colpita da una grave malattia nervosa, guarì per una grazia divina, che lei stessa definisce il “sorriso della Madonna” (ibid., 29v-30v). Ricevette poi la Prima Comunione, intensamente vissuta (ibid., 35r), e mise Gesù Eucaristia al centro della sua esistenza.
La “Grazia di Natale” del 1886 segna la grande svolta, da lei chiamata la sua “completa conversione” (ibid., 44v-45r). Guarisce, infatti, totalmente dalla sua ipersensibilità infantile e inizia una “corsa da gigante”. All’età di 14 anni, Teresa si avvicina sempre più, con grande fede, a Gesù Crocifisso, e si prende a cuore il caso, apparentemente disperato, di un criminale condannato a morte e impenitente (ibid., 45v-46v). “Volli ad ogni costo impedirgli di cadere nell’inferno”, scrive la Santa, con la certezza che la sua preghiera lo avrebbe messo a contatto con il Sangue redentore di Gesù. È la sua prima e fondamentale esperienza di maternità spirituale: “Tanta fiducia avevo nella Misericordia Infinita di Gesù”, scrive. Con Maria Santissima, la giovane Teresa ama, crede e spera con “un cuore di madre” (cfr PR 6/10r).
Nel novembre del 1887, Teresa si reca in pellegrinaggio a Roma insieme al padre e alla sorella Celina (ibid., 55v-67r). Per lei, il momento culminante è l’Udienza del Papa Leone XIII, al quale domanda il permesso di entrare, appena quindicenne, nel Carmelo di Lisieux. Un anno dopo, il suo desiderio si realizza: si fa Carmelitana, “per salvare le anime e pregare per i sacerdoti” (ibid., 69v). Contemporaneamente, inizia anche la dolorosa ed umiliante malattia mentale di suo padre. È una grande sofferenza che conduce Teresa alla contemplazione del Volto di Gesù nella sua Passione (ibid., 71rv). Così, il suo nome da Religiosa - suor Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo - esprime il programma di tutta la sua vita, nella comunione ai Misteri centrali dell’Incarnazione e della Redenzione. La sua professione religiosa, nella festa della Natività di Maria, l’8 settembre 1890, è per lei un vero matrimonio spirituale nella “piccolezza” evangelica, caratterizzata dal simbolo del fiore: “Che bella festa la Natività di Maria per diventare la sposa di Gesù! - scrive - Era la piccola Vergine Santa di un giorno che presentava il suo piccolo fiore al piccolo Gesù” (ibid., 77r). Per Teresa essere religiosa significa essere sposa di Gesù e madre delle anime (cfr Ms B, 2v). Lo stesso giorno, la Santa scrive una preghiera che indica tutto l’orientamento della sua vita: chiede a Gesù il dono del suo Amore infinito, di essere la più piccola, e sopratutto chiede la salvezza di tutti gli uomini: “Che nessuna anima sia dannata oggi” (Pr 2). Di grande importanza è la sua Offerta all’Amore Misericordioso, fatta nella festa della Santissima Trinità del 1895 (Ms A, 83v-84r; Pr 6): un’offerta che Teresa condivide subito con le sue consorelle, essendo già vice maestra delle novizie.
Dieci anni dopo la “Grazia di Natale”, nel 1896, viene la “Grazia di Pasqua”, che apre l’ultimo periodo della vita di Teresa, con l’inizio della sua passione in unione profonda alla Passione di Gesù; si tratta della passione del corpo, con la malattia che la condurrà alla morte attraverso grandi sofferenze, ma soprattutto si tratta della passione dell’anima, con una dolorosissima prova della fede (Ms C, 4v-7v). Con Maria accanto alla Croce di Gesù, Teresa vive allora la fede più eroica, come luce nelle tenebre che le invadono l’anima. La Carmelitana ha coscienza di vivere questa grande prova per la salvezza di tutti gli atei del mondo moderno, chiamati da lei “fratelli”. Vive allora ancora più intensamente l’amore fraterno (8r-33v): verso le sorelle della sua comunità, verso i suoi due fratelli spirituali missionari, verso i sacerdoti e tutti gli uomini, specialmente i più lontani. Diventa veramente una “sorella universale”! La sua carità amabile e sorridente è l’espressione della gioia profonda di cui ci rivela il segreto: “Gesù, la mia gioia è amare Te” (P 45/7). In questo contesto di sofferenza, vivendo il più grande amore nelle più piccole cose della vita quotidiana, la Santa porta a compimento la sua vocazione di essere l’Amore nel cuore della Chiesa (cfr. Ms B, 3v).
Teresa muore la sera del 30 settembre 1897, pronunciando le semplici parole “Mio Dio, vi amo!”, guardando il Crocifisso che stringeva nelle sue mani. Queste ultime parole della Santa sono la chiave di tutta la sua dottrina, della sua interpretazione del Vangelo. L’atto d’amore, espresso nel suo ultimo soffio, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore. Le semplici parole “Gesù Ti amo” sono al centro di tutti i suoi scritti. L’atto d’amore a Gesù la immerge nella Santissima Trinità. Ella scrive: “Ah tu lo sai, Divin Gesù Ti amo, / Lo Spirito d’Amore m’infiamma col suo fuoco, / È amando Te che io attiro il Padre” (P 17/2).
Cari amici, anche noi con santa Teresa di Gesù Bambino dovremmo poter ripetere ogni giorno al Signore che vogliamo vivere di amore a Lui e agli altri, imparare alla scuola dei santi ad amare in modo autentico e totale. Teresa è uno dei “piccoli” del Vangelo che si lasciano condurre da Dio nelle profondità del suo Mistero. Una guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi. Con l’umiltà e la carità, la fede e la speranza, Teresa entra continuamente nel cuore della Sacra Scrittura che racchiude il Mistero di Cristo. E tale lettura della Bibbia, nutrita dalla scienza dell’amore, non si oppone alla scienza accademica. La scienza dei santi, infatti, di cui lei stessa parla nell’ultima pagina della Storia di un’anima, è la scienza più alta. “Tutti i santi l’hanno capito e in modo più particolare forse quelli che riempirono l’universo con l’irradiazione della dottrina evangelica. Non è forse dall’orazione che i Santi Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso d’Aquino, Francesco, Domenico e tanti altri illustri Amici di Dio hanno attinto questa scienza divina che affascina i geni più grandi?” (Ms C, 36r). Inseparabile dal Vangelo, l’Eucaristia è per Teresa il Sacramento dell’Amore Divino che si abbassa all’estremo per innalzarci fino a Lui. Nella sua ultima Lettera, su un’immagine che rappresenta Gesù Bambino nell’Ostia consacrata, la Santa scrive queste semplici parole: “Non posso temere un Dio che per me si è fatto così piccolo! (...) Io Lo amo! Infatti, Egli non è che Amore e Misericordia!” (LT 266).
Nel Vangelo, Teresa scopre soprattutto la Misericordia di Gesù, al punto da affermare: “A me Egli ha dato la sua Misericordia infinita, attraverso essa contemplo e adoro le altre perfezioni divine! (...) Allora tutte mi paiono raggianti d’amore, la Giustizia stessa (e forse ancor più di qualsiasi altra) mi sembra rivestita d’amore” (Ms A, 84r). Così si esprime anche nelle ultime righe della Storia di un’anima: “Appena do un’occhiata al Santo Vangelo, subito respiro i profumi della vita di Gesù e so da che parte correre... Non è al primo posto, ma all’ultimo che mi slancio… Sì lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, con il cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui” (Ms C, 36v-37r). “Fiducia e Amore” sono dunque il punto finale del racconto della sua vita, due parole che come fari hanno illuminato tutto il suo cammino di santità, per poter guidare gli altri sulla stessa sua “piccola via di fiducia e di amore”, dell’infanzia spirituale (cf Ms C, 2v-3r; LT 226). Fiducia come quella del bambino che si abbandona nelle mani di Dio, inseparabile dall’impegno forte, radicale del vero amore, che è dono totale di sé, per sempre, come dice la Santa contemplando Maria: “Amare è dare tutto, e dare se stesso” (Perché ti amo, o Maria, P 54/22). Così Teresa indica a tutti noi che la vita cristiana consiste nel vivere pienamente la grazia del Battesimo nel dono totale di sé all’Amore del Padre, per vivere come Cristo, nel fuoco dello Spirito Santo, il Suo stesso amore per tutti gli altri. Grazie.
 
Pratica: Oggi, la mia giaculatoria: Mio Dio, io vi amo!
 
Preghiera: O Dio, nostro Padre, che, apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli, fa’ che seguiamo con serena fiducia la via tracciata da santa Teresa di Gesù Bambino, perché anche a noi si riveli la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore.
 

MERCOLEDÌ 30 SETTEMBRE 2020
 
S. GIROLAMO, SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA
 
Gb 9,1-12.14-16; Sal 87 (88); Lc 9,57-62
 
Martirologio Romano: Memoria di san Girolamo, sacerdote e dottore della Chiesa: nato in Dalmazia, nell’odierna Croazia, uomo di grande cultura letteraria, compì a Roma tutti gli studi e qui fu battezzato; rapito poi dal fascino di una vita di contemplazione, abbracciò la vita ascetica e, recatosi in Oriente, fu ordinato sacerdote. Tornato a Roma, divenne segretario di papa Damaso e, stabilitosi poi a Betlemme di Giuda, si ritirò a vita monastica. Fu dottore insigne nel tradurre e spiegare le Sacre Scritture e fu partecipe in modo mirabile delle varie necessità della Chiesa. Giunto infine a un’età avanzata, riposò in pace.
 
Colletta: O Dio, che hai dato al sacerdote san Girolamo una conoscenza viva e penetrante della Sacra Scrittura, fa’ che il tuo popolo si nutra sempre più largamente della tua parola, e trovi in essa una sorgente di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
Lascia tutto, subito, per me: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 ottobre 1987): Gesù chiama a seguire lui personalmente. Questa chiamata sta, si può dire, al centro stesso del Vangelo. Da una parte Gesù rivolge questa chiamata, dall’altra sentiamo gli evangelisti parlare di uomini che lo seguono, e anzi, di alcuni di essi che lasciano tutto per seguirlo. Pensiamo a tutte quelle chiamate di cui ci hanno trasmesso notizie gli evangelisti: “Uno dei discepoli gli disse: Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre. Ma Gesù gli rispose: Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti” (Mt 8,21-22): modo drastico di dire: lascia tutto, subito, per me. Così nella redazione di Matteo. Luca aggiunge la connotazione apostolica di questa vocazione: “Tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9,60). Un’altra volta, passando accanto al banco delle imposte, disse e quasi impose a Matteo, che ci attesta il fatto: “Seguimi. Ed egli si alzò e lo segui” (Mt 9,9; cfr. Mc 2,13-14). Seguire Gesù significa spesso lasciare non solo le occupazioni e recidere i legami che si hanno nel mondo, ma anche staccarsi dalla condizione di agiatezza in cui ci si trova, e anzi dare i propri beni ai poveri. Non tutti si sentono di fare questo strappo radicale: non se la sentì il giovane ricco, che pure fin dalla fanciullezza aveva osservato la Legge e forse cercato seriamente una via di perfezione. Ma “udito questo (cioè l’invito di Gesù), se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19,22; cfr. Mc 10,22). Altri, invece, non solo accettano quel “Seguimi”, ma, come Filippo di Betsaida, sentono il bisogno di comunicare ad altri la loro convinzione di aver trovato il Messia (Gv 1,43ss.). Lo stesso Simone si sente dire fin dal primo incontro: “Tu ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). L’evangelista Giovanni annota che Gesù “fissò lo sguardo su di lui”: in quello sguardo intenso vi era il “Seguimi” più forte e accattivante che mai. Ma sembra che Gesù, data la vocazione tutta speciale di Pietro (e forse anche il suo naturale temperamento) voglia far maturare gradualmente la sua capacità di valutare e accettare quell’invito. Il “Seguimi” letterale per Pietro verrà infatti dopo la lavanda dei piedi in occasione dell’ultima cena (cfr. Gv 13,36), e poi, in modo definitivo, dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade (Gv 21,19).

Gesù dopo essere stato rifiutato dai Samaritani riprende il suo cammino verso Gerusalemme. Mentre camminavano per la strada, un tale disse a Gesù...: i tre interlocutori, qui riportati da Luca, dimostrano che oltre ai discepoli altri uomini avrebbero voluto seguire Gesù. Il primo vuol seguire Gesù ovunque egli vada, il secondo chiede di andare a seppellire il padre, il terzo chiede di congedarsi da quelli di casa sua. La risposta di Gesù svela ai tre tali il loro cuore: il primo, prima o poi, dinanzi alle radicali esigenze evangeliche avrebbe abbandonato il cammino, il secondo se non si fosse deciso di recidere le radici che lo tenevano avvinghiato al suo mondo sarebbe rimasto per sempre morto dentro, il terzo, non comprendendo l’urgenza di mettere Dio al di sopra degli affetti familiari, sarebbe rimasto per sempre legato ai suoi congiunti. Parole, quelle di Gesù, che indicano la via per la sequela cristiana: povertà, radicalità, novità di vita, universalità, primato di Dio, mettere al centro della propria vita Gesù, e soltanto lui. Questa è l’unica via per mettersi dietro al Maestro e solo con lo sguardo fisso a Gesù, senza volgersi indietro o titubare, si è degni di entrare nel Regno dei Cieli.

Dal Vangelo secondo Luca 9,57-62: In quel tempo, mentre camminavano per la strada, un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».
 
Javer Pikaza: Gesù ha presentato se stesso nella forma archetipa di via (9,51); per conseguenza, la vita dei discepoli dovrà essere una sequela. Sappiamo, dal brano precedente (9,51-55), che seguire Gesù non ci offre alcun vantaggio o potere sugli altri. Le tre piccole unità che formano il nostro testo riassumono questo tema e ci fanno vedere il rischio e il valore della sequela di Gesù.
All’uomo che suppone che seguirlo sia come andare a una festa Gesù fa osservare: «Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (9,57-58). Ognuno degli elementi di questo mondo ha ricevuto un posto nell’insieme. Ha il suo posto la roccia, ha la tana la volpe ha il nido l’uccello ... Un generale che si avventura nella battaglia offre sempre una ricompensa ai suoi soldati. Un maestro garantisce il successo a colui che frequenta le sue lezioni. Solo Gesù, che ha l’audacia di chiamare tutti, non offre a nessun una ricompensa in questo mondo. Non promette beni sulla terra, perché la sua via porta al Calvario.
Ricordiamo che il termine con cui è designato Gesù è «Figlio dell’uomo». Appunto là dove è scomparso ogni potere e ogni forza viene a rivelarsi il potere definitivo di Dio sulla terra (simboleggiato nel Figlio dell’uomo).
Le due unità seguenti (9,59-60 e 61-62) presentano un’identica struttura letteraria e trasmettono un messaggio molto simile. Il discepolo suppone che sia possibile conciliare la sequela di Gesù con i vecchi obblighi di questo mondo: aver cura del padre e comportarsi bene con la famiglia. La risposta è tagliente: la sequela suppone un sì assoluto, totale, incondizionato. La verità del regno e la verità del mondo appartengono a due campi totalmente diversi, e non si possono conciliare come elementi di un’unica verità universale più ampia.
Ricordiamo che, in ciascuno di questi casi, la sequela fa pensare semplicemente alla vocazione cristiana. Gesù ha chiamato e chiama tutti gli uomini, invitandoli a ricevere il dono del regno e ad assumersi il suo destino di fedeltà e di sofferenza. A chi ha il coraggio di accompagnarlo egli offre quello che ha: la via della croce, la solitudine, la sofferenza.
In questa prospettiva, il «lascia che i morti seppelliscano i loro morti» ci trasmette una verità consolante.
Il regno è superiore alla famiglia; l’amore di Dio sorpassa tutti gli strati dell’amore per i fratelli e per i genitori. Perciò, di fronte alle esigenze di Gesù, è necessario superare tutti i piani della vita dell’uomo nel mondo. Solo quando si sarà scoperto questo mistero, quando l’amore (e la sofferenza) del regno apparirà nella sua profondità trasformante e salvatrice, si comprenderà il valore del padre e della madre; allora, non si offrirà loro il semplice affetto biologico e chiuso d’una famiglia di questo mondo, ma tutto quel mistero dell’amore profondo e distaccato che Gesù ci volle trasmettere.
Qualcosa di simile si può dire di colui che mette mano all’aratro ... e si volta indietro per accomiatarsi dalla famiglia. Metter mano all’aratro vuoi dire decidere in modo totale e definitivo. II regno di Gesù non è un miscuglio fra il sì e il no; perciò lo riceve solo colui che rischia. Orbene, accettando appunto questo rischio del vangelo si deve riconquistare la vera famiglia, per amarla con tutto l’amore (e il sacrificio) che la via di Gesù ci ha offerto.
 
Ti seguirò dovunque tu vada - H. Chr. Hahn: Cristo è colui che con il suo messaggio cammina verso il Padre e chiama al suo seguito. Senza la continua attualizzazione del fondamento strettamente cristocentrico, la sequela corre il pericolo di sviluppare un nuovo legalismo dietro la chiamata al «cammino nella fede». E. Schweizer mostra con questo esempio che nella sequela non sono evidenti opere etiche secondo determinate norme. «La sequela non è la via alla perfezione, ma la stessa perfezione richiesta» (H. Conzelmann). Questa acuta osservazione mostra che nella sequela il primo elemento è costituito dal rapporto dell’uomo con il Cristo. La vicinanza a lui è lo «spazio» della perfezione.
Seguire comporta anzitutto andare con Cristo, come facevano una volta i discepoli: «Essi non vengono chiamati né a opere imponenti né a nuove realizzazioni. Sono invitati a essere partecipi a quanto accade intorno  a Cristo» (E. Schweizer, Jesus Christus, 44).
Poiché non abbiamo più la possibilità di una nostra presenza intorno al Gesù terreno, dobbiamo essere là dove egli vuol condurre, oggi come allora, la sua esistenza. La «presenza» non è mai un atteggiamento passivo di spettatore. L’essere con Cristo, il seguirlo nel mondo, implica un’azione efficace, un impegno di tutte le proprie forze, non di uomini che si ostinano per un ideale utopico, ma di uomini normali, che seguono Cristo, fiduciosi che la sua forza diventi anche la loro. «Tu chiedi che noi, i senz’amore di questa terra, siamo il tuo amore; i disorientati, la tua pace; i senza voce, la tua parola» (M. Luise Kaschnitz).
Perché la realizzazione della vera sequela resti legata alla persona e alla forza trascinante di Gesù Cristo, in vista della chiamata a una fede operante, bisogna riconsiderare quanto proponeva Kierkegaard: «La vera sequela nasce non quando si dice: «devi seguire il Cristo ma quando si proclama ciò che Cristo ha fatto per me. Se l’uomo comprende e sente questa verità profonda, allora la sequela diventa naturale». Dall’equivoco individualistico mette in guardia O. Bruder: «L’amore di colui che segue Cristo è l’amore per un mondo da salvare».
 
Seguire Gesù casto, povero, obbediente: Perfectae caritatis 1: Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli evangelici vollero seguire Cristo con maggiore libertà ed imitarlo più da vicino, e condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio. Molti di essi, sotto l’impulso dello Spirito Santo, vissero una vita solitaria o fondarono famiglie religiose che la Chiesa con la sua autorità volentieri accolse ed approvò. Cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose, che molto ha contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia atta ad ogni opera buona e preparata al suo ministero per l’edificazione del corpo di Cristo (cfr. Ef 4,12), ma attraverso la varietà dei doni dei suoi figli appaia altresì come una sposa adornata per il suo sposo (cfr. Ap 21,2), e per mezzo di essa si manifesti la multiforme sapienza di Dio (cfr. Ef 3,10). In tanta varietà di doni, tutti coloro che, chiamati da Dio alla pratica dei consigli evangelici, ne fanno fedelmente professione, si consacrano in modo speciale al Signore, seguendo Cristo che, casto e povero (cfr. Mt 8,20; Lc 9,58), redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,8). Così essi, animati dalla carità che lo Spirito Santo infonde nei loro cuori (cfr. Rm 5,5) sempre più vivono per Cristo e per il suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). Quanto più fervorosamente, adunque, vengono uniti a Cristo con questa donazione di sé che abbraccia tutta la vita, tanto più si arricchisce la vitalità della Chiesa ed il suo apostolato diviene vigorosamente fecondo.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tutto ho lasciato perdere e considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui. (Cfr. Fil 3,8-9)
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Il sacrificio, che abbiamo celebrato nella festa di san Girolamo,
risvegli, Signore, il nostro spirito,
perché nella meditazione della Sacra Scrittura
vediamo il cammino da seguire e,
seguendolo fedelmente, raggiungiamo la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 

Beato Federico Albert Sacerdote e fondatore
 
Un’altra grande figura della santità, fiorita nell’Ottocento, nella città di Torino, che pur essendo nominata come crocevia di un ipotetico satanismo, ha invece dato alla Chiesa e al mondo cattolico numerosi santi, beati e venerabili, che hanno onorato proprio Torino con il frutto delle loro Opere sociali, assistenziali, fondazioni di Ordini e Congregazioni religiose.
E fra questi annoveriamo il beato Federico Albert che a Torino nacque il 16 ottobre 1820, primo dei sei figli di Lucia Riccio e del generale Luigi Albert, dello Stato Maggiore del Regno Sabaudo. Si sa che trascorse l’infanzia presso i nonni materni, ma si ignora dove frequentò la scuola elementare.
Raggiunto i 15 anni, la famiglia era convinta che fosse inclinato alla carriera militare, quindi suo padre si attivò per farlo ammettere all’Accademia militare di Torino.
Improvvisamente però avvenne una svolta nella vita del giovane Federico, perché un giorno mentre stava pregando nella chiesa di S. Filippo, presso l’altare del beato Sebastiano Valfré (1629-1710) oratoriano di Torino, sentì l’ispirazione di diventare sacerdote.
Il padre sorpreso e nel contempo contrariato, non oppose però difficoltà e così a 16 anni, nell’autunno del 1836, Federico Albert indossò l’abito talare, incominciando la sua formazione religiosa presso il clero della Chiesa degli Oratoriani; nel contempo per la sua formazione culturale si iscrisse alla Facoltà Teologica presso la Regia Università di Torino, laureandosi in teologia il 19 maggio 1843; il successivo 10 giugno fu ordinato sacerdote.
Per la posizione del padre e per le sue spiccate doti sacerdotali, fu segnalato all’attenzione della Corte Sabauda e così nel 1847, il re Carlo Alberto lo nominò Cappellano di Corte; padre Federico Albert esercitò quest’Ufficio senza isolarsi dalle necessità apostoliche esterne alla Corte, e quindi nel contempo si interessò a sollevare i bisogni dei poveri e derelitti, che a Torino come in tutta Italia, erano numerosi in quell’epoca.
Il tempo in cui visse alla Corte dei Savoia, fu difficile per i rapporti fra Stato e Chiesa, che specie in Piemonte, fulcro del Risorgimento Italiano, furono abbastanza traumatici, mettendo a dura prova molti cattolici.
Padre Albert usò tutta la coerenza e il tatto possibile, offrendo anche suggerimenti in linea con il Vangelo, meritando perfino la stima del sovrano Vittorio Emanuele II e dei suoi familiari.
Ma la sua insoddisfazione per non poter esercitare a tempo pieno il suo ministero sacerdotale, gli fece lasciare l’incarico a Corte e si presentò a s. Giovanni Bosco, che in quegli anni rivoluzionava a Torino, la catechesi e l’istruzione giovanile.
Don Bosco l’accolse tra i suoi collaboratori e gli diede l’incarico nel 1848, di predicare gli Esercizi spirituali ai giovani dell’Oratorio di Valdocco. Ancora per due anni dal 1850 al 1852 si dedicò al ministero presso la parrocchia di S. Carlo; nel 1852 ebbe l’incarico di vicario e poi come parroco a Lanzo Torinese.
In quel periodo il paese di Lanzo aveva già una notevole attività commerciale, per il suo mercato diventato il centro dell’alta valle ma anche dei paesi della pianura canavese, ma non aveva ancora un’industria e quindi la sua economia era piuttosto debole; padre Albert fece diventare Lanzo Torinese, il centro delle istituzioni scolastiche e sociali dell’alta e bassa valle.
Il suo programma di parroco è racchiuso nella scritta, che fece porre nell’atrio della casa parrocchiale “Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle” e che professò fino alla morte. Fondò l’asilo infantile nel 1858 affidandolo alle Suore di Carità; nel 1859 fondò l’Orfanotrofio per le fanciulle abbandonate e nel 1866 realizzò l’educandato femminile con la scuola elementare, con corsi di francese, di disegno, di musica e per la preparazione a diventare maestre.
La sua opera ebbe grande diffusione e apprezzamento, perché a quell’epoca, specie nei centri rurali era impedito alle ragazze di accedere all’istruzione; nel 1864 si adoperò affinché s. Giovanni Bosco aprisse a Lanzo un Oratorio, che poi diventò un Collegio per i ragazzi.
In campo pastorale indisse le missioni per il popolo, a cui dedicava tutto sé stesso, giorno e notte; grande predicatore tenne varie volte gli esercizi spirituali per il clero e per i laici. Alla fine nel 1869, per assicurare la continuità delle sue opere educative, padre Albert fondò l’Istituto delle “Suore Vincenzine di Maria Immacolata” oggi conosciute come “Suore Albertine”; fondate per un’urgenza di carità locale e secondo le forme di apostolato del tempo, oggi eseguono il loro ‘servizio’ nei veri campi dell’educazione, istruzione, assistenza, dovunque possono arrivare, senza aspettare iter burocratici.
Rifiutò le proposte di diventare vescovo delle diocesi di Biella e di Pinerolo, per rimanere accanto alle sue opere parrocchiali. Sulla scia della “questione operaia” esplosa in Italia in quel periodo, padre Albert capì l’importanza di aprire una “questione contadina” e nel 1873 fondò una Colonia Agricola per formare agricoltori onesti, religiosi ed esperti.
E fu proprio nelle adiacenze della Colonia Agricola, che padre Federico Albert, perse la propria vita in un incidente, perché cadde da un’impalcatura montata provvisoriamente, per applicare dei festoni alla volta della Cappella, che aveva fatto erigere per l’Oratorio parrocchiale.
Cadde da sette metri d’altezza, battendo fortemente la testa; trasportato dai soccorritori nella casa parrocchiale, ci si rese conto subito della gravità del suo stato; gli furono amministrati gli ultimi sacramenti e al suo capezzale accorse anche s. Giovanni Bosco, che era in visita all’Istituto Salesiano di Lanzo; padre Albert morì due giorni dopo, la mattina del 30 settembre 1876.
Sepolto inizialmente nel cimitero di Lanzo, fu traslato nel 1877 nella Cappella del Cuore di Maria, nella chiesa parrocchiale di S. Pietro in Vincoli.
È stato beatificato da papa Giovanni Paolo II il 30 settembre 1984.

 
DAGLI SCRITTI DEL BEATO FEDERICO ALBERT

(Archivio della Congregazione delle Suore Vincenzine di Maria Immacolata, Manoscritti del Beato)

Amiamo Dio perché si merita amore

Fratelli, siamo fermi nella fede! Il fine che ebbe il Signore nell’elargirci il dono della fede fu non di dare una sterile cognizione alla nostra mente, ma di illuminare i nostri passi perché si dirigessero, sicuri, per quella strada che mena all’eterna vita: la strada della giustizia, la strada della virtù. La fede guida i nostri passi nella via della pace. La fede in un Dio onnipotente deve far nascere in noi due distinti sentimenti: un sentimento di illimitata confidenza e un sentimento di sacro timore.
Dio vuole essere chiamato da noi col dolce nome di Padre, perché come un padre amorosissimo ci ha dato l’essere, ci ha comunicato la vita, ci ha formati a sua immagine e somiglianza, provvede a tutti i nostri bisogni e ci ha preparato un’eredità eterna onde farci per sempre felici. Corrispondiamo a tanto paterno amore con un ossequio filiale, con una illimitata confidenza in lui e temiamo grandemente di offenderlo. Amiamo dunque Dio perché si merita amore: l’incomparabile sua bontà a nostro riguardo
Dio vuole essere chiamato da noi col dolce nome di Padre, perché come un padre amorosissimo ci ha dato l’essere, ci ha comunicato la vita, ci ha formati a sua immagine e somiglianza, provvede a tutti i nostri bisogni e ci ha preparato un’eredità eterna onde farci per sempre felici. Corrispondiamo a tanto paterno amore con un ossequio filiale, con una illimitata confidenza in lui e temiamo grandemente di offenderlo. Amiamo dunque Dio perché si merita amore: l’incomparabile sua bontà a nostro riguardo esige da noi tenerezza e amore. E chi non amerà un Signore così buono e amabile, il quale tutto ciò che ha fatto di grande sulla terra nell’ordine della natura e della grazia, tutto ciò che ha fatto di bello nel cielo, nell’ordine della gloria, lo ha fatto per noi? Nel tempo stesso che dobbiamo adorare in Dio una maestà infinita, noi possiamo chiamarci figlioli di Dio medesimo e questo Dio così grande noi possiamo salutare col dolce e caro nome di Padre.
E ancora, fratelli quanti preziosi vantaggi noi riceveremo se l’amore del prossimo.
E ancora, fratelli quanti preziosi vantaggi noi riceveremo se l’amore del prossimo sarà con noi! Oltre alla pace e alle ineffabili dolcezze che accompagnano una vita seminata di opere di carità, infiorata di opere di beneficenza, noi possiamo dire di essere fatti arbitri della nostra sorte eterna. Noi siamo fatti i giudici della propria nostra causa. La giustizia divina pone fra le nostre mani la sua bilancia e ci avverte che il peso medesimo che noi useremo con i nostri fratelli sarà usato con noi. Siamo generosi, siamo caritatevoli, siamo amanti dei nostri fratelli, e il Signore sarà generoso, caritatevole e amoroso verso di noi! Dobbiamo essere benevoli verso tutti ed esserlo di tutto cuore, perché tutti godiamo della stessa figliolanza di quel Dio che ci ama tutti e ci ha detto di amarci gli uni gli altri come lui ci ama. Sentire pena delle miserie e delle altrui sciagure, stendere pietosa la mano, asciugare le lacrime di chi ha provato il colmo della desolazione, far cessare gli stenti di chi soffre la fame, sono queste le opere di un cuore nobile e di un animo grande.

Pratica: Amerò Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima.

PREGHIERA
Dio grande e misericordioso,
che al tuo servo Federico Albert, sacerdote,
hai concesso di trarre dalla sua incessante preghiera
un ardente zelo per la salvezza delle anime,
concedi anche a noi
di attingere alla stessa fonte l’amore per i fratelli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio,
che è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

 

 29 SETTEMBRE 2020
 
 MARTEDÌ XXVI SETTIMANA T. O.
 
SANTI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE – FESTA
 
Dn 7,9-10.13-14 oppure: Ap 12,7-12a; Sal 137 (138); Gv 1,47-51
 
Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele: Dell’esistenza di questi Angeli parla esplicitamente la Sacra Scrittura. Michele, “chi è come Dio?”, è citato nella Bibbia come primo dei principi e custode del popolo di Israele (Dn 12,1), nella Lettera di Giuda è definito come arcangelo, mentre nell’Apocalisse di Giovanni, conduce i suoi angeli nella battaglia contro satana, e lo sconfigge (Ap 12,7-8). Gabriele, “fortezza di Dio”, è l’annunciatore delle divine rivelazioni. Rivela a Daniele i segreti del piano di Dio (Dn 9,21-22). Annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni (Lc 1,11-19) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-31). Raffaele, “medicina di Dio”, ha il compito di accompagnare il giovane Tobi per rendergli sicuro il cammino in strade sconosciute e gli suggerisce come guarire il padre dalla temporanea cecità.
Al «nostro disincantato mondo occidentale basato sulla scienza sperimentale manca, molto spesso, quello sguardo di stupore che contraddistingue invece le persone semplici e i bambini. Il nostro tempo seleziona le verità della fede col criterio del “politicamente corretto” e del “credibile”, buttando nella pattumiera tutto ciò che - a parer nostro, dominatori dell’universo - stride con il buon senso. Parlare di angeli significa parlare di Dio, aprirsi alla fede nell’altrove, nel di più significa credere che non tutta la realtà si esaurisce sotto le nostre dita. Tra questi amici di Dio tre angeli rivestono un ruolo fondamentale: Michele Raffaele e Gabriele, annunciatori, validi combattenti, discreti compagni di strada. Vuoi sapere cosa pensa Dio di te? Chiama in soccorso Gabriele, mille volte meglio della posta celere. Ti senti depresso e non trovi cura al tuo malumore? È lì per te Raffaele - medicina di Dio - che ti guida come ha fatto discretamente con Tobia. Ti senti travolto dalla negatività e dalla parte oscura della vita? Michele è lì per te: carattere impetuoso e combattivo non vede l’ora di fare a botte. Ci sono amici, ci sono, provate a chiamarli, vedrete che vengono, gente di poca fede!» (Paolo Curtaz).
 
Colletta:  O Dio, che chiami gli Angeli e gli uomini  a cooperare al tuo disegno di salvezza, concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati, che in cielo stanno davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
 
San Michele Arcangelo protettore e sostenitore della Chiesa: Giovanni Paolo II (Discorso, 24 maggio 1987): Per quanto frammentarie, le notizie della Rivelazione sulla personalità ed il ruolo di San Michele sono molto eloquenti. Egli è l’Arcangelo che rivendica i diritti inalienabili di Dio. È uno dei principi del Cielo eletto alla custodia del Popolo di Dio, da cui uscirà il Salvatore. Ora il nuovo popolo di Dio è la Chiesa. Ecco la ragione per cui Essa lo considera come proprio protettore e sostenitore in tutte le sue lotte per la difesa e la diffusione del regno di Dio sulla terra. È vero che «le porte degli inferi non prevarranno», secondo l’assicurazione del Signore, ma questo non significa che siamo esenti dalle prove e dalle battaglie contro le insidie del maligno. In questa lotta, l’Arcangelo Michele è a fianco della Chiesa per difenderla contro tutte le nequizie del secolo, per aiutare i credenti a resistere al Demonio che «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare». Questa lotta contro il Demonio, che contraddistingue la figura dell’Arcangelo Michele, è attuale anche oggi, perché il Demonio è tuttora vivo ed operante nel mondo. Infatti il male che è in esso, il disordine che si riscontra nella società, l’incoerenza dell’uomo, la frattura interiore della quale è vittima non sono solo le conseguenze del peccato originale, ma anche effetto dell’azione infestatrice ed oscura del Satana, di questo insidiatore dell’equilibrio morale dell’uomo, che San Paolo non esita a chiamare «il dio di questo mondo», in quanto si manifesta come astuto incantatore, che sa insinuarsi nel gioco del nostro operare per introdurvi deviazioni tanto nocive, quanto all’apparenza conformi alle nostre istintive aspirazioni. Per questo l’Apostolo delle Genti mette i cristiani in guardia dalle insidie del Demonio e dei suoi innumerevoli satelliti, quando esorta gli abitanti di Efeso a rivestirsi «dell’armatura di Dio per poter affrontare le insidie del Diavolo, poiché la nostra lotta non è soltanto col sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i Dominatori delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria».
 
Nell’incontrare Natanaèle, Gesù manifesta una conoscenza sovraumana: Ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi. Nel vangelo di Giovanni, Gesù dà spesso prova di una conoscenza superiore degli avvenimenti e delle persone (6,61; 13,1), e di essere padrone di ogni situazione che gli si presenta: Gesù, conosce tutti e non ha bisogno che alcuno dia testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosce quello che c’è nell’uomo (Gv 2,23-25). Vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio… Giovanni si ispira alla scala di Giacobbe (Gn 28,10-17). Come in quell’episodio della Genesi, il riferimento agli angeli significava l’incontro e la comunicazione di Dio con gli uomini, così qui Gesù, in quanto Figlio dell’uomo, è diventato il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,47-51: In quel tempo, Gesù, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».
 
Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): L’incontro Gesù-Natanaele è ben descritto. Gesù gli fa capire che lo conosce in profondità; anzi, che l’ha conosciuto e visto, e perciò scelto, prima ancora che Filippo lo chiamasse. Gesù già sapeva che Natanaele era un vero israelita, cioè che apparteneva a quel resto di Israele, povero e umile, che viveva, alimentandosi alle Scritture, l’ansiosa attesa del Messia.
Di fronte a questa esperienza Natanaele pronuncia il suo atto di fede, premettendo di riconoscersi discepolo. Egli chiama Gesù «Rabbi», cioè «Maestro», e poi aggiunge: «Tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele». Il suo atto di fede è unicamente fondato sulle Scritture ed è strettamente legato alle profezie messianiche davidiche. L’espressione «Figlio di Dio» non ha qui la solennità di 1,34. Qui è spiegata dall’espressione: «Tu sei il re d’Israele». Il Messia, atteso come discendente di Davide, era, secondo la promessa, chiamato «figlio di Dio» (2Sam 7,14; Sal 89,4-5.27-28). Natanaele si mantiene come Filippo, in un orizzonte puramente naziona­listico. Gesù che lo porta a conoscere il di più: «Vedrai cose maggiori di queste»; e poi passa all’uso del plurale, chiaro indizio che qui Natanaele è visto come tipo di un gruppo: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (l,51).
Natanaele, sentendo Gesù, è subito riportato alle Scrit­ture, a quanto scrisse Mosè; in particolare al sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22). Ora però, si parla di «cielo aperto», e non si parla di «terra»; perciò MO si ò dire con Giacobbe: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è la casa di Dio; questa è la porta del cielo». Ora questo luogo, questa casa, questa porta è il Figlio dell’uomo, come ama chiamarsi Ge­sù; ed è lui che apre la via del cielo.
È difficile dire che cosa, quel giorno, abbia capito Natanaele, ma è certo che per l’evangelista e la comunità cristiana Gesù è il tempio di Dio, il luogo di incontro tra Dio e l’umanità, tra Dio e ciascun uomo. Certamente le Scritture (per noi cristiani l’Antico Testamento) ci parlano e ci conducono a Gesù, come hanno condotto Filippo e Natanaele. Il compimento delle Scritture, però, va oltre il previsto: la realtà, supera la promessa.
 
San Gabriele - Mons. Lucio A. M. Renna (Vescovo, Omelia, 29 Settembre 2013): Gabriele (forza di Dio)] è il messaggero della buona novella e viene inviato per annunciare agli uomini gli interventi straordinari dell’Eterno. A Daniele svela il piano di Dio (Dn 8,16; 9,21s);  a Zaccaria annuncia la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-20); a Maria, il mistero dell’Incarnazione (Lc 1,26-38) nella mirabile icona lucana della casa di Nazareth. In merito all’annunciazione, «era ben giusto che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi… Gabriele veniva per annunziare colui che si degnò di apparire nell’umiltà per debellare le potenze maligne dell’aria. Dove dunque essere annunziato da “fortezza” colui che veniva quale signore degli eserciti e forte guerriero» (S. Gregorio Magno). «Come sono belli i passi di colui che reca un lieto annunzio», esclamiamo con parole bibliche. Il nostro pensiero va certamente a Gabriele, ma anche a tutte le persone che disseminano parole e sentimenti di pace e di speranza. Esse ci ricordano anche che ciascuno di noi cristiano è inviato a portare il lieto annuncio della liberazione da ogni forma di schiavitù, specialmente morale. Mi sovviene un canto intitolato «Meraviglioso» dove si parla di un angelo vestito da passante. Quando lungo le strade, nelle nostre piazze vediamo dei poliziotti ci sentiamo più sicuri e protetti. Sappiamo tuttavia che la loro presenza, mentre rassicura noi scatena in alcuni reazioni che rendono sempre più pericoloso il loro ministero. Ma, a parte questo, dovremmo essere tutti, l’un per l’altro, motivo di rassicurazione e di aiuto, differentemente da come la logica dominante e la prassi imperante ci costringe: sparlare, calunniare, trinciare giudizi, spargere parole amare. Se riscoprissimo la forza liberante vivificante e trasfigurante delle parole benevoli!”
 
San Raffaele - Benedetto XVI (Omelia 29 Settembre 2007); San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.
 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Vedrete il cielo aperto e gli Angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo». (Gv 1,51)
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Fortifica, o Dio, il nostro spirito con la potenza misteriosa
del pane eucaristico e con l’aiuto dei tuoi Angeli
fa’ che avanziamo con rinnovato vigore
nella via della salvezza.
Per Cristo nostro Signore.

 29 Settembre 2020

 
SS. Michele, Gabriele, Raffaele, Arcangeli
 
Il Martirologio commemora insieme i santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. La Bibbia li ricorda con specifiche missioni: Michele avversario di Satana, Gabriele annunciatore e Raffaele soccorritore. Prima della riforma del 1969 si ricordava in questo giorno solamente san Michele arcangelo in memoria della consacrazione del celebre santuario sul monte Gargano a lui dedicato.
Il titolo di arcangelo deriva dall’idea di una corte celeste in cui gli angeli sono presenti secondo gradi e dignità differenti. Gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele occupano le sfere più elevate delle gerarchie angeliche. Queste hanno il compito di preservare la trascendenza e il mistero di Dio. Nello stesso tempo, rendono presente e percepibile la sua vicinanza salvifica.
  
Il nuovo calendario ha riunito in una sola celebrazione i tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, la cui festa cadeva rispettivamente il 29 settembre, il 24 marzo e il 24 ottobre.
Dell’esistenza di questi Angeli parla esplicitamente la Sacra Scrittura che dà loro un nome e ne determina la funzione:  
S. Michele, l’antico patrono della Sinagoga, è ora patrono della Chiesa universale;
S. Gabriele è l’angelo dell’Incarnazione e forse dell’agonia nell’orto degli ulivi;
S. Raffaele è la guida dei viandanti.
 
Michele è citato nella Bibbia come primo dei principi e custode del popolo di Israele: «Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.» (Dn 12,1) 
Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9 : «
Nel Nuovo Testamento è definito come arcangelo nella Lettera di Giuda 9 : «L’arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore! » mentre nell’Apocalisse di Giovanni, Michele conduce i suoi angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge: «Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo.» (Ap 12,7-8)
Dopo l’affermazione del cristianesimo, il culto per S. Michele ebbe in Oriente una diffusione enorme: ne sono testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri a lui dedicati. Perfino il grande fiume Nilo fu posto sotto la sua protezione; anche la chiesa funeraria del Cremlino a Mosca è dedicata a S. Michele.
In Occidente si hanno testimonianze di un culto, con le numerosissime chiese intitolate a volte a S. Angelo, a volte a S. Michele, come pure località e monti vennero chiamati Monte S. Angelo o Monte S. Michele, come il celebre santuario e monastero in Normandia in Francia, il cui culto fu portato forse dai Celti sulla costa della Normandia; certo è che esso si diffuse rapidamente nel mondo Longobardo, nello Stato Carolingio e nell’Impero Romano.
In Italia sano tanti i posti dove sorgono cappelle, oratori, grotte, chiese, colline e monti tutti intitolati all’arcangelo Michele che non si può accennarli tutti.
Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel S. Angelo a Roma, che, com’è noto, era diventata una fortezza in difesa del Pontefice.
 
Significato del nome Michele : “chi come Dio?”(ebraico).
 
Gabriele  è l’annunciatore per eccellenza delle divine rivelazioni.  Rivela a Daniele i segreti del piano di Dio: «intesi la voce di un uomo, in mezzo all’Ulai, che gridava e diceva: “Gabriele, spiega a lui la visione”.» (Dn 8, 16) -  «mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me: era l’ora dell’offerta della sera. Egli mi rivolse questo discorso: “Daniele, sono venuto per istruirti e farti comprendere”.» (Dn 9, 21-22).
Gabriele annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni : «Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni…” L’angelo gli rispose: “Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a portarti questo lieto annunzio”.»(Lc 1, 11-19);
Gabriele annunzia a Maria la nascita di Gesù: «Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.”» (Lc 1, 26-31).  
 
Significato del nome Gabriele : “uomo di Dio” (assiro), “fortezza di Dio” (ebraico).
 
Raffaele anch’egli sta davanti al trono di Dio: «Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti ad entrare alla presenza della maestà del Signore.»(Tb 12, 15);  - «Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe» (Ap 8,2). Accompagna e custodisce Tobia nelle peripezie del suo viaggio e gli guarisce il padre cieco.
Dei tre, Raffaele è il meno noto, e meno diffuso è il suo culto tra i fedeli. Forse ciò dipende dal fatto che egli appare soltanto nell’Antico Testamento, ma non nel Nuovo, dove figura invece Gabriele, l’Angelo dell’Annunciazione, e Michele, l’Angelo guerriero dell’Apocalisse.
Anche nell’arte Raffaele ha avuto minore abbondanza di raffigurazioni. Nell’iconografia cristiana i suoi attributi sono il pesce e il vaso dei medicamenti ma appare anche accanto al giovanetto Tobiolo, come attento compagno di viaggio, specialmente nell’episodio del pesce catturato nel Tigri.
Raffaele è invocato come protettore dei mali della carne e delle infermità del corpo. Ma più giustamente, viene considerato come esemplare Custode nei viaggi: colui al quale ogni padre, come Tobia, vorrebbe affidare il proprio figlio che affronta, solo, il lungo e sconosciuto viaggio della vita.
Essendo un personaggio di un libro deuterocanonico della Bibbia, Raffaele non è riconosciuto dalla maggior parte dei Protestanti.
 
Significato del nome Raffaele : “Dio guarisce, ha guarito” (ebraico).
 
Fonti principali: santiebeati.it; wikipedia.org (“RIV./gpm”).
  
Pratica: Onererò gli Angeli con preghiere e suppliche, invocando la loro protezione.
 
Preghiera:  O Dio, che chiami gli Angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza, concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati che in cielo stanno davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...