1 Febbraio 2019

VENERDÌ III SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO


Oggi Gesù ci dice: «Avete dovuto sopportare una lotta grande. Non abbandonate dunque la vostra franchezza.» (I Lettura).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 4,26-34: La parabola del granello di senape e del lievito mettono in evidenza il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del regno e della sua espansione. Un convincente monito alla pazienza. Se l’uomo è impaziente, Dio invece dà un’impostazione più ampia e più tollerante al suo piano di salvezza: «Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Ed è anche un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.

A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio - benedetto Prete (I Quattro Vangeli)La similitudine riferita dai tre Sinottici, è annoverata da Marco e Matteo tra quelle pronunziate da Cristo nella giornata delle parabole, da Luca (13,18-19) è posta in un periodo posteriore, verso la fine del ministero pubblico di Gesù. La forma interrogativa (a quale cosa paragoneremo il regno di Dio?...) con la quale s’introduce la parabola è simile a quella usata dai rabbini, quando, nel loro insegnamento, invitavano gli uditori a sforzarsi per comprenderlo. È il più piccolo; il comparativo (μικρότερον) ha valore di superlativo, come avviene di frequente nel Nuovo Testamento. L’autore non vuol dire che il granello di senape sia effettivamente il più piccolo seme esistente in natura, ma che è un chicco minuscolo. Questo seme era proverbialmente usato come paragone per designare una piccola cosa; i rabbini infatti dicevano spesso «piccolo come un granello di senape» (cf. Mt., 17,20). Cresce e diviene più grande...; la parabola puntualizza questo aspetto dell’immagine; il chicco cresce e diviene grande. Gli evangelisti non vogliono rivolgere l’attenzione sul granello di senape che diviene la più grande delle leguminose, ma semplicemente che esso cresce e diviene grande, come fa capire apertamente Luca, il quale omette l’espressione «più grande di tutte le leguminose», ma dice soltanto che «cresce e diventa albero» (cf. Lc., 13,19). Possono stare alla sua ombra; κατασκηνοῦν (letteral.: attendarsi) ha qui il semplice valore di posarsi, stare; non già quello di abitare o nidificare. Il particolare descrittivo non contiene nessun senso allegorico. Con la parabola del granello di senape si vuole lumeggiare questo aspetto del regno di Dio: come il minuscolo chicco di senape ha uno sviluppo sorprendente e quasi impensabile, data la sua piccolezza, così il regno di Dio, pur avendo inizi modesti, raggiungerà uno sviluppo inatteso ed insospettato.

Il Vangelo del regno di Dio - R. Deville e P. Grelot: 1. Gesù dà al regno di Dio il primo posto nella sua predicazione. Ciò che egli annuncia nelle borgate di Galilea è la buona novella del regno (Mt 4, 23; 9,35). «Regno di Dio», scrive Marco; «regno dei cieli », scrive Matteo conformandosi alle abitudini del linguaggio rabbinico: le due espressioni sono equivalenti. I miracoli, accompagnando la predicazione, sono i segni della presenza del regno e ne fanno intravvedere il significato.
Con la sua venuta ha termine il dominio di Satana, del peccato e della morte sugli uomini: «Se in virtù dello spirito di Dio io scaccio i demoni, è dunque venuto per voi il regno di Dio» (Mt 12,28). Ne consegue la necessità di una decisione: bisogna convertirsi, abbracciare le esigenze del regno per diventare discepoli di Gesù.
2. Gli Apostoli, mentre è in vita il loro maestro, ricevono la missione di proclamare a loro volta questo vangelo del regno (Mt 10,7). Perciò, dopo la Pentecoste, il regno rimane il tema centrale della predicazione evangelica, anche in S. Paolo (Atti 19,8; 20,25; 28,23.31). Se i fedeli che si convertono soffrono mille tribolazioni, si è «per entrare nel regno di Dio » (Atti 14,22), perché Dio «li chiama al suo regno ed alla sua gloria» (1Tess 2,12). Ormai soltanto il nome di Gesù Cristo si aggiunge al regno di Dio per costituire l’oggetto completo del vangelo (Atti 8,12): bisogna credere in Gesù per avere accesso al regno.

L’annunzio del Regno di Dio - Catechismo della Chiesa Cattolica: 543 Tutti gli uomini sono chiamati ad entrare nel Regno. Annunziato dapprima ai figli di Israele, questo Regno messianico è destinato ad accogliere gli uomini di tutte le nazioni. Per accedervi, è necessario accogliere la Parola di Gesù: La Parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato in un campo: quelli che l’ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il Regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto.
544 Il Regno appartiene ai poveri e ai piccoli, cioè a coloro che l’hanno accolto con un cuore umile. Gesù è mandato per “annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4,18). Li proclama beati, perché “di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3); ai “piccoli” il Padre si è degnato di rivelare ciò che rimane nascosto ai sapienti e agli intelligenti. Gesù condivide la vita dei poveri, dalla mangiatoia alla croce; conosce la fame, e l’indigenza. Anzi, arriva a identificarsi con ogni tipo di poveri e fa dell’amore operante verso di loro la condizione per entrare nel suo Regno.
545 Gesù invita i peccatori alla mensa del Regno: “Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori”(Mc 2,17). Li invita alla conversione, senza la quale non si può entrare nel Regno, ma nelle parole e nelle azioni mostra loro l’infinita misericordia del Padre suo per loro e l’immensa “gioia” che si fa “in cielo per un peccatore convertito” (Lc 15,7). La prova suprema di tale amore sarà il sacrificio della propria vita “in remissione dei peccati” (Mt 26,28).
546 Gesù chiama ad entrare nel Regno servendosi delle parabole, elemento tipico del suo insegnamento. Con esse egli invita al banchetto del Regno, ma chiede anche una scelta radicale: per acquistare il Regno, è necessario “vendere” tutto; le parole non bastano, occorrono i fatti. Le parabole sono come specchi per l’uomo: accoglie la Parola come un terreno arido o come un terreno buono? Che uso fa dei talenti ricevuti? Al cuore delle parabole stanno velatamente Gesù e la presenza del Regno in questo mondo. Occorre entrare nel Regno, cioè diventare discepoli di Cristo per “conoscere i Misteri del Regno dei cieli” (Mt 13,11). Per coloro che rimangono “fuori”, tutto resta enigmatico.

Il regno di Dio - Lumen gentium 5: Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l’avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: «Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio» (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: «Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio» (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto «a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti» (Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36 Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria.

Adalberto Sisti - senza parabole non parlava loro: questa osservazione si ritrova pure in Mt 13,34 ed è curioso che questo evangelista la riferisca nel bel mezzo del discorso in parabole e non alla fine come in Marco. Per molti studiosi ciò fa pensare ad una fonte comune, che i due evangelisti avrebbero utilizzato in maniera diversa. Quanto al valore dell’affermazione in se stessa, non è da pensare che Gesù si servisse di parabole in modo esclusivo, ma solo in modo prevalente e sempre allo scopo di annunciare qualche verità (in greco si ha il medesimo verbo del v. 33: «annunciava la parola»).
- ai ... discepoli in privato: come al solito (vv. 10-12), i discepoli sono messi su un piano diverso e trattati con maggior fiducia (...)  Marco vuol dire che Gesù con i discepoli usava spiegare in termini propri quanto alle folle aveva insegnato in parabole, affinché potessero comprendere con maggior compiutezza il mistero del regno (v. 11). E ciò perché essi erano meglio disposti e preparati a intenderne l’insegnamento; ma anche perché destinati a ripeterlo fra tutte le genti, alle quali Gesù un giorno li avrebbe inviati per continuare la sua opera.

Spesso il cuore del credente è invaso dalla sfiducia, tutto sembra avvoltolarsi nel fango, nella stupidità, nel non senso, tutto sembra portare il marchio dell’arrivismo, del protagonismo, eppure la Parola di Dio smorza gli effetti devastanti di queste osservazioni e valutazioni umane, e offre ottimi motivi per sperare, e vivere così nella pace, nella gioia, nella serenità... il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa: la Parola di Dio ha una forza intrinseca che la rende inviolabile a tutti i tentavi di soffocarla: Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata (Is 55,10-11). Il regno di Dio è come un granello di senape: anche la fragilità del peccato rende piccolo, fragile il seme, ma il seme cresce perché è Dio che fa crescere (1Cor 3.16), ma deve morire per portare frutto (Gv 12,24), e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura. Un altro motivo per sperare è il fatto che Gesù parla al cuore secondo la sua capacità di intendere, perché Egli vuole che tutti gli uomini arrivino alla conoscenza della verità (1Tm 2,4)). Ma se il discepolo entra nell’intimità della sua amicizia allora una misura buona, pigiata, colma e traboccante sarà versata nel suo cuore (Lc 6,38).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno. (Cfr. Mt 11,25)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà, perché nel nome del tuo diletto Figlio portiamo frutti generosi di opere buone. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



31 Gennaio 2019


Giovedì III SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO


Oggi Gesù ci dice: «Fate attenzione a quello che ascoltate.» (Vangelo).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 4,21-25: Se è lapalissiano che Dio e il mondo sono due realtà che si escludono a vicenda, è pur vero che dobbiamo incarnarci in questo mondo: a questo mondo dobbiamo dare sapore; a questo mondo che si avvoltola nel suo peccato dobbiamo portare la luce di Cristo. Se è vero che “una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è [...] conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27), è anche vero che siamo mandati a questo mondo (Mt 16,15), perché “desista dalla sua condotta perversa e viva” (Ez 3,18) della vita di Dio. Questo mondo ha un disperato bisogno della luce di Dio, della nostra testimonianza, della nostra vita, delle nostre opere buone, per conoscere e benedire Dio, il Padre di tutti che sta nei cieli. I cristiani hanno nei confronti del mondo una missione: riconciliarlo con Dio. Per portare a termine questa opera, non “possiamo perdere il sapore e la luminosità del cristianesimo diluendoli in chiacchiere, e neanche in semplici pratiche pie. Vedendo la nostra fede religiosa e la nostra condotta orientate alla fratellanza e all’amore, la gente ci riconoscerà come portatori della luce di Cristo e darà gloria al Padre. Come il sale e la luce, la nostra fede e la nostra condizione cristiana non ammettono mezzi termini: o trasformano e illuminano la vita, o non servono a niente” (Basilio Caballero).

Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? - J.-B. BRUNON: Con la sua luce, la lampada significa una presenza viva, quella di Dio, quella dell’uomo.
1. La lampada, simbolo della presenza divina. - «La mia lampada sei tu, a Jahve» (2Sam 2,29). Con questo grido il salmista proclama che Dio solo può dare luce e vita. Non è egli forse il creatore dello spirito che è nel­l’uomo come «una lampada di Jahve» (Prov 20,27)? Non rischiara forse egli come una lampada la via del fedele con la sua parola (Sal 119,105), con i suoi comandamenti (Prov 6,23)?
Le Scritture profetiche non sono forse «una lampada che brilla in luogo oscuro, sino a che il giorno incominci a spuntare e l’astro del mattino si levi nei nostri cuori » (2Piet 1,19)? Quando verrà questo giorno supremo non ci sarà più «notte; gli eletti faranno a meno di lampada a di sole per farsi luce», perché «l’agnello sarà la loro lucerna» (Apoc 22,5; 21,23).
2. La lampada, simbolo della presenza umana. - Il simbolismo della lampada si ritrova nel piano più umile della presenza umana. A David, Jahve promette una lampada, cioè una discendenza perpetua (2Re 8,19; 1Re 11,36; 15,4). Per contro, se il paese è infedele, Dio minaccia di fare sparire da esso «la luce della lampada» (Ger 25,10): allora non ci sarà più felicità duratura per il malvagio la cui lampada presto si spegne (Prov 13,9; Giob 18,5s).
Per esprimere la sua fedeltà a Dio e la continuità della sua preghiera, Israele fa ardere in perpetuo una lampada nel santuario (Es 27,20ss; 1 Sam 3,3); lasciarla spegnere, significherebbe far intendere a Dio che lo si abbandona (2Cron 29,7). Per contro, beati coloro che vegliano nell’attesa del Signore, come le giovani donne prudenti (Mt 25, 1-8) od il servo fedele (Lc 12,35), le cui lampade restano accese.
Dio attende ancora di più dal suo fedele: invece di lasciare la sua lampada sotto il moggio (Mt 5,15s par.), egli deve brillare come un luminare in mezzo ad un mondo perverso (Fil 2,15), come già il profeta Elia, la cui «parola bruciava come una fiaccola» (Eccli 48,1), come ancora Giovanni Battista, questa «lucerna che arde e risplende» (Gv 5,35) per rendere testimonianza alla vera luce (1,7s). Così anche la Chiesa, fondata su Pietro e Paolo, « i due olivi e le due lucerne che stanno dinanzi al Signore della terra» (Apoc 11, 4), deve far risplendere fino alla fine dei tempi la gloria del figlio dell’uomo (1,12 s).

Essere luce: Veritatis splendor 89: Mediante la vita morale la fede diventa «confessione», non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini: si fa testimonianza. «Voi siete la luce del mondo - ha detto Gesù -; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16). Queste opere sono soprattutto quelle della carità e dell’autentica libertà che si manifesta e vive nel dono di sé. Sino al dono totale di sé, come ha fatto Gesù che sulla croce «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). La testimonianza di Cristo è fonte, paradigma e risorsa per la testimonianza del discepolo, chiamato a porsi sulla stessa strada: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23).

Voi siete la luce del mondo: Benedetto XVI (Omelia, 13 Settembre 2008): “Conservate le vostre lampade accese” (cfr. Lc 12,35): la lampada della fede, la lampada della preghiera, la lampada della speranza e dell’amore! Questo camminare nella notte, portando la luce, parla con forza al nostro intimo, tocca il nostro cuore e dice molto di più che ogni altra parola pronunciata o intesa. Questo gesto riassume da solo la nostra condizione di cristiani in cammino: abbiamo bisogno di luce e, allo stesso tempo, siamo chiamati a divenire luce. Il peccato ci rende ciechi, ci impedisce di proporci come guide per i nostri fratelli, e ci spinge a diffidare di loro e a non lasciarci guidare. Abbiamo bisogno di essere illuminati e ripetiamo la supplica del cieco Bartimeo: “Maestro, fa’ che io veda!” (Mc 10,51). Fa’ che io veda il mio peccato che mi intralcia, ma soprattutto: Signore, fa’ che io veda la tua gloria! Lo sappiamo: la nostra preghiera è già stata esaudita e noi rendiamo grazie perché, come dice san Paolo nella Lettera agli Efesini: “Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14), e san Pietro aggiunge: “Egli vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9). A noi che non siamo la luce, Cristo può ormai dire: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14), affidandoci la cura di fare risplendere la luce della carità. Come scrive l’apostolo san Giovanni: “Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v’è in lui occasione di inciampo” (1Gv 2,10).Vivere l’amore cristiano è fare entrare la luce di Dio nel mondo e, insieme, indicarne la vera sorgente. San Leone Magno scrive: “Chiunque, in effetti, vive piamente e castamente nella Chiesa, chi pensa alle cose di lassù, non a quelle della terra (cfr. Col 3,2), è in certo modo simile alla luce celeste; mentre realizza egli stesso lo splendore di una vita santa, indica a molti, come una stella, la via che conduce a Dio” (Serm. III, 5).

Far risplendere la luce: CCC 1816: Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la fede e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: “Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della Croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa”. Il servizio e la testimonianza della fede sono indispensabili per la salvezza: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,32-33).

Viene forse la lampada...: Ad gentes 36: Tutti i fedeli, quali membra del Cristo vivente, a cui sono stati incorporati ed assimilati mediante il battesimo, la cresima e l’eucaristia, hanno lo stretto obbligo di cooperare all’espansione e alla dilatazione del suo corpo, sì da portarlo il più presto possibile alla sua pienezza. Pertanto tutti i figli della Chiesa devono avere la viva coscienza della loro responsabilità di fronte al mondo, devono coltivare in se stessi uno spirito veramente cattolico e devono spendere le loro forze nell’opera di evangelizzazione. Ma tutti sappiano che il primo e principale loro dovere in ordine alla diffusione della fede è quello di vivere una vita profondamente cristiana. Sarà appunto il loro fervore nel servizio di Dio, il loro amore verso il prossimo ad immettere come un soffio nuovo di spiritualità in tutta quanta la Chiesa, che apparirà allora come «un segno levato sulle nazioni», come «la luce del mondo» (Mt 5,14) e «il sale della terra» (Mt 5,133). Una tale testimonianza di vita raggiungerà più facilmente il suo effetto se verrà data insieme con gli altri gruppi cristiani, secondo le norme contenute nel decreto relativo all’ecumenismo.

Fate attenzione a quello che ascoltate - C. Augustin: La rivelazione biblica è essenzialmente parola di Dio all’uomo. Ecco perché, mentre nei misteri greci e nella gnosi orientale la relazione dell ‘uomo con Dio si fonda soprattutto sulla visione, secondo la Bibbia «la fede nasce dall’ascolto» (Rom 10,17).
L’uomo deve ascoltare Dio. a) Ascoltate, grida il profeta con l’autorità di Dio (Am 3,1; Ger 7,2). Ascoltate, ripete il sapiente in nome dell’esperienza e della conoscenza della legge (Prov 1,8).
Ascolta, Israele, ripete ogni giorno il pio israelita per compenetrarsi della volontà del suo Dio (Deut 6,4; Mc 12,29). Ascoltate, riprende a sua volta Gesù stesso, parola di Dio (Mc 4, 3. 9 par.).
Ora, secondo il senso ebraico della parola verità, ascoltare, accogliere la parola di Dio, non significa soltanto prestarle attento orecchio, significa aprirle il proprio cuore (Atti 16, 14), metterla in pratica (Mt 7,24 ss), obbedire. Questa è l’obbedienza della fede richiesta dalla predicazione ascoltata (Rm 1,5; 10,14 ss).
Ma l’uomo non vuole ascoltare (Deut 18, 16. 19), ed è questo il suo dramma. È sordo agli appelli di Dio; il suo orecchio ed il suo cuore sono incirconcisi (Ger 6,10; 9, 25; Atti 7, 51). Ecco il peccato dei Giudei denunziato da Gesù: «Voi non potete ascoltare la mia parola... Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; se voi non ascoltate, è perché non siete da Dio» (Gv 8,43. 47).
Di fatto Dio solo può aprire l’orecchio del suo discepolo (Is 50,5; cfr. 1 Sam 9,15; Giob 36, IO), «forarglielo» perché obbedisca (Sal 40,7 s), Quindi, nei tempi messianici, i sordi sentiranno, ed i miracoli di Gesù significano che infine il popolo sordo comprenderà la parola di Dio e gli obbedirà (Is 29,18; 35,5; 42,18 ss; 43,8; Mt 11,5).
È quel che proclama ai discepoli la voce dal cielo: «Questo è il mio Figlio diletto, ascoltatelo» (Mt 17, 5 par.).
Maria, abituata a conservare fedelmente le parole di Dio nel proprio cuore (Lc 2,19.51), è stata proclamata beata dal figlio Gesù, quando ha rivelato il senso profondo della sua maternità: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (Lc 11,28).

Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi - J. Corbon e P. Grelot: Nei sinottici, la predicazione di Gesù si riferisce frequentemente al giudizio dell’ultimo giorno. Allora tutti gli uomini dovranno rendere conti (cfr. Mt 25,14-30). Una condanna rigorosa attende gli scribi ipocriti (Mc 12,40 par.), le città del lago che non hanno ascoltato la predicazione di Gesù (Mt 11,20-24), la generazione incredula che non si è convertita alla sua voce (12,39-42), le città che non accoglieranno i suoi inviati (10,14s), Il giudizio di Sodoma e Gomorra non sarà nulla in confronto al loro (10,23 s); essi subiranno il giudizio della Geenna (23,33). Questi insegnamenti pieni di minacce mettono in rilievo la motivazione principale del giudizio divino: l’atteggiamento assunto dagli uomini di fronte al vangelo. L’atteggiamento verso il prossimo conterà altrettanto: secondo la legge mosaica, ogni omicida era passibile di tribunale umano; secondo la legge evangelica, occorrerà molto meno per essere passibili della Geenna (Mt 5,21s)!
Bisognerà rendere conto di ogni calunnia (12,36). Si sarà giudicati con la stessa misura che si sarà applicata al prossimo (7,1-5). Ed il quadro di queste assise solenni, in cui il figlio dell’uomo funzionerà da giustiziere (25,31-46), mostra gli uomini accolti nel regno o consegnati alla pena eterna, secondo l’amore o l’indifferenza che avranno dimostrato verso il prossimo.
  
 Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. (Sal 118,105)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che in san Giovanni Bosco hai dato alla tua Chiesa un padre e un maestro dei giovani, suscita anche in noi la stessa fiamma di carità a servizio della tua gloria per la salvezza dei fratelli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



30 Gennaio 2019

Mercoledì III SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO


Oggi Gesù ci dice: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!» (Vangelo).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 4,1-20: La parabola del seminatore può essere divisa in due parti: nella prima parte vi è il racconto della semina del seme che cade ora lungo la strada, oppure sul terreno sassoso, o tra i rovi, e infine, altre parti cadono sul terreno buono; nella seconda parte v’è la spiegazione della parabola. Il seme è la Parola che ha una forza intrinseca (Is 55,10-11), ma la sua maturazione è determinata anche dal terreno e dalla azione degli eterni nemici della Parola. I diversi terreni sono gli uditori, la loro capacità e disponibilità nell’accogliere la Parola, mentre gli operatori che tendono a neutralizzare la Parola sono Satana, la tribolazione o la persecuzione a causa della Parola, le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, che soffocano la Parola. L’insegnamento della Parabola sta nell’invito a farsi terreno buono per portare frutto: ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre (Gc,1,17), ma “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Sant’Agostino, Sermo CLXIX,13).

Il seminatore è Gesù - Papa Francesco (Angelus, 16 luglio 2017): Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» (cfr v. 5), per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza» (v. 22), così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.

La Parola - A. Feuillet e P. Grelot (Parola di Dio, in Dizionario Teologia Bblica): Gesù annunzia il vangelo del regno, «annunzia la parola» (Mc 4,33), facendo conoscere in parabole i misteri del regno di Dio (Mt 13,11 par.). Apparentemente egli è un profeta (Gv 6,14) od un dottore che insegna in nome di Dio (Mt 22,16 par.). In realtà parla «con autorità» (Mc 1,22 par.), come in proprio, con la certezza che «le sue parole non pas­seranno» (Mt 24,35 par.). Questo atteggiamento lascia intravvedere un mistero, sul quale il quarto vangelo si china con predilezione. Gesù «dice le parole di Dio» (Gv 3,34), dice «ciò che il Padre gli ha insegnato» (Gv 8, 28). Perciò «le sue parole sono spirito e vita» (Gv 6,63). A più riprese l’evangelista usa con enfasi il verbo «parlare» per sottolineare l’importanza di questo aspetto di Gesù (ad es. Gv 3,11; 8,25-40; 15,11; 16,4...), perché Gesù «non parla da sé» (Gv 12,49s; 14,10), ma «come il Padre gli ha parlato prima» (Gv 12,50). Il mistero della parola profetica, inaugurato nel Vecchio Testamento, raggiunge quindi in lui il suo perfetto compimento. Perciò agli uomini viene intimato di prendere posizione di fronte a questa parola che li mette in contatto con Dio stesso. I sinottici riferiscono discorsi di Gesù che mostrano chiaramente la posta di questa scelta. Nella parabola del seme, la parola - che è il vangelo del regno - è accolta diversamente dai suoi diversi uditori: tutti «sentono»; ma soltanto quelli che la «comprendono» (Mt 13,23) o l’«accolgono» (Mc 4,20 par.) o la «custodiscono» (Lc 8,15), la vedono portare in essi il suo frutto. Così pure, al termine del discorso della montagna in cui ha proclamato la nuova legge, Gesù oppone la sorte di coloro che «ascoltano la sua parola e la mettono in pratica» alla sorte di coloro che «l’ascoltano senza metterla in pratica» (Mt 7,24.26; Lc 6,47.49): casa fondata sulla roccia, da una parte; sulla sabbia, dall’altra. Queste immagini introducono una prospettiva di giudizio; ognuno sarà giudicato sul suo atteggiamento di fronte alla parola: «Se uno avrà arrossito di me e delle mie parole, il figlio dell’uomo arrossirà anche di lui quando verrà nella gloria del Padre suo» (Mc 8,38 par.)

La Chiesa accoglie la Parola - Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini 50: Il Signore pronuncia la sua Parola perché venga accolta da coloro che sono stati creati proprio «per mezzo» dello stesso Verbo. «Venne tra i suoi» (Gv 1,11): la Parola non ci è originariamente estranea e la creazione è stata voluta in un rapporto di familiarità con la vita divina. Il Prologo del quarto Vangelo ci pone di fronte anche al rifiuto nei confronti della divina Parola da parte dei «suoi» che «non l’hanno accolto» (Gv 1,11). Non accoglierlo vuol dire non ascoltare la sua voce, non conformarsi al Logos. Invece, là dove l’uomo, pur fragile e peccatore, si apre sinceramente all’incontro con Cristo, inizia una trasformazione radicale: «a quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Accogliere il Verbo vuol dire lasciarsi plasmare da Lui, così da essere, per la potenza dello Spirito Santo, resi conformi a Cristo, al «Figlio unigenito che viene dal Padre» (Gv 1,14). È l’inizio di una nuova creazione, nasce la creatura nuova, un popolo nuovo. Quelli che credono, ossia coloro che vivono l’obbedienza della fede, «da Dio sono stati generati» (Gv 1,13), vengono resi partecipi della vita divina: figli nel Figlio (cfr Gal 4,5-6; Rm 8,14- 17). Dice suggestivamente sant’Agostino commentando questo passo nel Vangelo di Giovanni: «per mezzo del Verbo sei stato fatto, ma è necessario che per mezzo del Verbo tu venga rifatto». Qui vediamo delinearsi il volto della Chiesa, come realtà definita dall’accoglienza del Verbo di Dio che facendosi carne è venuto a porre la sua tenda tra noi (cfr Gv 1,14). Questa dimora di Dio tra gli uomini, questa shekinah (cfr Es 26,1), prefigurata nell’Antico Testamento, si compie ora nella presenza definitiva di Dio con gli uomini in Cristo.

Le parabole: Catechismo degli Adulti 125: Le parabole sono racconti simbolici, in cui il paragone fra due realtà viene elaborato in una narrazione. Si tratta di un genere letterario che aveva precedenti nell’Antico Testamento, come ad esempio la severa parabola con cui il profeta Natan indusse a conversione il re David; ma Gesù lo impiega in modo estremamente originale. Vi fa ricorso per lo più quando si rivolge a quelli che non fanno parte della cerchia dei discepoli: i notabili, le autorità, la folla dei curiosi. Narra con eleganza piccole storie verosimili, ambientandole nella vita ordinaria, quasi a insinuare che il Regno è già all’opera con la sua potenza nascosta. Ma ecco, nel bel mezzo della normalità, uscir fuori spesso l’imprevedibile, l’insolito, come ad esempio la paga data agli operai della vigna: uguale per tutti, malgrado il diverso lavoro. È la novità del Regno, il suo carattere di dono gratuito e incomparabile. Gesù fa appello all’esperienza delle persone. Invita a riflettere e a capire, a liberarsi dai pregiudizi. Il suo punto di vista si pone in contrasto con quello degli interlocutori. Ascoltando la parabola, costoro si trovano coinvolti dentro una dinamica conflittuale e sono costretti a scegliere, a schierarsi con lui o contro di lui. Anzi, la provocazione risulterebbe ancor più evidente, se conoscessimo le situazioni originarie concrete, in cui le parabole furono pronunciate. La loro forza comunque è ben superiore a quella di una generica esortazione moraleggiante.

Quale terra sono? - Giovanni Paolo II, Omelia, 4 giugno 1991) - «La parabola del seminatore, come ogni altra parabola nel Vangelo di Cristo, ha tuttavia il suo senso metaforico, analogico: parla del regno di Dio. Come la storia di questa terra viene attraversata dal lavoro di uomini-seminatori e aratori, così attraverso la storia dell’uomo - degli uomini che abitano la terra - procede il lavoro della parola di Dio e del suo Seminatore. Il Seminatore è Cristo. Già prima di lui vi erano molti seminatori della verità divina: “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi... per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato... per mezzo del Figlio” [Eb 1,1], Egli stesso - il Figlio eterno - è il Verbo consostanziale al Padre. Il Vangelo della nuova ed eterna Alleanza è la parola di questo Verbo. La terra nel corso di duemila anni è stata già abbondantemente seminata con questa parola. È soprattutto Cristo stesso come Verbo ha reso fertile questa terra della storia umana per mezzo della redenzione mediante il sangue della sua croce. È nella parola della croce continua la sua semina, dando inizio a “un nuovo cielo e una nuova terra” [cf. Ap 21,1]. Tutti i seminatori della parola di Cristo attingono la forza del loro servizio da quell’indicibile mistero, quale è diventata - una volta per sempre - l’unione del Dio Verbo con la natura umana, e in un certo senso con ogni uomo (come insegna l’ultimo Concilio, cfr. Gaudium et spes, 22). Cadono le parole del Vangelo sulla terra delle anime degli uomini, ma soprattutto il Verbo Eterno stesso, generato per opera dello Spirito Santo da una Vergine-Madre, è diventato fonte di vita per le anime umane. Nella parabola evangelica Cristo rivolge l’attenzione soprattutto sulla terra delle anime degli uomini e delle umane coscienze - e mostra che cosa avviene alla parola di Dio in dipendenza dalla specie di questa particolare terra. Udiamo dunque parlare di un seme che è stato portato via e non ha attecchito nel cuore dell’uomo, perché questi ha ceduto al Maligno e non ha capito la Parola. Sentiamo parlare del seme caduto sulla terra rocciosa, sulla terra dura - e che non era in grado di mettere le radici, dunque non ha resistito alla prima prova. Udiamo parlare del seme caduto tra i cardi e le spine - che è stato da essi soffocato [questi cardi e spine sono un’illusione della temporaneità e del benessere che passano]. Solamente il seme caduto sulla terra buona, fertile, produce frutto. Chi è questa terra fertile? Colui che ascolta la parola e la comprende. Ascolta e comprende. Non è sufficiente ascoltare, bisogna accoglierla con la mente e con il cuore. “Chi ha orecchi [per udire], intenda” [Mt 13, 9] - dice il Seminatore divino. Tutti abbiamo udito. Ognuno di noi domandi a se stesso: quale terra sono? Che cosa avviene del seme della verità divina nella mia vita?».

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tutti abbiamo udito. Ognuno di noi domandi a se stesso: quale terra sono? Che cosa avviene del seme della verità divina nella mia vita?».
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà, perché nel nome del tuo diletto Figlio portiamo frutti generosi di opere buone. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


29 Gennaio 2019

Martedì III SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO


Oggi Gesù ci dice: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Vangelo).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 3,31-35: L’evangelista Marco non dice il motivo della venuta di Maria e dei fratelli di Gesù. Forse sono preoccupati per la sua salute a motivo della spossante attività, o impensieriti a motivo della sua incondizionata disponibilità. Forse pensavano che esagerasse, forse..., ma in ogni caso l’episodio ci suggerisce che spesso agli uomini manca qualsiasi comprensione del misterioso operare di Dio. Dio dovrebbe rimanere chiuso nel nostro concetto di ordine e di buon senso, dovrebbe risparmiarsi nella fatica e nell’amore, dovrebbe donarsi con cautela. Tutto ciò che ci supera, ci sorprende e ci disturba, lo definiamo privo di senso, lo riteniamo esagerato. Ai latori della richiesta dei parenti Gesù risponde in modo chiaro, sono parole che non possono essere equivocate: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre. Gesù non rinnega la sua parentela naturale ma la subordina a un legame più alto, più nobile. più spirituale. Il regno di Dio richiede un impegno personale del discepolo il quale, a volte, deve trascendere tutti i legami naturali di famiglia o di gruppo etnico.

Gesù e i suoi parenti - Jean Radermakers (Lettura Pastorale del Vangelo di Marco):  Frattanto, si annuncia a Gesù una visita: sua madre e i suoi fratelli son fuori: «Ti cercano» (3,32), gli dicono, ripetendo l’invito di Simone a Gesù in preghiera (1,37). La folla è di nuovo presente e circonda il Maestro. Chi sono questi «fratelli» e queste «sorelle»? Questi termini, che esprimono normalmente una parentela di sangue, designavano anche, in ambiente semitico, i membri di una tribù, di un clan, di una famiglia (Gn 1.4,14-16; 29,15; Lv 10,4; 1Cr 23,22, cc.). Coscienti della fraternità che li legava fra loro a motivo di Gesù, che aveva loro rivelato il Padre dei cieli, i primi cristiani amavano chiamarsi «fratelli» (At 1,15; 9,17; 11,1; 12,17; 21,17-18: Rm 1,13; 1Cor 9,5; ecc.) e «sorelle» (Rm 16,1; 1Cor 7,15; 1Tm 5,2; Flm 2; Gc 2,15).
La risposta di Gesù ci ricorda la designazione dei dodici all’inizio della nostra sequenza. Gettando uno sguardo intorno sulla folla, esclama: «Ecco mia madre e i miei fratelli »,significando che ormai il rapporto degli uomini con lui determina una parentela più reale di quella dei legami carnali. Questo, a motivo della «volontà di Dio» (3,35): chiunque fa la volontà di Dio, sull’esempio di Gesù, diventa, per lui, fratello e sorella e madre. Non sono i legami carnali a gli incontri umani che determinano la parentela di Gesù, ma il riconoscimento della libera elezione di Dio. Non è in questo senso che Gesù aveva scelto «coloro che voleva» (3,13)?

In quel tempo, giunsero la madre di Gesù e i suoi fratelli Maria - “sempre Vergine” - Catechismo della Chiesa Cattolica: n. 499 L’approfondimento della fede nella maternità verginale ha condotto la Chiesa a confessare la verginità reale e perpetua di Maria anche nel parto del Figlio di Dio fatto uomo. Infatti la nascita di Cristo “non ha diminuito la sua verginale integrità, ma l’ha consacrata”. La Liturgia della Chiesa celebra Maria come la “Aeiparthenos”, “sempre Vergine”.
n. 500 A ciò si obietta talvolta che la Scrittura parla di fratelli e di sorelle di Gesù. La Chiesa ha sempre ritenuto che tali passi non indichino altri figli della Vergine Maria: infatti Giacomo e Giuseppe, “fratelli di Gesù” (Mt 13,55) sono i figli di una Maria discepola di Cristo, la quale è designata in modo significativo come “l’altra Maria” (Mt 28,1). Si tratta di parenti prossimi di Gesù, secondo un’espressione non inusitata nell’Antico Testamento.
n. 501 Gesù è l’unico Figlio di Maria. Ma la maternità spirituale di Maria si estende a tutti gli uomini che egli è venuto a salvare: “Ella ha dato alla luce un Figlio, che Dio ha fatto “il primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29), cioè dei fedeli, e alla cui nascita e formazione ella coopera con amore di madre”.

Ecco mia madre e i miei fratelli! - Benedetto Prete (I Quattro Vngeli): Chi è la madre mia? Cristo non finge d’ignorare la madre ed i parenti e tanto meno intende negare i legami del sangue; il tono della voce ha senz’altro fatto capire ai presenti il reale valore dell’espressione. Egli, mentre moriva sulla croce, mostrò un tenero interessamento per la sua madre (cf. Gio., 19,26-27); questo fatto prova che il Salvatore sentì e riconobbe i vincoli della parentela. La domanda che il Maestro rivolge ai presenti in questo passo serve a richiamare la loro attenzione sopra una nuova forma di parentela che passa tra Cristo ed i suoi seguaci; chi accoglie il messaggio evangelico partecipa ad una parentela spirituale con Gesù, la quale ha tutta l’intimità e la dolcezza della parentela fondata sui legami di sangue.

Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre - Volontà di Dio - Wolfgang Langer: Può essere descritta come il decreto di Dio che si rivela nella creazione e nella storia. I termini ebraici e greci designano il campo semantico nel quale si chiarisce il significato: desiderio, istanza, intenzione. La volontà crea tutto ciò che è. Non si ferma al “volere” ma nella determinazione della volontà è già compimento, azione ed esternazione del messaggio biblico non si parla di destino, ma di volontà che può significare chiamata, comandamento e richiesta.
La volontà. si esprime nella parola e nell’azione e in questo modo l’uomo la può riconoscere. Con ciò però è chiaro anche l’obbligo, per l’uomo, di sottomettersi alla volontà (Rm 9,19s).
Per l’israelita la pienezza della volontà divina si trova nella Legge rivelata, alla quale deve attenersi, e altrettanto nell’intervento salvifico di Dio nella storia, che per sua volontà diventa storia della salvezza. Promessa e vocazione, giudizio e salvezza manifestano la volontà. In assoluta indipendenza (Sap 12,12) e con sapienza, Dio guida la storia del mondo con il suo amore. Il suo popolo è prescelto in vista della salvezza, cosicché non la morte, ma la vita, non la sventura, ma la salvezza caratterizzano come volontà salvifica il progetto globale di Dio. L’uomo però non fu sempre consapevole di questo fatto. La volontà d’amore di Dio fu rigettata da molti dopo Adamo. Gesù Cristo ha pagato il debito adempiendo la volontà; egli è la salvezza del mondo. Ubbidendo al Padre suo, il sacrificio per gli uomini culmina dell’esclamazione: “... non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

Solo nella meditazione della parola di Dio è possibile cercare in ogni avvenimento la volontà di Dio: Apostolicam actuositatem 4: Solo alla luce della fede e nella meditazione della parola di Dio è possibile, sempre e dovunque, riconoscere Dio nel quale «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28), cercare in ogni avvenimento la sua volontà, vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo, giudicare rettamente del vero senso e valore che le cose temporali hanno in se stesse e in ordine al fine dell’uomo.

Non chi dice Signore, Signore..., ma chi compie la volontà di Dio entra nel regno dei cieli: Gaudium et spes: 93: I cristiani, ricordando le parole del Signore: «in questo conosceranno tutti che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri» (Gv 13,35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo. Perciò, aderendo fedelmente al Vangelo e beneficiando della sua forza, uniti con tutti coloro che amano e praticano la giustizia, hanno assunto un compito immenso da adempiere su questa terra: di esso dovranno rendere conto a colui che tutti giudicherà nell’ultimo giorno. Non tutti infatti quelli che dicono: «Signore, Signore», entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fanno la volontà del Padre e coraggiosamente agiscono. Perché la volontà del Padre è che in tutti gli uomini noi riconosciamo ed efficacemente amiamo Cristo fratello, con la parola e con l’azione, rendendo così testimonianza alla verità, e comunichiamo agli altri il mistero dell’amore del Padre celeste.

La comunità dei fratelli in Cristo. - Ancor vivente, Gesù ha posto egli stesso le basi ed ha enunciato la legge della nuova comunità fraterna: ha ripreso e perfezionato i comandamenti concernenti le relazioni tra fratelli (Mt 5,21-26), dando un posto notevole al dovere della correzione fraterna (Mt 18,15ss). Se quest’ultimo testo lascia intravvedere una comunità limitata, da cui il fratello infedele può essere escluso, altrove si vede che essa è aperta a tutti (Mt 5,47): ognuno deve esercitare il suo amore verso il più piccolo dei suoi fratelli sventurati, perché in essi trova sempre Cristo (Mt 25,40). Dopo la risurrezione, quando Pietro ha «confermato i suoi fratelli» (Lc 22,31s), i discepoli costi­tuiscono dunque tra loro una «comunità di fratelli» (1Piet 5,9). Certamente, all’inizio, continuano a dare il nome di «fratelli» ai Giudei, loro compagni di razza (Atti 2,29; 3,17 ... ). Ma Paolo vede in essi soltanto più suoi fratelli «secondo la carne» (Rom 9,3).
Infatti una nuova razza è sorta dai Giudei e dalle nazioni (Atti 14,1s), riconciliati nella fede in Cristo. Nulla più divide tra loro i suoi membri, neppure la differenza di condizione sociale tra padroni e schiavi (Filem 16); essi sono tutti uno in Cristo, tutti fratelli, fedeli diletti da Dio (ad es. Col, 2). Tali sono i veri figli di Abramo (Gal 3,7-29): costituendo il corpo di Cristo (1Cor 12, 12-27), essi hanno trovato nel nuovo Adamo il fondamento e la fonte della loro fraternità.
L’amore fraterno. - L’amore fraterno si esercita anzitutto in seno alla comunità credente. Questa «filadelfia sincera» non è una semplice filantropia naturale: non può venire che dalla «nuova nascita» (1Piet 1,22s).
Non ha nulla di platonico, perché, pur cercando di raggiungere tutti gli uomini, si esercita all’interno della piccola comunità: fuga dal dissensi (Gal 5,15), mutuo aiuto (Rom 15,1), elemosina (2Cor 8-9; 1Gv 3,17), delicatezza (1Cor 8,12). Essa conforta Paolo quando giunge a Roma (Atti 28,15). Nella sua lettera, Giovanni sembra aver dato alla parola «fratello» un’estensione universale, che altrove è riservata piuttosto alla parola «prossimo». Ma il suo insegnamento è identico, e pone l’amore fraterno in netta antitesi con l’atteggiamento di Caino (1Gv 3,12-16), facendone il segno indispensabile dell’amore verso Dio (1Gv 2,9-12).
Verso la fraternità perfetta. - Tuttavia la comunità dei credenti non è mai perfettamente realizzata qui in terra: vi si possono sempre trovare persone indegne (1Cor 5,11), ed introdurre falsi fratelli (Gal 2,4; 2Cor 11,26). Ma essa sa che un giorno il demonio, l’accusatore di tutti i fratelli dinanzi a Dio, sarà cacciato fuori (Apoc 12,10). In attesa di questa vittoria finale, che le permetterà di realizzarsi pienamente, essa attesta già che la fraternità umana è in cammino verso l’uomo nuovo sognato fin dalle origini.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà, perché nel nome del tuo diletto Figlio portiamo frutti generosi di opere buone. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



28 Gennaio 2019

 LUNEDÌ III SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO


Oggi Gesù ci dice: «In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna.» (Vangelo).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Marco 3,22-30: Rifiutare Cristo, e quindi la salvezza, è in definitiva il peccato che non sarà perdonato in eterno. I farisei avanzando malignamente l’ipotesi che Gesù è posseduto da uno spirito impuro danno a vedere di non aver capito bene la lezione, e così, passando dalla teoria alla pratica, si dichiarano rei di colpa eterna. In Gesù non vi è gusto alcuno di mandare all’inferno chi si oppone al suo insegnamento, ma essendosi rivelato Via Vita e Verità chi lo rifiuta smarrisce la Via e precipita nel disordine, sopra tutto etico; perde la vera Vita, la vita eterna, facendosi in questo modo discepolo di mille vane verità: in sostanza si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (Rm 1,21-23). Chi rifiuta Gesù ha già fissato il suo destino eterno.

Gli scribi che erano scesi da Gerusalemme, dicevano -Jean Radermakers (Lettura Pastorale del Vangelo di Marco): Siamo al centro del dibattito: la resistenza che gli scribi oppongono a Gesù viene smascherata dal linguaggio parabolico usato nei loro confronti, non solo perché egli si serve di immagini, ma anche perché manifesta con azioni che la potenza del Satana è scossa nei loro cuori, così come la loro sufficienza. E si scoprono alienati. L’uomo forte, che ognuno di loro credeva d’essere, si trova improvvisamente soggiogato dalla potenza di uno «più forte»: colui che era stato annunziato da Giovanni Battista (1,7). Egli distrugge la casa di Satana (cf. Is 49,24-26), inaugurando il regno del perdono.
C’è, nell’uomo, qualcosa di demoniaco quando si ripiega in se stesso e rifiuta la luce dello Spirito santo. Colui che smaschera le forze del male è anche colui che salva. L’accusa degli scribi non è solamente una calunnia: offendendo Dio direttamente o opponendosi alle manifestazioni del suo potere (cf. Es 22,27; Is 52,5; 2Mac 15,24), si sono messi a bestemmiare, e sanno che solo la lapidazione può lavare questo crimine (Lv 24,11-16). Se Gesù promette il perdono universale, fa tuttavia una restrizione: attribuire al Satana la potenza di cui egli dispone, significa non solo opporsi all’azione dello Spirito, ma anche rendere inefficace la misericordia divina. L’unico caso in cui il perdono può essere inefficace è il rifiuto del perdono. Affermare che Gesù agisce sotto l’influsso di «uno spirito impuro», significa in definitiva rifiutare di riconoscere la sua santità e contemporaneamente affermare la propria impurità.

La parabola - Alice Baum: Genere retorico nel quale un determinato pensiero viene illustrato servendosi di un’immagine. Il termine greco parabole usato nel Nuovo Testamento significa accostamento. Nelle parabole vengono accostate due realtà, una religiosa, la “metà oggettiva”, e una tratta dalla vita quotidiana dell’uomo, la “metà illustrativa”. Laddove la metà oggettiva, ciò che veramente la parabola vuol dire, rimane il più delle volte ine­spressa. L’uditore, o il lettore, la deve ricavare lui stesso dalla metà illustrativa. Così per es. nella parabola del seme che spunta da solo (Mc 4,26-29) la metà oggettiva va completata con l’immagine: il regno di Dio viene in maniera così inarrestabile come la messe dopo la semina. La parabola  va distinta dall’allegoria. Mentre in un’allegoria ogni tratto dell’immagine ha un significato proprio, a ciò che è presentato nella parabola corrisponde un’unica realtà religiosa.
Nei discorsi di Gesù in parabole  possiamo distinguere tre diverse forme. La parabola vera e propria si serve di un procedimento, o di un dato di fatto per esprimere una verità religiosa (parabola del granello di senape, la pecora smarrita e altre). La cosiddetta parabola è una storia inventata che racconta un caso singolo, talvolta fuori del comune (dieci vergini, Mt 25,1-13; figlio prodigo - o meglio: padre amorevole -, Lc 15,11-32). Nel racconto esemplare non viene traslata un’immagine o una storia nella realtà religiosa, “ma un pensiero religioso-morale viene illustrato per mezzo di un caso singolo”. Non si tratta tanto della conoscenza della verità, quanto del retto agire (buon samaritano, Lc 10,30-37; fariseo e pubblicano, Lc 18,9-14). Le parabole di Gesù fanno parte dello “strato originario della tradizione”. Per i suoi uditori non erano nulla di nuovo. Le si trovano anche nell’Antico Testamento e nell’insegnamento rabbinico. Nuovo era il contenuto: il regno di Dio che viene e la pretesa di Gesù di esserne il portatore. Le parabole rispecchiano l’ambiente palestinese in maniera così chiara che non si può dubitare della loro autenticità. Una spiegazione obiettiva non è tuttavia possibile se non si tiene presente che le parabole hanno un triplice Sitz im Leben, vale a dire vanno comprese a partire da tre diverse situazioni: l’annuncio di Gesù, la vita della chiesa primitiva e la prospettiva teologica del singolo evangelista.

Perché le parabole? - Bruno Maggioni: Se Gesù ha raccontato parabole non è semplicemente perché egli amava i paragoni, né semplicemente perché voleva che il suo parlare fosse chiaro c accessibile , ma perché quando si vuole parlare di Dio e del suo mistero non si può fare diversamente.
Il parlare simbolico dci Vangeli nasce da un’esigenza teologica, cioè dal fatto che non si può parlare direttamente del Regno di Dio, ma solo parabolicamente, indirettamente, mediante paragoni presi dalla vita. Per parlare di Dio non si può che partire dalle cose dell’uomo. Ed è proprio da questa origine che derivano le tre proprietà che caratterizzano il linguaggio parabolico. È un linguaggio inadeguato, perché desunto dal vissuto quotidiano, eppure pretende esprimere qualcosa che sta oltre c nel profondo.
Ma è nello stesso tempo un linguaggio aperto, in grado non certo di esprimere il Regno ma di alludervi: perché se è vero che il Regno non si identifica con la nostra storia, rimane pur vero che ha una profonda relazione con essa. Ed è un linguaggio che costringe a pensare: non definisce, non è un traguardo riposante, ma allude, provoca, invita ad andare oltre, rende pensosi. La parabola è un discorso globale che lascia intatto il discorso del Regno, mostrandone però l’impatto con l’esistenza dell’uomo.
Per questo la parabola inquieta e interroga. Di qui, però, l’ambivalenza delle parabole: sono luminose c oscure, rivelano c nascondono, richiedono uno sforzo di interpretazione c di decisione.
Lasciano trasparire il mistero di Dio a chi ha gli occhi penetranti c il cuore pronto; rimangono oscure per chi ha il cuore ottenebrato o distratto.

È posseduto da uno spirito impuro: Catechismo degli Adulti 214-215: Già al suo tempo [di Gesù] la gente, presa dallo stupore, si domandava: da dove gli viene questa autorità, questa potenza nell’operare e questa sapienza nel parlare? qual è la vera identità di quest’uomo? I discepoli stessi non finivano di meravigliarsi e si dicevano tra loro: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41). Presto «il suo nome era diventato famoso» (Mc 6,14) e in Galilea si affermava sempre più, nell’opinione popolare, l’idea che Gesù fosse un grande profeta taumaturgo; tant’è vero che, in occasione dell’ingresso solenne a Gerusalemme, ai cittadini che chiedono spiegazioni la folla dei pellegrini galilei risponderà: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea» (Mt 21,11). Per alcuni farisei era invece un falso profeta, posseduto da Satana, perché violava la legge e si intratteneva con i peccatori. Gesù, da parte sua, induce la gente a interrogarsi e lascia la domanda sempre aperta. Per non essere frainteso in senso politico nazionalista, evita di proclamarsi esplicitamente Messia, sebbene riceva pressioni in questo senso: «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (Gv 10,24). Invece di rispondere, invita a riflettere sul carattere misterioso di questo personaggio da tutti atteso: «Come mai dicono gli scribi che il Messia è figlio di Davide?... Davide stesso lo chiama Signore: come dunque può essere suo figlio?» (Mc 12,35.37).

In verità io vi dico: Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): In verità io vi dico; per la prima volta l’evangelista usa questa formula solenne; in verità traduce la parola ἀμήν, che è trascrizione dell’ebraico ‘amen (= veramente, sicuramente). Nel Vecchio Testamento il termine serviva ad approvare l’affermazione di un altro o a confermare un giuramento, e si riferiva a ciò che precedeva; Gesù invece la usa per dar forza all’espressione che segue. Tutto sarà perdonato ai figli degli uomini; il Maestro, dopo aver confutato con una logica serrata l’accusa degli Scribi, dà loro un severo ammonimento, indicando quale responsabilità essi abbiano nell’ostinarsi a non vedere e nell’impedire che altri vedano. Tutti i peccati saranno perdonati agli uomini che sono fragili ed inclinati al male (l’espressione «figli degli uomini» accentua l’idea della debolezza umana), ma a quelli che avranno bestemmiato contro lo Spirito Santo, non sarà rimesso il loro peccato. Bestemmiare (βλασφεμεῖν) significa: calunniare, diffamare, dir male; ma nel contesto il verbo designa un peccato particolare (cf. vers. 30) cioè: attribuire a Satana, lo spirito del male per antonomasia, ciò che è opera dello Spirito Santo, il principio di ogni bene. Non avrà perdono in eterno; l’espressione, quantunque in sé molto energica ed assoluta, non vuole affermare che la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere perdonata da Dio, ma che l’uomo, il quale si ostina a negare le opere dello Spirito Santo, si mette nella condizione di non esser perdonato. S. Tommaso spiega il testo evangelico dicendo che il peccato contro lo Spirito è irremissibile, perché l’uomo con esso esclude ciò che lo dispone alla remissione dei peccati (cf. Summa Theologiae, II-II, q. 14, a. 3). Chi è ostinatamente sordo ai richiami della grazia, come gli Scribi, non potrà ottenere il perdono della sua colpa.

... chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 25 luglio 1990): I Vangeli sinottici riportano un’altra affermazione di Gesù nelle sue istruzioni ai discepoli, che non può non impressionare. Riguarda la “bestemmia contro lo Spirito Santo”. Egli dice: “Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmierà lo Spirito Santo non gli sarà perdonato” (Lc 12,10; cfr. Mt 12,32; Mc 3,29). Queste parole creano un problema di vastità teologica ed etica maggiore di quanto si possa pensare, stando alla superficie del testo. “La ‘bestemmia’ (di cui si tratta) non consiste propriamente nell’offendere con le parole lo Spirito Santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all’uomo mediante lo Spirito Santo, e che opera in virtù del sacrificio della croce... Se la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere rimessa né in questa vita né in quella futura, è perché questa “non-remissione” è legata, come a sua causa, alla “non-penitenza”, cioè al radicale rifiuto di convertirsi... Ora la bestemmia contro lo Spirito Santo è il peccato commesso dall’uomo, che rivendica un suo presunto “diritto” di perseverare nel male - in qualsiasi peccato - e rifiuta così la redenzione... (Esso) non permette all’uomo di uscire dalla sua autoprigionia e di aprirsi alle fonti divine della purificazione delle coscienze e della remissione dei peccati” (Dominum et vivificantem, 46). È l’esatto rovesciamento della condizione di docilità e di comunione col Padre, in cui vive Gesù orante e operante, e che egli insegna e raccomanda all’uomo come atteggiamento interiore e come principio di azione.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  La bestemmia contro lo Spirito Santo è il peccato commesso dall’uomo, che rivendica un suo presunto “diritto” di perseverare nel male - in qualsiasi peccato - e rifiuta così la redenzione.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che in san Tommaso d’Aquino hai dato alla tua Chiesa un modello sublime di santità e di dottrina, donaci la luce per comprendere i suoi insegnamenti e la forza per imitare i suoi esempi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...