1 Dicembre 2020
Martedì della I Settimana di Avvento
Is 11,1-10; Sal 71 (72); Lc 10,21-24
Colletta: Accogli, o Padre, le preghiere della tua Chiesa e soccorrici nelle fatiche e nelle prove della vita; la venuta del Cristo tuo Figlio ci liberi dal male antico che è in noi e ci conforti con la sua presenza. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Comincia l’Avvento - Paolo VI (Angelus, 28 Novembre 1971): Diamo importanza alle cose importanti. Oggi ricomincia l’anno liturgico, comincia l’Avvento. Il tempo, fatale misura della nostra presente esistenza. Il grande panorama dei secoli, la storia, ci si apre davanti. Ha un senso questa vicenda immensa? Sì. L’uomo cammina e progredisce ma è sempre in via di ricerca; e questa, ancor più che una conquista, è un aumento di desideri e di bisogni, è uno spazio più vasto scavato nel cuore dell’uomo, reso più avido e più affamato d’una vita piena e d’una verità sicura. La scienza, lampada dell’universo, denuncia un mistero nella notte circostante, sempre più profonda e più tormentosa; è il mistero del mondo. Ed ecco che noi, al lume della scienza e della fede, sappiamo il disegno del tempo e della storia; noi abbiamo la chiave che ci apre il senso delle cose e, fra tutte, quelle della nostra vita. E questo disegno, questo senso ci è stato rivelato in un avvento, cioè in un incontro, l’incontro con Cristo, che è appunto venuto sul nostro sentiero, e si è fatto maestro e salvatore per chi ha avuto la fortuna somma d’incontrarlo, ed ha liberamente accettato di ascoltarlo, di credergli senza meravigliarsi, senza scandalizzarsi di Lui (Matth. 11). Questo istante decisivo per le sorti dell’umanità lo chiamiamo avvento, la venuta... quel fatto continua spiritualmente, si ripete ogni anno, si rinnova in ogni uomo, il quale nel tempo matura e invecchia, e in Cristo, se riesce a farlo suo, ringiovanisce e cresce nella certezza e nella speranza. Sì, pensieri alti e grandi, ma veri. È questo il soffio profetico, in cui respira la Chiesa, e che si offre all’anelito del mondo, anche del mondo moderno che si sente soffocare dalle sue stesse opere gigantesche ma meravigliose. È l’avvento che ci fa un po’ silenziosi e pensosi; ci riabilita alla preghiera e alla speranza; ci fa umili e solleciti per volgere i passi verso il presepio. In cammino, fratelli; ancora una volta in cammino. Ci precede con svelto passo (Luc. 1,39) la Madonna.
Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno due temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio.
Dal Vangelo secondo Luca 10,21-24: In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 21: In quel momento; Luca offre un’indicazione cronologica più precisa di quella di Matteo («in quel tempo», Mt., 11,25); egli quindi rileva che, nella stessa circostanza, Gesù pronunziò le parole, riferite nel presente contesto, che sono tra le più solenni trasmesse dai vangeli. (Gesù) esultò di gioia sotto l’azione dello Spirito Santo; si descrive con precisione teologica il sentimento di esultanza che indusse il Maestro a pronunziare le parole che seguono. «Sotto l’azione dello...»: rende il dativo greco (letteralmente: «nello Spirito Santo»); l’espressione non designa un semplice entusiasmo religioso, ma una azione dello Spirito Santo, come Luca ama segnalare spesso. Io ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra; parole di un’imponente maestosità religiosa che introducono la dichiarazione successiva. Perché hai tenute nascoste...; si può anche tradurre: «perché, mentre hai tenute nascoste..., le hai rivelate ai piccoli». Poiché così ti è piaciuto; letteral.: «poiché cosi è il beneplacito davanti a te».
Ti rendo lode, o Padre - Benedetto XVI (Udienza Generale, 7 Dicembre 2011): Gesù si rivolge a Dio chiamandolo «Padre». Questo termine esprime la coscienza e la certezza di Gesù di essere «il Figlio», in intima e costante comunione con Lui, e questo è il punto centrale e la fonte di ogni preghiera di Gesù. Lo vediamo chiaramente nell’ultima parte dell’Inno, che illumina l’intero testo. Gesù dice: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22). Gesù quindi afferma che solo «il Figlio» conosce veramente il Padre. Ogni conoscenza tra le persone - lo sperimentiamo tutti nelle nostre relazioni umane – comporta un coinvolgimento, un qualche legame interiore tra chi conosce e chi è conosciuto, a livello più o meno profondo: non si può conoscere senza una comunione dell’essere. Nell’Inno di giubilo, come in tutta la sua preghiera, Gesù mostra che la vera conoscenza di Dio presuppone la comunione con Lui: solo essendo in comunione con l’altro comincio a conoscere; e così anche con Dio, solo se ho un contatto vero, se sono in comunione, posso anche conoscerlo. Quindi la vera conoscenza è riservata al « Figlio», l’Unigenito che è da sempre nel seno del Padre (cfr Gv 1,18), in perfetta unità con Lui. Solo il Figlio conosce veramente Dio, essendo in comunione intima dell’essere; solo il Figlio può rivelare veramente chi è Dio.
Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli: Possiamo tradurre così questa frase di Gesù: se vuoi scoprire “le cose di Dio” devi diventare “piccolo”. Sembra così che Gesù voglia tracciare una via a tutti gli uomini, credenti o no: è la piccola via dell’infanzia spirituale. Una via non comune. Scoperto il posto che, per divina disposizione, le spettava nella Chiesa, Teresa di Lisieux cercò i modi e gli strumenti adatti per realizzare la sua missione. Praticamente, bisognava individuare «il mezzo per essere maggiormente agevolati nell’impresa. Occorreva imboccare la via che conducesse più sicuramente alla meta. La trova, in tutta semplicità, nella via dell’infanzia spirituale. Gli asceti o gli studiosi di spiritualità l’avrebbero chiamata la via regia, la via maestra. Ella, invece, si accontenta di ritenerla “la piccola via: una via ben diritta, molto breve, tutta nuova”» (Arnaldo Pedrini). Si adeguava così al Vangelo, che essa portava notte e giorno sul cuore. Occorreva seguire nell’amore la via dei piccoli, la via dell’infanzia spirituale. Un cammino di piena confidenza, di totale pacificante abbandono. A Madre Agnese di Gesù che le chiedeva, il 6 agosto 1897, pochi mesi prima della sua morte, ciò che intendesse per piccola via, ovvero per restare piccoli, fanciulli davanti a Dio, ella rispose: «È riconoscere il proprio niente, attendere tutto da Dio, come un piccolo bimbo attende tutto da suo padre; non inquietarsi di niente; non cercare alcunché dalla fortuna. Essere piccoli è ancora non attribuirsi le virtù che si praticano o credersi capaci di qualcosa di buono; non scoraggiarsi degli sbagli o mancanze, perché i piccoli sogliono cadere facilmente, e sovente, ma essi sono troppo piccoli per farsi troppo del male...». Teresa così realizzava quanto dice il profeta Isaia: «Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,12-13). E procedeva sicura sulla via tracciata dal Maestro. In questa luce, la via dell’infanzia spirituale più che teoria è prassi ed è scorticante, perché occorre spogliarsi del proprio io, della propria volontà, o gusto o progetto, anche il più virtuoso. L’ispirazione di santa Teresa di Lisieux la troviamo anche nell’insegnamento di san Francesco di Sales: «Fare tutto per amore e niente per forza!». Massima che per tutti i piccoli diventerà la regola d’oro. In pratica, «saper comprendere e gustare “le bon plaisir de Dieu” ovvero il suo beneplacito. Attuare ciò che piace a Dio, ed ancora come a Lui piace» (Arnaldo Pedrini). Santa Teresa lo traduce: «Non si deve lavorare per diventare santi, ma solo piacere a Dio». E ancora: «Se il Signore mi lasciasse la scelta, io non sceglierei niente: solo quello che Lui vuole». Allora si comprende come la strada indicata da Gesù è veramente in salita: è la salita del Calvario dove, per spalancarsi alla conoscenza dei misteri del Regno di Dio, la povera umanità non ha altra scelta se non quella di farsi crocifiggere alla Croce di Cristo, non intesa però come strumento di tortura e di morte, ma come il giogo di Dio dolce e leggero che conduce alla gioia perfetta e alla vera vita.
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
Saziati del cibo spirituale, o Signore,
a te innalziamo la nostra supplica:
per la partecipazione a questo sacramento,
insegnaci a valutare con sapienza i beni della terra
e a tenere fisso lo sguardo su quelli del cielo.
Per Cristo nostro Signore.
1 Dicembre 2020
Beata Maria Rosa di Gesù (Bruna Pellesi) Suora francescana
Una vita non lunga, 55 anni appena, esattamente spaccata in due dalla malattia, che la relega per 27 anni in un sanatorio. Una vita che, malgrado ciò, ha come segno distintivo il sorriso, stampato inalterabile sul viso ma faticosamente ricercato e conquistato come espressione di una pace interiore che, in quelle condizioni, non è per nulla scontata, neppure per una religiosa. Bruna Pellesi nasce il 10 novembre 1917 a Morano, frazione di Prignano sulla Secchia, nel modenese, ultima di nove figli e per questo coccolata e vezzeggiata da tutti. La vita le regala di tutto e di più: bellezza ed eleganza, buonumore e dolcezza, allegria e tanta pace. E anche l’amore, che sboccia sui 17 anni, ma che sembra non soddisfare appieno la sua ricerca di un più grande amore. Come neppure la realizza la maternità adottiva di ben sei figli di cui a 18 anni comincia a prendersi cura, in conseguenza della morte quasi contemporanea di due sue giovani cognate. In realtà, nel cuore di Bruna sta nascendo la vocazione religiosa, che la famiglia non contrasta in nome di quella fede solida in cui i figli sono stati educati e che lei riesce ad appagare a 22 anni, entrando tra le Suore Terziarie Francescane di sant’Onofrio a Rimini. Parte da casa in fretta, per non lasciarsi soffocare dalle lacrime, e questo dice quanto doloroso sia il distacco da un ambiente amato ed in cui è stata tanto amata. Dopo il noviziato e i primi voti, con il nuovo nome di Suor Maria Rosa si tuffa nella vita attiva della comunità di Sassuolo, proprio negli anni in cui infuria la guerra che semina distruzione e morte. “Vengo dalla campagna, sono abituata a lavorare”, risponde a chi le suggerisce di risparmiarsi un po’ nella sua frenetica attività di apostolato. La svolta della sua vita arriva nel 1945, non solo perché è trasferita a Ferrara, ma soprattutto perché in quell’anno si manifestano in lei i sintomi della tubercolosi, che a novembre le spalancano le porte del sanatorio. Ha 28 anni, solo cinque dei quali passati in convento; gliene restano altrettanti da vivere, ma tutti nella scomoda e dolorosa condizione di malata cronica, in una clausura non voluta, in un isolamento che tanto contrasta con il suo carattere, in una monotonia che rischia di incessantemente tingere di grigio i giorni, le settimane e gli anni. “Ho iniziato la mia vita sanatoriale piangendo, ma ho chiesto al buon Dio di terminarla cantando le sue misericordie”: in questa confidenza c’è tutto il travaglio interiore di una giovane vita che fatica ad adattarsi alla malattia ed all’inattività, ma c’è anche tutta la risoluzione di chi non si rassegna a “lasciarsi vivere”. Inizia così il percorso lungo di una fede che si deve irrobustire e di una speranza che non bisogna smarrire malgrado tutto. “Non avrei mai creduto che in sanatorio la virtù venisse messa così a dura prova, purtroppo c’è tanto male nonostante sorella morte continuamente ci sfiori”, scrive suor Maria Rosa, a testimoniare tutta la difficoltà che incontra a vivere in un ambiente in cui la promiscuità, la forzata inattività e, forse, anche l’ineluttabilità della morte fanno abbassare notevolmente il senso del pudore e la santità dei sentimenti. Davvero non c’è poesia o sentimentalismo in questa nuova condizione in cui si trova a vivere, ma soltanto il rischio di una prosaica e, per certi versi, squallida situazione in cui anche lei rischia di essere risucchiata. Di fronte alla quale lei reagisce nell’unico modo che le è possibile: innanzitutto conquistando una propria pace interiore e poi proiettandosi sugli altri. “Ho bisogno di calma, di forza, di spirito di adattamento; debbo adattarmi soprattutto a non poter far niente, ad avere bisogno di tutti”, scrive al direttore spirituale, mentre gli chiede di “tenerla sempre sull’altare” in uno spirito di continua offerta e di completa immolazione che, giorno dopo giorno, la porta a conquistare l’amore vero, quello che aveva sempre cercato e che le permette un giorno di poter dire al suo Gesù: “Voglio che la mia vita sia amore per te, con te e in te”. In mezzo, lo sforzo continuo di vincere la monotonia con la sofferenza, di rendere straordinario l’ordinario, di fare grandi anche le piccole cose curando quelle minime fino alle sfumature, di imparare a farsi samaritana verso gli altri malati, donando loro cuore e sorriso, cioè le uniche cose che la malattia non è riuscita a spegnere. Il paradosso evangelico in lei si compie nel raggiungimento di una felicità autentica e piena, anche quando arrivano ad estrarle cinque volte al giorno il liquido pleurico, è minacciata dalla cecità, si riduce ad essere 43 chili tutti di dolore e la morte si avvicina a grandi passi. “Lo dico in un momento in cui non posso tradire… quello che conta è amare il Signore. Sono felice perché muoio nell’amore, sono felice perché amo tutti”, esclama il 1° dicembre 1972, poco prima di chiudere gli occhi per sempre. E la Chiesa, riconoscendo che suor Maria Rosa davvero ha saputo trasformare il dolore in amore, l’ha beatificata il 29 aprile 2007.
Testimoniò la gioia di essere una sposa di Cristo, che l’aveva fatta partecipe delle sofferenze della Croce, con i suoi 27 anni di grave malattia, mai lamentandosi della sua condizione e lei stessa scrisse: “Sia benedetto il Signore che mi concede la grazia di un pochino della Sua Santa Croce e mi dà la grande grazia di portarla nella pace… come dono, non come peso”.
Scorrendo l’elenco lunghissimo della anime consacrate, negli Ordini e Congregazioni religiose oppure come Terziari e Terziarie, che offrirono la loro vita consumata dalle più svariate e debilitanti malattie, a volte senza più alzarsi dal loro letto fino alla morte; viene la certezza che il Signore predilige queste anime che sanno trasformare il loro dolore, da un moto spontaneo di disperazione e ribellione, specie se colpite in giovane età. in un’occasione di elevazione spirituale a volte mistica. Esse seppero diffondere quest’esempio di rassegnazione alla volontà di Dio, a quanti le contattavano, e dando la pace dello spirito, a chi in salute stava certamente meglio di loro. E anche la Chiesa lungo i secoli ha voluto indicare il loro esempio ai cristiani, esaltandone le virtù, esaminandone gli scritti, ascoltando testimonianze, accertando i miracoli e prodigi scaturiti per la potenza della loro intercessione e alla fine proclamando la loro santità, nello spirito della Chiesa. Ed è il caso di Bruna Pellesi, questo il suo nome da laica, che nacque a Morano (Modena) ma in diocesi di Reggio Emilia, l’11 novembre 1917; figlia di agricoltori, a 23 anni lasciò il lavoro dei campi e dando seguito alla sua vocazione allo stato religioso, il 23 settembre 1941 a Rimini, vestì l’abito proprio delle ‘Suore Terziarie Francescane di S. Onofrio’, prendendo il nome di Maria Rosa di Gesù. In seguito su sua proposta, le suore vennero denominate ‘Francescane Missionarie di Cristo’; si diplomò come maestra d’asilo a Bologna, l’11 luglio 1942 in piena Seconda Guerra Mondiale. Dal 30 settembre 1942 fu al servizio dei bambini all’asilo S. Anna di Sassuolo e dal 19 maggio 1945 all’asilo di Ferrara. Ma il Signore la volle con sé quasi subito sulla Croce, infatti il 5 settembre 1945 fu ricoverata all’ospedale S. Anna di Ferrara e due mesi dopo, il 15 novembre, entrò nel sanatorio Pineta di Gavano (Modena) con la diagnosi di una grave forma di tubercolosi polmonare; malattia che soprattutto durante la guerra e il dopoguerra, mieté tante vittime specie tra i giovani. Aveva 30 anni quando il 31 agosto 1947 emise i voti perpetui; poi venne ricoverata nell’Istituto sanatoriale “C. A. Pizzardi” di Bologna il 7 dicembre 1948. Trascorse tutti gli anni successivi quasi sempre nei sanatori di varie città, con rare uscite nella vita normale delle suore. A Rimini il 4 ottobre 1967 celebrò il 25° di vita consacrata e il 1° settembre 1970 volle ricordare con gioia il 25° di malattia, scrivendo: “Grazie, Signore! Sono stati anni di tanta grazia. Aiutami a dimenticarmi, a donarmi a te e agli altri tutti nel mondo”. Avendo accettato la volontà di Dio in tutto, ripeteva: “Mi son fatta suora per glorificare il Signore, ebbene lo glorificherò da ammalata”. Il suo pregare, lavorare, soffrire era per gli altri e diceva: “Voglio che tutti siano salvi, voglio portare tutti in Paradiso”.
Dai sanatori esercitò l’apostolato della scrittura, si pensi che i suoi scritti sono raccolti in 16 volumi di 2134 pagine. Scrisse quasi 2000 lettere a consorelle, sacerdoti, laici, ammalati, esortandoli ad essere coraggiosi testimoni cristiani. Incitava tutti ad amare il Papa, la vera Chiesa, non ascoltando i nuovi profeti; dopo 27 anni di malattia, morì a Sassuolo il 1° dicembre 1972 a 55 anni. Il 1° febbraio 1977 si avviò la causa di beatificazione con il nulla osta per l’introduzione del 6 marzo 1981. La procedura, andata a buon fine, ha portato alla gloria degli altari Maria Rosa Pellesi il 29 aprile 2007. I vescovi emiliani nella lettera postulatoria, scrissero fra l’altro: “il suo esempio è certamente di particolare aiuto ai sacerdoti, religiosi, fedeli, anziani, ammalati, nel riscoprire il valore della sofferenza offerta a Dio con amore”.
Card. Carlo Caffarra - Celebrazione per la Beata Maria Rosa Pellesi Santi Bartolomeo e Gaetano (Bologna), 9 dicembre 2011
I santi, cari fratelli e sorelle, sono donati alla Chiesa perché essa custodisca viva la memoria della sua sorgente: il costato aperto del Crocifisso. La santità è uno dei modi fondamentali mediante i quali l’evento fondatore della Chiesa resta sempre presente fra noi. Ed in questo modo i santi sono i nostri più grandi maestri della fede, perché ci aiutano ad avere un’intelligenza sempre più profonda del Mistero di Cristo. Anche la beata Maria Rosa è stata e continua ad essere per noi, per la Chiesa, una grande maestra di fede.
Non è facile, cari amici, penetrare nel vero segreto dei santi: la modalità propria a ciascuno di vivere il mistero di Cristo. “Con timore e tremore” proverò a farlo con la beata Maria Rosa, seguendo la parola di Dio che abbiamo appena ascoltato.
1. Nella seconda lettura l’apostolo Paolo ci rivela tutta la paradossalità della vita cristiana. Essa è costituita da un tesoro, la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo; ma questo tesoro è deposto in vasi di creta. È sempre esposto ad essere derubato da chi non vuole ascoltare la proposta salvifica.
Quale fu il tesoro deposto nel vaso di creta della fragile persona della beata? Quale il contenuto originale di quella conoscenza del mistero di Cristo che il Padre fece rifulgere nel suo cuore?
Fu il contenuto centrale: la beata Maria Rosa visse nel centro del mistero di Cristo. Ella ebbe una conoscenza sperimentale non ordinaria che la vita nuova di cui Cristo è la primizia nasce dalla Croce, dalla sua morte, e “sentì” che la sua vocazione era di “portare sempre e dovunque nel proprio corpo la morte di Gesù perché anche la vita di Gesù si manifestasse nel suo corpo”.
Vivendo questo mistero, Maria Rosa in Gesù crocifisso e risorto incontra tutti gli uomini, pur nella solitudine di una camera di ospedale. Nel 1967, dunque, già vicina alla cima del monte, scrive: “ho bisogno di essere radicalmente purificata, riconsacrata, rimessa a nuovo anima, cuore e corpo … dimenticandomi e accogliendo nella mia anima e nel mio cuore tutti i desideri dell’umanità”.
La beata Maria Rosa, quando scrive questo, è diventata sorella nello Spirito dei grandi mistici del tragico secolo ventesimo: Teresa del Bambino Gesù, di cui non a caso la beata era devotissima, padre Pio da Pietrelcina, Teresa Benedetta della Croce, madre Teresa di Calcutta. Essi hanno condiviso, hanno preso sulle loro spalle il peso di quell’immane sofferenza che l’uomo del XX secolo ha causato a se stesso: l’espulsione di Dio dalla sua vita. La beata Maria Rosa giunge a scrivere che nella totale solitudine a cui la malattia negli ultimi anni la costrinse, si sentiva “stretta in una morsa di ghiaccio”. E griderà al mondo tormentato dall’assenza di Dio: “quale felicità sapere che c’è Dio”.
Anche l’itinerario spirituale della beata non fu facile né privo di fatiche e tentazioni. Ella avverte fin da bambina “che questa sarebbe stata la mia missione: una missione di sofferenza”.
Questo itinerario raggiunge il suo vertice nel voto “di abbandono amoroso, gioioso, incondizionato alla volontà di Dio”. È il 5 agosto 1955.
Trattasi di un voto che, come insegnano tutti i grandi maestri di spirito, non va fatto alla leggera, né è per tutti; è chiesto da Cristo a chi nella Chiesa ha una particolare missione. Ed infatti, negli stessi giorni la beata scrive: “in questi giorni Gesù mi tiene più strettamente abbracciata alla sua croce … Lei non si meraviglierà se le dico che soffro tanto; ma crederà anche che sono felice, tanto, tanto, tanto, perché sento che il buon Dio mi rende degna di fare la sua volontà e di soffrire per amor suo”.
L’itinerario è concluso: Cristo ha unito a sé la sua sposa.
Cari amici, i santi sono anche i nostri intercessori. All’inizio di questa celebrazione eucaristica abbiamo chiesto al Padre, per intercessione della beata, di aderire intimamente al mistero di Cristo e di sperimentare la sua misericordia.
Poiché è di questo soprattutto che l’uomo oggi, noi tutti, ha bisogno: sperimentare la vicinanza di Dio e la sua misericordia.
Pratica: “Grazie, Signore! Sono stati anni di tanta grazia. Aiutami a dimenticarmi, a donarmi a te e agli altri tutti nel mondo” (Beata Maria Rosa di Gesù).
Preghiera: O Dio, che ti compiaci di stabilire la tua dimora in chi ti serve con cuore semplice e puro, per intercessione della beata Maria Rosa di Gesù, vergine, fa’ che viviamo con purità evangelica per averti sempre ospite in noi, tempio vivo della tua gloria. Per il nostro Signore.