1 Aprile 2020

Dn 3,14-20.46-50.91-92.95; Cant. Dn 3,52-56; Gv 8,31-42


Colletta: Risplenda la tua luce, Dio misericordioso, sui tuoi figli purificati dalla penitenza;
tu che ci hai ispirato la volontà di servirti, porta a compimento l’opera da te iniziata. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Veritatis splendor 87: Cristo rivela, anzitutto, che il riconoscimento onesto e aperto della verità è condizione di autentica libertà: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). È la verità che rende liberi davanti al potere e dà la forza del martirio, così è di Gesù davanti a Pilato:”Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37).
Così i veri adoratori di Dio devono adorarlo “in spirito e verità” (Gv 4,23): in questa adorazione diventano liberi. Il legame con la verità e l’adorazione di Dio si manifestano in Gesù Cristo come la più intima radice della libertà.
Gesù rivela, inoltre, con la sua stessa esistenza e non solo con le parole, che la libertà si realizza nell’amore, cioè nel dono di sé. Lui che dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13), va incontro liberamente alla Passione (Cfr. Mt 26,46) e nella sua obbedienza al Padre sulla Croce dà la vita per tutti gli uomini (Cfr. Fil 2,6-11).
In tal modo la contemplazione di Gesù crocifisso è la via maestra sulla quale la Chiesa deve camminare ogni giorno se vuole comprendere l’intero senso della libertà: il dono di sé nel servizio a Dio e ai fratelli. La comunione poi con il Signore crocifisso e risorto è la sorgente inesauribile alla quale la Chiesa attinge senza sosta per vivere nella libertà, donarsi e servire. Commentando il versetto del Salmo 99 “Servite il Signore nella gioia”, sant’Agostino dice: “Nella casa del Signore libera è la schiavitù. Libera, poiché il servizio non l’impone la necessità, ma la carità... La carità ti renda servo, come la verità ti ha fatto libero... Allo stesso tempo tu sei servo e libero: servo, perché ci diventasti; libero, perché sei amato da Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché ti è dato di amare il tuo creatore... Sei servo del Signore e sei libero del Signore. Non cercare una liberazione che ti porti lontano dalla casa del tuo liberatore!”.
In tal modo la Chiesa, e ciascun cristiano in essa, è chiamata a partecipare al munus regale di Cristo in croce (Cfr. Gv 12,32), alla grazia e alla responsabilità del Figlio dell’uomo, che “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Gesù, dunque, è la sintesi viva e personale della perfetta libertà nell’obbedienza totale alla volontà di Dio. La sua carne crocifissa è la piena Rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e verità, così come la sua risurrezione da morte è l’esaltazione suprema della fecondità e della forza salvifica di una libertà vissuta nella verità.

Dal Vangelo secondo Giovanni 8,31-42: In quel tempo, Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato».

Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno: si contrappongono due filiazioni, la stirpe di Abramo,  e quindi viene da Dio, e quella che rimanda a Satana. I Giudei sono convinti di appartenere alla discendenza di Abramo e di essere liberi, ma Gesù, pur convenendo che sono discendenti di Abramo, dimostra loro che di fatto sono figli del diavolo perché hanno l’odio e la menzogna nel cuore. Quindi non liberi, ma schiavi, perché chi commette il peccato è schiavo del peccato. Sono schiavi del peccato perché omicidio e menzogna sono l’espressione della presenza demoniaca insediata nei loro cuori. Il dibattito serrato di Gesù con i Giudei che gli avevano creduto si avvia verso una conclusione drammatica. Egli ha denunciato la falsa fede che costoro ostentavano: più che figli di Abramo, essi sono discendenti di Satana, omicida fin da principio e menzognero e padre della menzogna. Invece di resipiscenza queste parole suscitano rabbia, livore, odio, infatti, di lì a poco cercheranno di lapidare Gesù.

Io dico quello che ho visto presso il Padre - Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): La prima frase è chiara: Gesù può parlare delle cose che ha visto quando era presso il Padre (8,38), perché è «di lassù e non appartiene a questo mondo» (8,23). Egli ha quindi tutta l’autorità per invitare i suoi uditori a fare le cose che hanno udito (o appreso) dal padre (8,38). Non si precisa però, come vorrebbero alcuni antichi codici, di quale «padre» si tratti.
I codici più sicuri, infatti, si limitano a dire dal padre. E la non precisazione potrebbe essere voluta per meglio suscitare una reazione. E così è. Prima avevano detto a Gesù: «Siamo discendenza di Abramo» (8,33), ora gli dicono: «Il padre nostro è Abramo» (8,39). Con ciò intendono affermare di essere «figli» e non «servi» nella casa (8,35). Gesù non rifiuta di riconoscerli come «figli», ma cerca di far capire che la vera figliolanza non si può determinare geneticamente: è la prassi, intesa come vita di fede e di ascolto della parola di Dio, che dice chi è vero figlio di Abramo: «Se siete (dal momento che siete) figli di Abramo dovreste fare le opere di Abramo» (8,39) o, come si è detto sopra, le cose che avete udito (o appreso) dal padre (sottinteso in questo caso: dal padre Abramo).
Ma le fanno davvero? No! I fatti dimostrano che essi fanno quello che Abramo non avrebbe mai fatto: essi cercano di uccidere Gesù che ha parlato loro della verità che ha udito presso Dio (8,40). Questo loro atteggiamento dimostra che sono nel peccato e che perciò non sono nella linea della paternità di Abramo. Il loro padre è un altro: quello di cui fanno le opere (8,41). La parola di Gesù suona come un’enorme offesa, e perciò ribattono: «Noi non siamo figli illegittimi», e con vigore aggiungono: «Noi abbiamo un solo Padre: Dio» (8,41).
Non si poteva definire meglio il valore della paternità di Abramo: egli è Padre e portatore delle promesse perché è vissuto nell’ascolto e nell’ubbidienza alla parola di Dio. Perciò è chiaro che si è «figli di Di» quando si vive come Abramo è vissuto: nella fede e sperando contro ogni speranza, in piena accoglienza di Dio che ora ci parla nel Figlio.

La verità per i cristiani - Saturnino Muratore: La verità si lega profondamente al vivere della persona e si regge sul presupposto di una “verità dell’uomo”. Questa verità va appassionatamente cercata e può essere riconosciuta solo attraverso la fatica dell’intelligenza e l’integrazione di tutti i saperi, nessuno escluso. La legittimità di questo cammino è dischiusa già nello stesso umano interrogare e interrogarsi: poiché comprende implicitamente la fiducia in una possibile risposta, l’interrogarsi umano giustifica l’aspirazione alla verità e la apre a un trascendimento dei dati naturali. In questo senso la tradizione cristiana parla di una veritas rei (verità della cosa), costitutiva di ogni realtà creata e vede Dio, quale Ipsa Veritas (Verità stessa), come la ragione ultima dello spessore obiettivo della verità.
Si intuiscono così le sorprendenti possibilità del linguaggio cristiano. La verità (in greco alétheia da a-lanthàno, negazione del nascondersi, lo svelarsi, il venire alla luce) non si nasconde ma ci viene incontro nel Signore Gesù: in lui, rivelatore del Padre, ci è svelato il senso ultimo e profondo della creazione e della storia umana. “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), proclama di sé Gesù, che si presenta come la “verità che rende liberi” (Gv 8,31). La verità è il libero comunicarsi di Dio in Gesù: nella mediazione della sua persona, nella mediazione di un incontro che si serve delle parole e dei segni propri del vivere umano, è possibile accedere a una verità superiore, è possibile accedere a una verità che trasforma le nostre esistenze.
In Gesù-Verità ci è dischiuso il senso ultimo della vita umana e cosmica: la verità ultima è l’amore. La domanda scettica di Pilato “Che cosa è la verità?” (Gv 18,38) ci ricorda bene che questa verità può essere accolta solo nella fede, solo nella rinuncia alla presunzione di un autonomo accesso alla verità e dalla presa di distanza dallo scoraggiamento di chi si rassegna ai suoi limiti.
La tradizione cristiana chiama “Rivelazione” questo venirci incontro della verità. Riconoscerla significa ricordare che questa verità continua a operare tra noi attraverso lo Spirito di verità: nella contemplazione orante e nell’obbedienza della fede, la verità lievita la vita della Chiesa e dà vita a una lunga tradizione religiosa.
Riconoscerla significa guardare alla storia non solo come il luogo dell’agire libero e razionale dell’uomo ma anche come il risultato della misericordiosa presenza di Dio che opera con noi. Riconoscerla significa pure evitare ogni assolutizzazione del proprio punto di vista o del proprio sapere, gettando così le basi di un autentico e costruttivo dialogo tra diversi.

L’amore nella verità - caritas in veritate - è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr. Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende «minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati». Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione. Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori - talora nemmeno i significati - con cui giudicarla e orientarla. La fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr. Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l’annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l’accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli.  

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr. Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale”.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, fonte della vita,
fa’ che la partecipazione al tuo sacramento
sia per noi medicina di salvezza;
ci guarisca dalle ferite del male
e ci confermi nella tua amicizia.
Per Cristo nostro Signore.



31 Marzo 2020

Martedì della V Settimana di Quaresima

Nm 21,4-9; Sal 101; Gv 8,21-30

Colletta: Il tuo aiuto, Dio onnipotente, ci renda perseveranti nel tuo servizio, perché anche nel nostro tempo la tua Chiesa si accresca di nuovi membri e si rinnovi sempre nello spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna: Evangelium vitae 50: Guardando «lo spettacolo» della Croce (cfr. Lc 23,48), potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita. Nelle prime ore del pomeriggio del venerdì santo, «il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23,44.45). È il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la «cultura della morte» e la «cultura della vita». Ma da questa oscurità lo splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana. Gesù è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della sua massima «impotenza» e la sua vita sembra totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato (cf. Mc 15,24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e «vistolo spirare in quel modo», il centurione romano esclama: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Si rivela così, nel momento della sua estrema debolezza, l’identità del Figlio di Dio: sulla Croce si manifesta la sua gloria! Con la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi persecutori (cf. Lc 23,34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Dopo la sua morte «i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono» (Mt 27,52). La salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cfr. At 10,38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno di un’altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella liberazione dell’uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione alla vita stessa di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni 8,21-30: In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». Dicevano allora i Giudei: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: “Dove vado io, voi non potete venire”?». E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati». Gli dissero allora: «Tu, chi sei?». Gesù disse loro: «Proprio ciò che io vi dico. Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare; ma colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui, le dico al mondo». Non capirono che egli parlava loro del Padre. Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite». A queste sue parole, molti credettero in lui.

Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): La lettura dal libro dei Numeri ricorda il popolo d’Israele, tormentato dalla scarsezza di acqua e di cibo mentre attraversava il deserto. Questa penuria suscita lamentele contro Dio e contro Mosè. Allora Dio, per punizione, fa apparire dei serpenti velenosi il cui morso è fatale per molti. Il popolo riconosce di aver peccato e prega Mosè di intercedere presso il Signore. La risposta di Dio è il perdono, segno del quale è il serpente di rame che Mosè per ordine del Signore colloca su un’asta. Chi era morso dai serpenti, guardandolo, guariva.
Grossolano rito magico? No, segno iniziale della salvezza di Dio per chi sa guardare con fede, cercando la sua grazia e il suo perdono, come è detto nel libro della Sapienza (16,6s).
Tuttavia, nel secondo libro dei Re, quando si parla della riforma religiosa del pio Ezechia (716-687 a.C.), leggiamo: «Egli eliminò le alture e frantumò le stele, abbatté il palo sacro e fece a pezzi il serpente di bronzo, eretto da Mosè; difatti fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustan» (18,4).
Questo fatto ci mostra tracce del culto idolatrico al dio della salute, molto diffuso in tutto il Medio Oriente da tempi remotissimi. Anche i greci rendevano culto al dio della medicina, Esculapio o Asclepio, il cui emblema era il caduceo o bastone circondato da due serpenti, e al cui oracolo e santuario di Epidauro, nell’Argolide, accorrevano malati da tutta la Grecia. Intorno ai suoi «miracoli» nacque una leggenda molto conosciuta.
Nel vangelo di Giovanni si mette direttamente in relazione il segno del serpente di rame con la croce di Cristo, mediatore più insigne di Mosè. «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14s).

La dipartita di Gesù - Felipe F. Ramos: Ritroviamo il tema dell’incomprensione: una nuova controversia nella quale ciascuna delle parti contendenti si attesta su un terreno diverso. Un’ottica puramente umana di Gesù fa sì che il suo linguaggio risulti incomprensibile e scandaloso. Gesù parla della sua dipartita, e lo fa per la seconda volta. In un primo tempo avevano intuito che sarebbe andato «all’estero», fuori della Palestina (7,35). Questa volta, pensano che voglia uccidersi. Nei due casi si tratta d’una incomprensione totale, incomprensione inevitabile finché non si conoscono la vera origine e il destino di Gesù.
Origine e destino di Gesù, realtà misteriosa, difficile da sondare. L’evangelista la descrive ricorrendo nuovamente a categorie spaziali: «di lassù - di quaggiù». E queste categorie spaziali non corrispondono alla forma mentis dei giudei. Essi esprimevano queste realtà con categorie temporali: il mondo o l’era presente e il mondo o l’era futura. Quello che essi attendevano per il futuro - espresso nel quarto vangelo con la categoria spaziale «di lassù» - è già avvenuto, è una realtà presente sebbene essi non lo credano, perché non ne hanno esperienza. E non hanno questa esperienza, perché non appartengono al mondo di lassù, a quello di Dio, ma a quello di quaggiù, a quello degli uomini. Il loro atteggiamento d’incredulità li esclude da questo mondo di lassù. Per il loro razionalismo religioso continuano ad appartenere al mondo di quaggiù, dove la morte continua ad avere piena giurisdizione.
Tu chi sei? È l’eterna domanda di chi si trova con Gesù. Chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo? Le risposte date dall’uomo sono state molteplici e logiche almeno fino a un certo punto. Ma la domanda, così come è formulata, manca completamente di senso semplicemente perché Gesù si è già presentato. Egli è di lassù,
viene da Dio, è la luce, il pane della vita... La vera presentazione di Gesù può avvenire solo in questi termini o in altri simili. Chi non accetta questa presentazione che Gesù fa di sé, come facevano i giudei, si chiude completamente alla comprensione del mistero implicito nella persona di Gesù. Per questo, Gesù risponde: «Proprio ciò che vi dico».
Il peccato dei giudei consiste nel non credere. Morirete nei vostri peccati, perché non credete che «Io sono»: frase enimmatica e straordinariamente frequente nel quarto vangelo. Che significa e di dove viene?
a) In molti passi della letteratura antica, è usata dagli dèi, per esempio, dalla dea Iside, per descrivere le proprie virtù e i propri attributi: «Io sono la bontà...».
b) La frase compare nell’AT per presentare la maestà e la personalità del Dio unico (Es 3,14; ls 51,12) ed è messa anche in unione con la sapienza.
c) Questa formula caratteristica di Giovanni ha un punto di riferimento in altre espressioni che troviamo nei sinottici: Io sono venuto... Io dico... Il regno dei cieli è… Giovanni formula e raccoglie in questa frase tutti i possibili significati di Gesù.
La frase più vicina dell’AT e più atta a chiarire la nostra si trova in Is 43,11: «Io, io sono il Signore; fuori di me. non vi è salvatore». Il verbo «essere» nella prima persona singolare «sono» dev’essere inteso qui in senso stretto. Indica qualcosa o qualcuno che non ha principio, né fine. Quindi è collocato al livello di Dio, di colui che attendevano per il futuro e che è già presente in mezzo a loro.
Gesù continua a parlare dell”unità del Padre e del Figlio. Il Padre ha inviato il Figlio. E parla anche dell’impossibilità di comprenderlo da parte dei giudei. Lo conosceranno quando innalzeranno il Figlio dell’uomo. Quando questo avverrà, Gesù apparirà come il ponte fra i due mondi: quello di quaggiù e quello di lassù. In questo modo, si potrà vedere o almeno intuire che Gesù appartiene ai due mondi.
In conseguenza di queste parole, molti credettero in lui; ma la debolezza e l’insufficienza della loro fede si sarebbero rivelate assai presto.

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo; accenno velato alla crocifissione ed alla glorificazione di Cristo secondo il linguaggio del quarto evangelista (cf. Giov., 3,14; 12,32, 34). Allora conoscerete che io sono; le parole richiamalo quelle usate dai profeti a conclusione degli oracoli di minaccia pronunziati contro il popolo infedele (cf. Esodo 10,2; Ezechiele, 6,7, 10,13,14; 7,4,9,27; 11,10; 12,16,20 ecc.). L’«elevazione» («Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo») di Cristo sulla croce, alla quale seguirà la glorificazione di lui, darà ai giudei increduli la risposta esatta alla loro precedente domanda («Chi sei tu?», vers. 25) e suggellerà la loro condanna (cf. Giov., 19,37; Apocalisse, 1,7; Mt., 26,64 e testi paralleli). Non faccio nulla da me; con questa dichiarazione il Maestro mette in evidenza la sua intima unione e la continua dipendenza dal Padre. Dico ciò che il Padre mi ha insegnato, cf. vers. 40.

In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità - Ad gentes 3: Cristo Gesù fu inviato nel mondo quale autentico mediatore tra Dio e gli uomini. Poiché è Dio, in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9); nella natura umana, invece, egli è il nuovo Adamo, è riempito di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14) ed è costituito capo dell’umanità nuova. Pertanto il Figlio di Dio ha percorso la via di una reale incarnazione per rendere gli uomini partecipi della natura divina; per noi egli si è fatto povero, pur essendo ricco, per arricchire noi con la sua povertà. Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita in riscatto dei molti, cioè di tutti. I santi Padri affermano costantemente che non fu redento quel che da Cristo non fu assunto. Ora egli assunse la natura umana completa, quale essa esiste in noi, infelici e poveri, ma una natura che in lui è senza peccato. Di se stesso infatti il Cristo, dal Padre consacrato ed inviato nel mondo (cfr. Gv 10,36), affermò: «Lo Spirito del Signore è su di me, per questo egli mi ha consacrato con la sua unzione, mi ha inviato a portare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito, ad annunziare ai prigionieri la libertà ed a restituire ai ciechi la vista» (Lc 4,18); ed ancora: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare quello che era perduto» (Lc 19,10).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Dio grande e misericordioso,
l’assidua partecipazione ai tuoi misteri
ci avvicini sempre più a te, che sei l’unico e vero bene.
Per Cristo nostro Signore.



30 Marzo 2020

Lunedì della V Settimana di Quaresima

Dn 13,1-9.15-17.19-30.33-62; Sal 22 (23); Gv 8,1-11

Colletta: O Padre, che con il dono del tuo amore ci riempi di ogni benedizione, trasformaci in creature nuove, per esser preparati alla Pasqua gloriosa del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La fedeltà alla legge di Dio: Veritatis splendor 91: Già nell’Antica Alleanza incontriamo ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla legge santa di Dio spinta fino alla volontaria accettazione della morte. Emblematica è la storia di Susanna: ai due giudici ingiusti, che minacciavano di farla morire se si fosse rifiutata di cedere alla loro passione impura, così rispose: “Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore!” (Dn 13,22-23). Susanna, preferendo “cadere innocente” nelle mani dei giudici, testimonia non solo la sua fede e fiducia in Dio, ma anche la sua obbedienza alla verità e all’assolutezza dell’ordine morale: con la sua disponibilità al martirio, proclama che non è giusto fare ciò che la legge di Dio qualifica come male per trarre da esso un qualche bene. Essa sceglie per sé la “parte migliore”: una limpidissima testimonianza, senza nessun compromesso, alla verità circa il bene e al Dio di Israele; manifesta così, nei suoi atti, la santità di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni 8,1-11: In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». 

La pericope evangelica mette in risalto la misericordia di Gesù perfettamente in sintonia con l’amore misericordioso del Padre celeste: «Io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33,11). Gesù non è venuto «per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47): l’invito perentorio rivolto alla donna adultera di non peccare più è una forte spinta a uscire fuori dalla miseria del peccato per incominciare una vita nuova. In questa luce, il racconto giovanneo, è un appello rivolto a tutti gli uomini perché, smettendo di giudicarsi a vicenda, sentano il bisogno di essere salvati da Dio.

Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni) - L’ispirazione all’Antico Testamento - La pericope dell’adultera perdonata contiene alcuni motivi veterotestamentari; qualcuno è particolarmente appariscente.
1. La storia di Susanna - Gv 8,1-11 sembra ispirarsi molto da vicino alla storia della casta Susanna (Dn 13): tra i due episodi notiamo elementi di contrasto e di somiglianza. Nei due brani è sul tappeto il peccato di adulterio: nel caso di Susanna si tratta di una calunnia, mentre nella pericope evangelica abbiamo una vera infedeltà coniugale (Dn 13,30ss; Gv 8,3s). Ma in entrambi i casi viene intentato un processo.
Parimenti nei due racconti le due donne stanno per essere condotte a morte, ad opera dei capi spirituali dei giudei (Dn 13,34.45; Gv 8,3) e si parla degli anziani (Dn 13,5ss; Gv 8,9).
Infine nei due brani le due donne trovano un salvatore in un uomo di Dio: Daniele per Susanna (Dn 13,45ss) e Gesù per l’adultera (Gv 8,7-11), i quali smascherano e confondono i giudici spietati (Dn 13,51ss; Gv 8,7ss).
Quindi la pericope dell”adultera perdonata, per struttura e per tematica, appare molto simile alla storia di Susanna.
2. Ispirazione a Geremia 17,13 - Secondo alcuni esegeti, il gesto del Maestro di scrivere sulla terra (Gv 8,6.8) sarebbe di carattere profetico e rievocherebbe l’oracolo di Ger 17,13, nel quale è minacciata la rovina per quanti sono infedeli a Jahvé: «Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore».
«Gesù rimanda i suoi interlocutori, che condannano la donna con tutta la durezza della legge, al giudizio di Dio, di fronte al quale tutti gli uomini sono peccatori. Dio dovrebbe scrivere nella polvere i nomi di tutti loro».”
R. Eisler e J. Jeremias sostengono che Gesù, scrivendo sulla terra, vuole invitare i dottori della legge alla conversione, ricordando loro un fatto della Scrittura: gli infedeli sono essi!
Con questo gesto profetico avremmo non tanto un’allusione ai peccati dei presenti, quanto un richiamo all’infedeltà di tutto il popolo ebraico; e quindi anche un pressante invito alla conversione, un invito che, attraverso le pagine del vangelo, ci riguarda tutti personalmente.

Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): v. 9 Essi, avendo udito [ciò], se ne andarono uno a uno; le parole di Cristo erano state pronunziate con fermezza e con accento autorevole; esse avevano colpito con precisione il bersaglio, raggiungendo gli accusatori dell’adultera nel loro punto sensibile. Il Maestro non intende ritorcere l’accusa sui presenti che avevano accusato la donna di adulterio, lasciando capire loro che anch’essi erano degli adulteri; egli invece vuole richiamare gli accusatori sulla pratica dei loro doveri personali, intorno ai quali essi avevano da rimproverarsi gravi mancanze. «Se ne andarono uno a uno»; gli accusatori abbandonano il campo che avevano scelto di propria iniziativa per sfidare il Maestro, dichiarandosi in tal modo dei vinti. Incominciando dai più anziani; non si può dire che gli anziani furono i primi ad allontanarsi da Gesù perché avevano dei conti assai pesanti da regolare con la propria coscienza. Essi si ritirarono per primi sia perché, più accorti degli altri, avevano subodorato meglio di questi la cattiva piega dell’incontro, sia anche perché si sentivano maggiormente offesi.
V. 10 Donnadove sono? Nessuno ti ha condannata?; la donna, rimasta sola, constata che nessuno, dopo l’intervento di Gesù, osò insistere sulla condanna che doveva subire secondo la legge ebraica. Le domande del Maestro hanno lo scopo di suscitare nell’infelice non soltanto sentimenti di riconoscenza, che le sorgevano spontanei in quella circostanza, ma soprattutto un sentimento di fiducia in colui che l’aveva sottratta alla pena di morte
v. 11 Neppure io ti condanno; l’espressione (condannare) ha un senso più esteso di quello che essa ha al versetto precedente; Gesù non soltanto non la condanna, ma la dichiara libera dalla colpa e dalla pena, cioè le accorda il più ampio perdono. D’ora innanzi non peccare più; questa parole assicurano la peccatrice del perdono ottenuto e l’ammoniscono non già in termini severi, ma con accento fermo, di non tornare più a peccare in seguito.

… i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio - M.-F. Lacan: Se il decalogo, e, dopo di esso, i profeti condannano in modo assoluto l’adulterio, la fedeltà che si esige dai due sposi nel matrimonio sarà pienamente rivelata solo da Cristo. Ma la fedeltà totale che si esigeva dalla donna fin dall’antica alleanza può simboleggiare quella che Dio si aspetta dal suo popolo; così i profeti condannano l’infedeltà all’alleanza come un adulterio spirituale.
1. Matrimonio e adulterio. - Interdetto (Es 20,14; Deut 5,18; Ger 7,9; Mal 3,5), l’adulterio riceve nella legge una definizione limitata: è l’atto che viola l’appartenenza di una donna al marito o al fidanzato (Lev 20,10; Deut 22,22 ss). La donna appare come cosa dell’uomo (Es 20, 17) piuttosto che come persona con la quale egli non fa che uno, nella fedeltà di un amore reciproco (Gen 2,23s). Questo abbassamento della donna è legato alla comparsa della poligamia, che si ricollega a un discendente di Caino, caratterizzato dalla violenza (Gen 4,19). La poligamia verrà tollerata per molto tempo (Deut 21,15; cfr. 17,17; Lev 18,18); tuttavia i saggi, che mettono in evidenza la gravità dell’adulterio (Prov 6,24-29; Eccli 23, 22- 26), invitano l’uomo a riservare il proprio amore alla donna della sua giovinezza (Prov 5,15-19; Mal 2,14 s). Per di più, condannano la frequentazione delle prostitute, benché essa non renda l’uomo adultero (Prov 23, 27; Eccli 9, 3. 6).
Gesù, la cui misericordia salva la donna adultera, pur condannandone il peccato (Gv 8,1-11), rivela tutte le dimensioni della fedeltà coniugale (Mt 5,27s.31s; 19, 9 par.); essa lega sia l’uomo che la donna (Mc 10,11); li lega indissolubilmente (Mt 19,6) e intimamente (Mt 5,28); sposarsi dopo un divorzio è commettere adulterio; è essere adultero nel proprio cuore desiderare di unirsi a un altro che non sia il proprio coniuge. Per evitare questo peccato che esclude dal regno (1 Cor 6, 9), Paolo ricorda che bisogna cercare nell’amore la fonte della fedeltà (Rom 13, 9 s). Si eviterà così di deturpare la santità del matrimonio (Ebr 13, 4).
2. Alleanza e adulterio. - L’alleanza che deve unire l’uomo a Dio con un legame di amore fedele è presentata dai profeti sotto il simbolo di un matrimonio indissolubile (Os 2,21s; Is 54,5s); così, l’infedeltà del popolo è a sua volta stigmatizzata come un adulterio e una prostituzione (Os 2,4), perché il popolo si abbandona al culto degli idoli come una prostituta si dà ai propri amanti, per interesse (Os 2,7; 4,10; Ges 5,7; 13,27; Ez 23,43ss; Is 57,3).
Gesù riprende l’immagine per condannare la mancanza di fede; chiama «generazione adultera» gli increduli che esigono dei segni e gli infedeli che arrossiscono di lui e del suo vangelo (Mt 12,39; 16,4; Mc 8,38). San Giacomo, a sua volta, definisce adulterio ogni compromesso tra l’amore di Dio e quello del mondo (Giac 4, 4). Attraverso queste condanne, viene messa in luce la fedeltà assoluta che è nello stesso tempo il frutto e l’esigenza dell’amore.

Una donna sorpresa in adulterio: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 8 ottobre 1980): Il comandamento “Non commettere adulterio” trova la sua giusta motivazione nell’indissolubilità del matrimonio, in cui l’uomo e la donna, in virtù dell’originario disegno del Creatore, si uniscono in modo che “i due diventano una sola carne” (cfr. Gen 2,24 ). L’adulterio, per sua essenza, contrasta con tale unità, nel senso in cui questa unità corrisponde alla dignità delle persone. Cristo non soltanto conferma questo essenziale significato etico del comandamento, ma tende a consolidarlo nella stessa profondità della persona umana. La nuova dimensione dell’ethos è collegata sempre con la rivelazione di quel profondo, che viene chiamato cuore e con la liberazione di esso dalla “concupiscenza”, in modo che in quel cuore possa risplendere più pienamente l’uomo: maschio e femmina in tutta la verità interiore del reciproco “per”. Liberato dalla costrizione e dalla menomazione dello spirito che porta con sé la concupiscenza della carne, l’essere umano: maschio e femmina, si ritrova reciprocamente nella libertà del dono che è la condizione di ogni convivenza nella verità, ed, in particolare, nella libertà del reciproco donarsi, poiché entrambi, come marito e moglie, debbono formare l’unità sacramentale voluta, come dice Genesi 2,24, dallo stesso Creatore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Padre di infinita misericordia,
la forza redentrice dei tuoi sacramenti
ci liberi da ogni male,
e ci avvii all’incontro con te come discepoli del Cristo.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.




29 Marzo 2020

V Domenica di Quaresima

Ez 37,12-14; Sal 129 (130); Rm 8,8-11; Gv 11,1-45

Colletta: Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente; tu che hai manifestato la tua compassione nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, guarda oggi l’afflizione della chiesa che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato, e con la forza del tuo Spirito richiamali alla vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo ....

Prima lettura: Ezechiele è sacerdote e insieme profeta. Il veggente, nato intorno al 620 a.C., oltre a proporre oracoli contro le nazioni pagane (Cf. Ez 25-32), alimenta la speranza del popolo esiliato (capitoli 33-38) e delinea il piano di ricostruzione della futura nazione (capitoli 40-48). Ezechiele con la visione terrificante delle ossa inaridite, annunzia la restaurazione messianica di Israele, dopo la liberazione dalla cattività babilonese. Certamente il profeta non voleva predire la risurrezione dei morti. Una lettura in questo senso fu fatta da un gran numero di Padri e esegeti dopo Giustino e Ireneo. Tuttavia, non è meno evidente che questa impressionante profezia abbia orientato gli spiriti all’idea di una risurrezione individuale della carne.

Salmo: «La veglia del mattino è la risurrezione del Cristo. Il salmista spera, a motivo della risurrezione del Cristo... Gesù nostro sacerdote ha preso da noi ciò che doveva offrire per noi: la carne. Nella stessa carne si è fatto vittima; nella passione si è fatto sacrificio; nella risurrezione ha rinnovato ciò che era stato messo a morte e lo ha offerto a Dio come primizia. E ti dice: Essendo stata offerta a Dio una primizia di te stesso nella mia carne, tutte le cose tue sono ormai consacrate al Signore. Spera dunque che si realizzi in te quanto si è realizzato in anticipo nella tua primizia» (San Agostino).

Seconda lettura: La lettera ai Romani oltre ad essere la più estesa tra le lettere paoline, è anche la più importante per comprendere il pensiero di Paolo sulla giustificazione del peccatore ad opera di Dio, mediante la redenzione di Cristo e il dono dello Spirito di Dio, il quale abita nei credenti a motivo del Battesimo e della fede in Gesù Cristo (Cf. 1Cor 6,19). Inoltre, lo Spirito è la garanzia della futura risurrezione. A motivo di tanta ricchezza, il cristiano non può e non deve vivere schiavo della carne.

Vangelo: Il brano della risurrezione di Lazzaro esplicita uno degli aspetti fondamentali della cristologia giovannea. Il miracolo manifesterà ai Giudei la gloria di Dio, ma, allo stesso tempo, spianerà la strada ai nemici del Cristo: proprio a motivo della risurrezione di Lazzaro decideranno di uccidere Gesù. La tomba di Lazzaro si trovava a Betania che era a circa tre chilometri da Gerusalemme. Nel racconto si passa, in un lento crescendo, dalla narrazione della malattia a quella della morte e sepoltura, fino all’evento della risurrezione, al quarto giorno. Tra le righe traspare l’umanità tenerissima di Gesù, che è scossa dal dolore per la morte dell’amico amato (vv. 33.35). La preghiera di Gesù rivolta al Padre, Io sapevo che mi dai sempre ascolto, comprova ed esplicita il mistero della divina figliolanza.

Forma Breve - Dal Vangelo secondo Giovanni 11, 3-7.17.20-27.33b-45: In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Gesù si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Lazzaro, vieni fuori! - Il miracolo della risurrezione di Lazzaro è l’ultimo «segno» compiuto da Gesù prima della sua morte. In un contesto di dolore, di profonda commozione, di speranza e di incredulità, la risurrezione di colui che Gesù ama (Gv 11,3.16) è il segno e l’anticipazione della risurrezione stessa di Cristo.
Nel «segno», inoltre, brilla una profonda verità, Gesù è la risurrezione e la vita; chi crede in Lui, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in Lui, anche se muore, non morirà in eterno (Cf. Gv 11,25).
Marta e Maria si preoccupano di avvisare Gesù che il loro fratello Lazzaro è malato.
Questa malattia non porterà alla morte, la risposta di Gesù, non compresa nella sua pienezza profetica, ha un duplice significato: gli amici dell’uomo credono che Lazzaro guarirà dalla malattia, Gesù indica invece il percorso della morte che il suo amico amato dovrà percorrere fino in fondo per poi risorgere manifestando in questo modo ai Giudei la gloria di Dio. Ma allo stesso tempo, questo miracolo provocherà (Gv 11,46-54) la sua morte, che sarà anche la sua glorificazione (Gv 12,32).
In attesa che gli eventi maturino, Gesù rimane ancora per due giorni nel luogo dove si trovava.
Quando Gesù arriva a Betania, Lazzaro è morto da quattro giorni.
Marta sembra rimproverare il Maestro, se tu fossi stato qui ..., ma nella richiesta c’è qualcosa che va al di là dell’umana speranza, l’insperabile: lei è certa che, nonostante la decomposizione organica del corpo, Gesù può operare un miracolo: Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà, anche quella di risuscitare ora Lazzaro.
Gesù comprende appieno la richiesta, ma rimanda la donna alla comune fede nella risurrezione dei morti. Marta, che forse sperava in un qualcosa di straordinario, si acquieta e accetta l’evidenza dei fatti: Lazzaro è morto, so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno. Di rimando, Gesù, inaspettatamente, spazza via qualsiasi equivoco o dubbio: Io sono la risurrezione e la vita, così come Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,35s), Io sono la luce del mondo (Gv 8,12), Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6). Gesù è venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10): Marta accoglie la rivelazione, crede e professa la sua fede: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo.
Gesù si commuove profondamente e, molto turbato, chiede che gli si indichi la tomba di Lazzaro.
Alla commozione segue il pianto che mette in evidenza tutta l’umanità di Gesù: Egli è profondamente uomo e nutre nel suo cuore sentimenti umani. Il verbo commuoversi (embrimaomai, fremere, indignarsi) «si riferisce a una reazione di rabbia che Giovanni interpreta come un’agitazione interiore. Il motivo di questa reazione potrebbe essere il peccato che causa la morte e il dolore che ne consegue; oppure la compassione nei confronti delle due sorelle; infine il cordoglio dei giudei [“la vide piangere e piangere anche i giudei”]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
Le lacrime di Gesù dividono i presenti, anzi per qualcuno sono motivo di scandalo: Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse? Probabilmente, per questi tali, la morte di Lazzaro ha svelato finalmente i veri limiti di colui che essendo uomo si faceva Dio (Cf. Gv 10,33). Forse, Gesù ha intuito i pensieri di coloro che dubitano (Cf. Mt 9,4) e così il tono si fa forte, imperioso e a Marta, che ora sembra vacillare nella sua fede, risponde con altrettanta fermezza, tacitandola, ma con amorevolezza.
La preghiera di Gesù, Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato, forse fatta ad alta voce, è tesa a che i Giudei credano che il Padre lo ha mandato e che lui e il Padre sono una cosa sola (Cf. Gv 10,30.38): la volontà del Figlio è così unita a quella del Padre che ogni sua domanda viene esaudita.
... gridò a gran voce, questo particolare sembra quasi sottolineare la riottosità della morte a cedere il passo alla vita: infatti, «l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,26).
Gesù chiama per nome il suo amico: anche dopo la morte l’uomo è persona ed è conosciuto come persona da Dio. Colui che sarà ammesso nel regno riceverà dal Risorto «una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (Ap 2,17).
Il morto uscì legato: è la carne, la morte, il peccato a legare l’uomo, ma Gesù è venuto a sciogliere questi lacci ed è venuto con voce forte «simile al fragore di grandi acque» (Ap 1,15).
Liberàtelo e lasciàtelo andare: il «comando, che troviamo anche nei miracoli sinottici di risurrezione [Mc 5,43b; Lc 7,15], indica un ritorno alla vita normale. Niente invece di ciò che naturalmente ci aspetteremmo: un saluto o una domanda al risuscitato. Tutto rimane immortalato nella solennità di un quadro, in cui, sullo scenario storico, trionfano la cornice e i colori teologici» (Giuseppe Segalla).
Molti credettero, ma altri si fanno sopraffare dall’odio: il più bel gesto, quello di dare la vita ad un amico, che significa e concretizza l’amore di Dio verso tutti gli uomini, per pochi scellerati è solo apparato scenografico con una aggravante: il sedicente Cristo, con i suoi miracoli e guarigioni prodigiosi, può portare alla rovina l’intera nazione ebraica. È quindi necessario decidere della sua sorte e decidere partendo da un saggio principio: è conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera (Gv 11,50).
Di lì a poco, la gioia di Betania si sarebbe così spenta ai piedi di una croce. Anche Lazzaro, il risuscitato, avrebbe pagato il suo prezzo.

Gesù scoppiò in pianto - Amoris laetitia 144: Gesù, come vero uomo, viveva le cose con una carica di emotività. Perciò lo addolorava il rifiuto di Gerusalemme (cfr Mt 23,37) e questa situazione gli faceva versare lacrime (cfr Lc 19,41). Ugualmente provava compassione di fronte alla sofferenza della gente (cfr Mc 6,34). Vedendo piangere gli altri si commuoveva e si turbava (cfr Jn 11,33), ed Egli stesso pianse la morte di un amico (cfr Jn 11,35). Queste manifestazioni della sua sensibilità mostravano fino a che punto il suo cuore umano era aperto agli altri.
145 Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Dio onnipotente, concedi a noi tuoi fedeli
di essere sempre inseriti come membra vive nel Cristo,
poiché abbiamo comunicato al suo corpo e al suo sangue.
Per Cristo nostro Signore.