1 Marzo 2024
 
Venerdì II Settimana di Quaresima
 
Gn 37,3-4.12-13a.17b-28; Salmo Responsoriale Dal Salmo 104 (105); Mt 21,33-43.45-46
 
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
donaci di essere intimamente purificati
dall’impegno penitenziale della Quaresima
per giungere alla Pasqua con spirito rinnovato.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La pietra che i costruttori hanno scartato...: Benedetto XVI (Angelus 2 ottobre 2011): (Cristo) è “la pietra che i costruttori hanno scartato” (cfr. Mt 21,42), perché l’hanno giudicato nemico della legge e pericoloso per l’ordine pubblico; ma Lui stesso, rifiutato e crocifisso, è risorto, diventando la “pietra d’angolo” su cui possono poggiare con assoluta sicurezza le fondamenta di ogni esistenza umana e del mondo intero. Di tale verità parla la parabola dei vignaioli infedeli, ai quali un uomo ha affidato la propria vigna, perché la coltivino e ne raccolgano i frutti. Il proprietario della vigna rappresenta Dio stesso, mentre la vigna simboleggia il suo popolo, come pure la vita che Egli ci dona affinché, con la sua grazia e il nostro impegno, operiamo il bene. Sant’Agostino commenta che “Dio ci coltiva come un campo per renderci migliori” (Sermo 87,1,2: PL 38,531). Dio ha un progetto per i suoi amici, ma purtroppo la risposta dell’uomo è spesso orientata all’infedeltà, che si traduce in rifiuto. L’orgoglio e l’egoismo impediscono di riconoscere e di accogliere persino il dono più prezioso di Dio: il suo Figlio unigenito. Quando, infatti, “mandò loro il proprio figlio - scrive l’evangelista Matteo - ... (i vignaioli) lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero” (Mt 21,37.39). Dio consegna se stesso nelle nostre mani, accetta di farsi mistero insondabile di debolezza e manifesta la sua onnipotenza nella fedeltà ad un disegno d’amore che, alla fine, prevede però anche la giusta punizione per i malvagi (cfr. Mt 21,41). Saldamente ancorati nella fede alla pietra angolare che è Cristo, rimaniamo in Lui come il tralcio che non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite. Solamente in Lui, per Lui e con Lui si edifica la Chiesa, popolo della nuova Alleanza. Ha scritto in proposito il Servo di Dio Papa Paolo VI: “Il primo frutto dell’approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata” (Enc. Ecclesiam suam, 6 agosto 1964: AAS 56 [1964], 622).”
 
I Lettura: Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli. Una preferenza che aveva aperto la porta alla gelosia, infatti i fratelli di Giuseppe vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente. Da qui il progetto di ucciderlo. Una storia assai triste nella quale campeggia l’assenza di un intervento visibile di Dio a favore di Giuseppe, sembra che Dio abbia lasciato il giovane Giuseppe al suo doloroso destino, ma in verità l’intera storia cela un insegnamento che sarà espresso chiaramente più avanti. La Provvidenza “ride dei calcoli degli uomini e sa volgere in bene la loro cattiva volontà. Non solo Giuseppe è salvato, ma il delitto dei suoi fratelli diventa lo strumento del disegno di Dio: la venuta dei figli di Giacobbe in Egitto prepara la nascita del popolo eletto” (Bibbia di Gerusalemme). Come dirà san Paolo, “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28).
 
Vangelo
Costui è l’erede. Su, uccidiamolo!
 
La parabola dei contadini omicidi arriva senza difficoltà al cuore di chi ascolta. Il padrone della vigna è il Padre, i servi sono i profeti e il figlio prediletto, cacciato fuori dalla vigna e ucciso da coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, è Gesù. Alla ostinazione e alla malvagità del suo popolo, il padrone della vigna risponderà facendo uccidere i vignaioli e affidando ad altri la vigna. Il regno di Dio andrà a coloro che avranno creduto, i quali consegneranno a suo tempo al padrone del campo i frutti. Per convalidare questo annuncio, Gesù evoca il testo del salmo 117 attribuendolo a se stesso. L’immagine della pietra, scartata dai costruttori e scelta da Dio come testata d’angolo, sta ad indicare che ciò che è disprezzato dagli uomini, per il Signore diviene fondamento di salvezza.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 21,33-43.45-46
 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.
 
Parola del Signore.
 
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi..., chiara allusione ai profeti mandati da Dio ad Israele. Il raccolto, invece sta ad indicare le opere buone rivendicate dal Signore Dio. L’invio del figlio è l’ultimo tentativo che avrà un esito drammatico. La decisione di uccidere l’erede è in sintonia con la legge ebraica, la quale, nel caso in cui un proselito ebraico moriva, permetteva ai suoi fittavoli di reclamare le sue terre. Ma qui «viene denunciato non tanto un furto di prodotti quanto piuttosto la usurpazione dei diritti di Dio e la pretesa di prendere il suo posto; sta per ripetersi il peccato dei progenitori» (Bruno Barisan).
Alla fine del racconto, i farisei non si accorgono di essere gli accusati (cfr. 2Sam 12,5-7) e rispondendo alla domanda di Gesù, si autodenunciano trasgressori e meritevoli del castigo. La sentenza non tarda ad arrivare: darò in affitto la vigna ad altri contadini, che mi consegneranno i frutti a suo tempo. Questo affidamento però non suggerisce un’idea di appropriazione; infatti, la vigna viene soltanto affidata alla Chiesa ed essa dovrà dare i frutti a tempo debito. È un dono che non porta il marchio della infallibilità; quindi, rimane possibile, anche per la Chiesa, la probabilità di un ripudio. L’affermazione può sembrare temeraria, ma «ha il vantaggio di provocare una precisazione. La Chiesa è per sua natura santa perché corpo e sposa di Cristo e animata dallo Spirito Santo. Non potrà mai essere ripudiata perché è indefettibile [Mt 16,18]. Dio non può ripudiare suo Figlio di cui la Chiesa è corpo. Però se non c’è il pericolo del ripudio collettivo, rimane sempre quello del rigetto individuale, tanto più grave quanto maggiori sono i sussidi a disposizione di ognuno» (Vincenzo Raffa).
È la minaccia del Padre di resecare ogni tralcio che in Cristo non porta frutto: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,1-2). Allora la parabola richiama il «bisogno di riacquistare il senso che la Chiesa è anzitutto dono di Dio e che noi stessi lo siamo, che in essa egli ha stabilito con noi un rapporto di amore e di fiducia e che ci domanda il contraccambio di tale rapporto come primo frutto» (Bruno Barisan).
 
Israele, vigna infedele a Dio - Marc-François Lacan: Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo popolo. Per Osea, Israele è una vigna feconda che rende grazie della sua fecondità ad altri che a Dio, quel Dio che, mediante l’alleanza, è il suo sposo (Os 10,1; 3,1). Per Isaia, Dio ama la sua vigna, ha fatto tutto per essa, ma invece del frutto di giustizia che attendeva, essa gli ha dato l’acerba vendemmia del sangue versato; egli l’abbandonerà ai devastatori (Is 5,1-7). Per Geremia, Israele è una vigna scelta, inselvatichita e divenuta sterile (Ger 2,21; 8,13), che sarà divelta e calpestata (Ger 5,10; 12,10). Ezechiele infine paragona ad una vigna feconda, poi inaridita e bruciata, ora Israele infedele al suo Dio (Ez 19,10-14; 15,6ss), ora il re infedele ad un’alleanza giurata (17,5-19). Verrà un giorno in cui la vigna fiorirà sotto la custodia vigilante di Dio (Is 27, 2s). A tale scopo Israele invoca l’amore fedele di Dio: possa egli salvare questa vigna che ha trapiantato dall’Egitto nella sua terra e che ha dovuto abbandonare allo sterminio ed al fuoco! Ormai essa gli sarà fedele (Sal 80,9-17). Ma non sarà Israele a mantenere questa promessa. Riprendendo la parabola di Isaia, così Gesù riassume la storia del popolo eletto: Dio non ha cessato di aspettare i frutti della sua vigna; ma invece di ascoltare i profeti da lui mandati, i vignaioli li hanno maltrattati (Mc 12,1-5). Colmo dell’amore: egli manda ora il suo Figlio diletto (12,6); in risposta i capi del popolo porteranno al colmo la loro infedeltà, uccidendo il Figlio di cui la vigna è l’eredità. Perciò i colpevoli saranno castigati, ma la morte del Figlio aprirà una nuova tappa del disegno di Dio: affidata a vignaioli fedeli, la vigna darà finalmente il suo frutto (12,7ss; Mt 21,41ss).
Quali saranno questi vignaioli fedeli? Le proteste platoniche non servono a nulla: occorre un lavoro effettivo, il solo che renda (Mt 21,28-32). Per fare la sua vendemmia, Dio accoglierà tutti gli operai: lavorando fin dal mattino, od assoldati all’ultima ora, tutti riceveranno la stessa ricompensa. Infatti la chiamata al lavoro e l’offerta del salario sono doni gratuiti e non diritti che l’uomo possa rivendicare: tutto è grazia (Mt 20,1-15).
La vera vigna, gloria e gioia di Dio - Ciò che Israele non ha potuto dare a Dio, glielo dà Gesù. Egli è la vigna che rende, la vite autentica, degna del suo nome. È il vero Israele. È stato piantato dal Padre suo, è stato circondato di cure e mondato affinché porti un frutto abbondante (Gv 15,1s; Mt 15,13). E di fatto porta il suo frutto dando la propria vita, versando il proprio sangue, prova suprema d’amore (Gv 15,9.13; cfr. 10,10s.17); ed il vino, frutto della vite, sarà, nel mistero eucaristico, il segno sacramentale di questo sangue versato per suggellare la nuova alleanza; sarà il mezzo per partecipare all’amore di Gesù, per rimanere in lui (Mt 26,27ss par.; cfr. Gv 6,56; 15,4-9s). Egli è la vite e noi i tralci, come egli è il corpo e noi le membra. La vera vite è lui, ma è anche la sua Chiesa, i cui membri sono in comunione con lui. Senza questa comunione noi non possiamo fare nulla: Gesù solo, vera vite, può portare un frutto che glorifichi il vignaiolo, il Padre suo. Senza la comunione con lui, noi siamo tralci staccati dalla vite privi di linfa, sterili, buoni per il fuoco Gv 15,4ss). A questa comunione tutti gli uomini sono chiamati dall’amore del Padre e del Figlio; chiamata gratuita, perché è Gesù a scegliere coloro che diventano suoi tralci, suoi discepoli; non sono essi a sceglierlo (15,16). Mediante questa comunione, l’uomo diventa tralcio della vera vite. Vivificato dall’amore che unisce Gesù ed il Padre suo, egli porta frutto, e ciò glorifica il Padre. Partecipa così alla gioia del Figlio che è glorificare il Padre suo (15,8-11). Tale è il mistero della vera vite: esprime l’unione feconda di Cristo e della Chiesa, e la gioia che rimane, perfetta ed eterna (cfr. 17, 23).
 
Compostella (Messale per la Vita Cristiana): In questo venerdì la Chiesa ha scelto di farci leggere due testi che ci preparano al mistero del Venerdì Santo, nel quale Gesù viene ucciso per salvare noi.
Abele, ucciso dal suo fratello geloso, è la prima immagine di Gesù nell’Antico Testamento. Viene poi la figura di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli. Questi passi della Genesi mettono in piena luce la ferita che colpisce il cuore di tutti gli uomini dopo il peccato originale e che ostacola il sorgere dei sentimenti fraterni. La gelosia può assumere molte forme, vi sono modi più a meno eleganti di sbarazzarci di qualcuno che ci infastidisce e bisogna riconoscere che si tratta di una tentazione molto frequente, anche in una comunità cristiana. Abbiamo bisogno di chiedere continuamente a Dio una purificazione più profonda, per non accettare mai volontariamente nei nostri cuori il più piccolo sentimento di ostilità nei confronti di un fratello. L’ostilità diventa così facilmente odio ...
La parabola dei vignaioli assassini è indirizzata ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Ci fa comprendere una particolare sofferenza del cuore di Gesù, e al tempo stesso ci fa penetrare nel mistero della sua Chiesa. Gesù ha sofferto per tutti i nostri peccati, ma in particolar modo ha sofferto per essere stato ripudiato e infine ucciso dai pastori del popolo eletto.
Quando consideriamo la storia della Chiesa e del mondo, vediamo che spesso gli uomini hanno veramente voglia di conservare l’eredità del cristianesimo: una nuova visione dell’uomo e della sua dignità personale, un senso della giustizia, della condivisione ... Ma essi vogliono sopprimere l’Erede. Si accontentano di una spiritualità senza Dio! Durante questa Quaresima, chiediamo la grazia di attaccarci con fermezza non solo al messaggio, ma anche alla persona di Gesù, e che la nostra unione con lui sia il centro della nostra vita.
 
La circondò con una siepe: «La siepe rappresenta le preghiere dei santi, oppure la protezione degli Angeli; la buca per pigiare l’uva le profondità della sacra Scrittura e la torre la conoscenza di Dio» (Tommaso d’Aquino, Super ev. Matth., XXI, 1735).
 
Il Santo del giorno - 1 Marzo 2024 - Sant’Albino, Vescovo - Nato intorno al 470 da una famiglia nobile, Albino fu monaco e quindi abate per venticinque anni a Nantilly, nei pressi di Saumur. Nel 529 fu eletto per acclamazione popolare vescovo di Angers. Fu uno dei principali promotori del terzo Concilio di Orleans, che riformò la Chiesa dei Franchi con grande fermezza. È ricordato come difensore dei poveri e dei prigionieri. Inoltre richiamò i signori merovingi al rispetto del vincolo matrimoniale. Morì il 1 marzo 550. (Avvenire)
 
Il pegno dell’eterna salvezza,
che abbiamo ricevuto in questi sacramenti,
ci aiuti, o Signore,
a progredire nel cammino verso di te,
per giungere al possesso dei beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.

ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum

Dona al tuo popolo, o Signore,
la salvezza dell’anima e del corpo,
perché, perseverando nelle opere buone,
sia sempre difeso dalla tua protezione.
Per Cristo nostro Signore.
  
 29 FEBBRAIO 2024
 
GIOVEDÌ DELLA II SETTIMANA DI QUARESIMA
 
Ger 17,5-10; Salmo Responsoriale Dal Salmo 1; Lc 16,19-31
 
Colletta
 O Dio, che ami l’innocenza
e la ridoni a chi l’ha perduta,
volgi verso di te i nostri cuori
perché, animati dal tuo Spirito,
possiamo rimanere saldi nella fede
e operosi nella carità fraterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Beato l’uomo che confida nel Signore: Giovanni Paolo II (Omelia, 17 Febbraio 1980): Nell’odierna liturgia della parola, ci colpisce soprattutto il paragone dell’uomo giusto con l’albero: “Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Sal 1,3). così dice il salmista. E il profeta Geremia, il quale utilizza lo stesso paragone, aggiunge che tale albero “non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell’anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti” (Ger 17,8). L’uomo viene paragonato ad un albero. Ed è giusto. Anche l’uomo cresce, si sviluppa mantiene la salute e le forze, o le perde. Tuttavia, il paragone della Sacra Scrittura si riferisce all’uomo soprattutto in senso spirituale. Parla, infatti, dei frutti spirituali delle sue opere, che si manifestano nel fatto che tale uomo “non segue il consiglio degli empi” e “non indugia nella via dei peccatori” (Sal 1,1). La sorgente, invece, di tale condotta, cioé di questi buoni frutti dell’uomo, è che egli “si compiace della legge del Signore”, e “la sua legge medita giorno e notte” (Sal 1,2). Il profeta, da parte sua, sottolinea che tale uomo “confida nel Signore e il Signore è sua fiducia” (Ger 17,7). L’uomo che vive così, che si comporta in questo modo, viene chiamato dalla Sacra Scrittura benedetto. In opposizione a lui c’è l’uomo peccatore, che il profeta Geremia assimila ad “un tamerisco nella steppa” (Ger 17,6), e che il salmista paragona alla “pula che il vento disperde” (Sal 1,4). Se il primo merita la benedizione, l’altro viene chiamato dal profeta “maledetto” (Ger 17,5), poiché confida soltanto nell’uomo (Ger 17,5), cioè in se stesso, e “pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore” (Ger 17,5).
 
Prima Lettura: Mentre il re di ed i suoi ministri si affannano a cercare un’alleanza con l’Egitto contro l’Assiria, il profeta Geremia predica la fiducia in Dio. Solo Dio avrebbe salvato Israele dagli Assiri, e non l’esercito egiziano; ma non viene ascoltato. A ragione pertanto può dire: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo … Sarà come un tamerisco nella steppa … dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere». Maledetto, non perché il Signore voglia per lui il male, o gli mandi delle disgrazie, ma perché da se stesso si è messo sulla strada della rovina. L’uomo che confida nell’uomo è sulla strada sbagliata. Mettere tutta la propria fiducia nelle cose materiali e fare di esse il fine ed il fondamento della propria vita, è andare incontro alla delusione e al fallimento.
 
Vangelo
Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
 
La parabola evangelica vuol mettere in evidenza la potenza seducente del denaro. Il ricco epulone è reso cieco letteralmente dalla ricchezza: mentre brama divertirsi ingozzandosi, i suoi occhi non scorgono più il povero Lazzaro, «bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Dopo la morte le sorti si ribaltano: il ricco è nei tormenti, il povero nella gioia. La parabola non condanna il denaro in se stesso, ma il suo uso empio e il suo fascino luciferino che può travolgere il cuore e la mente degli uomini. Cristo non condanna la gioia terrena, ma la mancanza di pietà e di carità verso i più indigenti. Occorre quindi mettersi - come suggerisce san Paolo - in un serio cammino ascetico.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 16,19-31
 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
 
Il ricco e il povero Lazzaro - La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo.
Un uomo ricco... un povero... All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande, épulum banchetto), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulàbatur cotidie splèndide). I septemviri epulones erano uno dei quattro più importanti collegi religiosi della Roma antica, insieme a quelli dei pontefici, degli auguri e dei quindecimviri sacris faciundis. Il loro ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbli­che feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondante­mente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a loro favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (Cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is l,17; 58,7).
La ricchezza dell’Epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di telo di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosa­mente tutto il suo povero corpo. Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (Cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt7,6).
... morì il povero... morì anche il ricco...  Stando negli inferi... Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudi­ne presentate come castighi e premi eterni.
Il tema del racconto evangelico è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché «chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è: chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo alletta­no non può percepire e recepire l’invito alla conver­sione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (Cf. Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologià della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri.
Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Canopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (Cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutta qui la «morale» della parabola.
Neanche se uno risorgesse dai morti. L’uomo ricco chiede un miracolo per i suoi cinque fratelli, perché si convertano. Chiedere un miracolo per credere era un’idea fissa degli Ebrei, lo ricorderà anche Paolo ai cristiani di Corinto: «E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza» (1Cor 1,22). Molte volte i Giudei avevano chiesto a Gesù un segno per credere in lui e Gesù lo offrirà nella sua risurrezione, ma neanche questo segno servirà a convincere gli Ebrei. Quindi, nelle parole di Gesù c’è una profonda lezione di vita cristiana: non «dobbiamo aspettarci che qualcuno venga dall’al di là ad avvertirci. Gesù con la sua predicazione ci ha detto come stanno le cose. Con la sua morte e risurrezione ci ha dato la garanzia divina che Egli testimonia la verità. Non ci rimane che ascoltare e mettere in pratica la sua parola, che risuona continuamene nella predicazione della Chiesa. Si tratta solo di credere alla predicazione, di credere a quanto la Chiesa insegna» (Roberto Coggi).
 
Deus caritas est nn. 14-15: Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente … il «comandamento» dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere «comandato» perché prima è donato.
È a partire da questo principio che devono essere comprese anche le grandi parabole di Gesù. Il ricco epulone (cfr Lc 16,19-31) implora dal luogo della dannazione che i suoi fratelli vengano informati su ciò che succede a colui che ha disinvoltamente ignorato il povero in necessità. Gesù raccoglie per così dire tale grido di aiuto e se ne fa eco per metterci in guardia, per riportarci sulla retta via. La parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37) conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di «prossimo» era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d’Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora. Rimane compito della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri. Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25,31-46), in cui l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio.
 
Papa Francesco (Angelus, 8 ottobre 2017): Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo. […]
Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l’ha lasciata entrare nel cuore, non l’ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice Gesù. Così nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia.
 
Di chi è la ricchezza? - Basilio di Cesarea, Hom., 12, 7: A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio? Ma, dimmi, che cosa è tua? Che cosa hai portato tu alla vita? Come se uno, avendo preso prima un posto in un teatro, poi cacci via quelli che entrano, pretendendo che sia suo ciò che è fatto a beneficio di tutti; così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre? Non tornerai nudo nella terra? Da che parte ti son venuti i beni che hai? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. Può essere ingiusto Dio, che darebbe inegualmente le cose necessarie alla vita? Perché, mentre tu sei ricco, l’altro è povero? Non forse perché tu possa avere la mercede del giusto e fedele dispensatore e l’altro acquisti il grande premio della pazienza? Tu invece abbracci tutto nelle insaziabili pieghe dell’avarizia e mentre privi tanta gente, credi di non far torto a nessuno. Chi è l’avaro? Colui che non è contento di quanto basta. Chi è il saccheggiatore? Chi prende la roba degli altri. Non sei avaro? non sei un saccheggiatore? Tu ti appropri di ciò che hai ricevuto per dispensarlo. Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? È dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti son coloro cui fai torto.
 
Il Santo del giorno - 29 Febbraio 2024 -  Beata Antonia, Badessa: Nata a Firenze, giovanissima si sposò ed ebbe un figlio. Rimasta vedova, entrò nel monastero delle terziarie di s. Francesco, fondato a Firenze nel 1429 dalla beata Angelina. Fu badessa a Foligno (1430-33) e poi a L’Aquila dove, nel 1447, confortata dal consiglio di S. Giovanni da Capistrano, fondò il monastero del Corpus Domini sotto la regola prima di s. Chiara. Allora, come era avvenuto ad Assisi ai tempi di s. Chiara, molte fanciulle aquilane, per seguire Antonia che ne rispecchiava le virtù, abbandonarono il mondo. La beata morì il 29 febbraio 1472. Il suo corpo si conserva, tuttora intatto e flessibile, nel monastero di s. Chiara dell’Eucarestia a L’Aquila. Pio IX approvò il culto il 17 settembre 1847.
 
Parola del Signore.
 
Questo sacramento, o Dio,
continui ad agire in noi
e porti frutto nella nostra vita.
Per Cristo nostro Signore.
ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum
Assisti, o Signore, i tuoi fedeli
che implorano l’aiuto della tua grazia
per ottenere difesa e protezione.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
28 FEBBRAIO 2024
 
MERCOLEDÌ DELLA II SETTIMANA DI QUARESIMA
 
Ger 18,18-20; Salmo Responsoriale Dal Salmo 30 (31); Mt 20,17-28
 
Colletta
Custodisci, o Padre,
la tua famiglia nell’impegno delle buone opere;
confortala con il tuo aiuto
nel cammino della vita
e guidala al possesso dei beni eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Omelia Santa Marta 11 marzo 2020): «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso» (vv. 18-19). Non è soltanto una sentenza di morte: c’è di più. C’è l’umiliazione, c’è l’accanimento. E quando c’è accanimento nella persecuzione di un cristiano, di una persona, c’è il demonio. Il demonio ha due stili: la seduzione, con le promesse mondane, come ha voluto fare con Gesù nel deserto, sedurlo e con la seduzione fargli cambiare il piano della redenzione; e, se questo non va, l’accanimento. Non ha mezzi termini, il demonio. La sua superbia è così grande che cerca di distruggere, e distruggere godendo della distruzione con l’accanimento. […] Che il Signore ci dia la grazia di saper discernere quando c’è lo spirito che vuole distruggerci con l’accanimento, e quando lo stesso spirito vuole consolarci con le apparenze del mondo, con la vanità. Ma non dimentichiamo: quando c’è accanimento, c’è l’odio, la vendetta del diavolo sconfitto. È così fino a oggi, nella Chiesa. Pensiamo a tanti cristiani, come sono crudelmente perseguitati. […] Che il Signore ci dia la grazia di discernere il cammino del Signore, che è Croce, dal cammino del mondo, che è vanità, apparire, maquillage.
 
Prima Lettura: Geremia è un profeta scomodo, un uomo che va controcorrente. Ha profetato la distruzione della città santa, la fine della legge e del profetismo, le sue parole sono insopportabili. Meglio toglierlo di torno perché lasciarlo in vita significa dare voce al disfattismo, alla resa incondizionata al nemico che incalza sotto le mura di Gerusalemme: nelle sue vicende il lettore può scorgervi il destino del Cristo, Servo sofferente e Giusto perseguitato.
 
Vangelo
Lo condanneranno a morte.
 
Mentre saliva a Gerusalemme Gesù nell’annunciare per la terza volta la sua passione svela alcuni dettagli che si verificheranno fin nei più minimi particolari: gli autori della sua condanna a morte: i sommi sacerdoti, gli scribi, i quali lo consegneranno ai pagani (gr.  ἔθνεσιν = genti) perché venga deriso e flagellato e crocifisso”. Viene professata anche la risurrezione dai morti, il terzo giorno.
La richiesta di Salome (Mt 27,56; Mc 15,40), madre di Giacomo e Giovanni, e l’indignazione degli altri “dieci” apostoli, dimostra una totale incomprensione della “missione” di Gesù che dovrà percorre non i sentieri della gloria, ma quella della Croce. E per rendere più chiaro il messaggio, cercando di fare verità nei cuori degli apostoli, rivela in modo assai chiaro che egli si è fatto “schiavo” dell’umanità,  e “che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
… dare la propria vita in riscatto: “i peccati degli uomini inducono un debito verso la giustizia divina, la pena di morte comminata dalla legge (cf. 1Cor 15,56, 2Cor 3,7.9, Gal 3,13, Rm 8,3-4 e le note). Per liberarli da questa schiavitù del peccato e della morte (Rm 3,24+), Gesù pagherà il riscatto e cancellerà il debito versando il prezzo del suo sangue (1Cor 6,20; 7,23, Gal 3,13; 4,5 e le note), cioè morendo al posto dei colpevoli, così com’era stato annunziato del «servo di Jahve» (Is 53). Il termine semitico che traduce «una moltitudine» (Is 53,11s) oppone il grande numero dei riscattati all’unico redentore, senza implicare che questo numero sia limitato (Rm 5,6-21; cf. Mt 26,28+). Dopo molti, D e altri testimoni aggiungono qui un passo che forse proviene da qualche vangelo apocrifo: «Ma voi, cercate da piccoli di diventare grandi e da adulti vi rendete piccoli. Quando andate a un banchetto al quale siete stati invitati, non prendete il posto d’onore, per timore che sopraggiunga uno più degno di te e che il maggiordomo venga a dirti: ‘Ritorna in basso’ e tu sarai coperto di confusione. Ma se tu prendi il posto inferiore e sopraggiunge uno meno degno di te il maggiordomo ti dirà: ‘Sali più in alto’ e ciò ti sarà vantaggioso» (cf. Lc 14,8-10)”.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 20,17-28
 
In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno».
Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Parola del Signore.
 
… lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso - Il Nuovo Testamento (Ed. Paoline): 20,17-19 Cfr. Mc 10,32-34; Lc 18,31-34. Questo annuncio presenta più dettagli rispetto ai precedenti (16,21-23; 17,22-23).
20,19 Mentre Mc dice più genericamente che “lo uccideranno” Mt specifica che sarà “crocifisso”.
20,20-28 Cfr. Mc 10,35-45; Lc 22,24-27. L’ambiziosa richiesta, e la conseguente indignazione degli altri “dieci” discepoli (24), dimostra che né i due fratelli né gli altri hanno capito che ciò che rende grandi nel regno di Dio non sono il potere, l’onore e la gloria, ma il servizio umile agli altri (26-27). E probabilmente il motivo per il quale la richiesta viene inoltrata dalla madre Salome (Mt 27,56; Mc 15,40), anziché dai figli, gli apostoli Giacomo e Giovanni (Mt 4,21; Gv 21,2), è proprio per temperare l’immagine ancor più negativa e imbarazzante che avrebbe suscitato la domanda rivolta direttamente dai figli.
20,22 I verbi al plurale indicano che la risposta non è rivolta solo alla madre, ma anche ai figli.
II calice è, metaforicamente, il destino stabilito da Dio, sia esso di benedizione (Sal 16,5; 116,13) o di giudizio (Is 51,17; Lam 4,21). Qui si riferisce alla passione e alla morte di Gesù.
Rispetto a Mc 10,38, Mt omette la seconda parte del versetto (“o essere battezzati nel battesimo che io ricevo”).
20,25-28 I modelli politici non si accordano con le esigenze del “regno”.
L’atteggiamento giusto, che deve diventare norma di riferimento per tutti, è quello dei bambini, che accolgono gratuitamente il regno dél cieli senza far nulla per meritarlo (19,13-15).
 
Compostella (Messale per la Vita Cristiana): La croce è sempre presente nel cuore di Gesù. È la mèta della sua vita. Sarà un sacrificio liberamente offerto, e non solo un martirio: Gesù ben lo mostra annunciando con precisione ai suoi apostoli che cosa gli sarebbe accaduto. Certo, egli aggiunge che « il terzo giorno risusciterà », ma si sente che ora è tutto rivolto alla passione che si avvicina. I sentimenti di Giacomo, di Giovanni e della loro madre appaiono molto umani. Questo bisogno di gloria, questo bisogno di apparire, esiste in ciascuno di noi. Il nostro io resta sempre più a meno occupato dal desiderio di dominare. Ma Gesù ci avverte come avverte Giacomo e Giovanni: se vogliamo essere con lui nella sua gloria, dobbiamo bere per intero il suo calice, cioè dobbiamo anche noi morire, fare la volontà del Padre, portare la nostra croce seguendo Gesù, senza cercare di sapere prima quale sia il nostro posto nel suo regno.
La reazione di sdegno degli altri dieci discepoli è anch’essa molto umana. E Gesù, seriamente, li invita a un rovesciamento totale di valori. Nella nuova comunità per la quale egli sta per dare la vita, il primo sarà l’ultimo, « appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti ». Chiediamo la grazia di divenire servi, e servi davvero umili,
pronti a soffrire e a sacrificarsi. Preghiamo Maria perché
interceda per noi: ai piedi della croce, ciò che Maria chiede per i suoi figli è che abbiano parte, come lei e con lei, al sacrificio del suo Figlio.
 
Hanno scavato per me una fossa - Perché il dolore, la sofferenza…?: Solo se immerso nella luce della Risurrezione del Cristo, l’uomo può comprendere il fine della sua vita, l’origine e il fine della sofferenza, il significato della morte. Innanzi tutto, i sofferenti sono immagine di Cristo: «Cristo è stato inviato dal Padre “a portare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore ferito” [Lc 4,18], “a cercare e salvare ciò che era perduto” [Lc 9,10]; similmente la Chiesa circonda di amore quanti sono afflitti da infermità umana, anzi nei poveri e nei sofferenti riconosce l’immagine del suo fondatore povero e sofferente. Si premura di sollevarne la miseria, e in loro intende servire Cristo» (LG 8). Proprio perché la sofferenza conforma l’uomo a Cristo, il credente può visualizzare nei sofferenti il volto dell’Uomo dei dolori. Una conformità che dà un immenso valore al dolore e alla sofferenza quando esse sono accettati per Cristo, con Cristo e a favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). «Ricordino tutti che, con il culto pubblico e l’orazione, con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente (cfr. 2Cor 4,10; Col 1,24), essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo» (AA 17). E l’apostolato della sofferenza è ben ripagato, così come ci ricorda san Paolo: «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Tale insegnamento si è sempre prolungato nel mirabile magistero della Chiesa: «Convinti che “le sofferenze del tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che si manifesterà in noi” [Rom 8,18], forti nella fede, aspettiamo “la beata speranza e l’avvento glorioso del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” [Tt 2,13], “che trasformerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso” [Fil 3,21]; egli verrà “per essere glorificato nei suoi santi e ammirato da coloro che avevano creduto in lui” [2Ts 1,10]» (LG 48). Dunque, solo alla luce della rivelazione cristiana la sofferenza acquista «una qualità e una risonanza del tutto diverse» e «interiormente trasformata, prende un senso nuovo» (Yves de Monteheuil). Diversamente il cuore dell’uomo si consuma nelle paludi della disperazione.
 
Ama l’umiltà e avrai gloria!: “Se ti ricordi che Cristo dice che si perde la mercede innanzi a Dio, quando uno va cercando onore presso gli uomini e fa il bene per essere visto dagli uomini, metti tanta accortezza a non essere onorato dagli uomini, quanta ne mettono gli altri per averne gloria. “Hanno ricevuto la loro mercede” [Mt 6,2], dice il Signore. Perciò non ti far danno da te stesso, andando dietro alla gloria degli uomini. Dio è un grande osservatore; cerca di aver gloria presso Dio, Dio distribuisce splendide ricompense. Hai forse raggiunto una gran rinomanza, ti stimano, ti onorano, ti cercano? Cerca di diportarti come un suddito “Non come chi esercita un potere sugli altri” [1Pt 5,3] e non seguir l’esempio dei principi mondani. Il Signore ha comandato che, chi vuol essere il primo, deve essere servo di tutti [cfr. Mc 10,44]. In una sola parola: pratica l’umiltà, come conviene a chi la ama. Amala e avrai gloria. Questo è il cammino verso la vera gloria, che si ha tra gli angeli, innanzi a Dio. Cristo ti dichiarerà suo discepolo innanzi agli angeli [cfr. Lc 12,8] e ti darà gloria, se imiterai la sua umiltà; egli, infatti, disse: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete pace per le vostre anime” [Mt 11,29]» (Basilio di Cesarea, Hom. de humilit., 7).
 
Il Santo del giorno: 28 Febbraio 2024 - Beato Daniele Alessio Brottier, Sacerdote: Nato nel 1876 a La Ferté-Saint Cyr entrò in Seminario nel 1890 e divenne prete nel 1899. Nel 1902 entrò come novizio nella congregazione dello Spirito Santo ad Orly, l’anno seguente emise i voti religiosi e partì quasi subito per il Senegal, allora colonia francese , ma rientrò dopo soli tre anni per motivi di salute. Ripresosi tornò nuovamente nel paese africano, ma i problemi di salute lo costrinsero a tornare definitivamente in patria. Allora, in Francia, fondò l’opera «Souvenir Africain», allo scopo di costruire la cattedrale di Dakar. Cappellano militare nella Prima Guerra mondiale, fondò l’Unione nazionale combattenti e l’Opera degli orfani apprendisti. Morì nel 1936.
 
Signore Dio nostro, questo sacramento,
che ci hai donato come pegno di vita immortale,
sia per noi sorgente inesauribile
di salvezza eterna.
Per Cristo nostro Signore.

ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum

Concedi ai tuoi figli, o Padre,
l’abbondanza della tua grazia,
dona loro la salute del corpo e dello spirito,
la pienezza della carità fraterna
e la gioia di esserti sempre fedeli.
Per Cristo nostro Signore.
 
 27 Febbraio 2024
 
Martedì I Settima di Quaresima
 
Is 1,10.16-20; Salmo Responsoriale Dal Salmo 49 (50); Mt 23,1-12
 
Colletta
Custodisci con continua benevolenza, o Padre, la tua Chiesa
e poiché, a causa della debolezza umana,
non può sostenersi senza di te,
il tuo aiuto la liberi sempre da ogni pericolo
e la guidi alla salvezza eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Non è lecito giocare sulla parola...: Paolo VI (Udienza Generale, 17 luglio 1968): La concezione del perfetto cristiano deve fare molto caso delle virtù morali proprie della natura umana, integralmente considerata (cfr. Decr. De instit. sacerdotali, n. 11). Citiamo la prima di queste virtù: la sincerità, la veracità. «Sia il vostro linguaggio, c’insegna il Signore, sì, sì; no, no» (Matth. 5, 37; Iac. 5, 12). Dobbiamo redimere il cristiano dalla falsa e disonorante opinione che a lui sia lecito il giocare sulla parola, che in lui vi sia doppiezza fra pensiero e discorso, che egli possa a fin di bene ingannare il prossimo. L’ipocrisia non è protetta dal mantello della religione (cfr. Bernanos, L’imposture). Lo stesso si dica sul senso della giustizia. Della giustizia commutativa dapprima, quella che riguarda il mio e il tuo, cioè sull’onestà nei rapporti economici, negli affari, nella rettitudine amministrativa, specialmente nei pubblici uffici; e poi sulla giustizia sociale (legale, la dicevano gli antichi, «nel senso che per essa l’uomo si conforma alla legge che ordina gli atti di tutto l’operare umano al bene comune» - cfr. S. Th. II-II, 58, 6; S. Tommaso la chiama perciò una «virtù architettonica» - cfr. ibid. 60,1 ad 4). E così diciamo del senso del dovere, del coraggio, della magnanimità, dell’onestà dei costumi; e così via. Grande apprezzamento dobbiamo fare di queste virtù naturali, anche se non dimentichiamo come esse, fuori dell’ordine della grazia, siano incomplete, e spesso si associno a debolezze umane molto deplorevoli (cfr. S. Ag., De civ. Dei, V, 19; P.M. 41, 166); e ricordiamo come siano, di per sé, sterili di valore soprannaturale (ibid. XX, 25; P.L. 41, 656; e XXI, 16; P.L. 41, 730). Insegnamenti vecchi? No, ce li ricorda il Concilio, dove dice, ad esempio: «Molti nostri contemporanei... sembrano temere che, se si stabiliscono troppo stretti legami tra l’attività umana e la religione, sia impedita l’attività degli uomini, della società, della scienza». E difende così la legittima autonomia nella questione delle realtà terrene (Gaudium et Spes, n. 36).
 
I Lettura: Per bocca del profeta Isaia, il Signore Dio invita il suo popolo a convertirsi. Israele ha peccato e al peccato ha mescolato un culto ipocrita, esterno e rituale, è giunto il tempo di ritornare al Signore in sincerità e verità, solo così il popolo potrà gustare il frutto dolcissimo del perdono d Dio. 
 
Vangelo
Dicono e non fanno.
 
I farisei, ai tempi di Gesù, fieri della loro virtù e della loro scienza, si erano ritirati in un particolarismo sprezzante spesso denunciato da Cristo. Già Giovanni Battista li aveva attaccati senza tregua affermando che essi traevano la loro orgogliosa sicurezza dall’appartenenza alla stirpe di Abramo, come se il fatto di discendere da Abramo potesse cancellare i peccati e sostituirsi al pentimento (cfr. Mt 3,7-12). Il vero peccato dei farisei però consiste nel fare tutto il possibile per impedire e tenere lontano la salvezza che Gesù porta.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 23,1-12
 
 In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Parola del Signore.
 
Tutte le opere le fanno per essere ammirati... è la lebbra della ipocrisia. Bernanos poneva una domanda altamente shoccante per certe orecchie fin troppo clericali: chi può vantarsi di non avere, nelle proprie vene, anche una sola goccia del sangue di quelle vipere? Particolarismo, cecità, arroganza, orgoglio, privilegi di casta e di appartenenza, presunta santità ... abbiamo chiuso con questo passato? E le parole roventi rivolte da Cristo alle guide spirituali d’Israele sono o non sono attuali? Per Alessandro Pronzato tutti siamo farisei quando: «annulliamo la Parola di Dio con le nostre tradizioni [Mt 15,6]; ci limitiamo alla legalità; riduciamo la religione a una “questione di pratiche”; pretendiamo di arrivare a Dio “saltando il prossimo”; la nostra opera di “proselitismo” fabbrica dei “settari”; ci preoccupiamo di sembrare più di essere;  abbiamo l’ambizione di dominare; ci riteniamo migliori degli altri; mettiamo la legge [la “lettera” della legge] al vertice delle nostre preoccupazioni, e non l’uomo. Tutto questo “putridume” ha un solo nome: ipocrisia» (Vangeli scomodi, Gribaudi). Dunque è possibile che nella comunità cristiana alligni e cresca la mala erba dell’ipocrisia. Ipocriti saranno coloro che siedono sulla cattedra di Mosè per dire e non fare; chi si atteggerà a maestro e osservante della legge, ma non la compie; chi rifiuterà di farsi piccolo e di servire i fratelli. L’umiltà, la capacità di sapersi mettere in crisi, l’attaccamento alla verità, il farsi servo, l’onestà delle azioni, la sincera conoscenza di se stessi ..., saranno sempre dei buoni antidoti per non scivolare nel formalismo e per non essere attaccati dalla lebbra dell’ipocrisia. Le parole molto forti di Gesù sono rivolte a tutti i cristiani, ma sopra tutto a chi è maestro nella comunità. Chi annuncia il vangelo non ha diritto di sfumarle, facendolo si accuserebbe da se stesso di essere un ipocrita. San Girolamo ebbe a scrivere: “Guai a noi, sventurati, se abbiamo ereditato i vizi dei farisei!”. Alla luce di questa sapiente affermazione, possiamo affermare che questa eredità è la suprema sventura per un cristiano.
 
Ipocrita - Xavier Léon Dufour - Sull’esempio dei profeti (ad es. Is. 29, 13) e dei sapienti (ad es. Eccli 1, 28 s; 32, 15; 36, 20), ma con una forza ineguagliata, Gesù ha messo a nudo le radici e le conseguenze dell’ipocrisia, avendo di mira specialmente quelli che allora costituivano l’«intellighenzia», scribi, farisei e dottori della legge. Ipocriti sono evidentemente coloro la cui condotta non esprime i pensieri del cuore; ma essi sono pure qualificati da Gesù come ciechi (cfr. Mi 23, 25 e 23, 26). Un legame sembra giustificare il passaggio dall’uno all’altro senso: a forza di voler ingannare gli altri, l’ipocrita inganna se stesso e diventa cieco sul suo proprio stato, incapace di vedere la luce.
1. Il formalismo dell’ipocrita.- L’ipocrisia religiosa non è semplicemente una menzogna; essa inganna gli altri per acquistarne la stima mediante atti religiosi la cui intenzione non è semplice. L’ipocrita sembra agire per Dio, ma di fatto agisce per se stesso. Le pratiche più raccomandabili, elemosina, preghiera, digiuno, sono in tal modo pervertite dalla preoccupazione di «farsi notare» (Mt 6, 2. 5. 16; 23, 5). Quest’abitudine di mettere una disarmonia tra il cuore e le labbra insegna a velare intenzioni malvagie sotto un’aria ingenua, come quando sotto pretesto di una questione giuridica si vuol tendere un’insidia a Gesù (Mt 22, 18; cfr. Ger 18, 18). Desideroso di salvare la faccia, l’ipocrita sa scegliere tra i precetti o adattarli con una sapiente casistica: può così filtrare il moscerino ed inghiottire il cammello (Mt 23, 24), o rivolgere le prescrizioni divine a profitto della sua rapina e della sua intemperanza (23, 25): «Ipocriti! Ben ha profetizzato di voi Isaia dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me» (15, 7).
2. Cieco che inganna se stesso.- Il formalismo può essere guarito, ma l’ipocrisia è vicina all’indurimento. I «sepolcri imbiancati» finiscono per prendere come verità ciò che vogliono far credere agli altri: si credono giusti (cfr. Lc 18, 9; 20, 20) e diventano sordi ad ogni appello alla conversione. Come un attore di teatro (in gr. hypocritès), l’ipocrita continua a recitare la sua parte, tanto più che occupa un posto elevato e si obbedisce alla sua parola (Mt 23, 2 s). La correzione fraterna è sana, ma come potrebbe l’ipocrita strappare la trave che gli impedisce la vista, quando pensa soltanto a togliere la pagliuzza che è nell’occhio del vicino (7, 4 s; 23, 3 s)?
Le guide spirituali sono necessarie in terra, ma non prendono il posto stesso di Dio quando alla legge divina sostituiscono tradizioni umane? Sono ciechi che pretendono di guidare gli altri (15, 3-14), e la loro dottrina non è che un cattivo lievito (Lc 12, 1). Ciechi, essi sono incapaci di riconoscere i segni del tempo, cioè di scoprire in Gesù l’inviato di Dio, ed esigono un «segno dal cielo» (Lc 12, 56; Mt 16, 1 ss); accecati dalla loro stessa malizia, non sanno che farsene della bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene (Lc 13, 15); se osano immaginare che Beelzebul è all’origine dei miracoli di Gesù, si è perché da un cuore malvagio non può uscire un buon linguaggio (Mt 12, 24. 34). Per infrangere le porte del loro cuore, Gesù fa loro perdere la faccia dinanzi agli altri (Mt 23, 1 ss), denunziando il loro peccato fondamentale, il loro marciume segreto (23, 27 s): ciò è meglio che lasciarli condividere la sorte degli empi (24, 51; Lc 12, 46). Qui Gesù si serviva indubbiamente del termine aramico hanefa, che nel VT significa ordinariamente «perverso, empio»: l’ipocrita può diventare un empio. Il quarto vangelo cambia l’appellativo di ipocrita in quello di cieco: il peccato dei Giudei consiste nel dire: «Noi vediamo», mentre sono ciechi (Gv 9, 40).
3. Il pericolo permanente dell’ipocrisia.- Sarebbe un’illusione pensare che l’ipocrisia sia propria soltanto dei farisei. Già la tradizione sinottica estendeva alla folla l’accusa di ipocrisia (Lc 12, 56); attraverso ai «Giudei» Giovanni ha di mira gli increduli di tutti i tempi. Il cristiano, soprattutto se ha una funzione di guida, corre anch’egli il rischio di diventare un ipocrita. Pietro stesso non è sfuggito a questo pericolo nell’episodio di Antiochia che lo mise alle prese con Paolo: la sua condotta era una «ipocrisia» (Gal 2, 13). Lo stesso Pietro raccomanda al fedele di vivere semplice come un neonato, conscio che l’ipocrisia lo attende al varco (1 Piet 2, 1 s) e lo porterebbe a cadere nell’apostasia (1 Tim 4, 2).
 
Papa Francesco (Angelus, 5 novembre 2017): Un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo atteggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esempio.
L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione. […] Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. […] Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale. Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per una esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.
 
Girolamo (Le Lettere, IV, 148,20): Nessun’altra cosa devi ritenere che sia più pregevole e più amabile dell’umiltà, in quanto questa virtù è quella che ti preserva e che ti fa custode - per così dire - di tutte le altre virtù. Non c’è altro che ci rende così accetti agli uomini e a Dio del ritenerci all’ultimo posto per umiltà, anche se siamo in vista, grazie ai meriti della nostra vita. Tant’è vero che la Scrittura dice: Quanto più sei grande, tanto più ti devi umiliare, e allora troverai grazia davanti a Dio (Sir 3,18); e Dio fa dire al profeta: Su chi altro mi poserò, se non su chi è umile, in pace, e timoroso delle mie parole? (Is 66,2). L’umiltà a cui devi tendere, però, non è quella che si mette in vista e che viene simulata dal portamento esteriore o dalle parole sussurrate a metà, ma quella che lascia trasparire un genuino sentimento interiore. Una cosa, infatti, è avere una virtù, e altra cosa lo scimmiottarla; una cosa è andare dietro a un’ombra di realtà, e altra cosa è seguire la verità. Quella superbia che si nasconde sotto certi accorgimenti di umiltà è molto più mostruosa. Non so perché, ma i vizi che si mascherano con apparenze virtuose sono molto più ripugnanti
 
Il Santo del giorno - 27 Febbraio 2024 - San Gabriele dell’Addolorata: Francesco Possenti nacque ad Assisi nel 1838. Perse la madre a quattro anni. Seguì il padre, governatore dello Stato pontificio, e i fratelli nei frequenti spostamenti. Si stabilirono, poi, a Spoleto, dove Francesco frequentò i Fratelli delle scuole cristiane e i Gesuiti. A 18 anni entrò nel noviziato dei Passionisti a Morrovalle (Macerata), prendendo il nome di Gabriele dell’Addolorata. Morì nel 1862, 24enne, a Isola del Gran Sasso, avendo ricevuto solo gli ordini minori. È lì venerato, nel santuario che porta il suo nome, meta di pellegrinaggi, soprattutto giovanili. È santo dal 1920, copatrono dell’Azione cattolica e patrono dell’Abruzzo. (Avvenire)
 
La partecipazione alla tua mensa, o Signore,
ci faccia progredire nell’impegno di vita cristiana
e ci ottenga il continuo aiuto
della tua misericordia.
Per Cristo nostro Signore.

ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum

Accogli con benevolenza, o Signore,
le suppliche dei tuoi fedeli
e guarisci le loro debolezze,
perché, ottenuta la grazia del perdono,
gioiscano sempre della tua benedizione.
Per Cristo nostro Signore.