1 Luglio 2018

 XIII Domenica T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Fanciulla, io ti dico: Àlzati!” (Vangelo).  

Dal Vangelo secondo Marco 5,21-43: Due miracoli che mettono in luce la potenza di Gesù, Figlio di Dio. La donna affetta di emorragia guarisce per la sua fede. Gesù, con la sua domanda: “Chi mi ha toccato”, esalta pubblicamente la fede della donna e indica la fede come requisito necessario per la guarigione. La risurrezione della fanciulla è collocata all’apice di una sequenza di miracoli dall’impatto dirompente: la tempesta sedata (Mc 4,35-41), la liberazione dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20). La vittoria di Gesù sugli elementi della natura impazziti (Sal 88,10), poi sul potere del maligno, e qui infine sulla morte stessa, mettono in luce la divinità e l’onnipotenza di Gesù, vero Dio e vero Uomo. Allo stupore segue il perentorio ordine da parte di Gesù di non divulgare il miracolo. Il comando, che è in linea con tutti i testi relativi al segreto messianico (Mc 1,25.33-44; 3,12; ecc.), vuole rinviare alla Croce e alla Risurrezione perché soltanto questi eventi possono rivelare la vera identità del Cristo e i doni che Egli è venuto a portare agli uomini (Ef 4,7).

Guarigione dell’emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo (5,21-43) - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Gesù ha manifestato la sua sovranità sulle forze naturali e sui demoni; ora con altri due prodigi dimostra la sua potenza sulle malattie e persino sulla morte. Da molti commentatori l’intreccio dei due miracoli e considerate redazionale, dovuto a Mc o a un redattore premarciano; secondo altri riproduce la successione storica dei fatti. La corrispondenza stilistica in molti dettagli con cui sono narrati i due miracoli rispecchia un fine lavoro letterario. I dodici anni della fanciulla corrispondono ai dodici anni della malattia dell’emorroissa; in entrambi i racconti si ha la prostrazione dinanzi a Gesù e viene accentuato il motivo della fede, i miracoli sono compiuti in favore di donne ed è segnalato il contatto delle miracolate con il guaritore. Il ritardo di Gesù a causa dell’incontro con l’emorroissa crea una certa tensione narrativa, che serve a conferire maggior risalto al suo intervento taumaturgico, perché la fanciulla muore prima del suo arrivo. Sembra evidente l’elaborazione redazionale dei due miracoli, riletti alla luce dell’evento pasquale, per sottolineare la potenza divina di Gesù, acclamato dalla chiesa quale Cristo Signore. L’accento del racconto è posto sull’esigenza di una fiducia totale nell’azione di Dio, che si manifesta nelle opere e nell’insegnamento di Gesù.

La bambina non è morta, ma dorme - Il caso si presentava ormai senza soluzioni: dalla casa del capo della sinagoga erano venuti alcuni a dire che la fanciulla era morta. Non aveva quindi più senso continuare a importunare il Maestro di Nazaret.
Gesù, il figlio di Maria (Mc 6,3), come se non avesse inteso nulla, esorta Giairo, il padre della fanciulla morta, a desistere dal suo timore e a continuare ad avere fede in lui. Poi, con Pietro, Giacomo e Giovanni, che saranno le «colonne della Chiesa» (Gal 2,9), si avvia verso la casa di Giairo.
La scelta dei tre discepoli non è lasciata al caso: più avanti sempre Pietro, Giacomo e Giovanni, e soltanto loro, saranno chiamati ad essere gli unici testimoni privilegiati della trasfigurazione (Mc 9,2) e della preghiera nel giardino del Getsemani (Mc 14,33). Gesù, così come dettava la legge mosaica (Dt 19,15), vuole dei testimoni qualificati che in seguito avessero potuto testimoniare la realtà del miracolo che stava per operare.
La casa di Giairo è sprofondata nel dolore: gli strepiti, i pianti dei parenti e delle prèfiche, accrescono la confusione e il chiasso.
Forse per riportare un po’ di calma, Gesù entrando dice ai piagnoni: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme».
Le parole di Gesù non devono far credere che si tratta di morte apparente, la fanciulla è veramente morta. Gesù non è ancora entrato nella camera dove era stato composto il cadavere della fanciulla, ma per il fatto che aveva già deciso di restituire alla vita la figlia di Giairo, il presente stato della fanciulla è soltanto temporaneo e paragonabile ad un sonno.
Riecheggiano le parole che Gesù dirà quando gli portano la notizia della morte di Lazzaro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11).
Questo linguaggio eufemistico è stato adottato dalla Chiesa che lo ha esteso a tutti coloro che «si addormentano nel Signore» (At 7,60; 13,36; 1Cor 7,39; 11,30), in attesa della risurrezione finale (1Ts 4,13-16; 1Cor 15,20-21.51-52).
Per i brontoloni le parole di Gesù sembrano essere fuori posto: come se Egli avesse voluto irridere il dolore dei genitori, dei parenti e degli amici convenuti in quel luogo di dolore.
La reazione però segnala anche un’ottusa ostilità nei confronti di Gesù e sopra tutto mette in evidenza la mancanza di fede nella sua potenza. È la sorte di tutti i profeti (Lc 4,24). Tanta cecità, pur addolorandolo intimamente, non lo ferma, per cui dopo aver messo alla porta gli increduli piagnoni, prende con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entra dove era la bambina.
Gesù presa la mano della fanciulla, il gesto abituale delle guarigioni (Mc 1,13.41; 9,27), pronuncia le parole ‘Talità kum’. Sono parole aramaiche, la lingua che parlava Gesù, e Marco si affretta a dare la traduzione forse per evitare che venissero scambiate per qualche formula magica. La guarigione è immediata e istantanea.
La risurrezione della fanciulla è collocata all’apice di una sequenza di miracoli dall’impatto dirompente: la tempesta sedata (Mc 4,35-41), la liberazione dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20). La vittoria di Gesù sugli elementi della natura impazziti (Sal 88,10), poi sul potere del maligno, e qui infine sulla morte stessa, mettono in luce la potenza del Figlio di Dio. La raccomandazione di dare da mangiare alla fanciulla svela la tenerezza di Gesù verso gli ammalati e i sofferenti. Allo stupore segue il perentorio ordine da parte di Gesù di non divulgare il miracolo. Il comando, che è in linea con tutti i testi relativi al segreto messianico (Mc 1,25.33-44; 3,12; ecc.), vuole rinviare alla Croce e alla Risurrezione perché soltanto questi eventi possono rivelare la vera identità del Cristo e i doni che Egli è venuto a portare agli uomini (Ef 4,7).
Oggi, Gesù, pur sedendo alla destra del Padre (Rom 8,34; Ef 1,20), continua ad essere presente nella sua Chiesa: per questa Presenza, i credenti fruiscono della potenza salvifica del Cristo celata misteriosamente nei sacramenti fino a che arrivino «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

La morte (cfr. I Lettura): E. Ghini (Morte in Schede Bibliche Pastorali): L’evento della morte, considerato realisticamente dalla rivelazione biblica come il totale venir meno della vita, non è visto in sé, ma sempre in stretta relazione con Iahvé, il Dio vivo: la morte la cui forza di estinzione è rappresentata dallo Sheól, si oppone alla vita come situazione di distacco da Dio nei confronti della pienezza dell’unica «fonte della vita».
Dall’assoluto monoteismo di Israele, legato al Dio unico, deriva la proibizione di ogni culto dei morti, peraltro sepolti con cura e pietà.
L’alleanza, che stabilisce un rapporto non personale ma nazionale fra Israele e Iahvé, fa sì che il problema della morte non assuma carattere drammatico, nella certezza della continuità del popolo, nonostante il venir meno dei singoli. Nel contesto vivo e in rapida evoluzione dell’alleanza, la morte è un problema poco essenziale: sia che si riconosca ai morti una sopravvivenza d’ombra nello Sheol, sia che si attribuisca loro un sonno eterno nel sepolcro di famiglia, il tema della morte non mette in crisi la fede di Israele. Da qui la rassegnazione con cui la morte è generalmente considerata e la pace con cui è accolta in tarda vecchiaia. Solo la morte precoce pone all’uomo la domanda che trova risposta nella potenza distruttiva del peccato delle origini. Ma poiché al peccato Dio ha sovvenuto con l’alleanza, la morte è superabile attraverso l’obbedienza alle «dieci parole» perché l’obbedienza, come assenso alla consacrazione operata dalla alleanza, è vita.
Israele ha lentamente intravvisto un superamento della morte sia nella conversione sollecitata dai profeti, sia nel personale rapporto con Iahvé che risolve anche, come per i salmisti e i sapienti, il problema della retribuzione. È l’apocalittica però che supera definitivamente la morte, annunciando la risurrezione dei giusti e dei peccatori nel regno escatologico.
Nel NT è soprattutto l’apostolo Paolo che, riprendendo la meditazione di Gen. 3, attribuisce la morte al peccato di Adamo. Col peccato e la legge, la morte è la principale potenza cosmica che domina sul mondo schiavo di Satana. Con l’avvento di Cristo, la morte è distrutta. Giovanni vede la morte di Cristo come passaggio da questo mondo al Padre, per un disegno di salvezza; Paolo, come atto di obbedienza che annulla il peccato e la morte nella risurrezione. La morte di Cristo per amore degli uomini è così creazione e nascita.
Per il cristiano, morto con Cristo, la fine della vita è ingresso nella vita stessa di Dio. Ciò esige l’adesione della fede, che già in sé è vita e comunica l’immortalità, mentre la sua mancanza è morte e conduce alla morte seconda della perdizione.
Morendo con Cristo il cristiano rinasce, per l’opera dello Spirito, alla vita nuova che lo rende partecipe dello stesso dinamismo trinitario, compiendo così la trasformazione definitiva nella viva immagine di Dio che, già iniziata nell’economia della figura, sarà completa alla parusia, quando i morti risorgeranno fruendo della vita stessa di Dio.

I segni del Regno di Dio: CCC 547-549: Gesù accompagna le sue parole con numerosi “miracoli, prodigi e segni” (At 2,22), i quali manifestano che in lui il Regno è presente. Attestano che Gesù è il Messia annunziato. I segni compiuti da Gesù testimoniano che il Padre lo ha mandato. Essi sollecitano a credere in lui. A coloro che gli si rivolgono con fede, egli concede ciò che domandano. Allora i miracoli rendono più salda la fede in colui che compie le opere del Padre suo: testimoniano che egli è il Figlio di Dio. Ma possono anche essere motivo di scandalo. Non mirano a soddisfare la curiosità e i desideri di qualcosa di magico. Nonostante i suoi miracoli tanto evidenti, Gesù è rifiutato da alcuni; lo si accusa perfino di agire per mezzo dei demoni. Liberando alcuni uomini dai mali terreni della fame, dell’ingiustizia,  della malattia e della morte, Gesù ha posto dei segni messianici; egli non è venuto tuttavia per eliminare tutti i mali di quaggiù, ma per liberare gli uomini dalla più grave delle schiavitù: quella del peccato, che li ostacola nella loro vocazione di figli di Dio e causa tutti i loro asservimenti umani.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Gesù non è venuto per eliminare tutti i mali di quaggiù, ma per liberare gli uomini dalla più grave delle schiavitù: quella del peccato, che li ostacola nella loro vocazione di figli di Dio e causa tutti i loro asservimenti umani.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso hai voluto arricchirci di ogni bene, fa’ che non temiamo la povertà e la croce, per portare ai nostri fratelli il lieto annunzio della vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo ...   



30 Giugno 2018

 Sabato XII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe» (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 8,5-17: Il Vangelo di oggi ci offre diverse riflessioni, ma il cuore di queste riflessioni è il racconto della guarigione del servo del centurione romano. L’elogio che Gesù fa della fede di questo uomo, mette in crisi l’orgogliosa sicurezza dei figli di Abramo e la nostra sicurezza di battezzati. Il pagano era bandito dalla salvezza, non gli era permesso di entrare nel Tempio, eppure per Gesù il centurione diventa per i credenti un modello da imitare. Per noi cristiani non vi sono certezze, Dio può dare ad altri la sua vigna perché porti frutti abbondanti di santità e di salvezza.

Cafàrnao - Città sulla riva nord-occidentale del lago di Gennezaret, sede per la riscossione delle tasse (Mt 9,9), segnava il confine tra il territorio dipendente da Erode Antipa e quello dipendente da Erode Filippo, vi risiedeva un presidio romano; centro di gran parte dell’attività di Gesù: «la sua città»: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali” (Mt 4,13; 9,1). Cafarnao è il  luogo in cui sono ambientati diversi racconti di miracoli. Gesù maledisse Cafarnao insieme con Corazin e Betsaida, perché vi era stato respinto (Mt 11,23).

... gli venne incontro un centurione - Il centurione romano era a capo di una centuria. I Romani in quanto invasori certamente non erano amati dai Giudei, eppure non tutti erano disprezzati, ma alcuni erano stimati e tenuti in buona considerazione. Così il centurione Cornelio che viene ricordato come “uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutta la nazione dei Giudei” (At 10,22). Cornelio accoglierà Pietro nella sua casa, riceverà lo Spirito Santo diventando così il precursore di pagani che crederanno nel Cristo. Il centurione che va incontro a Gesù addirittura è accompagnato da una buona raccomandazione da parte degli anziani dei Giudei: il centurione «avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: “Egli merita che tu gli conceda quello che chiede - dicevano -, “perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”» (Lc 7,3-5). E non dimentichiamo la bella professione di fede del centurione che fiorisce sulle sue labbra nell’assistere alla morte di Gesù: «Il centurione, che si trovava di fronte a [Gesù], avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc  15,39; Lc 23,47).

«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente» - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Colui che con tutta libertà si avvicina a Gesù e gli presenta la sua richiesta, è un ufficiale pagano di Erode Antipa. Con delicatezza e discrezione gli espone la situazione dolorosa del suo servo, senza chiedere esplicitamente il suo intervento. Gesù lo comprende: «Io verrò e lo curerò». La risposta del pagano esprime un delicato riserbo: non vorrebbe dare occasione a un giudeo di diventare impuro entrando in casa sua, ma riveste questo gesto di riguardo con la sua personale modestia: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto». L’ufficiale crede che Gesù possa guarire anche senza essere presente fisicamente: basterà che dica una parola di comando, e la malattia se ne andrà. Il centurione si rappresenta Gesù come un generale, al quale le potenze ostili della malattia devono ubbidire; così come egli stesso deve eseguire gli ordini dei suoi superiori, e come i suoi soldati obbediscono alla sua parola. Basta, infatti, una parola da parte di colui che comanda, per esprimere la propria volontà e ottenerne l’esecuzione. Non occorre esser presenti personalmente; il comando: Va’! Vieni! Fa’ questo!, basta anche a distanza. Su questa obbedienza è basata la disciplina e l’efficienza della truppa.
Anche Gesù dovrebbe poter spezzare la potenza della malattia con una sola parola. Idea veramente grande quella che il pagano si è fatta, da sé, di Gesù!

Ascoltandolo, Gesù si meravigliò - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): v. 10 Gesù restò ammirato per la fede del centurione nella potenza di Dio operante attraverso di lui fede che invece non aveva trovato nel popolo d’Israele, il destinatario privilegiato del vangelo. Secondo Gnilka, la meraviglia di Gesù non si riferisce alla fede del centurione, bensì alla mancanza di fede in Israele (I, p. 446).
vv. 11-12 «Molti verranno da Oriente e da Occidente e si porranno a mensa con Abramo ... ». Forse non era noto nella tradizione il contesto originale di questo detto, che trova un ‘altra collocazione in Lc (13,28-29). Mt lo inserisce a questo punto per sottolineare il tema della chiamata universale alla salvezza.
L’immagine del banchetto escatologico, per descrivere la partecipazione alla gioia del regno di Dio, è presente in Isaia 25,6ss. e in numerosi testi giudaici. Nel Salmo 107,3, nel Secondo e Terzo Isaia si allude spesso al festoso pellegrinaggio delle nazioni verso Sion, per sottoporsi alla Legge del Signore. L’atteggiamento del centurione assume un valore paradigmatico per Mt. Infatti, mentre la fede consentirà a numerosi pagani l’ingresso nella comunità messianica, i figli del regno, cioè i giudei, che erano i destinatari delle promesse divine, ne saranno esclusi per la loro incredulità, per il rifiuto opposto al messaggio del Cristo,
Le tenebre si contrappongono alla fulgida luce che risplende nel banchetto celeste. Si tratta di una immagine apocalittica per indicare la perdizione eterna. Il pianto e lo stridore dei denti esprimono il rimorso e la disperazione dei dannati per l’esclusione dal regno di Dio. Il detto minaccioso di Gesù si riferisce innanzitutto ai giudei increduli. Ma l’evangelista intende rivolgere un monito anche ai cristiani. L’appartenenza alla chiesa non garantisce la salvezza; è necessario conservare e rinnovare la propria adesione di fede a Cristo, ravvivandola con l’impegno operoso e la fedeltà al vangelo.
v. 13 Gesù guarisce il servo del centurione con una parola che, congiunta alla fede dell’orante, ha una efficacia assoluta, come dimostra la coincidenza cronologica tra la parola pronunciata da Gesù e la guarigione del servo: «il servo fu guarito in quella stessa ora».

Entrato nella casa di Pietro, Gesù vide la suocera di lui che era a letto con la febbre. Le toccò la mano e la febbre la lasciò - Felipe F. Ramos: La guarigione della suocera di Pietro - che, nonostante la sua vocazione, conserva la casa - è raccontata con grande brevità e senza rilievi particolari. Gesù non pronunzia parole: si limita a prenderla per la mano, e dalla mano di Gesù emana il suo potere curativo. Il potere della parola di Gesù è messo in rilievo anche in altre guarigioni, che ci sono riferite in modo sommario (e che Matteo ha preso ancora una volta da Marco).
È importante l’apprezzamento dell’evangelista al termine della prima serie di miracoli: Gesù agisce come il servo di Yahveh (Is 53). Compiendo i miracoli, egli prende su di sé le nostre infermità e i nostri dolori. Il Signore è anche - e lo è principalmente durante la sua vita terrena - il servo per eccellenza, pienamente solidale e responsabile dell’uomo, con l’incarico divino di elevarlo.

I miracoli di Gesù - Eleonore Beck: La testimonianza dei quattro Vangeli collega indissolubilmente i miracoli alla comparsa in pubblico di Gesù di Nazaret. I miracoli facevano parte ovviamente dell’immaginario dell’uomo antico. Veniva presupposto il fatto che un grande uomo di Dio compisse miracoli; l’interrogativo era soltanto se li compisse per la potenza di Dio o del demone. Quando i farisei chiedevano dei segni da Gesù, non dubitavano che egli li potesse compiere. I miracoli del NT hanno loro paralleli extrabiblici; vengono raccontati secondo lo stesso schema. Gli evangelisti non sono interessati qui a documentare fatti storici, ma a dimostrare che in Gesù è iniziato il tempo della salvezza. I racconti di miracoli sono cresciuti nei decenni della tradizione orale. Al momento in cui Gesù cammina sulle acque Mc 6,47 per es. localizza la barca in mezzo al lago, Mt 14,24 qualche miglio da terra, Gv 6,19 calcola tre o quattro miglia (lett. 25 o 30 stadi = 4625 m o 5550 m). Secondo Mt (14,28-33) anche Pietro ha camminato sulle acque, secondo Gv (6,21) la barca toccò rapidamente la riva. Il racconto popolare tende a rendere il tutto più grossolano; questo risulta anche da un rapido paragone con le storie apocrife di miracoli. Per la spiegazione va tenuto presente quanto segue: alcuni dei miracoli narrati nei Vangeli si possono spiegare oggi in maniera naturale, non tutti sono accaduti secondo quella modalità; i Vangeli non sono una raccolta documentaria, rimane però che Gesù ha compiuto dei miracoli. I racconti di miracoli presentano, nella loro forma attuale, tratti leggendari; tuttavia questi racconti risalgono a ricordi di reali azioni potenti di Gesù. Non si possono dunque liquidare tutti i racconti di miracoli come non storici, né si possono considerare come fatti avvenuti letteralmente secondo le modalità riportate. Accanto all’interrogativo sul miracolo, il NT si pone quello sul suo significato.
La richiesta del miracolo viene rifiutata (Mc 8,11-13; Mt 12,38. Lc 11,16; Gv 6,30-33 ecc.). Il miracolo raggiunge il suo scopo soltanto quanto sollecita l’uomo alla conversione e al ringraziamento (Lc 5,8-11; At 14,14 ecc.). Nel Vangelo di Gv i racconti di miracoli sfociano in discorsi interpretativi. Attraverso il miracolo viene risvegliata o rafforzata la fede; soltanto il credente vede nel miracolo la rivelazione di Dio. Per questo si trova sovente la frase: “La tua fede ti ha salvato (sanato)” (Mc 5,34; 10,52 ecc.), oppure in Mt alcuni discorsi sulla fede vengono raccolti attorno a racconti di miracoli. Il vero e proprio miracolo non avviene soltanto in modo visibile, ma nella conversione e nella remissione dei peccati (Mc 2,1-12). Nel miracolo diventa evidente già ora che alla fine dei tempi Dio trasformerà tutto l’uomo (cf. Mt 11,5), i miracoli culminano nell’annuncio dell’evangelo. Ogni miracolo è il segno dell’irruzione del futuro di Dio nel presente finito dell’uomo, tempo equivoco e dai molti significati. Tutti i miracoli sono orientati verso il miracolo in assoluto che Dio ha compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. - L’interrogativo decisivo non è dunque se i miracoli vanno considerati storici o non storici; decisivo è in essi se uno vede all’opera Dio, se percepisce di essere interpellato e inte­ressato personalmente e se abbraccia la fede.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Per noi cristiani non vi sono certezze, Dio può dare ad altri la sua vigna perché porti frutti abbondanti di santità e di salvezza.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...




29 Giugno 2018

Santi Pietro e Paolo, Apostoli


Oggi Gesù ci dice: «Gustate e vedete com’è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia» (Salmo Responsoriale).

Dal Vangelo secondo Matteo 16,13-19: Il Vangelo di Matteo pone la “professione di fede” di Pietro nella “regione di Cesarea di Filippo”. Qui Gesù domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». La domanda ha un fine maieutico, cioè quello di spingere gli Apostoli a giungere a una verità in maniera autentica semplicemente aiutandoli a darla alla luce. La risposta mette in evidenza le diverse opinioni ma nessuna calza alla vera persona del Cristo. Comunque i pareri espressi dal popolo suggeriscono l’alta considerazione che Gesù aveva presso la folla. All’incalzare della domanda, Pietro si fa avanti, e con estrema sicurezza dà la risposta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Non si sa comunque che comprensione Pietro avesse di questa verità espressa su suggerimento non della “carne”, ma del Padre celeste, in ogni caso è il preludio di quella autorità che Pietro eserciterà nella Chiesa a partire dal giorno dell’ascensione del Maestro. Tre sono le promesse: Pietro sarà la pietra sulla quale Gesù edificherà la sua chiesa, a lui saranno date le chiavi del regno dei cieli, e gli sarà conferito il potere di “sciogliere e di legare”. Legare e sciogliere “sono due termini tecnici del linguaggio rabbinico che si applicano innanzitutto al campo disciplinare della scomunica con cui si «condanna» (legare) o si «assolve» (sciogliere) qualcuno, e ulteriormente alle decisioni dottrinali o giuridiche con il senso di «proibire» (legare) o «permettere» (sciogliere). Pietro, quale maggiordomo [di cui le chiavi sono l’insegna, cf. Is 22,22] della casa di Dio, eserciterà il potere disciplinare di ammettere o di escludere come egli crederà meglio, e amministrerà la comunità con tutte le decisioni opportune in materia di dottrina e di morale. Sentenze e decisioni saranno ratificate da Dio nell’alto dei cieli” (Bibbia di Gerusalemme).

Claude Tassin (Vangelo di Matteo): Questa scena chiude il primo grande periodo del ministero di Gesù. Più degli altri evangelisti, Matteo porta un’attenzione del tutto particolare alla persona di Pietro, e i cattolici fondano su questo testo l’istituzione del papato, che altre confessioni cristiane rifiutano. Qui si può cercare il senso dell’episodio nel quadro del vangelo e delle preoccupazioni teologiche e pastorali dell’evangelista. Per quanto concerne le conseguenze istituzionali verso le quali propendono le Chiese a partire da questi fattori, queste sgorgano da un approccio teologico che esula dal nostro metodo di lettura.
La scena si divide in due parti: dapprima lo scambio di battute tra Gesù e i discepoli, con la confessione di fede di Pietro (vv. 13-16); poi, un passaggio proprio di Matteo, un breve discorso rivolto a Pietro (vv. 17-19); in conclusione, una raccomandazione di silenzio (v. 20) riguarda nuovamente i discepoli.

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo: Città Romana, situata alla base del monte Hermon e presso la sorgente del Giordano, era nota anche con il nome di Panneion a motivo di un tempio dedicato al dio Pan. Finita di costruire da Erode Filippo nel 3 a.C. come residenza fu chiamata Cesarea di Filippo in onore di Augusto e del fondatore.

Gesù domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti» - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): v. 13 «Chi dicono gli uomini che sia il Figlio delI’ uomo?»; Marco ha: «Che dicono gli uomini che io sia?». Matteo quindi presuppone l’identità tra Gesù e il «Figlio dell’uomo», un titolo che assume un profondo significato cristologico in riferimento alla sua funzione di giudice escatologico nella parusia alla fine dei tempi (cf. Dn 7,13; Mt 26,64).
vv. 14·15 Oltre che con il Battista (opinione condivisa da Erode Antipa, 14,2), con Elia, atteso come precursore del Messia (Mt 3,23), e con uno dei profeti, Gesù viene identificato in Matteo anche con Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele (cf. 2Mac 15,13-16), comunque associato alle sventure più tragiche del popolo. Il profeta Geremia in tutto il Nuovo Testamento viene menzionato tre volte solo da Matteo (2,17; 16,14; 27,9). Queste opinioni che la gente aveva di Gesù erano tutte inadeguate. Perciò egli sollecita i discepoli a riflettere per portarli ad una concezione più esatta della sua identità.

Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): La confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente», contiene la grandezza personale e quella ufficiale di Gesù. Egli è il Cristo, il profeta, re e sacerdote unto da Dio. Ed è ancora più di questo, perché è il Figlio del Dio vivente. Qui tutto viene elevato dall’oggettivo nel personale. Gesù come persona è Figlio del Dio vivo, sicché la fede è l’incontro personale con la persona del Figlio di Dio.
La risposta è stata suggerita da due forze. La prima è la riflessione e il riconoscimento di Pietro, basato sulla testimonianza di Gesù nelle parole o nei miracoli. Tutto ciò che la precede, particolarmente la guarigione dei malati, la duplice moltiplicazione dei pani, il cammino sulle acque e il salvataggio sulle onde fanno sentire qui il loro effetto. Pietro ha compreso i segni, i quali gli hanno dimostrato che colui che li ha prodotti è il Figlio del Dio vivente. Per questo riconoscimento, però, era necessario ancora qualcos’altro: l’illuminazione interiore per mezzo dello Spirito Santo. «Non la carne né il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio, che è nei cieli». Il Padre ha illuminato con il suo spirito l’uomo Pietro, sicché egli ha riconosciuto il Figlio del Padre nello Spirito Santo. In tal modo l’elemento naturale e quello soprannaturale agiscono insieme nella fede.

Beato sei tu, Simone, figlio di Giona - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Pietro aveva parlato in nome dei discepoli, ora gli viene rivolta la parola in modo diretto e personale. La sua confessione valeva per tutti, la risposta di Gesù è per lui solo. Gesù comincia con il dichiararlo beato. «Beati i poveri in spirito» (5,3), «beato colui che non si scandalizza di me» (11, 6), «beati i vostri occhi perché vedono» (13,16): espressioni che conosciamo. Ora viene detto beato uno solo, il primo degli apostoli, per la sua testimonianza. La “conoscenza” della vera dignità di Gesù e del mistero della sua persona non viene dal basso, ma dall’alto; non è frutto di «carne sangue», cioè delle capacità dell’uomo. Dio stesso l’ha partecipata dall’alto. «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza» (13,12). Pietro aveva fatto il passo dall’ascoltare al credere e si era avventurato sulle acque; nonostante la sua «poca fede», era sulla via della fede piena. Ora gli viene dato il vero sapere e la piena conoscenza: e li è veramente beato perché conosce nell’intimo «i misteri del regno dei cieli» (13, 11). La lode di Pietro è anche una lode di Dio, che ha rivelato i suoi misteri ai piccoli, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e intelligenti (cf. 11,25). Così è piaciuto al Padre, e il fatto di Cesarea di Filippo lo comprova.

Figlio di Dio - Paul Hubert Schüngel: Nel Nuovo Testamento figlio di Dio è il titolo onorifico di Gesù. L’uso di questa espressione non è però generalizzato all’interno del Nuovo Testamento. Manca completamente nelle Lettere pastorali, in Giacomo e 1Pietro e quasi del tutto in Atti e Apocalisse, è invece frequente nei Sinottici, e in Paolo e Giovanni diventa il concetto cristologico centrale, alternato spesso con l’autodenominazione “il Figlio” per antonomasia in bocca a Gesù. La nascita del titolo viene ricercata generalmente nel giudeocristianesimo ellenistico, dove designa il Dio prodigioso apparso in sembianze umane, nella maniera più chiara, per es. in Mc 5,25ss. Questa spiegazione derivante dalle rappresentazioni religiose ellenistiche è la più semplice. Tuttavia già la fonte dei loghia con la storia della tentazione di Gesù (Mt 4; Lc 4) ha criticato questa concezione: il vero figlio di Dio ubbidiente, non è un dio assoluto. Dal giudeocristianesimo palestinese, cioè dalla stessa autentica comunità primitiva, deriva forse l’antica professione di fede citata da Paolo in Rm, l,3s, che relativizza il titolo giudaico di figlio di Davide rispetto al titolo figlio di Dio, laddove come nei racconti del battesimo e della trasfigurazione (Mc 1,11 e 9,7) la figliolanza divina viene ìntesa secondo il modello di Sal 2 come adozione del re messianico. Da parte dello stesso Gesù è senz’a1tro da escludere l’uso del titolo come autodesignazione. Paolo e Giovanni usano entrambi il titolo nel senso del ffiglio di Dio preesistente (Rm 8,3; Gv 1,1). Per Paolo Gesù è il figlio di Dio non in base a una particolare conformazione, ma in base all’invio o all’incarico ai quali corrisponde l’ubbidienza del figlio (Rm 5,19). Colui, perciò che ubbidisce nella fede (Rm 1,5) e pure lui figlio di Dio, per adozione, cioè gratuitamente e con ciò stesso coerede di Cristo, come attesta anche la preghiera cristiana (Rm 8,15).
Mentre Paolo, allora, può mettere in parallelo la figliolanza divina di Gesù e quella del credente, Giovanni cambia, significativamente, la denominazione: il Figlio (hyios) di Dio dà potere ai credenti di diventare figli (tekna) di Dio (Gv 1,12; 1Gv 3). Giovanni sottolinea così l’unicità di Gesù come sostanziale figlio di Dio che è una sola cosa col Padre (Gv 10,38; 17,21), che si è incarnato per la salvezza degli uomini ed è apparso come rivelatore. Con ciò Giovanni ha posto il fondamento per il futuro sviluppo dogmatico che portò alla dottrina calcedonense delle due nature.

San Paolo: Paolo VI (Esortazione Apostolica Petrum et Paulum Apostolos): A voi è parimente noto quale assertore della fede è stato san Paolo: a lui la Chiesa deve la dottrina fondamentale della fede come principio della nostra giustificazione, cioè della nostra salvezza e dei nostri rapporti soprannaturali con Dio; a lui la prima determinazione teologica del mistero cristiano, a lui la prima analisi dell’atto di fede, a lui l’affermazione del rapporto tra la fede, unica e inequivocabile, e la consistenza della Chiesa visibile, comunitaria e gerarchica. Come non invocarlo nostro perenne maestro di fede; come non chiedere a lui la grande e sperata fortuna della reintegrazione di tutti i cristiani in un’unica fede, in un’unica speranza, in un’unica carità dell’unico Corpo Mistico di Cristo? (cfr. Ef 4,4-16) E come non deporre sulla sua tomba di «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** E come non deporre sulla tomba di Paolo «Apostolo e martire» il nostro impegno di professare con coraggio apostolico, con anelito missionario, la fede, ch’egli alla Chiesa, al mondo, con la parola, con gli scritti, con l’esempio, col sangue, insegnò e trasmise?
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che allieti la tua Chiesa con la solennità dei santi Pietro e Paolo, fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo...







28 Giugno 2018

Giovedì XII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Canto al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 7,21-29: Una pagina che fa tremare i polsi ai soliti cristiani della domenica. Non basta aver ricevuto il battesimo per salvarsi, perché chi non crede sarà condannato (cfr. Mc 16,16). Anche gli esorcisti se la loro fede è solo di facciata non si salveranno, così quelli che vomitano preghiere immaginando di allontanare il diabolico dalla vita dell’uomo o quelli che vanno avanti a forza di visioni o messaggi ultraterreni. La Parola di Gesù è chiara: solo chi mette in pratica la sue parole, tutti i santi giorni dell’anno, si salverà. Il contrario è sinonimo di eterna perdizione. L’immagine della casa era così chiara che per la folla venne spontaneo fare un confronto tra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi: pur non addentro alla teologia e alla esegesi, la folla riconosce la veridicità dell’insegnamento di Gesù da cui scaturisce autorità e prestigio.

Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli  - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): La voce del falso profeta risuona qualche volta nel cuore dello stesso cristiano. Egli cerca di illudersi di essere seguace di Cristo, mentre in realtà è solo un «ciarlatano», come tale è il profeta che parla senza un incarico. Per entrare nel regno, ottenere cioè la salvezza, non basta stare a ripetere solennemente e pomposamente il nome del Signore, ma occorre convertirsi e fare penitenza, come ha già ricordato più sopra (3,8; 4,17); ora aggiunge che bisogna, prima di tutto, compiere la volontà di Dio, cioè quello che egli comanda a ciascuno (cfr. Mt. 5,17-19). La volontà ... è il disegno salvifico di Dio, ma si estende anche alle esigenze pratiche della vita quotidiana.
Fare la volontà del Padre è la sintesi della spiritualità vetero-neotestamentaria. Quel che Gesù e la chiesa esigono dai fedeli è una pietà fattiva, operosa, impegnata. Non bastano le buone parole, la buona fede, le buone aspirazioni; non è sufficiente camminare per la via spaziosa con il pensiero verso il regno, invocando di tanto in tanto o anche frequentemente il nome del Signore, per aver parte alla salvezza. Se durante la vita si è vissuti fuori del regno, senza rapporti di reale sudditanza con il sovrano, alla fine egli rifiuterà di riconoscere per suoi sudditi questi suoi nascosti adoratori. Possono aver fatto miracoli, la condanna che li attende è inevitabile.
Quando avverrà questo dialogo? Tutto fa pensare che si tratti di un momento dell’ultimo giudizio, sia per la somiglianza con Mt. 25,36, che per la moltitudine indistinta che è in scena, come per la forma categorica o definitiva della condanna: «Allontanatevi da me», cui si potrebbe aggiungere: «nel fuoco eterno», riprendendo l’idea sottintesa in 7,19 e chiaramente espressa alla fine della grande sintesi escatologica (Mt. 25,41).
Il discorso della montagna si va chiudendo con un tono minaccioso. È l’ultima carta, l’alternativa della perdizione, che ogni predicatore gioca con il suo uditorio. Se fallisce anche questa non c’è più nulla da fare e da sperare.

Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” - Gottfried Hierzenberger: Il nome Signore fu riferito soltanto un po’ alla volta a Gesù. La comunità primitiva che professava Gesù come il Risorto, lo confessava “alla destra di Dio” acquisendo in tal modo, al di là del rapporto discepolo-maestro, una comprensione religiosa fondata sulla fede.
Quando i discepoli si identificarono con i servi delle parabole, ciò suggerì di riferire a lui stesso le affermazioni fatte da Gesù sul Signore (per es. Mt 13,27). Ciò veniva favorito dall’esperienza della pretesa assoluta di sequela. Quando nella vita di fede della chiesa primitiva, nell’annuncio dell’evangelo, nella preghiera, durante il pasto del Signore, nell’atteggiamento d’amore verso il fratello e perfino verso il nemico, nella complessiva comprensione di sé, del mondo e di Dio, Gesù dimostrò di essere il centro totale della comunità, superiore a tutti i tipi di relazioni del passato, l’assunzione del titolo tradizionalmente religioso di signore diventò ovvio. Nell’ambito cristiano questo titolo fu assunto in senso assoluto per esprimere la signoria illimitata, onnicomprensiva, divina di Gesù (Mt 28,18).
Negli scritti più recenti del Nuovo Testamento il titolo di Signore è già ovvio: tutti i passi della LXX (JHWH = Signore) vengono riferiti senza esitazione a Gesù; ciò significa che si riconosce che in Gesù, Dio agisce così come l’Antico Testamento proclama nei riguardi di JHWH. Così Dio manda il Signore (cf. Sal 110,1) in maniera definitiva per attuare la pienezza conchiusa del tempo e per ricapitolare tutto - quello che è in cielo e quello che è sulla terra - in Cristo, il capo (Ef 1,10). Al tempo stesso, però, il “Figlio” manda lo Spirito (At 2,33) e guida la comunità cristiana in modo tale che essa può dire: “Il Signore è lo Spirito!” (2Cor 3,17). Nella teologia storico-salvifica cosmica e cristologico ecclesiale della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, questo pensiero raggiunge il suo vertice (Col 1,18-20).
Nella preghiera al Signore (2Tm 2,22) questa visuale acquista anche un ‘espressione religiosa personale.

Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica - Claude Tassin (Vangelo di Matteo) - Iniziato con le metafore della via e della porta, l’avvertimento si conclude con l’immagine della casa. Costruire la propria abitazione simboleggia perfettamente i progetti più importanti (non si dice «costruire la propria vita»?). Ora, il salmista scriveva già: «Se il Signore non costruisce la casa, invano ci faticano i costruttori» (Sal 127,1). E spesso i salmi contengono anche quest’invocazione: «Signore, mia roccia!»: risultano quindi evidenti le fonti dell’immagine adoperata da Gesù. Come può il vero discepolo basare la propria vita su Dio? Non solo ascoltando quello che Gesù ha insegnato, ma mettendolo in pratica (cfr. i versetti 24 e 26).

Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): Allorché il Signore ebbe terminato il discorso della montagna, «le turbe restarono stupite». Motivo: il suo modo di parlare: «Le ammaestrava come uno che ha autorità». Cristo non espone una problematica oscura, come i filosofi, non parla in concetti astratti inanimati o in sillogismi classicamente elaborati, come i sofisti. Le sue parole non sono neppure impregnate di untuoso pietismo, che in realtà mette in mostra se stesso e spiega solennemente la ruota della vanità personale, come un pavone, secondo l’uso dei farisei. Le sue esposizioni non sono una noiosa casistica morale, in cui vengono spiegati i paragrafi della legge e casi artificiosamente costruiti, lontani dalla vita reale e ancor più lontani dalla schietta religiosità. Questo era il modo degli scribi. Non parI neppure come i demagoghi che lusingano le masse e rinfocolano le passioni soltanto per esaltare la propria volontà di potenza. Cristo parla in tutt’altro modo, non come uno che cerca la potenza, ma come uno che ha autorità. Ed egli la possiede. Egli è il plenipotenziario dell’Onnipotente. La sua persona è il Logos, la parola di Dio e perciò egli è il linguaggio di Dio. L’incarnazione del Logos è il linguaggio di Dio nell’umanità. Nelle sue parole si rivela in tal modo la sua personalità. La forza e la grandezza di questa personalità sono il mistero del suo linguaggio. Egli è l’Onnipotente. Perciò parla come uno che detiene il potere. E la sua personalità è anche quella che trascina le masse. Egli non è soltanto l’annunziatore, ma anche la personificazione del discorso della montagna, il suo autentico interprete. La sua vita è commento alle sue parole. Le beatitudini si concretizzano nella sua persona e nella sua azione. Egli è il sale della terra e la luce del mondo. Egli è la città, visibile da lontano, in vetta al monte. La sua vita nasce dall’intimo, perché in lui tutto è vivificato dallo spirito dell’amore.
Egli non fa mai il bene per egoismo, ma con lo sguardo rivolto al Padre ch’è nei cieli. Ci ha offerto l’esempio vivente del retto contegno di fronte a quanto appartiene alla terra, non si è preoccupato dei tesori materiali, non è mai stato preda di cure timorose per il cibo e il vestiario. Col suo amore fino alla fine ha illustrato visibilmente anche i rapporti verso il prossimo. Dai frutti si riconosce la bontà del tronco e della radice. Perciò egli ha costruito la Chiesa come la casa che sta sulla roccia e non sulla sabbia. La tempesta del Venerdì santo e tutti gli uragani nella storia della Chiesa non l’hanno potuta travolgere.

Gesù insegnava come uno che ha autorità - CCC 581: Gesù è apparso agli occhi degli Ebrei e dei loro capi spirituali come un “rabbi”. Spesso egli ha usato argomentazioni che rientravano nel quadro dell’interpretazione rabbinica della Legge. Ma al tempo stesso, Gesù non poteva che urtare i dottori della Legge; infatti, non si limitava a proporre la sua interpretazione accanto alle loro: “Egli insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt 7,29). In lui, è la Parola stessa di Dio, risuonata sul Sinai per dare a Mosè la Legge scritta, a farsi di nuovo sentire sul Monte delle Beatitudini. Essa non abolisce la Legge, ma la porta a compimento dandone in maniera divina l’interpretazione definitiva: “Avete inteso che fu detto agli antichi ... ma io vi dico” (Mt 5,33-34). Con questa stessa autorità divina, Gesù sconfessa certe “tradizioni degli uomini” (Mc 7,8) care ai farisei i quali annullano “ la Parola di Dio ” (Mc 7,13).

Conclusione redazionale (7,28-29) - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Matteo conclude il discorso con la consueta formula stereotipa, «Quando Gesù ebbe finito queste parole», che contrassegna l’importanza anche degli altri quattro grandi discorsi di Gesù. L’evangelista aveva interrotto Marco dopo 1,21, dove l’accenno all’insegnamento di Gesù gli aveva offerto lo spunto per introdurre il grande discorso inaugurale del regno. Ora lo conclude riallacciandosi testualmente a Mc 1,22. Lo stupore provocato dalla novità della dottrina di Gesù, ne sottolinea l’origine soprannaturale. Infatti, egli non si rifaceva alla Toràh o alle interpretazioni che ne davano i rabbini più celebri ma «insegnava come uno che ha autorità» (exousia), cioè in nome proprio, rivendicandosi il diritto di completare la Legge e persino di modificarla. Si trattava di una cosa inaudita per la mentalità del tempo, che aveva sacralizzato la Legge mosaica. Gesù appare in tale maniera il Legislatore definitivo di Dio, il Rivelatore totale della sua volontà.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli».
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che al vescovo sant’Ireneo hai dato la grazia di confermare la tua Chiesa nella verità e nella pace, fa’ che per sua intercessione ci rinnoviamo nella fede e nell’amore, e cerchiamo sempre ciò che promuove l’unità e la concordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo.  






27 Giugno 2018

Mercoledì XII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Rimanete in me e io in voi; chi rimane in me porta molto frutto» (Canto al Vangelo).

Dal Vangelo secondo  Matteo 7,15-20: Ai tempi di Gesù forse era più facile scoprire i falsi profeti, oggi un po’ più difficile. I falsi profeti amano presentarsi con le vesti della mitezza e della tolleranza, ma in verità sono doppiogiochisti, dicono di voler mutare le sorti dell’oppresso, ma in realtà il loro unico obiettivo è quello di impinguarsi sempre di più. La loro bramosia e avidità è paragonabile alla ferocia e alla fame canina dei lupi rapaci. Se l’uomo che vive con la testa tra le nuvole ha difficoltà di stanarli, per l’uomo attento è un gioco da ragazzi, sopra tutto se segue alla lettera il buon consiglio di Gesù: “Dai loro frutti li riconoscerete”. E non minimizziamo la loro sorte, alla fine dei giorni in quanto alberi improduttivi saranno “tagliati e gettati nel fuoco”. Oggi sembrano ruspanti galletti, domani saranno soltanto poveri diavoli, o meglio accomunati alla sorte dei demoni!

Falsi profeti - Gertrud Herrgott: Sono profeti che predicono il falso vale a dire che si presentavano in nome proprio, senza essere stati inviati da JHWH (Ez 13,2), oppure nel nome di un altro dio (Ger 23,13). I falsi profeti asserivano, invero, di essere inviati da JHWH (Ger 23,21s; 28,2; Ez 13,6). Essi annunciano ciò che al popolo piace sentire: salvezza (lRe 22,12; Ger 5,30; 6,14; 8,11; Ez 13,10), e si rifiutano di annunciare, in un determinato momento storico, il giudizio di JHWH e di esortare alla penitenza, sia per rimanere bene accetti, sia per avidità di lucro (Mi 3,5; Ger 6,13; 8,10). In questo modo inducevano il popolo a una falsa sicurezza (Ger 23,16s.23; 28,15s). Dt 13,2ss; 18,20ss prevede perciò la pena di morte per i falsi profeti. Dal momento che la predicazione profetica non può venir riconosciuta immediatamente come vera o falsa in base al suo adempimento o non adempimento, la distinzione del vero profeta dal falso profeta è spesso difficile. Ciò si manifesta molto chiaramente nel conflitto fra Geremia e Anania (Ger 28). Secondo 1Re,17ss, talvolta è Dio stesso che mette alla prova il suo popolo servendosi di falsi profeti. 2Pt 2,1 testimonia che i falsi profeti non mancano nemmeno nella chiesa.

Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Nell’Antico Testamento vien fatta frequente allusione ai “falsi profeti”. Celebre è il passo di Ger 23,9-40: vi si denunzia l’empietà di quei vati che “profetano in nome di Baal e traviano il mio popolo Israele”; essi “vi fanno credere cose vane, vi annunziano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore. lo non ho inviato questi profeti ed e si corrono; non ho parlato a loro ed essi profetizzano”; “corrompono il mio popolo con menzogne e millanterie. lo non li ho inviati né ho dato loro alcun ordine; essi non gioveranno affatto a questo popolo”.
Nella vita della Chiesa la figura dei falsi profeti, di cui parla Gesù, è stata intesa dai Santi Padri come riferita agli eretici, i quali si rivestono con abiti esteriori di vita di pietà e di penitenza, ma il loro cuore non possiede i sentimenti di Cristo ... San Giovanni Crisostomo applicava queste parole del Signore a coloro che simulano virtù che non hanno, e con questa finzione ingannano chi non li conosce (cfr Dm. sul Vangelo di san Matteo, 23). Come distinguere i falsi profeti da quelli veri? Dai frutti. Le cose di Dio possiedono un sapore tutto particolare, fatto di rettitudine naturale e di ispirazione divina. Chi veramente parla delle cose di Dio semina fede, speranza, carità, pace, comprensione; al contrario, il falso profeta nella Chiesa di Dio è chi con la predicazione, con il comportamento e le azioni semina divisione, odio, risentimento, orgoglio, sensualità (cfr Gal 5,16-25). Ma il frutto più caratteristico del falso profeta è l’impegno volto ad allontanare il popolo di Dio dal Magistero della Chiesa, attraverso cui risuona nel mondo la dottrina di Cristo. Il Signore predice altresì la fine di questi truffatori: la perdizione eterna.

Il profetismo nel Nuovo Testamento - Giorgio Fornosari (Profeta, Schede Bibliche Pastorali): I profeti nel senso classico del termine e la predicazione tipicamente profetica avevano cessato di esistere molto tempo prima della venuta di Gesù (Sal 74,9; 1Mac 4,46; 9,27). Se era scomparsa l’istituzione del profetismo, non era però stato dimenticato l’insegnamento profetico sull’èra messianica, sulla liberazione e il rinnovamento del popolo eletto e le sue intuizioni. In seno al popolo ebraico, da secoli sottomesso alle angherie delle potenze straniere, era viva la speranza e l’attesa dell’èra messianica che avrebbe dovuto porre fine alle sofferenze di ogni tipo, e inaugurare un periodo di benessere e felicità senza fine. Nella diffusa atmosfera di attesa, la figura del profeta gioca un ruolo fondamentale. La riapparizione dello spirito profetico inaugurerà infatti i nuovi tempi (cf. Gl 2,28-29; Zc 13,4-6; Testamento di Levi 8,14; Testamento di Beniamino 9,2). Il ritorno dei profeti sarà dunque il segno evidente dell’inizio dell’èra messianica. La speranza della liberazione promessa andava di pari passo, nella mentalità del popolo eletto, con la speranza del ritorno della parola profetica. È sotto questa luce che devono essere letti sia gli accenni di Flavio Giuseppe su alcuni personaggi che chiama profeti (De bello judaico 1,2,8), sia gli insegnamenti delle comunità essene riguardanti il profeta, sia soprattutto le figure dei profeti presentate nel Nuovo Testamento. I primi accenni che espressamente, anche se sommessamente, mettono in relazione il Nuovo Testamento con l’attesa messianica e con lo spirito profetico appartengono al Vangelo dell’infanzia di Gesù, riportato da Luca (c. 1-2). Zaccaria profetizza (Lc 1,67-79), Simeone è ispirato dallo Spirito santo e parla in suo nome (Lc 2,25-32), Anna è infine esplicitamente chiamata profetessa (Lc 2,36). Colui comunque che, attraverso la sua predicazione, il suo comportamento e i suoi gesti profetici, darà la certezza del ritorno dell’autentica profezia sarà Giovanni Battista, «profeta dell’Altissimo» (Lc 1,76). Egli non solo sarà riconosciuto dal popolo come un autentico profeta, ma come Elia redivivo (Mt 14,5; 21,26; Mc 6,15; 11,32; Lc 9,7-8; 20,6); Gesù stesso dirà di lui: «Sì, vi dico, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te. lo vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni» (Lc 7,26-28). Secondo il medesimo significato e nelle medesime tensioni messianiche, anche Gesù viene chiamato profeta: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni Giovanni il Battezzatore, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti» (Mt 16,13-14; cf. Mc 8,27-28; Lc 9,18-21).

Dai loro frutti li riconoscerete: Paolo VI (Esortazione Apostolica Quinque iam anni, 1970): Facciamo attenzione ai problemi che sorgono dalla vita degli uomini, specialmente dei giovani: «Se un figlio domanda del pane - dice Gesù - quale è fra di voi quel padre che gli darà un sasso?» (Lc 11,11). Accogliamo volentieri le istanze che vengono a turbare la nostra pacifica quiete. Siamo pazienti davanti alle indecisioni di coloro che cercano come a tentoni la luce. Sappiamo camminare fraternamente con tutti coloro che, privi di questa luce, della quale noi godiamo i benefici, nondimeno tendono, attraverso le nebbie del dubbio, verso la casa paterna. Ma se noi prendiamo parte alle loro angosce, sia per cercare di guarirle; se noi presentiamo loro Gesù Cristo, questi sia il Figlio di Dio fatto uomo per salvarci e per comunicarci la sua vita, non una figura puramente umana, per quanto meravigliosa e attraente possa essere per il nostro spirito (cfr. 2Gv 7,9). In questa fedeltà a Dio e agli uomini, ai quali siamo da lui inviati, noi sapremo prendere, certo con delicatezza e prudenza, ma con chiaroveggenza e fermezza, le indispensabili decisioni per un giusto discernimento, Ecco, senza dubbio, uno dei compiti più difficili, ma anche, oggi, dei più necessari, per l’episcopato. Infatti, nel contrasto delle opposte ideologie c’è pericolo che la più grande generosità si accompagni ad affermazioni quanto mai discutibili: «anche in mezzo a noi - come al tempo di San Paolo - sorgono uomini che insegnano delle dottrine perverse per trascinar dietro a sé dei discepoli» (At 20,30), e coloro che parlano in tal modo sono a volte persuasi di farlo in nome di Dio, illudendosi sullo spirito che li anima. Siamo noi abbastanza vigili, per ben discernere la parola di fede, sui frutti che essa produce? Potrebbe venire da Dio una parola che faccia perdere ai fedeli il senso della rinunzia evangelica, o che proclami la giustizia tralasciando di annunciare la dolcezza, la misericordia e la purezza, una parola che ponga i fratelli contro i fratelli? Gesù ci ha avvertiti: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,15-20). Proprio tutto questo chiediamo ai collaboratori, che hanno con noi il compito di predicare la parola di Dio. Che la loro testimonianza sia sempre quella del Vangelo e la loro parola quella del Verbo che suscita la fede e, con essa, l’amore verso i nostri fratelli trascinando tutti i discepoli del Cristo a permeare del suo spirito la mentalità, i costumi, e la vita della città terrestre.

I falsi profeti sono compari del lupo rapace, il diavolo, ed entrambi sono stretti da una indissolubile e infernale amicizia. Satana, padre della menzogna, ama manovrare nelle tenebre, il cristiano deve vivere nella verità e deve illuminare il mondo con la luce della verità. Per sant’Ignazio Loyola vi sono due spiriti, quello cattivo e quello buono, che agiscono nell’uomo e nel suo capolavoro gli Esercizi Spirituali (“Regole per sentire e conoscere in qualche modo le varie mozioni che si producono nell’anima”) suggerisce due ottime regole che ci aiutano a distinguerli: “La prima regola. Nelle persone che vanno di peccato mortale in peccato mortale suole comunemente il nemico proporre piaceri apparenti, facendo immaginare diletti e piaceri sensuali, per meglio mantenerle e farle crescere nei loro vizi e peccati; in tali persone lo spirito buono usa modo contrario, pungendole e rimordendo la loro coscienza il richiamo della ragione. La seconda regola. Nelle persone che vanno intensamente purificandosi dai loro peccati e crescendo nel servizio di Dio nostro Signore di bene in meglio, avviene il contrario che nella prima regola; perché allora è proprio del cattivo spirito mordere, rattristare e porre impedimenti, inquietando con false ragioni, perché non si vada avanti; è proprio del buono spirito dare coraggio e forze, consolazioni, lacrime, ispirazioni e quiete, facilitando e togliendo tutti gli impedimenti, perché nel bene operare si proceda avanti” (nn. 314-315). Se c’è un paradigma per scoprire i mali e astuti compari, allora seguiamo il consiglio di Gesù: “Guardiamoci dai falsi profeti”. Se poi si vuole essere più chiari, per san Paolo i frutti dei falsi profeti sono: “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio”. Invece, i frutti del buon e veritiero discepolo di Gesù sono “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,21-22). Se la Parola di Dio è chiara, non dimentichiamo che i “figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8), quindi molta prudenza e buon discernimento!

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). 
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...