1 Luglio 2020

Mercoledì XIII Settimana T. O.

Am 5,14-15.21-24; Sal 49 (50); Mt 8,28-34


Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Due indemoniati... Il Nuovo Testamento e il suo contesto ( Fede cristiana e demonologia) - Prima di ricordare con quale indipendenza di spirito Gesù si sia sempre comportato nei confronti delle opinioni del suo tempo, è importante notare che i suoi contemporanei non avevano tutti, a proposito di angeli e di demoni, la credenza comune che certuni sembrano oggi loro attribuire e dalla quale Gesù stesso dipenderebbe. Un’annotazione con la quale il libro degli Atti illustra la polemica provocata tra i membri del sinedrio da una dichiarazione di san Paolo, ci fa sapere infatti che, a differenza dei farisei, i sadducei non ammettevano «né risurrezione, né angelo, né spirito», cioè, come il testo viene inteso da buoni interpreti, non credevano alla risurrezione e, quindi, neppure agli angeli e ai demoni. Così, a proposito di satana, dei demoni e degli angeli, l’opinione dei contemporanei sembra divisa tra due concezioni diametralmente opposte; come, dunque, pretendere che Gesù, esercitando e dando ad altri il potere di scacciare i demoni e, nella sua scia, gli scrittori del nuovo testamento, non abbiano fatto altro che adottare, senza il minimo spirito critico, le idee e le pratiche del loro tempo? Certo, Cristo, e a maggior ragione gli apostoli, appartenevano alla loro epoca e ne condividevano la cultura; Gesù tuttavia, a motivo della sua natura divina e della rivelazione che era venuto a comunicare, trascendeva il suo ambiente e il suo tempo, sfuggiva alla loro pressione. La lettura del discorso sulla montagna è sufficiente del resto a convincersi della sua libertà di spirito come del suo rispetto per la tradizione. Perciò, quando egli rivelò il significato della sua redenzione, dovette tener conto evidentemente dei farisei, i quali, come lui, credevano al mondo futuro, all’anima, agli spiriti e alla risurrezione; ma anche dei sadducei, i quali non ammettevano queste credenze. Quando i primi lo accusarono di scacciare i demoni con la complicità del loro principe, egli avrebbe potuto scagionarsi, schierandosi con i sadducei; ma, così facendo, avrebbe smentito ciò che egli era e la sua missione. Egli dunque, doveva, senza rinnegare la credenza agli spiriti e alla risurrezione - che aveva in comune con i farisei - dissociarsi da costoro ed opporsi, non meno, ai sadducei. Pretendere dunque oggi che il discorso di Gesù su satana esprima soltanto una dottrina mutuata dall’ambiente, senza importanza per la fede universale, appare, di primo acchito, come un’opinione poco informata sull’epoca e la personalità del Maestro. Se Gesù ha usato questo linguaggio, se soprattutto egli lo ha tradotto in pratica nel suo ministero, è perché esso esprimeva una dottrina necessaria -almeno per una parte - alla nozione e alla realtà della salvezza da lui portata.

Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo? Queste parole non si trovano né nel Vangelo di Marco (5,1-20) né nel Vangelo di Luca (8,26-39). Il tempo a  cui allude il demonio è quello del giudizio finale. In quel giorno i demòni saranno resi impotenti e perderanno ogni potere, una disfatta che già è iniziata con l’incarnazione del Figlio di Dio. Gli esorcismi di Gesù hanno anticipato questa sconfitta e inaugurano il regno messianico. L’irresistibilità del potere di Gesù contro le potenze demoniache sarà manifesta quando salirà sulla croce (Gv 12,31), sino a ridicolizzarle: “Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo” (Col 2,15).
Questo potere di esorcismo, Gesù lo comunicherà ai suoi discepoli insieme con il potere delle guarigioni miracolose (Mt 10,8p) che gli è connesso (Mt 4,24; 8,3.16p, Lc 13,32).

Dal Vangelo secondo Matteo 8,24-34: In quel tempo, giunto Gesù all’altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. Ed ecco, si misero a gridare: «Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?». A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque. I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.

Felipe F. Ramos: Per scoprire la teologia e il messaggio è necessario un maggiore impegno. Matteo ha preso questa storia dal vangelo di Marco (5,1-20), che la racconta con particolari maggiori e in modo più sensazionale. Matteo abbrevia e si limita, per esempio riguardo ai porci, a dire che erano una mandria numerosa, mentre non dice, come Marco, che fossero circa duemila. Allo stesso tempo sviluppa altri particolari: invece di parlare d’un indemoniato come Marco, parla di due (è l’usanza di Matteo anche in altre occasioni, come in 9,27-31 e 20,29-34, per accrescere la grandezza del miracolo).
Fondamentalmente, la scena mira a descrivere un incontro di Gesù con i pagani, come aveva già fatto nella persona del centurione. Tuttavia, fra le due scene, vi è una differenza radicale: il centurione crede e ha accettato Gesù; i gadareni non credono e lo rigettano, perché pensano che quel taumaturgo costituiva un danno per la loro economia. Il rifiuto dei gadareni simboleggia e anticipa il rifiuto della predicazione della Chiesa in quelle parti della Palestina. Quindi il fatto è storia, predicazione e avvertimento allo stesso tempo.
La storia ha il suo centro di gravità nella lotta di Gesù col demonio: è un’intenzione chiara in altri passi del vangelo, e non solo nelle storie in cui compare esplicitamente il demonio (4.24; 9,33-34; 12,22ss), ma in tutti gli interventi di Gesù destinati a superare il dolore, la malattia e la morte. Questa lotta potrebbe essere trasferita, per la nostra mentalità, al campo della psicologia; ma si commetterebbe un’ingiustizia contro il vangelo, tentando di spiegare questi racconti partendo dal campo della psicologia e della psicoterapia. Qui si tratta di poteri misteriosi ostili all’uomo.
l demoni conoscono il nome di Gesù, che è «Figlio di Dio»; sanno di essere soggetti a lui e gli si riconoscono inferiori. E con le parole: «Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?» esprimono la realtà evangelica più profonda: con Gesù, è giunta quella fine dei tempi nella quale Dio sarebbe intervenuto in un modo unico a favore degli uomini. Sono cominciati gli ultimi tempi, la fase escatologica. Noi viviamo in essa e non attendiamo che il suo compimento.
I demoni scacciati e vinti vogliono fare ostentazione del loro potere, affermare che questa fine dei tempi non è ancora giunta a porre fine alla loro attività. La loro sconfitta è la liberazione dell’uomo e, per rendere visibile la loro uscita dall’uomo, si cerca per essi un nuovo luogo. La scena dei porci da un lato rende visibile la liberazione dell’uomo, e dall’altro, dimostra che i demoni hanno ancora un tremendo potere distruttore (annientano la mandria dei porci).

Giovanni Manganello O.S.B (GLI ANGELI CATTIVI): Nei tempi moderni non pochi hanno negato l’esistenza degli indemoniati, adducendo i progressi delle scienze mediche e psichiche, vedendo in quegli infelici, affetti da strani fenomeni, delle affezioni morbose, specialmente nervo e, di origine del tutto naturale.
Ma si fa osservare: le malattie mentali, non più che l’isterismo e lo stato ipnotico, non possono sottrarre un individuo alle leggi del mondo fisico né comunicargli lumi intellettuali e forze muscolari fuori di ogni rapporto con quelle che aveva nel suo stato normale. In tanti casi ci si vede nell’impotenza di spiegare i fatti presentati col ricorso al giuoco degli agenti fisici. In tal caso, quei fenomeni sembrano dovuti all’intervento di cause superiori alla natura.
Siccome poi vi si rivela un ‘azione malevola e spesso immorale, tali fenomeni non si possono far risalire a Dio o ai suoi angeli: e quindi bisogna vedervi l’influenza dei demoni.
In tali casi, Dio permette al demonio di impossessarsi degli organi corporali e delle facoltà spirituali (mai però della volontà) di un essere umano per motivi che si rimettono all’imperscrutabile sapienza e provvidenza divina. Ma in genere possiamo ripetere la spiegazione di Gesù per la malattia del cieco nato: “perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9,3) o per provare gli stessi demoniaci.
Abbiamo escluso dal possesso diabolico la volontà dell’individuo. Di qui proviene che, malgrado il turbamento apportato dalla presenza del demonio nelle operazioni corporali e intellettive del demoniaco, questi conserva, in tutto a in parte, il potere di resistervi nella sua responsabilità. Quando poi il corpo sfugge totalmente al dominio della volontà, è evidente che in quei momenti il demoniaco si vede legata la responsabilità degli atti che
il demonio compie col corpo dell’infelice.
Si consideri ancora che se il demonio può, in certi casi specifici, impossessarsi del corpo del demoniaco, al punto da sottrarlo alle leggi fisiche (per esempio, della gravità, o dandogli un vigore straordinario), non può però impossessarsi dell’anima dell’infelice o violare la sua volontà, cosa che spetta esclusivamente a Dio.
Il demonio, perciò, non può servirsi della libertà umana come si serve degli organi del corpo per far agire l’indemoniato a tutto suo piacere, ma su tale libertà può usare dei mezzi che già conosciamo per la tentazione, come il timore, il terrore, il fascino della potenza straordinaria demoniaca.
Ovviamente, però, in tutti questi casi la responsabilità degli indemoniati rimane sempre diminuita secondo le varie circostanze attenuanti.
La Chiesa ammette la possibilità delle infestazioni diaboliche. Guidata, però, da profonda saggezza, ammette pure la possibilità dell’equivoco, che cioè certe manifestazioni di ordine naturale possano essere scambiate per manifestazioni demoniache; come pure, che casi di autentica vessazione diabolica possano essere scambiati per malattie nervose e psichiche.

Perché Dio permette che esistano i posseduti - José Antonio Fortea (Summa Daemoniaca, q. 100): Dio lo permette perché si mostra la verità della religione cattolica, è un castigo per i peccatori, è vantaggio spirituale per i buoni, produce insegnamenti salutari per l’uomo. Se Dio permette la malattia, a maggior ragione permette qualcosa la cui esistenza è una vera e propria ragione per credere. Un fenomeno nel quale si può comprovare il potere di Dio, il potere di Cristo e quello della Chiesa. La possessione è come una finestra aperta dalla quale possiamo affacciarci sul mondo dell’odio e della sofferenza demoniaca. Una finestra aperta dalla quale possiamo scorgere qualcosa dell’invisibile potere delle nature angeliche. E il bene prodotto da tale visione, si riflette di norma sui presenti e sui familiari per il resto della loro vita. Di norma perché presenziare a un esorcismo non significa che necessariamente tutti i presenti, a partire da quel momento acquisiscano la fede. C’è infatti chi dopo essere stato testimone di un esorcismo, attribuisce la colpa a cause naturali o quanto meno sconosciute. Né ciò deve sembrarci strano se consideriamo che ci fu chi non credette in Gesù pur essendo stato testimone delle guarigioni e degli altri miracoli da lui compiuti. Dobbiamo capire che qualunque cosa vediamo (un miracolo, un esorcismo, qualsiasi cosa sia) ciò che ci fa credere è la grazia. Se liberamente decidiamo di resistere a questo invito interiore e invisibile, non importa assistere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anche se il cielo si aprisse, e Dio ci parlasse dall’alto, tra le nuvole, penseremmo che si tratta di un’allucinazione. Non è ciò che vediamo, ma la grazia, ciò che accende all’interno della nostra anima immortale la fiamma della fede.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  “Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?” (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.








30 Giugno 2020

Martedì XIII Settimana T. O.

Am 3,2-8; 4,11-12; Sal 5; Mt 8,28-34

Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Laudato sii 98: Gesù viveva una piena armonia con la creazione, e gli altri ne rimanevano stupiti: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8,27). Non appariva come un asceta separato dal mondo o nemico delle cose piacevoli della vita. Riferendosi a sé stesso affermava: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone”» (Mt 11,19). Era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo. Tuttavia, questi dualismi malsani hanno avuto un notevole influsso su alcuni pensatori cristiani nel corso della storia e hanno deformato il Vangelo. Gesù lavorava con le sue mani, prendendo contatto quotidiano con la materia creata da Dio per darle forma con la sua abilità di artigiano. E’ degno di nota il fatto che la maggior parte della sua vita è stata dedicata a questo impegno, in un’esistenza semplice che non suscitava alcuna ammirazione: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,3). Così ha santificato il lavoro e gli ha conferito un peculiare valore per la nostra maturazione. San Giovanni Paolo II insegnava che «sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità».

Il racconto della tempesta sedata è presente anche in Mc 4,35-41 e Lc 8,22-25. Attraverso il racconto di questo miracolo, l’evangelista Matteo intende mettere in risalto il potere divino di Gesù. Una considerazione. Il mare è simbolo del male, Gesù ha il potere di acquetare, di esorcizzare e di cacciare dalla creazione e dall’uomo le forze del male. Questo potere sarà trasmesso agli Apostoli, alla Chiesa. Gesù comanda al “mare” come Dio e Signore di tutta la creazione: “Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque, videro le opere del Signore e le sue meraviglie nel mare profondo. Egli parlò e scatenò un vento burrascoso, che fece alzare le onde: salivano fino al cielo, scendevano negli abissi; si sentivano venir meno nel pericolo. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi: tutta la loro abilità era svanita. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li fece uscire dalle loro angosce. La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare. Al vedere la bonaccia essi gioirono, ed egli li condusse al porto sospirato” (Sal 107,23-30).
La Parola di Dio continua a risuonare nel nostro tempo. Per questo, il racconto evangelico della tempesta sedata non è soltanto il racconto di evento accaduto in passato, ma un’immagine viva della situazione e della vita della Chiesa: “Perché avete paura, gente di poca fede? … io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt  8,26; 28,20).

Dal Vangelo secondo Matteo 8,23-27: In quel tempo, salito Gesù sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».

La tempesta sedata - Angelico Poppi (Sinossi e Commento Esegetico Spirituale ai Quattro Vangeli): La redazione dei tre miracoli successivi in Mt è più concisa rispetto a Mc, per farne risaltare meglio la portata cristologica ed ecclesiologica. Gesù è presentato come il dominatore degli elementi naturali sconvolti da forze diaboliche. La barca battuta dai flutti raffigura la Chiesa, minacciata dal mare burrascoso, simbolo delle potenze del male. La sequela di Cristo nella Chiesa consente al credente di trionfare sulle forze distruttrici del caos primordiale.
vv. 23-24 Gesù aveva ordinato di salpare verso l’altra riva (v. 18). Ora, lui stesso sale per primo nella barca per intraprendere la traversata del lago di Genesaret; “i suoi discepoli lo seguirono”: il brano risulta così strettamente collegato con l’intermezzo precedente, riferito alla sequela. La burrasca nel mare è descritta con il linguaggio apocalittico, come uno sconvolgimento cosmico, per sottolineare la potenza sovrumana di Gesù, che placa le acque come JHWH aveva domi nato l’abisso primordiale (cf. Gn 1,2) e il Mar Rosso in occasione della liberazione degli ebrei dall’Egitto (Es 14,16ss.; Sal 106,9). La descrizione è modellata sul racconto di Giona
(1,4-16), la cui vicenda prefigurava il destino di morte e di risurrezione riservato a Gesù (cf. Mt 12,40).
vv. 25-27 All’atteggiamento di Gesù affaticato che dorme tranquillo, si contrappone quello dei discepoli, terrorizzati dalla paura. Essi vegliarono il Maestro e lo supplicarono per essere salvati, denominandolo rispettosamente con il titolo di “Signore”. In Mc, invece, le loro parole suonano come un rimprovero per la noncuranza del pericolo che correvano. Gesù li rimprovera per la loro poca fede: essi credevano in lui, ma si erano turbati come se Dio li avesse abbandonati, mentre era presente nella persona del suo Inviato. Gesù prova la sua autorità sulle tempeste, simbolo delle forze del male, placando la bufera. Pertanto, i credenti possono ricorrere con fiducia a lui, sempre presente e operante nella Chiesa.

Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Svegliato, Gesù domanda meravigliato ai suoi: «Perché avete paura, uomini di poca fede?». La fede di chi ha paura è ancora debole. La fede scaccia la paura poiché ricolma tutto l’uomo della presenza di Dio. La luce della fede scova e allontana da ogni dove l’ ombra dell’ ansietà e dell’angoscia. I discepoli sono «uomini di poca fede», cioè hanno sì la fede - altrimenti non avrebbero sperato nel suo aiuto; ma è una fede ancora incerta e insufficiente - altrimenti non avrebbero cercato di scongiurare il pericolo con tale spavento e angoscia. li discepolo di Gesù si trova spesso in questa situazione: crede, ma non pienamente; aspetta l’aiuto dall’alto, ma non tutto l’aiuto; non si sente ancora sicuro nelle mani del Padre, come ha insegnato Gesù (cf. 6,25-34).
Gesù impone la calma alle potenze scatenate, placa la tempesta e i venti. Improvvisamente «si fece una grande bonaccia». Il tumulto delle acque si volatizza come un fantasma. I presenti si domandano stupefatti (i discepoli, o la folla sulla riva, o genericamente tutti gli uomini? non è questo che importa, ma unicamente la domanda): «Chi è mai costui?».
Prima lo stupore nasceva dal suo messaggio presentato con autorità sovrana (7,28), ora scaturisce dal suo agire con potenza, dal suo potere che si estende sulla tempesta e sul mare; gli elementi gli obbediscono come i demoni e le malattie. Di fronte a tale pienezza di poteri, non dovrà obbedirgli anche l’uomo? Se egli è realmente Signore e Maestro, come lo chiamano i discepoli, non è anche il Signore della mia vita?
Il discepolo deve seguire incondizionatamente il Maestro contare unicamente su di lui; deve quindi rinunciare alla sicurezza di una casa («non ha dove posare il capo») e all’intimità di una famiglia («ascia i morti seppellire i loro morti»). Seguire Gesù, essere suoi discepoli vuol dire sciogliere ogni legame terreno e vincolarsi a un unico legame: il Signore. Sul lago di Genezaret tutto ciò divenne realtà. Ma qui si spezza anche un terzo legame: la liberazione dalla fiducia nelle proprie possibilità.
Sul lago si sperimentò che cosa significa seguire Gesù: egli è in mezzo ai suoi, nella barca; lui solo basta, qualunque cosa possa accadere; egli è sicuro in Dio e soltanto in lui c’è salvezza. Vivere così è proprio della fede; una fede inizialmente faticosa che diventa fiducia sconfinata; una fede piccola e incerta che diventa adulta e piena. Questo quadro evangelico deve restare sempre davanti ai nostri occhi, specialmente quando i fatti della vita parleranno linguaggi contrari. Nonostante tutto, Gesù è nella barca.

La perfezione della fede. - Quando Gesù, il servo, prende la via di Gerusalemme per obbedire fino alla morte (Fil 2,7s), «fa il viso duro» (Lc 9,51; cfr. Is 50,7). In presenza della morte egli «porta alla perfezione la fede» (Ebr 12,2) dei poveri (Lc 23,46 = Sal 31,6; Mt 27,46 par. = Sal 22), mostrando una fiducia assoluta in «colui che poteva», con la risurrezione, «salvarlo dalla morte» (Ebr 5,7). Malgrado la loro conoscenza dei misteri del regno (Mt 13,11 par.), i discepoli ebbero difficoltà a mettersi sulla via in cui, nella fede, dovevano seguire il figlio dell’uomo (16,21-23 par.). La fiducia che esclude ogni preoccupazione ed ogni timore (Lc 12,22-32 par.) non era loro abituale (Mc 4,35-41; Mt 16,5-12 par.). Quindi, la prova della passione (Mt 26,41) sarà per essi uno scandalo (26,33). Ciò che allora essi vedono richiede molta fede (cfr. Mc 15,31s). La fede dello stesso Pietro, senza sparire - perché Gesù aveva pregato per essa (Lc 22, 32) - non ebbe il coraggio di affermarsi (22,54-62 par.). La fede dei discepoli doveva ancora fare un passo decisivo per diventare la fede della Chiesa.
La fede nella Chiesa 1. La fede pasquale. - Questo passo fu compiuto quando i discepoli, dopo molte esitazioni in occasione delle apparizioni di Gesù (Mt 28,17; Mc 16,11-14; Lc 24,11), credettero alla sua risurrezione. Testimoni di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto (Atti 10,39), essi lo proclamano «Signore e Cristo», nel quale sono compiute invisibilmente le promesse (2, 33-36).
Ora la loro fede è capace di giungere «fino al sangue» (cfr. Ebr 12,4). Essi chiamano i loro uditori a condividerla per beneficiare della promessa ottenendo la remissione dei loro peccati (Atti 2,38s; 10, 43). La fede della Chiesa è nata.
2. La fede nella parola. - Credere significa innanzitutto accogliere questa predicazione dei testimoni, il vangelo (Atti 15, ; 1Cor 15,2), la parola (Atti 2,41; Rom 10,17; 1Piet 2,8), confessando Gesù come Signore (1Cor 12,3; Rom 10,9; cfr. 1Gv 2,22). Questo messaggio iniziale, trasmesso come una tradizione (1Cor 15,1-3), potrà arricchirsi e precisarsi in un insegnamento (1Tim 4,6; 2Tim 4,1-5): questa parola umana sarà sempre, per la fede, la parola stessa di Dio (1 Tess 2,13). Riceverla, vuol dire per il pagano abbandonare gli idoli e rivolgersi al io vivo e vero (1Tess 1,8ss), significa per tutti riconoscere che il Signore Gesù porta a compimento il disegno di Dio (Atti 5,14; 13,27- 37; cfr. 1Gv 2,24). Significa, ricevendo il battesimo, confessare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28,19). Questa fede, come constaterà Paolo, apre all’intelligenza «i tesori di sapienza e di scienza» che sono in Cristo (Col 2,3): la sapienza stessa di Dio rivelata dallo Spirito (1Cor 2), diversa dalla sapienza umana (1Cor 1,17-31; cfr. Giac 2,1-5; 3,13-18; cfr. Is 29,14) e la conoscenza di Cristo e del suo amore (Fil 3,8; Ef 3,19; cfr. 1Gv 3,16).
3. La fede e la vita del battezzato. - Condotto dalla fede sino al battesimo e alla imposizione delle mani che lo fanno entrare pienamente nella Chiesa, colui che ha creduto nella parola partecipa all’insegnamento, allo spirito, alla «liturgia» di questa Chiesa (Atti 2,41-46). In essa infatti Dio realizza il suo disegno operando la salvezza di coloro che credono (2,47; 1Cor 1,18): la fede si manifesta nell’obbedienza a questo disegno (Atti 6,7; 2Tess 1,8). Si dispiega nell’attività (1Tess 1,3; Giac 1,21s) di una vita morale fedele alla legge di Cristo (Gal 6,2; Rom 8,2; Giac 1,25; 2,12); agisce per mezzo dell’amore fraterno (Gal 5,6; Giac 2,14-26). Si conserva in una fedeltà capace di affrontare la morte sull’esempio di Gesù (Ebr 12; Atti 7,55-60), in una fiducia assoluta in colui «nel quale ha creduto» (2Tm 1,12; 4,17s). Fede nella parola, obbedienza nella fiducia, questa è la fede della Chiesa, che separa coloro i quali si perdono - l’eretico, per esempio (Tito 3,10) - da coloro che sono salvati (2Tess 1,3-10; 1Piet 2,7s; Mc 16,6).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. (Cfr. Sal 129,5)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.





29 Giugno 2020

Santi Pietro e Paolo Apostoli Solennità

At 12,1-11; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.17; Mt 16,13-19

La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]: La Chiesa di Roma, sin dai tempi più remoti, unisce tra loro questi due grandi apostoli: Pietro e Paolo. Ne danno testimonianza le più antiche scritte nelle catacombe, i mosaici della vecchia basilica di San Pietro oppure della basilica di Santa Maria Maggiore. La prima testimonianza della festa di Pietro e Paolo, il giorno 29 giugno, l’abbiamo a partire dalla metà del III secolo...
Oggi, la Chiesa romana celebra una grande festa, il giorno della sua natività. I due grandi apostoli - Pietro e Paolo - posero le sue fondamenta. La festa di oggi, così romana, viene celebrata da tutta la Chiesa, dato che il Vescovo di Roma, successore di san Pietro è il capo della Chiesa di Cristo sulla terra. Oggi, la Chiesa in modo particolare si rende conto di essere costruita sulle fondamenta degli apostoli e di essere chiamata a trasmettere fedelmente la loro testimonianza a Cristo. Pietro e Paolo ricevettero dal Signore carismi differenti e ciascuno di loro ebbe una missione diversa da compiere. Pietro, per primo, confessò la fede in Cristo; Paolo, invece, ricevette la grazia di penetrarne tutta la profondità. Pietro, fonda la prima comunità dei credenti provenienti dal popolo eletto; Paolo, invece, diventa l’apostolo dei pagani. Ebbero carismi diversi, ma tutti e due si davano da fare con costanza per costruire la Chiesa di Cristo.
Ricordando i santi apostoli, eleviamo le preghiere con la loro intercessione: affinché la Chiesa di Cristo conservi fedelmente l’insegnamento degli apostoli, perseveri nello spezzare il Pane, e affinché tutti i suoi figli abbiano un cuor solo ed un’anima sola.

Colletta: O Dio, che allieti la tua Chiesa con la solennità dei santi Pietro e Paolo, fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Paolo VI (Petrum et Paulum Apostolos): … poiché la prima comunità cristiana di Roma esaltò insieme il martirio di Pietro e Paolo, e la Chiesa in seguito fissò la commemorazione anniversaria dell’uno e dell’altro Apostolo in un’unica festa liturgica (29 giugno), Noi abbiamo pensato di unire insieme, in questa celebrazione centenaria, il glorioso martirio dei Principi degli Apostoli.
E che Noi pure siamo tenuti a richiamare il ricordo di questo anniversario lo dice l’abitudine, ormai universalmente diffusa, di commemorare persone e fatti, che lasciarono un’impronta di sé nel corso del tempo, e che, considerati nella distanza degli anni trascorsi e nella vicinanza delle memorie superstiti, offrono a chi saggiamente li ripensa e quasi li rivive, non vane lezioni circa il valore delle cose umane, forse più palese ai posteri che oggi lo scoprono, che non ai contemporanei, che allora non sempre e non tutto lo compresero. L’educazione moderna al senso della storia a tale ripensamento facilmente ci piega, mentre il culto delle sacre tradizioni, elemento precipuo della spiritualità cattolica, stimola la memoria, accende lo spirito, suggerisce i propositi, per cui una ricorrenza anniversaria si traduce in una lieta e pia festività, infonde il desiderio della riviviscenza delle antiche venerande vicende, e apre lo sguardo sull’orizzonte del tempo passato e futuro, quasi che un disegno segreto lo unificasse e ne segnasse nella futura comunione dei santi il suo estremo destino. Questa spirituale esperienza sembra a noi doversi particolarmente effettuare mediante la rievocazione dei due sommi Apostoli Pietro e Paolo, che alla temporale mortalità pagarono col martirio per Cristo il loro umano tributo, e che dell’immortalità di Cristo trasmisero a noi e fino agli ultimi posteri sacramento perenne la Chiesa, guadagnando per sé l’eredità incorruttibile, incontaminata e inalterabile, riservata nei cieli (Cf 1Pt 1,4).
E tanto più Ci piace commemorare con voi, Venerati Fratelli e Figli carissimi, questo anniversario, quanto maggiormente questi beati Apostoli Pietro e Paolo sono non solo Nostri, ma vostri altresì: essi sono gloria di tutta la Chiesa, perché delegati delle Chiese, gloria di Cristo (2Cor 8,23) e da essi esce tuttora per tutta la Chiesa la voce: «Noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro» (Cf 2Cor 1,14). Che se questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continua re la loro specifica missione, questa non ha per fine la Chiesa locale, sì bene la Chiesa intera, consistendo principalmente quella missione nel fungere da centro della Chiesa stessa e nel dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità; l’unità cioè e la cattolicità, che in virtù dei santi Apostoli Pietro e Paolo hanno nella Chiesa di Roma la loro precipua sede storica e locale, sono proprietà e sono note distintive di tutta la vera e grande Famiglia di Cristo, sono doni di tutto il Popolo di Dio, per il quale la viva e fedele tradizione romana li custodisce, li difende, li dispensa e li accresce.

Il Vangelo di Matteo pone la “professione di fede” di Pietro nella “regione di Cesarea di Filippo”. Qui Gesù domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». La domanda ha un fine maieutico, cioè quello di spingere gli Apostoli a giungere a una verità in maniera autentica semplicemente aiutandoli a darla alla luce. La risposta mette in evidenza le diverse opinioni ma nessuna calza alla vera persona del Cristo. Comunque i pareri espressi dal popolo suggeriscono l’alta considerazione che Gesù aveva presso la folla. All’incalzare della domanda, Pietro si fa avanti, e con estrema sicurezza dà la risposta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Non si sa comunque che comprensione Pietro avesse di questa verità espressa su suggerimento non della “carne”, ma del Padre, in ogni caso è il preludio di quella autorità che Pietro eserciterà nella Chiesa a partire dal giorno dell’ascensione del Maestro. Tre sono le promesse: Pietro sarà la pietra sulla quale Gesù edificherà la sua chiesa, a lui saranno date le chiavi del regno dei cieli, e gli sarà conferito il potere di “sciogliere e di legare”. Legare e sciogliere “sono due termini tecnici del linguaggio rabbinico che si applicano innanzitutto al campo disciplinare della scomunica con cui si «condanna» (legare) o si «assolve» (sciogliere) qualcuno, e ulteriormente alle decisioni dottrinali o giuridiche con il senso di «proibire» (legare) o «permettere» (sciogliere). Pietro, quale maggiordomo [di cui le chiavi sono l’insegna, cf. Is 22,22] della casa di Dio, eserciterà il potere disciplinare di ammettere o di escludere come egli crederà meglio, e amministrerà la comunità con tutte le decisioni opportune in materia di dottrina e di morale. Sentenze e decisioni saranno ratificate da Dio nell’alto dei cieli” (Bibbia di Gerusalemme).

Dal Vangelo secondo Matteo 16,13-19: In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Ma voi, chi dite che io sia? - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): La confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente», contiene la grandezza personale e quella ufficiale di Gesù. Egli è il Cristo, il profeta, re e sacerdote unto da Dio. Ed è ancora più di questo, perché è il Figlio del Dio vivente. Qui tutto viene elevato dall’oggettivo nel personale. Gesù come persona è Figlio del Dio vivo, sicché la fede è l’incontro personale con la persona del Figlio di Dio.
La risposta è stata suggerita da due forze. La prima è la riflessione e il riconoscimento di Pietro, basato sulla testimonianza di Gesù nelle parole o nei miracoli. Tutto ciò che la precede, particolarmente la guarigione dei malati, la duplice moltiplicazione dei pani, il cammino sulle acque e il salvataggio sulle onde fanno sentire qui il loro effetto. Pietro ha compreso i segni, i quali gli hanno dimostrato che colui che li ha prodotti è il Figlio del Dio vivente. Per questo riconoscimento, però, era necessario ancora qualcos’altro: l’illuminazione interiore per mezzo dello Spirito Santo. «Non la carne né il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio, che è nei cieli». Il Padre ha illuminato con il suo spirito l’uomo Pietro, sicché egli ha riconosciuto il Figlio del Padre nello Spirito Santo. In tal modo l’elemento naturale e quello soprannaturale agiscono insieme nella fede.

Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente - Paul Hubert Schüngel: Nel Nuovo Testamento figlio di Dio è il titolo onorifico di Gesù. L’uso di questa espressione non è però generalizzato all’interno del Nuovo Testamento. Manca completamente nelle Lettere pastorali, in Giacomo e 1Pietro e quasi del tutto in Atti e Apocalisse, è invece frequente nei Sinottici, e in Paolo e Giovanni diventa il concetto cristologico centrale, alternato spesso con l’autodenominazione “il Figlio” per antonomasia in bocca a Gesù. La nascita del titolo viene ricercata generalmente nel giudeocristianesimo ellenistico, dove designa il Dio prodigioso apparso in sembianze umane, nella maniera più chiara, per es. in Mc 5,25ss. Questa spiegazione derivante dalle rappresentazioni religiose ellenistiche è la più semplice. Tuttavia già la fonte dei loghia con la storia della tentazione di Gesù (Mt 4; Lc 4) ha criticato questa concezione: il vero figlio di Dio ubbidiente, non è un dio assoluto. Dal giudeocristianesimo palestinese, cioè dalla stessa autentica comunità primitiva, deriva forse l’antica professione di fede citata da Paolo in Rm, l,3s, che relativizza il titolo giudaico di figlio di Davide rispetto al titolo figlio di Dio, laddove come nei racconti del battesimo e della trasfigurazione (Mc 1,11 e 9,7) la figliolanza divina viene intesa secondo il modello di Sal 2 come adozione del re messianico. Da parte dello stesso Gesù è senz’a1tro da escludere l’uso del titolo come autodesignazione. Paolo e Giovanni usano entrambi il titolo nel senso del figlio di Dio preesistente (Rm 8,3; Gv 1,1). Per Paolo Gesù è il figlio di Dio non in base a una particolare conformazione, ma in base all’invio o all’incarico ai quali corrisponde l’ubbidienza del figlio (Rm 5,19). Colui, perciò che ubbidisce nella fede (Rm 1,5) e pure lui figlio di Dio, per adozione, cioè gratuitamente e con ciò stesso coerede di Cristo, come attesta anche la preghiera cristiana (Rm 8,15).
Mentre Paolo, allora, può mettere in parallelo la figliolanza divina di Gesù e quella del credente, Giovanni cambia, significativamente, la denominazione: il Figlio (hyios) di Dio dà potere ai credenti di diventare figli (tekna) di Dio (Gv 1,12; 1Gv 3). Giovanni sottolinea così l’unicità di Gesù come sostanziale figlio di Dio che è una sola cosa col Padre (Gv 10,38; 17,21), che si è incarnato per la salvezza degli uomini ed è apparso come rivelatore. Con ciò Giovanni ha posto il fondamento per il futuro sviluppo dogmatico che portò alla dottrina calcedonense delle due nature.

Beato sei tu, Simone, figlio di Giona - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Pietro aveva parlato in nome dei discepoli, ora gli viene rivolta la parola in modo diretto e personale. La sua confessione valeva per tutti, la risposta di Gesù è per lui solo. Gesù comincia con il dichiararlo beato. «Beati i poveri in spirito» (5,3), «beato colui che non si scandalizza di me» (11,6), «beati i vostri occhi perché vedono» (13,16): espressioni che conosciamo. Ora viene detto beato uno solo, il primo degli apostoli, per la sua testimonianza. La “conoscenza” della vera dignità di Gesù e del mistero della sua persona non viene dal basso, ma dall’alto; non è frutto di «carne sangue», cioè delle capacità dell’uomo. Dio stesso l’ha partecipata dall’alto. «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza» (13,12). Pietro aveva fatto il passo dall’ascoltare al credere e si era avventurato sulle acque; nonostante la sua «poca fede», era sulla via della fede piena. Ora gli viene dato il vero sapere e la piena conoscenza: e li è veramente beato perché conosce nell’intimo «i misteri del regno dei cieli» (13,11). La lode di Pietro è anche una lode di Dio, che ha rivelato i suoi misteri ai piccoli, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e intelligenti (cf. 11,25). Così è piaciuto al Padre, e il fatto di Cesarea di Filippo lo comprova.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. (Mt 16,8)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Concedi, Signore, alla tua Chiesa,
che hai nutrito alla mensa eucaristica,
di perseverare nella frazione del pane
e nella dottrina degli Apostoli,
per formare nel vincolo della tua carità
un cuor solo e un’anima sola.
Per Cristo nostro Signore.





28 Giugno 2020

 XIII Domenica Tempo Ordinario

2Re 4,8-11.14-16a; Sal 88 ( 89); Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

Colletta: Infondi in noi, o Padre, la sapienza e la forza del tuo Spirito, perché camminiamo con Cristo sulla via della croce, pronti a far dono della nostra vita per manifestare al mondo la speranza del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura:  La nascita del figlio della donna facoltosa di Sunem è una delle tante nascite miracolose, sparse qua e là nella sacra Scrittura. Comunque, secondo il contesto in cui sono inserite, le nascite miracolose possono avere sfumature diverse. Nel nostro caso la nascita miracolosa mette in evidenza: a) il potere taumaturgico del profeta Eliseo; b) l’ospitalità che viene esaltata con un premio così grande, cioè con la nascita miracolosa di un bambino; c) chi dà la fecondità ai grembi sterili è il Signore Dio e non le divinità morte dei popoli pagani.

Salmo Responsoriale 88 (89) - “Nessun culto è gradito a Dio come la misericordia: innanzi a lui procedono la misericordia e la verità [Sal 89 (88),15], davanti a lui bisogna anteporre la misericordia al giudizio [cfr. Os 6,6], e la benignità da niente altro che dalla benignità è meglio ricompensata da lui che retribuisce con giustizia e pone misericordia in peso e misura [cfr. Is 28,27]” (Gregorio di Nazianzio)

II Lettura: L’Apostolo Paolo invita i cristiani a “camminare in una vita nuova” (v. 4). Il porto sicuro di questo cammino sarà la risurrezione:  “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (v. 8).
“«In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo». Per un verso la morte corporale è naturale, ma per la fede essa in realtà è «salario del peccato» [Rm 6,23]. E per coloro che muoiono nella grazia di Cristo, è una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua Risurrezione [cfr. Rom 6,3-9; Fil 3,10-11]” [Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1006).

Vangelo: L’amore è forza trainante: se da una parte spinge il discepolo fino all’estremo sacrificio trasformando la sua vita in un’oblazione, dall’altra parte lo aiuta a vivere le esigenze della carità nell’anonimo quotidiano, nei gesti spiccioli di ogni giorno, nei piccoli atti che si trasformano in consolazione e in accoglienza per i più bisognosi. In ambedue i casi il discepolo non perderà la sua ricompensa: chi dona la vita la ritroverà nella Vita, e chi si fa accogliente sarà accolto dall’Amore.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,37-42: In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

La sterilità (I Lettura) - Succintamente si può rilevare che l’Antico Testamento considera l’aver figli numerosi un dono di Dio (Gen 35,5; Sal 127,3; 128,3-6) e l’esserne privo una vergogna (Gen 30,23), una prova tremenda, se non addirittura un castigo divino (Gen 30,1). E questo sia per l’uomo che per la donna. L’eunuco, uomo privo delle facoltà virili per difetto organico o per evirazione (Mt 19,12), è escluso dall’esercizio del sacerdozio o è considerato, generalmente, un essere inutile, un «albero secco» (Is 56,3) e per la legge non appartiene nemmeno più alla comunità (Dt 23,2). Anche la donna sterile, per volgari pregiudizi, è per la gente comune degna di disprezzo (Gen 16,4).
Per superare la sterilità si ricorre ad artifizi al limite di ogni pudore morale, ma comunemente accettati. Sara, pur di avere un bambino, permette al marito di unirsi con la propria schiava (Gen 16,1-4), così fa Rachele e poi Lia, anche se aveva avuto già quattro figli (Gen 30,1ss).
I figli di queste unioni irregolari sono considerati appartenenti alla padrona sterile. Si registrano anche casi estremi come quello delle figlie di Lot che per il terrore di non avere una posterità ricorrono addirittura all’incesto (Gen 19,30-38).
A questi espedienti si aggiunge la preghiera che spesso Dio esaudisce donando delle maternità umanamente impossibili. Ad Abramo già vecchio e a Sara, il cui grembo era sterile, Dio concede un figlio: Isacco, il figlio della promessa (Gen 17,19).
La sterile Rebecca, sposa di Isacco, ha due figli insperati: Esaù e Giacobbe (Gen 25,19-26). La nascita di Sansone è anche un evento prodigioso, infatti il padre e la madre sono già avanti negli anni e nella loro giovinezza non hanno avuto figli (Giud 13,3-5). Così la nascita di Samuele (1Sam 2,20).
Avere figli, quindi, significa essere benedetti da Dio: la fertilità è mettersi davanti a Dio come una porta aperta a che irrompa nel mondo la salvezza divina con la nascita del Messia. La sterilità è il contrario di tutto questo: essa fa precipitare l’uomo nella maledizione e, di fatto, lo aliena dai benefici divini. Anche se questo è il sentire comune, si deve ammettere che, facendosi più profonda e più intelligente la riflessione sulla salvezza, viene superato sopra tutto dai Libri sapienziali. Così, la sterile senza colpa è beata (Sap 13,3ss) e anche gli eunuchi che osservano i sabati, preferiscono le cose che piacciono a Dio e restano fermi nella sua alleanza, nella casa del Signore e dentro le sue mura, alla fine dei tempi, avranno un posto e un nome migliore che ai figli e alle figlie; Dio darà loro un nome eterno che non sarà mai cancellato (Is 56,4-5). Quello che conta non è più la posterità della carne, ma quella dello spirito. Nel Nuovo Testamento avvengono altre nascite miracolose, così Giovanni il Battista nasce da genitori sterili e avanti negli anni, ma con un capovolgimento totale: la verginità di Giovanni è il nuovo segno del regno dei cieli, un segno che troverà la sua completezza nella verginità di Maria e nel Verbo, nato da Maria per opera dello Spirito Santo, vero segno e sacramento della salvezza di Dio. Con Cristo la sterilità volontaria, accettata per il regno dei cieli, diventa un valore positivo e può chiamarsi verginità (Mt 19,12). Paolo realizza questo ideale e ne è tanto affascinato da augurarsi che tutti seguano il suo esempio (1Cor 7,7-9).
Mentre la sterilità è frutto della incompletezza umana, con Cristo la verginità sarà un dono di Dio da custodire «con santità e rispetto» (1Ts 4,4).

Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me - Siamo alla conclusione del discorso apostolico. Oltre a specificare la missione dei Dodici e le modalità di comportamento (vv. 1-15), Gesù tratteggia la stessa vita degli Apostoli e dona loro una certezza certamente non esaltante: come pane quotidiano avranno persecuzione e come companatico odio gratuito (vv.16-25), ma nonostante questo accanimento verso le loro persone dovranno parlare apertamente e senza timore (vv. 26-33). Tanto è scomodo il Vangelo che Gesù stesso, e di conseguenza il discepolo, è causa di dissensi (vv. 34-36). A finire il discorso, Gesù prospetta agli Apostoli una dura esigenza evangelica che supera ogni buon senso umano: per seguirlo occorre rinunciare a tutto, anche a farsi una famiglia (Mt 19,12), e per salvare la vita, cioè raggiungere la vita eterna, bisogna saper perdere la vita terrena (vv. 37-39). In appendice, ma è la colonna portante del cristianesimo, afferma che l’unico, vero biglietto di presentazione che permetterà l’ingresso nel regno di Dio sarà la carità (vv. 40-42; Mt 25,31-46).
È una pagina che trancia senza pietà ogni tentativo di accomodamento umano della Buona Novella.
Ora, leggendo questa pagina evangelica, ci si chiede come si possa conciliare il Gesù così esigente con il Gesù che dice di non voler imporre che un giogo dolce e soave (Mt 11,30), che definisce non gravosi i suoi comandamenti (Gv 5,3) e che si presenta come il buon Pastore amabile e pronto a dare la vita per le pecore (Gv 10,11). Ci impressiona questo linguaggio così radicale e per dare una risposta e per «capacitarsi di questa apparente contraddizione e capire le richieste di Cristo, che sembrano esagerate, si deve ricorrere alla logica dell’amore e della fede. L’amore come dono è esigentissimo, e d’altra parte l’amore come risposta al dono, trova dolce e leggero ogni più grave sacrificio. Chi ama davvero Cristo e crede che va posto al culmine di ogni cosa non giudica strano che gli si debba dare la preferenza anche sugli affetti più cari e che si debba essere pronti a sacrificargli perfino la vita» (Vincenzo Raffa).
Non possiamo barattare queste esigenze cristiane con la logica umana; è vero che siamo dinanzi a una pagina scomoda, ma è una pagina che ci suggerisce una elementare verità: essere cristiano ha un prezzo. Mettere in secondo piano gli affetti familiari, abbracciare la croce ogni giorno, perdere la vita per Cristo, allo scopo di guadagnarla definitivamente sono le condizioni per porsi alla sequela di Gesù. Altrimenti, gli ripeterà il Maestro divino: «Non sei degno di me».

Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me - Nel linguaggio di ogni giorno la parola croce ha assunto un valore negativo; infatti, nell’immaginario collettivo, rappresenta tutto quello che umilia l’uomo, tutto quello che lo aliena dal benessere e dalla felicità, lasciandolo in balia della angoscia e della disperazione, affogandolo miseramente nel dolore  e nella sofferenza.
Con cattivo gusto, anche una persona molesta viene chiamata croce. Per il cristiano, invece, la croce è la somma di tutte le sofferenze patite dal Cristo e che la professione cristiana inequivocabilmente comporta. In una ottica soprannaturale, le croci umane incollate all’unica Croce sulla quale è stato appeso il prezzo del nostro riscatto (Col 2,14; 1Tm 2,6), e che con essa si fondono, sono redenzione, libertà e riscatto.
Senza farsi cogliere dalla tentazione di strappare qualche pagina scomoda, scorrendo il Vangelo si ci accorge che la croce non è un accessorio più o meno ingombrante, ma è la condizione necessaria per seguire il Maestro. Dio «ti ha chiamato», scriveva Tauler, «a seguirlo e quindi devi portare una croce dietro a Lui, sia quella che sia. Se ne fuggi una, incorri in un’altra più pesante... Questa è la Via più vera, più sicura e più breve che si possa percorrere, che lo stesso sommo Maestro di ogni verità ha trovato, Lui stesso l’ha percorsa e l’ha insegnata a noi» (Divine Istituzioni, 4).
In fondo, il sì alla croce è un sì a Cristo. Un sì alla croce è morire all’uomo vecchio e al peccato (Rom 6,6.11); è morire alla carne (1Pt 3,18); è morire a tutti gli elementi del mondo e a quella parte di noi che appartiene alla terra (Col 2,20; 3,5): un sì alla croce è un sì alla vita nuova che è iniziata nel battesimo. La croce, così, è germe di risurrezione.

La croce contrassegno del discepolo di Gesù - Giuseppe Barbaglio:  Nei vangeli sinottici ricorre due volte la formula «prendere (o portare) la propria croce». In realtà, essa esprime una precisa esigenza di comportamento qualificativa del discepolato di Cristo. Nella triplice tradizione sinottica troviamo la prima testimonianza del detto di Cristo: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34; cf. Mt 16,24). Come si vede, prendere la propria croce costituisce l’indispensabile condizione per poter «andare dietro» a Gesù. In altre parole, la sequela di Cristo esige piena disponibilità a percorrere la via crucis, cioè a far getto della propria vita.
Dunque un estremo coinvolgimento della persona. È con indubbia originalità che Luca interpreta la parola di Cristo sulla linea della quotidianità del vivere: portare la croce non è un momento eroico finale, ma coinvolge tutta la vita del discepolo ponendola sotto il segno della passione. Per questo aggiunge il determinativo «ogni giorno».
Il secondo passo evangelico in cui ricorre la nostra espressione appartiene invece alla fonte dei detti di Gesù (sigla Q), da cui hanno attinto Matteo (10,38) e Luca (14,27). Con probabilità è proprio Luca che ci ha conservato il tenore originario della parola di Cristo: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo». Portare la croce era dunque fattore costitutivo dell’essere discepolo di Gesù. La formulazione matteana invece attenua questo radicalismo, mettendo l’accento sull’essere degno discepolo di Cristo. Emerge qui il pragmatismo del primo evangelista che, pastore preoccupato della coerenza della comunità cristiana prende di petto i credenti della sua chiesa esortandoli a vivere da autentici discepoli del Signore che si qualificano per le loro «buone opere» (Mt 5,16).
Ma qual è l’origine della formula? Il giudaismo del tempo ignorava questa espressione. Con probabilità, essa risale alla comunità cristiana primitiva che, interprete del radicalismo di Gesù espresso nel detto immediatamente precedente («Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26; cfr. Mt 10,37), ha inteso affermare la necessaria partecipazione dei credenti alla via crucis del Signore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Anima mia, benedici il Signore: tutto il mio essere benedica il suo santo nome. (Sal 102,1)   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.