30 Agosto 2018

Giovedì XXI Settimana T. O.

 
Gesù ci dice: “Vegliate e tenetevi pronti, perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.” (Mt 24,42a.44 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Matteo 24,42-51: Al discorso che annunzia la fine di Gerusalemme e l’ultima venuta del Cristo alla fine del mondo, l’evangelista Matteo unisce tre parabole che riguardano la fine ultima degli individui. La prima mette in scena un servo incaricato di una missione e giudicato in base al modo in cui ha adempiuto il suo compito. La stoltezza del servo malvagio va colta nel suo ragionare: poiché il mio padrone tarda, posso darmi ai bagordi e infrangere ogni regola di fedeltà, di obbedienza, di buona educazione. Ma il padrone arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, e lo punirà. Da qui la sana raccomandazione di Gesù: Vegliate... tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo. La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà: “Perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà.” (1Pt 1,13; 1Ts 5,6-8; 1Pt 4,7; 5,8).

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): vv. 45-47 Matteo, al discorso su la rovina di Gerusalemme e su l’inaugurazione del regno messianico (la Chiesa), fa seguire tre parabole (24,45;51, 25,1-13; 25,14-30) che si riferiscono al destino finale dell’individuo. È probabile che la parabola del servo (24,45-51), pronunziata in altra circostanza, sia stata posta da Matteo nell’attuale contesto per un motivo di analogia; infatti nell’esortazione alla vigilanza (24,42-44) e nella parabola del servo custode della casa si parla di una venuta improvvisa del padrone. Ma nel primo caso la venuta riguarda una collettività, nel secondo un individuo, come appare manifestamente dal passo parallelo di Luca (cf. Lc., 12,41-42). Il servo fedele è la persona di fiducia che presiede al governo della casa e che adempie con esattezza il proprio dovere. Alla venuta del padrone è promosso di carica per il fedele compimento della sua mansione ed è proposto all’amministrazione di tutti gli averi del suo signore. Questo servo fedele rappresenta il servitore a cui Gesù ha affidato un posto di responsabilità (cf. Lc., 12,41) ed al quale egli chiede ragione dell’operato al termine della vita.
Il discepolo che si è mostrato fedele nel compimento del suo ufficio nel regno messianico, verrà associato nel cielo a Gesù glorioso; anche dal cielo egli continuerà ad essere utile nel governo del regno che è sulla terra (cf. Mt., 19,28; 25,21).
vv. 48-51 La parabola presenta un quadro opposto al precedente. Un’altra persona che presiede al governo della casa, sfrutta l’assenza del padrone per agire da despota e per condurre una vita licenziosa abusando dei beni affidatigli. Il mio padrone tarda; è un’espressione generica che non richiama necessariamente la venuta del metaforico padrone alla fine del mondo; essa indica semplicemente l’assenza del padrone di casa o il disinteresse per quella vigilanza che il servo dovrebbe avere in virtù della mansione di fiducia ricevuta dal suo signore. Lo farà squartare (διχοτομήσει), non è facile stabilire il senso esatto di questo verbo; preso alla lettera significa: lo dividerà in due parti; l’antichità greco-romana e la Bibbia non ignorano questo supplizio (cf. 1Samuele, 15,33; Geremia, 34,18-19; Daniele, 13,55.59; Ebrei, 11,37). La forma verbale può essere intesa in senso metaforico: lo separerà dagli altri, lo condannerà. La sorte degli ipocriti; il termine (ipocriti) fa pensare agli Scribi ed ai Farisei che hanno rigettato il regno (cf. 23,13 segg.). Luca ha: empi, infedeli (Lc., 12,46). Per il pianto ed il fremito dei denti, cf. 8,11-13; l’espressione indica una condanna personale (cf. 22,13) e sarà ripresa in Mt., 25,30

Vegliate - Catechismo della Chiesa Cattolica 1041 - Il messaggio del giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini “il momento favorevole, il giorno della salvezza” (2 Cor 6,2). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giustizia del regno di Dio. Annunzia la “beata speranza” (Tt 2,13) del ritorno del Signore il quale “verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto” (2 Ts 1,10)

Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà: Essere vigilanti non significa darsi all’ozio, ma semplicemente non farsi prendere la mano dalla carriera, dal successo, dal denaro per dare spazio alle cose di Dio e a quelle dello spirito.
Le occupazioni, che spesso diventano preoccupazioni, a lungo andare, appesantendo il cuore, fanno sprofondare l’uomo in un cupo sonno colpevole, il quale, in questo stato confusionale, non sentendo i passi di Dio nella sua vita, si avvia inesorabilmente verso un destino di morte e di distruzione.
... se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro... L’immagine del Figlio dell’uomo paragonato a un ladro notturno che entra in casa per rubare rende ancora più efficace il tema della vigilanza continua.
L’immagine del ladro è usata frequentemente nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù (Cf. 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Il padrone di casa che non vigila potrebbe perdere tutti i suoi beni, così il cristiano addormentato può perdere tutto se stesso all’appuntamento supremo.
In contrasto «con l’apocalittica giudaica, che si prefiggeva di calcolare in anticipo il giorno del giudizio, Gesù ne afferma il carattere sconosciuto e inaspettato e perciò raccomanda la vigilanza... L’attesa per la venuta improvvisa del Signore non costituisce per il credente un motivo di ansia o di paura. L’essenziale è esser trovati vigilanti e pronti per accogliere il Salvatore, senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni e dagli interessi mondani, che sono cose secondarie e contingenti» (A. Poppi).
In un’ottica tutta cristiana, la repentinità della venuta del Figlio dell’uomo ha un ruolo importante e decisivo nella vita del cristiano tanto da animarla profondamente anche negli impegni più banali.
Infatti a nutrire la vigilanza saranno le virtù teologali tanto necessarie al discepolo per conquistare il regno: la speranza certa della venuta di Gesù; la fede nella indefettibilità della parola del Maestro; la carità che bruciando il cuore lo sospinge a cercare le «cose di lassù» (Col 3,2).

Parabola del servo fedele o infedele - Catechismo della Chiesa Cattolica 1021: La morte pone fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo (2Tm 1,9-10). Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro (Lc 16,22) e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone (Lc 23,43) così come altri testi del Nuovo Testamento (2 Cor 5,8; Fil 1,23; Eb 9,27; 12,23) parlano di una sorte ultima dell’anima (Mt 16,26) che può essere diversa per le une e per le altre.

La retribuzione - Catechismo della Chiesa Cattolica 1051: Ogni uomo riceve nella sua anima immortale la propria retribuzione eterna fin dalla sua morte, in un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti.

Dalla morte al giudizio - Antonio M. Gentili:  [...] La morte, per quanto rimanga sempre un evento traumatico, rivela sia pure parzialmente il suo mistero e si fa amica di una vita virtuosa. E in questo senso che sant’Ignazio, nei suoi Esercizi, racconta di compiere le proprie scelte di vita «come se mi trovassi in punto di morte» (Esercizi, 186, cf 340). Si tratta di assumere “ora” il comportamento che “allora” avrei voluto tenere! Quello che Ignazio afferma sulla morte lo ripete per il giudizio: «Immaginando e considerando come mi troverò il giorno del giudizio, penserò a come allora vorrei aver deliberato circa la cosa presente, e la regola che allora vorrei aver seguito l’adotterò adesso, per potermi trovare allora con grande piacere e gioia» (Esercizi, 187, cf 341). Piacere e gioia nel giorno del giudizio! E una delle non poche perle che incontriamo nel dettato così scarno del testo ignaziano. Il che significa affrontare il giudizio di Dio in modo positivo, poiché ce ne siamo appropriati in anticipo e lo abbiamo fatto nostro. Infatti il giudizio di Dio non è un punto di vista estraneo e arbitrario sulla nostra vita e il nostro operare, ma viene a coincidere con quanto di meglio l’uomo può volere per sé. Il giudizio di Dio, così ripetutamente lo hanno fissato le non poche esperienze di premorte di cui è ricca la letteratura (si pensi ai testi di Moody su “la vita oltre la vita”), e infatti una luce sfolgorante che permette all’animo umano di avere una visione fulminea e perfetta di come si è operato nell’intero arco della vita. Si potrebbe dire che il giudizio di Dio mi rivela a me stesso come sono. In questo senso l’esercizio spirituale, incentrato sull’ascolto della parola e sull’introspezione, che mi rivela consonanze e dissonanze tra quanto Dio mi dice e quanto io sento, penso e opero, è un vivere in anticipo il giudizio divino e renderlo efficace nell’esistenza quotidiana, Queste veloci annotazioni sottolineano una volta in più, se ce ne fosse bisogno, che l’esercizio spirituale non si esaurisce in una dotta esposizione di principi, ma deve rivolgersi in esperienza vissuta. Giacché è questo che l’uomo oggi cerca: un messaggio che si incarni nella sua vita e lo conduca a progressive integrazioni fra le quali primeggia certamente il mistero binomio morte-giudizio.

Giuseppe Barbaglio: La conclusione dell’esistenza cristiana sta nell’unione indistruttibile con il Signore, nell’eterna comunione di vita con Cristo (1Tess. 5,10). Davanti a questa prospettiva l’apostolo brucia dal de­siderio di morire per raggiungere il Signore ed essere insieme con Cristo (Fil. 1,23), e di abitare presso il Signore (2Cor. 5,8).
Il destino ultimo del cristiano consiste nell’inalienabile comunione con il suo Signore. Senza l’angustia della possibilità della rottura.
Nel pacifico e sereno possesso di Cristo. Nel clima di un’intima familiarità e di una gioia pura, espresse dall’immagine della partecipazione al banchetto celeste, di cui quello eucaristico è segno: «Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt. 26,29).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Immaginando e considerando come mi troverò il giorno del giudizio, penserò a come allora vorrei aver deliberato circa la cosa presente, e la regola che allora vorrei aver seguito l’adotterò adesso, per potermi trovare allora con grande piacere e gioia» (SantIgnazio di Loyola, Esercizi, 187, cf 341).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...