10 Agosto 2018
Venerdì XVIII Settimana T. O.
Oggi Gesù ci dice: “Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita, dice il Signore ” (Gv 8,12c).
Dal Vangelo secondo Giovanni 12,24-26: L’immagine del chicco di grano che deve cadere in terra, che deve marcire e morire per portare frutto, visualizza la via che il Padre ha scelto per raggiungere gli uomini per salvarli dal peccato e liberarli dall’oscuro dominio della morte. È la via della Croce percorsa dal Figlio, obbediente alla volontà del Padre «fino alla morte e a una morte di Croce» (Fil 2,8) ed è la via che i discepoli, sull’esempio del loro Maestro, devono percorrere se vogliono che la loro vita porti abbondanti frutti di santità e di salvezza (Cf. Rom 8,17).
Nella logica pasquale «non c’è vita senza morte: ce lo suggerisce la piccola parabola del chicco di grano nel Vangelo di oggi. Il chicco si realizza in frutto di vita solo accettando il passaggio attraverso la morte / caduta in terra. È un momento dialettico e vitale, senza il quale non passa ad un livello superiore di vita. Se mi salvo come chicco, non porto frutti; se viceversa, muoio e mi nego come chicco porto molto frutto» (P. Rosario Scognamiglio).
L’immagine del seme è usata molte volte nelle parabole dei vangeli sinottici, Matteo, Marco e Luca: il seme che cade in diversi terreni (cfr. Mt 12,3-8; Mc 4,3-9; Lc 8,5-8), il grano di senapa (cf Mt 12,31-32; Mc 4,30-32; Lc 13,18-21), il seme che spunta da solo (Mc 4,26-29). Per i tre evangelisti il seme è la parola di Dio oppure il Regno di Dio, ma per il quarto vangelo il seme è Gesù stesso. Con queste parole Gesù illustra la sua drammatica morte e dà inizio all’ora dell’abbandono. Sarà abbandonato dal suo popolo da lui tanto amato e beneficato (cfr. At 10,38); sarà abbandonato alla nequizia dei capi del Sinedrio, ubriachi e travolti da una ferocia bestiale che li rende incapaci di vedere nei segni compiuti da Gesù il dito di Dio (cfr. Lc 11,20). Sarà abbandonato dai suoi discepoli che lo lasceranno solo, immerso in una mortale agonia, a lottare contro il terrore della morte (cfr. Mt 26,36-46). Gesù si sentirà abbandonato anche dal Padre: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?» (Gv 12,27). È l’ora delle tenebre. Il mistero dell’iniquità (cfr. 2Ts 2,7) sembra palesarsi in tutta la sua bruttura. Viscido, come un torrente di liquami, sembra scivolare nelle coscienze degli uomini, violentandole, catturandole, rendendole schiave di progetti infernali: Gesù «intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui [...]. Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (Gv 13,27-30). Gesù sa che il Sinedrio ha emesso già una sentenza di morte, ma lui non cessa di amare. Anzi, parla della sua morte come “una necessità”: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. E la sua dolorosissima morte porterà molto frutto. Questa è la lezione più bella che viene dall’intero brano evangelico. La sua morte, la sua elevazione sulla Croce, sarà la prova suprema del suo amore e della sua fedeltà al Padre e agli uomini. Egli morirà crocifisso, elevato su una Croce si siederà su un trono di amore e di là, dall’alto della Croce, epifania della misericordia della santissima Trinità, Gesù riaccenderà l’amore là dove era spento e irradierà misericordia, comunione e bontà dove c’era solo odio, inimicizia, peccato e maledizione. Questo il frutto del seme caduto in terra!
Marco Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): Gesù parlando del «chicco di grano che muore» e del «perdere la propria vita», parla di sé. Il fraseggiare, però, si è fatto parenetico e questo dice che Gesù non perde di vista i suoi discepoli; anzi, li vuole coinvolgere e, parlando di sé nella speranza, descrive anche il loro destino. Gesù sa che senza il sacrificio ogni missione rimane arida. La missione ha lo scopo di chiamare altri alla salvezza, ma suscita contrasti e opposizioni. Solo chi è disposto a perdere la propria vita in questo mondo non rimarrà solo, avrà per sé e per altri la vita eterna. Sono le fondamentali regole di ogni apostolato, di ogni servizio. Come Gesù-Servo si è consegnato quale agnello alla morte, ed è stato glorificato dal Padre, così chi serve e segue fino in fondo Gesù, il Padre lo onorerà. L’ora della glorificazione vale per il discepolo come per Gesù, che d’ora in poi contempleremo nel compimento della sua ora, che materialmente comporta rifiuto, sofferenza, morte. Anche Gesù è uomo e come tale non può non tremare e avere paura. Che fare?
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto: Giovanni Paolo: (Omelia, 8 agosto 1985): Queste parole furono pronunciate dal Signore Gesù mentre pensava alla sua morte. È lui in primo luogo quel “chicco di grano” che “cade in terra e muore” Il Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, fu fatto uomo. Egli entrò nella vita degli uomini e delle donne comuni come il Figlio della Vergine Maria di Nazaret. E infine egli accettò la morte sulla croce come sacrificio per i peccati del mondo. Precisamente in questo modo il chicco di grano muore e produce molto frutto. È il frutto della redenzione del mondo, il frutto della salvezza delle anime, la potenza della verità e dell’amore come principio di vita eterna in Dio. In questo senso la parabola del chicco di grano ci aiuta a capire il vero mistero di Cristo. Nello stesso tempo, il chicco di grano che “cade in terra e muore” diventa la promessa del pane. Un uomo raccoglie dai suoi campi le spighe di grano che sono cresciute dal semplice chicco e, trasformando il grano raccolto in farina, con essa fa il pane che è nutrimento per il suo corpo. In questo modo la parabola di Cristo sul chicco di grano ci aiuta a capire il mistero dell’Eucaristia.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna: Deus caritas est, 6: Come deve essere vissuto l’amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell’Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l’interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d’amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l’amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l’«amore». Dapprima vi è la parola «dodim» - un plurale che esprime l’amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola «ahabà», che nella traduzione greca dell’Antico Testamento è resa col termine di simile suono «agape» che, come abbiamo visto, diventò l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore. In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca. Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività - «solo quest’unica persona» - e nel senso del «per sempre». L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità. Sì, amore è «estasi», ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33), dice Gesù - una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr. Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24; Gv 12,25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana in genere.
Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): Chi ama la propria vita la perde…; le proposizioni sono strutturate in forma antitetica (amare-perdere; odiare-conservare); lo stesso principio che vale per Cristo e spiega la sua vita (versetto precedente), vale anche per i suoi discepoli e per la loro esistenza: bisogna esser disposti a sacrificare tutto nella vita terrena per ottenere la vita eterna.
Chi odia La propria vita ...; iperbole semitica che significa: non amare. Giovanni dà una formulazione incisiva e generale al detto di Cristo, riferito anche dai sinottici (cf. Mt., 10,39; 16,25; Mc., 8,35; 9,24; 17,33); il principio vale per ogni discepolo di Gesù e per ogni tempo.
Chi mi vuol servire mi segua; l’espressione «chi mi vuol servire» designa il discepolo di Cristo, come risulta dai testi paralleli (cf. Mt., 16,24 e paralleli); il servo e il discepolo si equivalgono. «Mi segua è una formula compendiosa che significa: mi deve seguire portando la croce, imitando la mia morte. Dove io sono, là sarà anche il mio servo; Gesù si considera nella sua gloria (cf. 14,3; 17,24); quivi, cioè nella gloria del Padre, egli attende i suoi discepoli (il mio servo). Se qualcuno mi serve, il Padre lo onorerà; il discepolo di Cristo sarà glorificato dal Padre, cioè sarà associato alla gloria di Cristo.
San Lorenzo Martire - La forza del martirio nasce...: Benedetto XVI (Udienza Generale, 11 agosto 2010): Da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo. Se leggiamo le vite dei martiri rimaniamo stupiti per la serenità e il coraggio nell’affrontare la sofferenza e la morte: la potenza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza, nella povertà di chi si affida a Lui e ripone solo in Lui la propria speranza (cfr. 2Cor 12,9). Ma è importante sottolineare che la grazia di Dio non sopprime o soffoca la libertà di chi affronta il martirio, ma al contrario la arricchisce e la esalta: il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio.
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai comunicato l’ardore della tua carità al diacono san Lorenzo e lo hai reso fedele nel ministero e glorioso nel martirio, fa’ che il tuo popolo segua i suoi insegnamenti e lo imiti nell’amore di Cristo e dei fratelli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...