7 Novembre 2025
 
Venerdì XXXI Settimana T. O.
 
Rm 15,14-21; Salmo Responsoriale Dal Salmo 97 (98); Lc 16,1-8
 
Colletta:
Dio onnipotente e misericordioso,
tu solo puoi dare ai tuoi fedeli
il dono di servirti in modo lodevole e degno;
fa’ che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La parabola dell’amministratore disonesto: Benedetto XVI (Omelia, 23 settembre 2007): Nelle passate domeniche, san Luca, l’evangelista che più degli altri si preoccupa di mostrare l’amore che Gesù ha per i poveri, ci ha offerto diversi spunti di riflessione circa i pericoli di un attaccamento eccessivo al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli.
Anche quest’oggi, attraverso una parabola che provoca in noi una certa meraviglia perché si parla di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr. Lc 16,1-13), a ben vedere il Signore ci riserva un serio e quanto mai salutare insegnamento. Come sempre il Signore trae spunto da fatti di cronaca quotidiana: narra di un amministratore che sta sul punto di essere licenziato per disonesta gestione degli affari del suo padrone e, per assicurarsi il futuro, cerca con furbizia di accordarsi con i debitori. È certamente un disonesto, ma astuto: il Vangelo non ce lo presenta come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente scaltrezza.
La breve parabola si conclude infatti con queste parole: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8).
 
I Lettura - Giuliano Vigini (Il Nuovo Testamento): 15,15 Parlando agli etnico-cristiani della comunità di Roma, non fondata da lui, Paolo si scusa di scrivere loro questa lettera, ma se lo fa è per ricordare che egli è stato investito del compito di evangelizzare i pagani (16).
15,16 Nelle chiese paoline non doveva esserci una netta distinzione delle funzioni espletate dai “sacerdoti”, tanto che appare come una delle caratteristiche più singolari delle lettere di Paolo l’assenza di qualunque riferimento ad essi. Qui, però, Paolo, per descrivere la sua missione di servitore del vangelo presso i pagani, fa riferimento al ministero sacerdotale. Non usa infatti né diakonos (come in 2 Cor 11,23; Col 1,7; 1 Tm 4,6) né oikonomos (come in 1 Cor 4,1.2), ma leitourgos (officiante, ministro del culto): si paragona quindi a un sacerdote ebraico che serve nel tempio di Dio. Da questo, però, non bisogna dedurre che Paolo si consideri un sacerdote, diverso dagli altri cristiani, o attribuisca agli apostoli il ruolo sacerdotali intermediari. Egli intende semplicemente dire che la predicazione parola di Dio è un “ufficio sacro”: un atto liturgico a cui tutti ì cristiani sono chiamati, nella loro vita da offrire in sacrificio a Dio (12,1; cfr. 1,9).
15,19 L’Illiria era una provincia romana a nord-ovest della Grecia, sulla costa adriatica orientale, corrispondimi grosso modo al territorio dell’ex Jugoslavia e dell’attuale Albania. Gli Atti menzionano un viaggio di Paolo questa provincia, ed è probabile che non l’abbia effettivamente visitata ma semplicemente indicata, nell’enfasidel passo, come punto lontano dol suo percorso evangelizzatore tra province e regioni. Se così non fosse, le predicazione nell’Illiria potrebbe essere collocata alla fine del terzo viaggio missionario di Paolo, nel momento in cui scrive Rm (cfr. At 20,2).
15,20 Con la precisazione contenuta in questo versetto Paolo vuol assicurare i cristiani di Roma che non intende rimanere in città a costruire dove altri hanno già costruito (cfr. 2 Coi 10,12-18), ma che rientra nondimeno tra i suoi doveri, come apostolo dei gentili, parlare anche a questa chiesa, che è sotto la sua giurisdizione (1,13-15) e che infatti ha appena finito di esortare, ammonire e rimproverare (15,15-16). La venuta di Paolo a Roma è inoltre dettata dal motivo pratico di sollecitare l’aiuto dei romani per il suo annunciato viaggio in Spagna (24).
15,21 Citazione di Is 52,15. Il servo del Signore è innanzitutto Israele, ella aveva il compito di portare la conoscenza di Yhwh alle nazioni e che in vece non ha assolto (capp. 9-11). Al contrario, Paolo, “servo di Cristo Gesù” (1,1), si impegna in questa missione evangelizzatrice per tutto l’impero romano.
 
Vangelo
I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
 
Bibbia per la Formazione Cristiana: L’amministratore scaltro: Questa parabola può sembrare strana, perché sembra presentare come modello un uomo che agisce ingiustamente.
Per non fraintendere il significato del brano dobbiamo ricordare che in una parabola non tutti i particolari del racconto hanno la funzione di insegnarci qualcosa e di fornirci una norma di condotta. Bisogna dunque considerare la parabola nella sua globalità, cercando di vedere che cosa Gesù ha voluto insegnarci attraverso di essa.
Il messaggio della parabola è indicato dal versetto 8. Gesù loda l’accortezza e l’astuzia di un uomo che ha saputo far fronte a una situazione grave e delicata. Ha agito ingiustamente, ma bisogna riconoscere la sua bravura nel togliersi dai guai.
I figli di questo mondo agiscono così per garantirsi il domani e una vita migliore. Gesù chiede ai suoi di imitare la loro accortezza, la loro creatività, non per garantirsi un futuro di benessere materiale ma per lavorare a qualcosa di molto più importante: la costruzione del regno.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 16,1-8
 
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare".
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce».
 
Parola del Signore.
 
 Rendi conto della tua amministrazione - Un uomo ricco aveva un amministratore: la parabola va compresa collocandola nel suo originale contesto palestinese dove l’amministratore, solitamente un servo nato nella famiglia, agendo per conto del suo padrone, usava dei beni a lui affidati con una grande libertà. Come l’esattore delle tasse, il servo amministratore, oltre ad assicurare un profitto per il suo padrone, poteva accumulare ingenti guadagni personali ricorrendo anche all’usura.
Costretto da una delazione a rendere conto dell’amministrazione, il servo, vedendo dinanzi a sé un futuro di fame e stenti, decide di giocare d’astuzia.
L’amministratore disonesto, decurtando notevolmente i debiti ai debitori del padrone, spera di mettere da parte un buon capitale di amicizie. Lo sconto operato è certamente una sostanziosa regalia, ma, come avviene in altre storie evangeliche, tutto è appositamente gonfiato, debiti e sconti, per rendere più chiara la «morale» del racconto.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto: il padrone non può non lodare l’astuzia del servo il quale ha agito con scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o l’accortezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli.
Non vuole essere un giudizio morale: l’imbroglio è imbroglio e non è consentito fare il male perché ne derivi un bene. L’amministratore rimane disonesto e anche imbroglione; la morale della parabola è ben altra: i figli delle tenebre, i mondani, i non credenti, per conseguire i loro obiettivi, spesso malvagi o disonesti, sono capaci di aguzzare l’ingegno mettendo in campo fantasia, capacità intellettive e professionali, denaro, amicizie..., mentre i figli della luce, i credenti, i cristiani, spesso conoscono la sola forza dell’abulia, dell’inerzia.
Nella Chiesa, Corpo di Cristo, chi non opera per la sua crescita secondo la propria capacità e attività deve dirsi inutile per la Chiesa e per se stesso. Da qui l’invito a procurarsi la salvezza mettendo in campo anche la ricchezza disonesta. Disonesta perché spesso è frutto di loschi affari: l’avidità del denaro, «radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), «ha corrotto molti e ha fatto deviare il cuore dei re» (Sir 8,2).
Ricchezza, traduce il greco mammóna che è una parola dall’origine aramaica dall’etimologia incerta. Alcuni studiosi hanno suggerito di collegarla alla radice ebraica ‘mn (da cui proviene il termine amen) che indica fiducia, affidamento; secondo altri è meglio collegata al termine ebraico matmon, che significa tesoro; altri ancora ritengono possa derivare dall’ebraico mun (provvedere il nutrimento). Il significato dei diversi campi semantici converge comunque nel concetto di sicurezza materiale. Se così inteso, il denaro si oppone a Dio: solo lui può dare stabilità all’uomo.
Sembra chiudersi qui l’insegnamento della parabola, ma in verità Gesù vuol tracciare ai discepoli un programma di vita che non può e non deve coincidere con quello dell’amministratore.
L’obiettivo che si pone il fattore infedele è il massimo godimento personale e la sicurezza della propria vita a discapito degli altri. È per questo che il fattore imbroglia il suo padrone. Disonesto e astuto, l’unico suo fine è quello di godersi le cose di questo mondo e, per farlo, non gli importa se gli altri vengono defraudati dei loro diritti. E Gesù qui è lapidario: i figli di questo mondo sono molto ingegnosi per raggiungere questo obiettivo e se è necessario anche calpestando e sfruttando gli altri!
E questo inequivocabilmente è disonesto e immorale, anche per una “morale laica”!
L’obiettivo che invece si deve porre il discepolo di Cristo deve andare per un’altra direzione, esattamente all’opposto di quello del fattore infedele.
Morto al peccato e risorto con Cristo, il discepolo, cerca le cose di lassù (Cf. Col 3,1) e suo obiettivo primario sono le gioie che si possono avere alla presenza di Dio (Cf. Sal 16,11), compiacendolo in ogni cosa e servendolo con amore di figlio. Per lui «il vivere è Cristo» e «il morire un guadagno» (Cf. Fil 1,21). Egli anela ad essere un giorno per sempre con Cristo (Cf. Fil 1,23), nella «casa del Padre» (Gv 14,1-3). Egli desidera «una patria» migliore, quella celeste (Cf. Eb 11,13-16). In questa ottica, per il credente, le cose di questo mondo, per quanto importanti, sono del tutto secondarie, anzi, le pone al servizio di Dio e della sua causa!
 
Basilio Caballero: Per vivere come figli della luce - Noi purtroppo oscilliamo tra la luce e le tenebre, tra Dio e il denaro. Con troppa frequenza cediamo alla comodità e all’astensionismo, alla disillusione e alla «stanchezza dei buoni », come disse il papa Pio XII. Ci accontentiamo di lamentarci e vogliamo che i problemi vengano risolti senza il nostro sacrificio personale. Tuttavia, la nostra missione è testimoniare che si può servire Dio, e non i nostri meschini interessi, usando i beni materiali senza perdere quelli eterni e facendo diventare realtà il regno di Dio nelle occupazioni e nel lavoro, nell’amore e nella famiglia, nella convivenza civica e nella vita di ogni giorno.
Malgrado la sua sagacia, l’amministratore in fedele seppe trovare una soluzione solo per il suo futuro immediato e assicurarsi un avvenire caduco. Il cristiano deve saper amministrare meglio i beni perituri di questa vita, guadagnandosi amici per quella eterna. Pei vivere come figli della luce, come figli di Dio, dobbiamo essere fratelli degli altri; qualcosa di impossibile per chi vive al servizio del denaro, escludendo gli altri.
L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i maòi, dice san Paolo (1Trn 6,10). Da qui scaturiscono lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, la povertà, l’incultura e il sottosviluppo di alcuni di fronte allo sperpero e all’opulenza di altri, come pure le rivalità, gi odi e le guerre tra tutti. Che fare per usare in modo assennato e sicuro un materiale tanto esplosivo come il denaro? Rinunciarci e diventare poveri in canna pei amore di «sorella povertà», come san Francesco d’Assisi? Incrociare le braccia e abbandonarci indolentemente alla provvidenza di Dio?
Oggi Gesù ci indica un’altra strada: investire il denaro e i beni che abbiamo, pochi o molti, nei fratelli, specialmente nei più poveri, depositando i nostri averi nella banca dell’amore e non in quella dell’egoismo, perché solo la prima li fa fruttare per la vita eterna. Se non convertiamo il nostro cuore ai criteri di Gesù sul denaro, i beni e la ricchezza, rinunciamo a essere cristiani. Non ne siamo degni, anche se fingiamo di condurre una vita pia e osservante del culto.
 
L’amministratore infedele - Ambrogio, In Luc., 7, 246-248: “Se non siete stati fedeli nei beni che vi sono estranei, chi vi darà ciò che è vostro?” (Lc 16,12). Le ricchezze ci sono estranee, perché esse sono fuori della nostra natura: non nascono con noi, né trapassano con noi. Cristo, invece, è nostro, perché è la vita. “Così egli venne nella sua casa, e i suoi non lo ricevettero” (Gv 1,11). Ebbene, nessuno vi darà ciò che è vostro, perché voi non avete creduto a ciò che è vostro, non l’avete ricevuto.
Cerchiamo dunque di non essere schiavi dei beni che ci sono estranei, dato che non dobbiamo conoscere altro Signore che Cristo; “infatti uno è Dio Padre, da cui tutto deriva e in cui noi siamo, e uno è il Signore Gesù, per cui mezzo tutte le cose sono” (1Cor 8,6).
Ma allora? Il Padre non è Signore e il Figlio non è Dio? Certo, il Padre è anche il Signore, perché “per mezzo della Parola del Signore i cieli sono stati creati” (Sal 32,6). E il Figlio è anche Dio, “che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,5).
In qual modo allora, nessuno «può servire a due padroni»? È perché non c’è che un solo Signore, dato che non c’è che un solo Dio.
 
Il Santo del Giorno - 7 Novembre 2025 - Sant’Ernesto di Zwiefalten: Nel 1140 era abate del monastero fondato a Zwiefalten (Wùrttemberg) nel 1089 dai conti Kuno e Liutold von Achalm, ma nel 1146 diede le dimissioni e si unì all’esercito crociato del re Corrado III. Sulla sua attività come abate si sa poco, meno ancora sulla sua fine. Secondo la leggenda cadde nelle mani dei Saraceni e fu crudelmente martirizzato; viene venerato, infatti, nel suo monastero di Zwiefalten come santo martire. La sua festa è celebrata il 7 novembre. Talvolta fu confuso con l’omonimo prevosto di Neresheim, il quale prese parte alla prima crociata.
Nella chiesa abbaziale di Zwiefalten si conserva sull’altare di S. Stefano una statua di Ernesto, raffigurato anche in due pitture. (Autore: Rudolf Henggeler)
 
La partecipazione ai santi misteri, o Signore,
ci comunichi lo spirito di fortezza
che rese san Carlo fedele nel ministero
e ardente nella carità verso i fratelli.
Per Cristo nostro Signore.