5 Novembre 2025
 
Mercoledì XXXI Settimana T. O.
 
 Rm 13,8-10; Sal 111 (112); Lc  14,25-33
 
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
tu solo puoi dare ai tuoi fedeli
il dono di servirti in modo lodevole e degno;
fa’ che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Omelia 14 Settembre 2021): Dal contemplare il Crocifisso scaturisce [...] il testimoniare. Se si immerge lo sguardo in Gesù, il suo volto comincia a riflettersi sul nostro: i suoi lineamenti diventano i nostri, l’amore di Cristo ci conquista e ci trasforma. Penso ai martiri, che hanno testimoniato in questa nazione l’amore di Cristo in tempi molto difficili, quando tutto consigliava di tacere, di mettersi al riparo, di non professare la fede. Ma non potevano, non potevano non testimoniare. Quante persone generose hanno patito e sono morte qui in Slovacchia a causa del nome di Gesù! Una testimonianza compiuta per amore di Colui che avevano lungamente contemplato. Tanto da somigliargli, anche nella morte.
Ma penso anche ai nostri tempi, in cui non mancano occasioni per testimoniare. Qui, grazie a Dio, non c’è chi perseguita i cristiani come in troppe altre parti del mondo. Ma la testimonianza può essere inficiata dalla mondanità e dalla mediocrità. La croce esige invece una testimonianza limpida. Perché la croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto.
 
I Lettura - La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità - Lumen gentium 42: «Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
 
Vangelo
Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
 
La folla fa corona a Gesù per ascoltare il suo insegnamento e Gesù ne approfitta per tracciare l’identikit del vero discepolo. Innanzitutto mettere Dio al primo posto, al di sopra anche degli affetti familiari, poi condividere la passione di Cristo, imparando a portare la sua croce. Un test impegnativo per cui occorre una attenta riflessione che metta bene in evidenza le vere capacità di chi vuole mettersi alla sequela di Gesù.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 14,25-33
 
 In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 
Parola del Signore.
 
 
Chi non porta la propria croce... - L’entusiasmo della folla non si affievolisce, e il seguito che accompagna il giovane Maestro si ingrossa come un fiume in piena: Gesù è in viaggio verso la Città santa ed è accompagnato da una «folla numerosa».
Potrebbe fare piacere a chiunque questo consenso popolare, ma non al Cristo il quale ha sempre evitato certe manifestazioni di piazza. Inoltre, ha sempre dettato, senza infingimenti, norme ed esigenze per porsi alla sua sequela (Cf. Lc 9,57-62).
Ora, rivolgendosi alla «folla numerosa» che andava con lui, Gesù pone come condicio sine qua non il distacco dagli affetti e dai legami parentali, l’obbligo di seguirlo per l’irta salita del Calvario e la rinunzia ai beni.
Quindi, per essere veramente annoverati tra le fila dei suoi discepoli, è necessario compiere la scelta radicale di anteporre lui ad ogni persona o cosa, preferendolo anche ai familiari e alle persone più care.
Un enorme sacrificio se pensiamo che ai tempi di Gesù il cardine di ogni relazione o convi­venza sociale poggiava sull’istituzione della famiglia e del clan, una sorta di famiglia allargata.
Se uno... non mi ama più di quanto ami suo padre... Gesù esplicita in questo modo una gerarchia di valori, Dio viene al primo posto gli uomini al secondo.
Gesù non domanda disinteresse o indiferenza verso i propri cari, ma il distacco completo e immediato (Cf. Lc 9,57-62) e non intende infran­gere la Legge di Dio (il quarto comandamento), ma vuole orientare l’uomo a scegliere i veri valori che contano, in questo caso il vero valore che conta è Dio. Ad una scelta orizzontale, parenti, genitori, figli, Gesù impone al discepolo una scelta verticale: gli affetti familiari praticamente devono essere gradini che devono slanciare l’uomo verso Dio.
La seconda condizione è portare la croce. Di lì a poco, Gesù, dalle parole sarebbe passato ai fatti sfilando per le vie di Gerusalemme gravato dal peso insopportabile della croce sulla quale sarebbe morto svenato per la salvezza di tutti gli uomini.
Il verbo «portare» (bastazo) significa portare qualcosa di molto pesante, che opprime. Il verbo (attivo indicativo presente) descrive un’azione che si sta svolgendo ora, in questo momento, con tendenza a durare verso un immediato futuro.
La croce è quella di Gesù senza orpelli aggiuntivi, senza interpretazioni metaforiche.
È il ruvido legno con annessi e connessi: persecu­zioni, ingiurie, torture, delazioni, calunnie, odio gratuito... «quegli avvenimenti voluti o permessi da Dio, che ci fanno violenza, ci umiliano, ci causano dolore e pena e ci mettono alla prova in diverse maniere. Portare la croce significherà quindi entrare nelle intenzioni di Dio, che vede in questi avvenimenti degli strumenti della nostra salvezza; accettare o ricercare queste contrarietà come mezzi per far progredire il regno di Dio in noi e intorno a noi. Perché la croce sia meritoria per il Regno dei cieli deve essere accettata per amore di Dio; per volere seguire Cristo, bisogna volere tutto ciò che esige il suo amore» (Emilio Spinghetti).
Tanto richiede la vita cristiana: all’adorazione e all’amore è necessario aggiungere la riparazione e il patire. Quest’ultimo accettato volontariamente come stile di vita e non con entusiasmo effimero, con slancio di un’ora o di una settimana, ma «ogni giorno», senza sconti, senza respiro, senza riposo, fino alla fine: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Chi vuol farsi compagno di Cristo, il patire è il distintivo irrinunciabile di questa scelta.
Con le due parabole, del costruttore e del re che muove guerra, Gesù vuole suggerire come la sequela cristiana comporti cautela, maturazione, serietà, propositi fermi. La scelta cristiana «non è cosa da poco, che si può fare a cuor leggero, con superficialità, senza soppesare la gravità dell’impegno che ci si assume. Pur ammettendo una gradualità, l’essere cristiano non è un distintivo o un diploma honoris causa, ma una decisione di volere mettere le proprie capacità, i propri talenti, il proprio tempo a disposizione di tutti prima che di se stessi, persino i propri averi» (Ortensio Da Spinetoli).
Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi... Quello di Gesù non è un pauperismo a buon mercato o di bassa lega: la ricchezza è un pericolo mortale (Cf. 1Tm 6,10) e chi ha voluto giocare con essa ha riportato a casa le ossa rotte. Possono esserci delle eccezioni, avere delle ricchezze e non attaccarsi ad esse, ma sono solo eccezioni: è più facile che un cammello passi per una cruna d’ago che un ricco entri nel regno dei cieli (Cf. Lc 18,25).
 
Catechismo degli Adulti [817] «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Il discepolo di Gesù deve assumere il suo atteggiamento filiale di obbedienza al Padre e al divino disegno di salvezza, che lo ha condotto alla croce e alla risurrezione. «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Camminare dietro a Cristo significa camminare nella carità, avere i suoi medesimi sentimenti, amare come egli ha amato, fino a dare la vita per i fratelli: «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli... Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1Gv 3,1618).
Ma è impossibile amare come Cristo ha amato, se egli stesso non ama in noi; è impossibile andargli dietro, se egli stesso non viene a vivere dentro di noi. Ebbene, comunicandoci lo Spirito Santo, egli entra nella nostra esistenza e la vive con noi, sì che ogni cristiano può dire come Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Egli perciò non rimane un modello esteriore; anzi, viene interiorizzato in virtù dello Spirito.
 
 Amore di Dio prima dell’inclinazione naturale - «Dice Gesù: “In verità vi dico: non c’è nessuno che avrà abbandonato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi per me e per il Vangelo, che non riceva il centuplo” [Mc 10,29]. E non vi turbino queste parole né quanto, con accenti ancor più duri, è scritto altrove: “Chi non odia suo padre e sua madre ed i suoi figli, persino anzi la sua stessa vita, non potrà divenire un mio seguace” [Lc 14,26]. Non ci turbino giacché il Dio della pace, colui che ingiunge di amare anche i propri nemici, non ci invita certo all’odio ed alla separazione dalle persone a noi più care. In realtà, se occorre amare i propri nemici, risulta chiaro che, risalendo da essi, è necessario amare anche coloro che ci sono più prossimi per vincoli di sangue. Se, al contrario, occorre nutrire odio nei confronti di coloro che ci sono vicini per legami di parentela, il ragionamento che ne consegue, in tal caso, insegnerebbe a respingere ancor di più i propri nemici. Cosicché i due discorsi si confuterebbero a vicenda. Essi, invece, non si confutano affatto, giacché con lo stesso stato d’animo e la stessa disposizione e la stessa limitazione nutrirebbe odio verso il padre ed amore nei confronti del nemico chi non si vendicasse del nemico e non onorasse il padre più di Cristo. Infatti, con il primo discorso [in cui vien detto di amare il proprio nemico], Cristo vieta di odiarlo e di fargli del male nel secondo, invece [in cui si dice di odiare il proprio padre], egli raccomanda di guardarsi da quel falso rispetto nei confronti dei propri cari allorché questi si mostrino d’impedimento alla salvezza. Nel caso in cui, perciò, qualcuno avesse un padre od un figlio od un fratello empio e d’ostacolo per la propria fede e d’impedimento nella prospettiva della vita celeste, non rimanga unito a lui né condivida i suoi pensieri, ma, a motivo dell’inimicizia dello spirito, sciolga pure la parentela della carne.» (Clemente d’Alessandria).
 
Il Santo del Giorno - 5 Novembre 2025 - Beato Gregorio Lakota. Vescovo e martire dell’ideologia sovietica martiri dei totalitarismi del XX secolo sono testimoni la cui voce ancora oggi ci mette in guardia dal pericolo delle ideologie, dal rischio che comporta cioè il trasformare un’idea in una legge universale. Tra questi vi è anche il beato Gregorio Lakota, vittima del regime comunista sovietico in un gulag siberiano. Nato il 31 gennaio1883 a Holodivka, un villaggio che si trova nella regione ucraina di Lemko, si formò a Lviv e venne consacrato sacerdote nel 1908 a Przemysl, città polacca. Tre anni dopo a Vienna conseguì il dottorato in teologia, per diventare più tardi prima insegnante e poi rettore del Seminario greco-cattolico di Przemysl. Il 16 maggio 1926 fu ordinato vescovo e divenne ausiliare di Przemysl degli Ucraini, comunità che accompagnò per 20 anni. Fu arrestato il 9 giugno 1946 e spedito in Siberia, dove morì martire nel 1950 nella città di Abez.
 
Rafforza in noi, o Signore, la tua opera di salvezza,
perché i sacramenti che ci nutrono in questa vita
ci preparino a ricevere i beni che promettono.
Per Cristo nostro Signore.