17 Novembre 2025
LUNEDÌ DELLA XXXIII SETTIMANA T. O.
1Mac 1,10-15.41-43.54-57.62-64; Salmo Responsoriale Dal Salmo 118 (119); Lc 18,35-43
Colletta
O Dio, che a santa Elisabetta hai dato la grazia
di riconoscere e onorare Cristo nei poveri,
concedi a noi, per sua intercessione,
di servire con instancabile carità
coloro che si trovano nella sofferenza e nel bisogno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
Il dono della vista: Giovanni Paolo II (Insegnamenti, 5 maggio 1986): ... il dono della vista è per l’uomo uno dei beni più preziosi. Gli permette di contemplare direttamente le bellezze della natura e di comunicare con le persone la cui anima si riflette sul viso e nello sguardo. Facilita, per mezzo della lettura, la partecipazione alla cultura che si esprime in gran parte nei libri e negli scritti di ogni specie, come anche i mezzi audiovisivi sempre più diffusi. Fornisce più ampi spazi all’autonomia personale e favorisce un inserimento normale nella vita della famiglia professionale e sociale. Come negli altri campi della salute coloro che non hanno problemi di vista non si rendono sufficientemente conto di questo dono inaudito. Si comprende la sofferenza di coloro che sono danneggiati e minacciati in un organo così importante, il loro desiderio di trovare rimedio, una protezione, la speranza con la quale si rivolgono a coloro che possono dar loro un aiuto, un sollievo: la gioia e la riconoscenza con le quali accolgono i benefici che la scienza e la vostra arte sono in grado di offrire loro. E voi capite meglio degli altri la richiesta di coloro che temono una diminuzione o la perdita della possibilità di vedere, o che ne soffrono già; voi siete invitati a condividere la loro angoscia e le loro speranze. Questa situazione vi avvicina a quella che Cristo ha vissuto e sentito sulle strade della Palestina dove i ciechi erano numerosi. A volte ha udito il loro grido pieno di fiducia, come quello del cieco di Gerico: “Signore, fa’ che io riabbia la vista” (Lc 18,41). E Gesù si è fermato davanti a questo sconforto dandogli la guarigione con il potere che Dio Padre gli aveva dato come Figlio unico. Gesù ha chiesto agli uomini di fermarsi così davanti allo sconforto del prossimo o piuttosto di farsi prossimo attento ed efficace. È il senso della parabola del buon samaritano: a differenza del prete e del levita egli vede in tutta la verità l’uomo che giace ferito, solo, abbandonato sul ciglio della strada (cfr. Lc 10,30-37); riconoscendolo come un uomo nel bisogno, lo cura con tutti i poveri mezzi a sua disposizione, gli permette di riprendere una vita normale. E nel giorno del giudizio, Cristo riconoscerà come suoi discepoli coloro che avranno saputo accogliere e soccorrere i loro fratelli nel bisogno, specialmente i loro fratelli ammalati (cfr. Mt 24,36).
Prima Lettura: Antioco Epifane su tutte le città da lui conquistate aveva imposto una durissima ellenizzazione pagana. Anche sul popolo d’Israele gravava questo doloroso giogo. Ma su Israele a differenza di tutti gli altri popoli incombeva il minaccioso pericolo della apostasia. Già ne se ne vedevano i prodromi: culti pagani, profanazione del sabato, unioni matrimoniali con pagani, distruzione dei libri sacri, fino all’omaggio al dio Giove: “l’abominio di devastazione” eretto dal re Antioco nel cuore del tempio di Gerusalemme. La situazione era drammatica, e allo stesso tempo disperata: “Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vicenda per non mangiare cibi impuri e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza, e per questo appunto morirono”.
Vangelo
Che cosa vuoi che io faccia per te? Signore, che io veda di nuovo!
Gerico è una città della Cisgiordania, posta in prossimità del fiume Giordano. Considerata la più antica città fortificata al mondo, Gerico evoca lutti, guerre e prodigi operati da Dio per la sua conquista. Basti pensare alla sua espugnazione miracolosa da parte di Giosuè quando Israele, dopo l’uscita «a mano alzata dall’Egitto» (Es 14,8), incominciò a conquistare la terra promessa (cf. Gs 6,1-16).
Il miracolo della guarigione del cieco di Gerico è raccontato anche da Matteo, ma ad essere guariti sono due cechi (Mt 20,19-34), e poi lo si trova nel vangelo di Marco, e qui il cieco viene chiamato Bartimeo, figlio di Timeo (10,46-52). La guarigione del cieco sulla strada di Gerico segna anche una svolta: Gesù non cerca più di mantenere il segreto della sua identità. Accetta di essere chiamato Figlio di Davide e in seguito all’ingresso in Gerusalemme si designerà apertamente come il Messia. La sequela del cieco diventa il prototipo di ogni discepolato: solo la luce della grazia riesce a far sentire all’uomo la presenza di Gesù. Solo il Dio salvatore dell’uomo e la grazia muovono l’uomo a invocare l’intervento liberatore di Dio, l’uomo, a tanta condiscendenza divina, può rispondere all’amore salvifico di Dio solo con la fede.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,35-43
Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!».
Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista!
La tua fede ti ha salvato».
Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
Parola del Signore.
Dell’uomo che mendicava non sappiamo se era cieco dalla nascita, ma il fatto che l’evangelista Marco ne fornisca il nome potrebbe significare che probabilmente era conosciuto nell’ambiente della primitiva comunità cristiana.
Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! Il titolo Figlio di Davide è un titolo messianico, ma non è facile intuire che eco avesse sulla bocca e nel cuore dell’uomo cieco. In ogni caso, il grido dell’uomo cieco era un appello di aiuto. Essere guariti dalla cecità non stava a significare soltanto la liberazione dalla schiavitù della mendicità, ma un reale ritorno alla vita assaporandone tutti i colori. I soliti tetragoni tutori dell’ordine cercano di farlo tacere, ma il cieco consapevole della posta in gioco non si fa intimorire ed alza la voce gridando più forte. Gesù si ferma e ordina in modo perentorio di chiamarlo. Solo ora i guardiani dell’ordine, all’imprevisto annuncio messianico di un cieco, comprendono la vera identità di Gesù e sulle loro labbra finalmente fiorisce una parola di speranza: «Coraggio! Alzati, ti chiama».
Gesù prende l’iniziativa anche se è scontata la richiesta. Il miracolo è subitaneo. È da notare che Gesù non chiede la fede, ma ne sottolinea il possesso da parte dell’uomo cieco: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Quello che sfugge ai più, non sfugge al Figlio di Dio. Sa scovare in quella richiesta tutta la fede necessaria per ottenere il dono della vista.
D’altronde Gesù dal Padre è stato mandato nel mondo «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il racconto si conclude sottolineando le manifestazioni di gioia da parte del miracolato (cf. At 3,8) e lo stupore della folla: Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.
La nota, cominciò a seguirlo sta a indicare che in atto un cammino di conversione. Gesù è la Luce del mondo (cf. Gv 8,12) ed è venuto per dare la vista ai ciechi (cf. Gv 9,39), ma è anche la Via (cf. Gv 14,6) che conduce a salvezza. Così qui viene proposto quell’interiore cammino che ogni uomo deve compiere per porsi alla sequela di Gesù Nazareno: pentirsi dei propri peccati, farsi illuminare da Cristo (immergersi nelle acque salutari del Battesimo), prendere ogni giorno sulle spalle la croce del Maestro e seguirlo (cf. Lc 9,23).
È la proposta che risuonerà nella città di Gerusalemme il mattino di Pentecoste: all’udire la predicazione degli Undici molti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,37-38).
Subito ci vide di nuovo … - Silvano Fausti (Una comunità legge il Vangelo di Luca): Il cieco viene guarito per vedere il Volto. Dalla trasfigurazione in poi è il tema dominante di tutto il Vangelo che culmina nella visione (= theoria: 23,48) del Crocifisso offerta a tutti. Questa è la salvezza dell’uomo, che torna a essere se stesso, riflesso di quella Gloria di cui è immagine e somiglianza. Dove giunge la luce, figlia primigenia di Dio, cessa il caos e inizia il mondo nuovo. Il centro di questo brano è il nome di Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), la cui invocazione mette in comunione con lui. Vedere lui è il dono della «sublimità della conoscenza» del Maestro buono come l’unico buono. Ciò rende possibile l’impossibile: trasforma il notabile ricco in Zaccheo, vero figlio di Abramo, che ospita la benedizione promessa.
Il cieco chiama Gesù per none. Chiamare per nome significa avere un rapporto personale di conoscenza e di amore, da amico ad amico. È quanto avviene nel battesimo, che ci unisce a lui. Chiamando lui per nome, abbiamo il nostro vero nome di creature nuove. In lui la nostra miseria trova il volto di Dio che è misericordia di Padre verso il Figliò. Accogliamo così la rivelazione del Nome.
Un cieco non può scorgere neanche il lampo di una folgore. Come può l’uomo vedere la Gloria nell’umiliazione del Figlio dell’uomo, compimento delle Scritture?
I nostri occhi, tre volte ciechi davanti ad essa (v. 34), devono essere guariti. La cecità è l’estremo rifugio del peccato come fuga da Dio. Il bimbo chiude gli occhi e crede di non essere visto! È vero che cessa di vedere, ma non di essere visto. Colui che ha creato la luce, che anzi è la Luce, ora apre l’occhio perché possa contemplarla. Il battesimo ci dà un’illuminazione reale su Dio, che rimane però nel centro del cuore, come un fuoco sepolto sotto la cenere della menzogna antica. Viene ravvivato dallo Spirito, mediante il ricordo costante della Parola, la liturgia e la preghiera del Nome.
La medicina ai tempi di Gesù - Ralph Gower (Usi e Costumi dei tempi della Bibbia): Ai tempi di Gesù vi era un atteggiamento incerto nei confronti della medicina. Marco 1,32-34 sembra indicare che la malattia costituiva un grosso problema. Le malattie includevano la lebbra, affezioni derivanti da abitudini alimentari e dall’inquinamento (dissenteria, colera, tifo, beri-beri, idropisia), cecità (per il clima polveroso), sordità e malattie della deambulazione. Se ne trovano accenni in 2 Samuele 12,15; 1 Re 17,17; 2 Re 4,20; 5,1-14; Daniele 4,30. Quando venivano a trovarsi davanti a uno di questi casi, gli Ebrei erano ancora piuttosto dubbiosi nei confronti dei medici.
Essi credevano che tra malattia e peccato vi fosse una connessione (Giovanni 9,2) e citavano proverbi come «Medico, cura te stesso» (Luca 4,23). Tuttavia si voleva che ogni città avesse il suo medico (perciò la donna che soffriva di perdite di sangue era stata in grado di consultarne diversi, Marco 5,26) e nel tempio vi era sempre un medico che si prendeva cura dei sacerdoti che soffrivano di malattie derivate dall’abitudine di camminare a piedi nudi. Forse Marco non aveva una grande opinione dei medici.
L’atteggiamento di Gesù non contraddiceva l’Antico Testamento. Pare che considerasse la malattia come il risultato dell’azione malvagia di Satana nel mondo e che in quanto tale doveva essere combattuta. Tuttavia Gesù non credeva che la malattia fosse necessariamente la conseguenza di un peccato singolo. Ciò è chiaro in Giovanni 9,2-4a, se evidenziamo la frase: «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”».
Gesù accettava l’opinione che certe malattie fossero il risultato del possesso da parte di spiriti e in questi casi agiva in conseguenza (es. Matteo 12,27), ma non trattò con questo metodo tutte le malattie. Questo suo atteggiamento nei confronti delle indisposizioni accelerò nella Chiesa primitiva l’accettazione dei medici da parte dei cristiani. Luca, in quanto medico, fu compagno di viaggio dell’apostolo Paolo (Colossesi 4,14). Ovviamente era un medico greco, poiché in Grecia la medicina aveva avuto uno sviluppo considerevole. Seguendo gli insegnamenti di Ippocrate, i medici giuravano che la vita del paziente veniva prima di ogni altra cosa, che non avrebbero mai approfittato delle donne, mai procurato aborti né mai rivelato informazioni confidenziali. Ad Alessandria vi era una grande scuola di medicina.
Ben pochi Ebrei quindi erano orientati a divenire medici; tuttavia, nonostante le molte diffidenze, erano contenti di utilizzare i servizi dei medici.
Cristo è l’autentica luce del mondo: «Cristo è dunque “la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” [Gv 1,9], e la Chiesa, illuminata dalla sua luce, diventa essa stessa “luce del mondo”, che illumina “coloro che sono nelle tenebre” [Rm 2,19], come Cristo stesso attesta quando dice ai suoi discepoli: “Voi siete la luce del mondo” [Mt 5,14]. Di qui deriva che Cristo è la luce degli apostoli, e gli apostoli, a loro volta, sono la luce del mondo... E come il sole e la luna illuminano i nostri corpi, così da Cristo e dalla Chiesa sono illuminate le nostre menti. Quantomeno, le illuminano se noi non siamo dei ciechi spirituali. Infatti, come il sole e la luna non cessano di diffondere la loro luce sui ciechi corporali che però non possono accogliere la luce, così Cristo elargisce la sua luce alle nostre menti, epperò non ci illuminerà di fatto che se non vi si oppone la cecità del nostro spirito. In tal caso, occorre anzitutto che coloro che sono ciechi seguano Cristo dicendo e gridando: “Figlio di David, abbi pietà di noi” [Mt 9,27], affinché, dopo aver ottenuto da Cristo stesso la vista, possano successivamente essere del pari irradiati dallo splendore della sua luce.» (Origene, Hom. in Genesim, 1, 6-7).
Il Santo del Giorno - 17 Novembre 2025 - Sant’Elisabetta d’Ungheria. Sovrana dal cuore aperto a Dio, madre per i poveri e per i bisognosi: È ciò che portiamo nel cuore a qualificarci: se sappiamo aprirlo all’amore di Dio saremo testimoni dell’infinito nella storia, in qualsiasi angolo di mondo viviamo, qualsiasi posizione ci troviamo a occupare. Perché alla fine regine, governanti o semplici “popolani”, tutti possiamo essere costruttori dell’unico regno che conta, quello di Dio. Così fu per santa Elisabetta di Ungheria, la sovrana di Turingia che fece della propria posizione un’occasione per prendersi cura dei bisognosi. Nata nel 1207 a Sárospatak, figlia del re Andrea II d’Ungheria e della regina Gertrude, fu data in sposa nel 1221, giovanissima, all’erede del trono di Turingia, Ludovico IV. Nel 1222 nacque il loro primo figlio, Ermanno, seguito da Sofia nel 1224 e, nel 1227, Gertrude, che però viene alla luce quando il padre era già morto a causa di una malattia a Otranto, sulla via verso la Terrasanta durante la sesta crociata. A quel punto Elisabetta, che avrebbe potuto risposarsi, decise di ritirarsi prima ad Eisenach e poi nel castello di Pottenstein. Seguendo lo spirito francescano donò le proprie ricchezze, con le quali si costruì un ospedale, e infine elesse a dimora una modesta casa di Marburgo, inimicandosi così i parenti che la privarono dei figli. In questo clima di ostilità Elisabetta portò avanti il progetto di una vita offerta a Dio e ai poveri: fece costruire un ospedale ed entrò nel Terz’ordine francescano. Visse da mendicante fino alla morte nel 1231: quattro anni dopo fu proclamata santa. (Matteo Liut)
Saziati, o Signore,
dalla dolcezza del sacramento della nostra redenzione,
supplichiamo la tua misericordia:
fa’ che, imitando la carità di santa Elisabetta,
diventiamo partecipi anche della sua gloria.
Per Cristo nostro Signore.