12 Novembre 2025
 
San Giosafat, Vescovo e Martire
 
Sap 6,1-11; Salmo Responsoriale Dal Salmo 81 (82); Lc 17,7-10
 
Colletta
Suscita nella tua Chiesa, o Signore,
lo Spirito che colmò san Giosafat
e lo spinse a dare la vita per il suo gregge,
e per sua intercessione fa’ che anche noi,
fortificati dallo stesso Spirito,
non esitiamo a donare la vita per i fratelli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Sotto la guida e col patrocinio di san Giosafat, “veneriamo con culto speciale il Sacramento dell’Eucaristia, pegno e causa principale dell’unità, quel mistero della fede per la quale quegli Slavi Orientali, che nella separazione dalla Chiesa Romana conservarono gelosamente l’amore e lo zelo, riuscirono ad evitare l’empietà delle peggiori eresie. Da qui è lecito sperare il frutto che la santa madre Chiesa domanda con pia fiducia nella celebrazione di questi augusti misteri, cioè che «Iddio conceda propizio i doni dell’unità e della pace, che misticamente vengono simboleggiati nelle oblazioni fatte all’Altare». E questa grazia unitamente implorano nel santo Sacrificio della Messa i Latini e gli Orientali: questi «pregando il Signore per l’unità di tutti», quelli col supplicare lo stesso Cristo Signor nostro che «riguardando alla fede della sua Chiesa, si degni di pacificarla e unificarla secondo la sua volontà».
Un altro vincolo di reintegrazione dell’unità con gli Slavi Orientali sta nella loro devozione singolare verso la gran Vergine Madre di Dio, in forza della quale molti si allontanano dall’eresia e si avvicinano maggiormente a noi. E in questa devozione, nella quale si segnalava assai, il nostro Santo altrettanto confidava moltissimo per favorire l’opera dell’unità: onde soleva con particolare venerazione onorare, all’usanza degli Orientali, una piccola icona della Vergine Madre di Dio, la quale dai Monaci Basiliani e dai fedeli di qualsiasi rito, anche in Roma nella chiesa dei santi Sergio e Bacco, è molto venerata con il titolo di «Regina dei pascoli». Lei, dunque, invochiamo, quale benignissima Madre, con questo titolo specialmente, perché guidi i fratelli dissidenti ai pascoli della salute, dove Pietro, sempre vivente nei suoi successori, come Vicario dell’eterno Pastore, pasce e governa tutti gli agnelli e tutte le pecorelle del gregge di Cristo.
Infine, ai Santi tutti del Cielo ricorriamo come a nostri intercessori per una grazia così grande, a quelli soprattutto che presso gli Orientali maggiormente fiorirono un tempo per fama di santità e di sapienza, e fioriscono tuttora per venerazione e culto dei popoli. Ma primo fra tutti invochiamo a patrono San Giosafat, perché, come fu in vita fortissimo propugnatore dell’unità, così ora presso Dio la promuova e vigorosamente la sostenga. E così Noi lo preghiamo le supplichevoli parole del Nostro antecessore di immortale memoria, Pio IX: «Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo»” (Ecclesiam Dei).
 
Prima Lettura - Antonio González-Lamadrid: Un giudizio implacabile attende coloro che governano - Con una finzione letteraria, l'autore mette il suo libro in bocca a Salomone, specialmente nella sua seconda parte (cc. 6-9).
Maestro sotto molti aspetti, egli si rivela tale anche nel momento di scegliere le transizioni fra le varie parti della sua opera. Questa seconda parte (cc. 6,9) è già annunziata dal finale della precedente: «L'iniquità renderà deserta tutta la terra e la malvagità rovescerà i troni dei potenti» (5,23). In altre parole, se coloro che guidano le sorti dei popoli intendono tenere in piedi i loro troni, è necessario che prendano distanze dal male, si diano alla ricerca della sapienza e si rendano consapevoli delle loro responsabilità. Salomone, re di Gerusalemme, si rivolge ai suoi colleghi di tutto il mondo.
Il potere viene da Dio. È un insegnamento costante in tutto il corso della Bibbia. Yahveh non è solo Signore del suo popolo, ma di tutti i popoli della terra. I capi dei popoli sono strumenti nelle mani di Dio. Da Lui hanno ricevuto il potere (1Cron 29,12; Pr 8,15-16; Dn 2,21.37), molti autori del NT difendono la stessa tesi (Gv 19,11; Rm 13,1).
Già sappiamo che la parola di Dio è giunta fino a noi attraverso le parole degli uomini, cioè che è una parola incarnata, e quindi soggetta ai condizionamenti dello spazio, del tempo, del luogo e della cultura. Al momento d'interpretare la Bibbia conviene tener conto di questi condizionamenti per saper distinguere quello che è congiunturale da quello che ha un valore e un vigore permanente. Quando leggiamo i primi capitoli della Genesi distinguiamo fra quello che è insegnamento religioso e quello che appartiene al contesto culturale in cui si inserisce. L'insegnamento religioso è valido per tutti i tempi. La cornice culturale è figlia del tempo, cambia col tempo e non appartiene all'insegnamento. Come è cambiato il concetto cosmogonico, cosmologico e geologico del mondo, così è cambiato il concetto politico e sociale dell'umanità. Quindi, non sarebbe lecito continuare a imporre alle donne l'obbligo del velo (1Cor 11,7-16) e del silenzio nella chiesa (1Cor 14,34-35) in nome della Scrittura, come non è più lecito continuare a consigliare la schiavitù (1Cor 7,21-22) o sostenere che i dirigenti della società civile ricevono il potere da Dio.
Quello che resta sempre valido - sia che ricevano il potere direttamente da Dio o dalla società che governano - è il fatto delle grandi responsabilità che i governanti si assumono, e delle quali dovranno rendere conto a Dio.
L'autore dice che il loro sarà un giudizio implacabile, proporzionato al rango della persona e alle sue responsabilità. Finché le decisioni che si prendono si riferiscono alla propria persona e non escono dall'ambito individuale, le conseguenze non rivestono una grande gravità; ma, quando la portata delle decisioni d'un uomo esce dall'ambito individuale e tocca altre persone e la comunità in generale, allora la responsabilità aumenta nelle stesse proporzioni. Gli esempi di Mosè (Nm 20,7-12), di Davide (2Sam 24) e di Ezechia (2Re 20,12-18) possono essere una buona testimonianza del rigore del giudizio di Dio. Coloro che guidano i destini dei popoli sogliono sfuggire facilmente alla giustizia umana. Di qui la necessità del giusto giudizio di Dio.
Poste queste premesse, la conclusione che si impone è che i governanti devono prestare attenzione alle parole di sapienza che pronunzierà Salomone, il re sapiente per antonomasia: Desiderate dunque le mie parole, bramatele e ne riceverete istruzione.
 
Vangelo
Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero.
 
Mentre la guarigione del Samaritano svela l’universalità della salvezza divina, la gratitudine per la salute ritrovata sottolinea che «i “lontani” sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più “prossimi”» (Settimio Cipriani). L’uomo potrà essere estraneo a Dio, ma Dio non è mai estraneo agli uomini.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,11-19
 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
 
Parola del Signore.
 
La tua fede ti ha salvato! - La guarigione dei dieci lebbrosi, oltre a mettere in evidenza il comportamento esemplare di un non ebreo (vedi la Parabola del buon Samaritano: Lc 10,29-37), afferma anche il carattere universale della salvezza. Il racconto è molto simile a quello di Lc 5,12-16, dove Gesù, per la prima volta, si trovò dinanzi a uno di quei paria esclusi dal consorzio umano. La lebbra, conseguenza del peccato, era considerata un castigo di Dio e solo lui poteva donare la guarigione.
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversa la Samaria e la Galilea. Questa annotazione topografica, molto generica e dal valore teologico, serve a Luca per indicare che Gesù si trovava in un territorio a popolazione mista. I dieci lebbrosi si fermano a distanza così come prevedevano le rigidissime leggi che regolavano la loro vita: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,45-46; Cf. Lv 13,9-17). Dei dieci lebbrosi, nove erano Giudei e uno Samaritano. È notorio che i Giudei odiavano i Samaritani (Sir 50,25-26; Gv 4,9; 8,48; Mt 10,5; Lc 9,52-55; 10,33; 7,16), eppure ora, accomunati dalla lebbra, sono soci solidali di un stesso destino di dolore.
Gesù maestro, unico caso in cui epistates, frequente nel vangelo di Luca, si trovi sulla bocca di qualcuno che non è discepolo di Gesù.
Gesù non impone le mani sui lebbrosi, non proferisce parola, ma li invita a presentarsi ai sacerdoti, così come prescriveva la legge di Mosè.
Ed è in questo viaggio gravido di speranza che i dieci si ritrovano sanati. I nove Ebrei continuano il loro cammino senza preoccuparsi di ringraziare il loro benefattore: nella loro arroganza ritengono la guarigione come un premio meritato per la loro condotta. Il Samaritano ritorna sui suoi passi «lodando Dio a gran voce», come i pastori (Cf. Lc 2,20), il paralitico (Cf. Lc 5,25), la donna curva (Cf. Lc 13,13), il cieco (Cf. Lc 18,43), il centurione (Cf. Lc 23,47), lo storpio guarito da Pietro e Giovanni (Cf. At 3,9). La lode è la «forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI È, a prescindere da ciò che fa. È una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria» (CCC 2639).
In questa cornice di gioia e di gratitudine il Samaritano, guarito nella carne, grazie alla sua fede, ottiene «anche la salvezza spirituale, che costituiva il dono più importante nell’incontro con Gesù, l’inviato del Padre per la proclamazione e l’inaugurazione del regno» (Angelico Poppi).
Gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? Gesù ancora una volta deve ammettere, con tanta amarezza, che purtroppo la vera fede ha radici fuori dai confini d’Israele. Nel Vangelo di Luca, la maggior disponibilità degli stranieri ad accogliere il Regno (il centurione romano, Naaman il Siro, il lebbroso samaritano) è preludio della salvezza universale che la Chiesa, nel nome di Cristo, avrebbe portato a tutte le nazioni.
La tua fede ti ha salvato: il dono gratuito della salvezza trova campo fecondo di rigogliosa crescita solo in un cuore pieno di fede.
 
Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato! - La salvezza: terminologia e sguardo d’insieme – Bruno Ramazzotti e Giuseppe Barbaglio (Salvezza in Schede Bibliche Pastorali Vil VII): Nell’Antico Testamento ebraico, l’idea di salvezza è solitamente significata con la voce yasa’ e derivati. Questo termine ricorre un centinaio di volte - di cui la maggior parte nei salmi - con JHWH come soggetto, e ha il valore fondamentale di «essere ampio, spazioso», di «muoversi senza impedimento, essere al largo», e alla forma causativa, quello di «far stare ed essere al largo, a proprio agio», e quindi «liberare» da una condizione di oppressione, coercizione, schiavitù. È il contrario di «essere alle strette», «essere coartato, compresso, oppresso, in stato di servitù».
Nella versione greca dei LXX abbiamo il verbo sózein, il nome soteria e l’appellativo soter.
Queste voci assumono talvolta un’accezione profana (Cf. 2Re 6,26); comunemente però qualificano l’attività di salvezza che svolge JHWH, al quale è riservato l’appellativo di salvatore, fatta eccezione di pochi casi nei quali designa uomini da lui scelti per salvare il suo popolo oppresso (Cf. Gdc 3,9.15; Ne 9,26-27).
Dove affiora il tema della salvezza, là è presente un riferimento, più o meno esplicito, a un pericolo o a un male che minaccia o mortifica la vita di un individuo o di un popolo e a cui essi vengono sottratti. Ora, siccome per gli antichi un male sommamente temuto e spesso incombente è la sconfitta in guerra, che ha sempre disastrose conse-guenze, così la salvezza è non di rado equivalente a vittoria in battaglia, trionfo sugli avversari (Cf. Es 15,2; 1Sam 11,3; 19,5; 2Sam 22,3; Sal 21,2.5-6). Ma si rapporta anche ad altri fatti e ad altre situazioni: si fa parola della liberazione dai molteplici travagli che affliggono l’umana esistenza (Cf. Is 33,2; Ger 30,7-9; Sal 107,13.19); si invoca la liberazione dalla violenza, dall’esilio (Cf. Sal 106,47), dalla morte (Cf. Sal 6,2-5), dal peccato (Cf. Ez 36,29).
Questi dati si precisano attraverso una più dettagliata analisi degli sviluppi anticotestamentari: l’accento è posto prevalentemente su un’azione salvifica in ordine alla vicenda temporale, storica di Israele, ma lo sguardo si rivolge anche a una liberazione, di cui quella attuale è solo premessa e promessa (salvezza escatologica); e a poco a poco l’interesse dalla nazione si sposta agli individui, e, passo più decisivo e importante, affiora, qua e là, la preoccupazione per una salvezza oltre l’esistenza terrena con un rilievo non più temporale, ma etico-spirituale.
Nel Nuovo Testamento il vocabolario della salvezza è ampiamente usato: sozein (salvare) ricorre un centinaio di volte, con prevalenza nei Vangeli; sóteria (salvezza) una cinquantina di volte, e 4 volte to sóterion = la salvezza; sótér (salvatore) soprattutto negli scritti tardivi.
Si ha in vista, talvolta, una liberazione di ordine temporale; ma, solitamente, si esalta l’azione salvifica che Dio svolge nel Cristo per trasformare e rinnovare l’uomo in rapporto a tutto il suo essere e alla stessa sua dimora, il cosmo.
Predilezione per la terminologia della salvezza rivelano Paolo e Luca.
Si constata che Dio raramente appare come soggetto grammaticale o logico di salvare e di salvezza, o come salvatore (Cf. Ef 2,5; pastorali; Gc 4,12; Gd 25). Per lo più, come Salvatore è designato il Cristo (Cf. Lc, Gv, Paolo, 2Pt).
L’attività salvatrice è attribuita anche agli uomini come strumenti di Dio e del Cristo (Cf. Rm 11,14; 1Cor 7,16; 1Tm 4,14-16; Gc 5,20; Gd 20ss).
Soggetto di salvare talvolta è la parola di Dio o il Vangelo (Cf. Rm 1,16; 2Tm 3,14-16; Gc 1,18-21; 1Pt 2,2) e in alcuni casi il battesimo (Cf. Tt 3,5; 1Pt 3,21s), in quanto mezzi dell’azione divina di salvezza. Naturalmente la parola di Dio ha potere salutare per i singoli individui se viene accolta con la fede, che, in questo caso, risulta soggetto logico di salvare (Cf. Gv 3,16s; At 16,31; Rm 1,16; 10,8-10).
 
Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero - Sant’Agostino: Il Signore Gesù loda chi lo ringrazia, rimprovera gli ingrati guariti nella pelle, ma ancora lebbrosi nel cuore. Che dice l’Apostolo? “Discorso fedele e degnissimo di essere accolto” (1Tm 1,15s). Che discorso è? “Gesù Cristo è venuto nel mondo”. A che fare? “Per salvare i peccatori”. E tu chi sei? “Io sono il primo dei peccatori”. Chi dice di non essere, o di non essere stato peccatore, è ingrato verso il Salvatore. Nessun uomo in questa massa, che viene da Adamo, nessun uomo affatto è esente da malattia, nessuno è guarito senza la grazia di Cristo.
 
Il santo del Giorno -  12 Novembre 2025 - San Giosafat Kuncewycz, Apostolo della comunione tra Oriente e Occidente: Le diversità ci arricchiscono e ci fanno crescere, ci insegnano a confrontarci con l’alterità e quindi aprono il cuore al “totalmente altro” che è l’amore di Dio. È per difendere la bellezza della comunione tra le differenze che diede la propria vita san Giosafat Kuncewycz, apostolo del dialogo tra Oriente e Occidente. Un impegno che visse nel cuore della Chiesa uniate rutena, comunità dal volto “misto”, con riti orientali, come gli ortodossi, ma in piena comunione con Roma e quindi con i cattolici. Nato nel 1580, Kuncewycz era figlio di ortodossi; nel 1604 entrò tra i monaci basiliani, cinque anni dopo divenne prete e nel 1617 divenne arcivescovo di Polack. Il suo sforzo di dialogo tra le due anime (quella cattolica e quella ortodossa) della sua terra e della sua comunità trovò l’avversione degli ortodossi tradizionalisti che lo aggredirono e lo uccisero nel 1623.  (Matteo Liut)
 
Questo santo convito ci conceda, o Signore,
lo spirito di fortezza e di pace,
perché a imitazione di san Giosafat
spendiamo volentieri la vita
per la gloria e l’unità della Chiesa.
Per Cristo nostro Signore.