11 Novembre 2025
San Martino di Tours, Vescovo
Sap 2,23-3,9; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); Lc 17,7-10
Colletta
O Dio, che hai fatto risplendere la tua gloria
nella vita e nella morte del santo vescovo Martino [di Tours],
rinnova nei nostri cuori le meraviglie della tua grazia,
perché né morte né vita ci possano separare dal tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
Benedetto XVI (Omelia 3 Ottobre 2011): La seconda parte del Vangelo odierno presenta un altro insegnamento, un insegnamento di umiltà, che tuttavia è strettamente legato alla fede. Gesù ci invita ad essere umili e porta l’esempio di un servo che ha lavorato nei campi. Quando torna a casa, il padrone gli chiede ancora di lavorare. Secondo la mentalità del tempo di Gesù, il padrone aveva tutto il diritto di farlo. Il servo doveva al padrone una disponibilità completa; e il padrone non si riteneva obbligato verso di lui perché aveva eseguito gli ordini ricevuti. Gesù ci fa prendere coscienza che, di fronte a Dio, ci troviamo in una situazione simile: siamo servi di Dio; non siamo creditori nei suoi confronti, ma siamo sempre debitori, perché dobbiamo a Lui tutto, perché tutto è suo dono.
Accettare e fare la sua volontà è l’atteggiamento da avere ogni giorno, in ogni momento della nostra vita. Davanti a Dio non dobbiamo mai presentarci come chi crede di aver reso un servizio e di meritare una grande ricompensa. Questa è un’illusione che può nascere in tutti, anche nelle persone che lavorano molto al servizio del Signore, nella Chiesa. Dobbiamo, invece, essere consapevoli che, in realtà, non facciamo mai abbastanza per Dio. Dobbiamo dire, come ci suggerisce Gesù: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Questo è un atteggiamento di umiltà che ci mette veramente al nostro posto e permette al Signore di essere molto generoso con noi. Infatti, in un altro brano del Vangelo egli ci promette che «si cingerà le sue vesti, ci farà mettere a tavola e passerà a servirci» (cfr Lc 12,37). Cari amici, se faremo ogni giorno la volontà di Dio, con umiltà, senza pretendere nulla da Lui, sarà Gesù stesso a servirci, ad aiutarci, ad incoraggiarci, a donarci forza e serenità.
Prima Lettura - Antonio González-Lamadrid: Il problema dei giusti che soffrono e degli empi che prosperano aveva preoccupato e torturato teologi e filosofi d’Israele a partire dall’esilio in poi. Ne fanno fede i libri di Giobbe c del Qoèlet unitamente ai salmi 37, 49 e 73. Durante i lunghi secoli di dibattimenti e di discussioni su questo argomento si erano andati manifestando alcuni raggi assai tenui di luce a modo di intuizioni passeggere. Si dovette attendere il tempo dei Maccabei perché, nella forte tensione religiosa causata dalla persecuzione comparisse la speranza nella risurrezione dei giusti. E si dovette attendere fino al libro della Sapienza perché tutto il problema dell’oltretomba fosso chiarito definitivamente. In questo sta l’importanza di questo capitolo 3 della Sapienza. Per la prima volta nella storia della rivelazione viene esposto chiaramente il tema della retribuzione nell'oltretomba. Con linguaggio semplice l’autore della Sapienza chiarisce definitivamente un problema che preoccupava da secoli.
Vangelo
Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.
Il brano appartiene agli insegnamenti di Gesù dettati lungo il cammino verso Gerusalemme. Tali insegnamenti riguardano la vita del cristiano come sequela del Cristo. Il Vangelo di oggi è il seguito del brano lucano dove viene proclamata la potenza della fede nel Padre: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6).
Gesù parla di una “fede quanto un granello di senape”, proprio per la sua “piccolezza” è necessario che il credente deve cercare e trovare gli strumenti adatti per tenerla viva: «La purezza della fede non si conquista senza una autentica e profonda umiltà di cuore, senza una devozione pia, senza una costante assiduità nella preghiera. Per questo occorre pregare spesso e dire: “Signore, accresci in noi la fede!”» (Sant’Antonio da Padova). Il breve dialogo sulla fede tra Gesù e gli Apostoli viene completato da una parabola, che invita a ridimensionare ogni sopravvalutazione delle proprie opere. Le parole di Gesù non vogliono umiliare l’uomo o la sua intelligenza creativa, ma semplicemente gli vogliono ricordare che tutto è grazia.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,7-10
In quel tempo, Gesù disse:
«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Parola del Signore.
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 7 - Chi di voi...? La parabola è introdotta con una domanda rettorica per renderla più viva e richiamare maggiormente l’interesse dell’ascoltatore. L’immagine è tratta dalla vita di uno schiavo che si trova interamente alle dipendenze del padrone. Si tratta di uno schiavo più che di un mercenario, schiavo che è addetto ad un lavoro particolare per una giornata o per un breve periodo, perché nel racconto si parla di uno che, rientrato stanco nella casa del padrone, riceve subito l’ordine di mettersi a servirlo. Vieni, mettiti subito a tavola! «Vieni», rende un participio greco che in italiano è pleonastico. L’evangelista richiamando questi usi dell’antica società, con espressioni così particolareggiate e vive, intende mettere in maggior risalto una nuova verità evangelica che riveste una fondamentale importanza per gli apostoli ed i discepoli.
8-9 - Servimi fino a che io abbia mangiato e bevuto; queste parole del padrone sono ordinate unicamente a presentare una situazione concreta: il servo è sempre alle dipendenze del padrone ed il suo compito consiste nell’essere continuamente disposto a prestare i servizi richiesti. Si ritiene forse obbligato a (questo) servo...?; più letteral.: «deve forse avere della gratitudine al servo, perché...?»; questa seconda versione rileva come la frase abbia un suono duro, quasi disumano. Evidentemente con queste parole non si vuol fare l’apologia della schiavitù, ma semplicemente richiamare un fatto che serve ad illustrare una dottrina molto elevata. Per giudicare rettamente la parabola occorre stabilire la verità che essa intende proporre, non già i mezzi espressivi impiegati. Il punto dottrinale che l’immagine illustra è il seguente: lo schiavo non può considerare ciò che gli si deve, ma l’onore che ha avuto nell’essere stato chiamato a servire il padrone. Questo modo di presentare le cose non risponde certamente alla nostra mentalità; esso tuttavia, pur nella sua crudezza, riesce molto espressivo e caratterizza meglio la dottrina proposta.
10 - Così (è) anche (di) voi; nell’applicazione della parabola non si parla più dei sentimenti del padrone, ma di quelli dei servi; la parola conclusiva infatti è pronunziata dai servi, non già dal padrone. Siamo dei semplici servi; l’aggettivo ἀρεῖος significa: inutile, da nulla; la Volgata traduce: servi inutiles sumus. Nel contesto l’aggettivo «inutile» non è appropriato, né rende con fedeltà il pensiero; infatti il servo dopo aver lavorato e compiuto fedelmente tutto ciò che gli è stato ordinato non può dire di essere inutile, poiché sarebbe insincero. È meglio quindi tradurre con l’espressione indicata nel testo, la quale puntualizza meglio lo spirito del sublime insegnamento di Cristo. Dalla parabola che presenta una situazione, giudicata dal lettore moderno eccessiva e tirannica, emerge questo confronto: come lo schiavo non si gloria del lavoro compiuto per il padrone, né può esigere da lui una qualsiasi ricompensa, poiché per lo schiavo la più grande soddisfazione consiste nel poter dire: ho servito in tutto il mio padrone, così dev’essere anche per i discepoli; essi quindi si guardino dall’insuperbirsi per ciò che hanno compiuto, né possono esigere delle ricompense per l’opera prestata, ma debbono ritenersi dei semplici servi che hanno eseguito ciò che era stato loro comandato. Tra l’immagine e la verità esiste una sproporzione notevole; per questo motivo gli elementi descrittivi utilizzati nella parabola restano ad un livello inferiore della dottrina proposta. Il Maestro ha voluto impartire ai suoi collaboratori una lezione incisiva sulla umiltà, che per essi ha un valore fondamentale. Soltanto Luca ha trasmesso questo elevato insegnamento che scopre ai ministri del vangelo un aspetto misterioso della vocazione che hanno ricevuta. La parabola, pur con i suoi tratti rudi e marcati, lascia chiaramente intendere agli apostoli che per essi il servire la causa del regno è una grazia incomparabile ed un onore inestimabile. Gesù non ha soltanto insegnato agli altri questa dottrina che ha degli aspetti paradossali, ma l’ha proposta a se stesso come norma ispiratrice della propria vita (cf. Lc., 12, 37; 22, 27).
Il discepolo è umile - Mario Galizzi (Vangelo secondo Luca): «Supponiamo che qualcuno tra voi abbia un servo che si trova nei campi ad arare o a pascolare. Quando quello ritorna dai campi, gli dirà forse: “In fretta, vieni e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Preparami la cena; cingiti il grembiule e servimi finché io abbia mangiato e bevuto, e poi mangerai e berrai tu”? Si riterrà forse obbligato verso il suo servo, perché ha fatto quanto gli ha comandato? Così anche voi: quando avete fatto quello che vi è stato comandato, dite: “Siamo dei poveri servi, abbiamo solo fatto quello che dovevamo”».
Come in 15,3-7.8-10 e 16,l-9ss, anche qui c’è un racconto parabolico, seguito dalla sua applicazione. È Gesù che secondo Luca spiega molte volte il senso delle sue parabole. Caratteristica di questa è che si struttura su tre domande e si appella alla esperienza dei discepoli, come del resto ha già fatto altre volte (11,5.11).
Quanto qui racconta è normale nel mondo degli affari: c’è un dare e un ricevere; si dà un servizio e se ne riceve la paga. Fatto questo ci si sente alla pari, nessuno è debitore dell’altro. Perciò il padrone non si ritiene obbligato ad altro verso il suo servo, che si è limitato a fare quello che doveva fare.
Ora, Gesù, nella sua spiegazione, non si interessa dell’atteggiamento del padrone; si fissa unicamente sull’agire del servo. Sta parlando ai suoi discepoli (16,1) e, in particolare, agli apostoli (17,5), a quelli che come lui hanno accettato di essere «servi di Dio»; a coloro che già sanno che quando il Signore verrà e li troverà intenti a compiere il loro dovere, li farà sedere alla sua mensa, si cingerà e li servirà (12,37). Più tardi prometterà anche di farli sedere alla sua mensa nel suo regno (22,30). Ma sia ben chiaro che ciò è un puro dono, non è un dovuto. Finché compiono la missione che è loro stata affidata si sentano dei poveri (non è affatto bella la traduzione inutili) servi; vivano cioè il loro servizio nell’umiltà e nella gioia del dono di sé agli altri. Imitino il loro Maestro.
Su questa raccomandazione all’umiltà si conclude il racconto della seconda tappa di Gesù verso Gerusalemme. Lo sguardo qui è rivolto a quello che si fa, e che dev’essere fatto nella semplicità e senza vanagloria. Ma subito gli orizzonti torneranno ad allargarsi sino all’eternità.
Bruno dei Segni, In Luc., 2,39: Il superbo che si fa creditore di Dio: Quanto è bene adatta questa similitudine per colui che diceva: “Dio, ti ringrazio, perché non sono come tutti gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri o come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana, pago le decime di tutti i miei beni” (Lc 18,11). Quanto sarebbe stato meglio se avesse detto umilmente: Signore, sono un servo inutile, ho fatto solo ciò che dovevo fare. Infatti, poiché il servo fa il suo ufficio per dovere e per necessità, il padrone non gli deve nessuna gratitudine, se egli fa ciò che gli viene comandato. Così noi quando osserviamo i comandamenti; via, dunque, la superbia, la vanagloria, il fumo della mente, e inginocchiamoci tra gli umili servi inutili, come quello che diceva: “La mia anima è innanzi a te come terra senz’acqua” [Sal 142,6]. È terra senza acqua, secca, infeconda, sterile, inutile. Ma è uno che aveva fatto tutto ciò che gli era stato comandato, com’è detto: “Non mi sono allontanato dai tuoi precetti” (Sal 118,51) e: “Non ho dimenticato la tua giustizia” (Sal 118,141).
Il santo del Giorno - 11 Novembre 2025 - San Martino di Tours: Martino è un soldato romano, patrono della Francia e dei soldati. Nasce in Ungheria nel 316, ma viene allevato a Pavia, in Italia. Il suo temperamento è umile e generoso e quando può aiuta il prossimo. Fin da bambino si reca in chiesa, di nascosto dai suoi genitori pagani, e ascolta la storia della vita di Gesù. Il padre, un comandante della cavalleria romana che chiama il figlio Martino in onore al dio della guerra Marte, lo arruola nella guardia imperiale per farne un soldato. Martino ha solo quindici anni e non vorrebbe pensare alle armi, ma ubbidisce all’autorità paterna e si trasferisce in Francia.
Martino diventa uomo. Un giorno d’inverno nevica. Il giovane soldato, in sella al suo cavallo, è nei pressi della città di Amiens, quando incontra un vecchio vestito di stracci, rannicchiato su se stesso, intirizzito. Sta morendo di freddo. Martino è di buon cuore e, impietosito, non esita un attimo. Si ferma, prende la sua spada e, con un taglio netto, divide a metà il suo prezioso, caldo mantello rosso porgendone una parte al povero sfortunato. Si narra che all’istante sia uscito un sole che scaldava come se fosse estate. Da qui nasce il detto “estate di San Martino”. La stessa notte Martino sogna Gesù sorridente con indosso la metà del suo mantello e al suo risveglio si racconta che il mantello sia tornato integro.
Il soldato si fa battezzare e abbandona la carriera militare per servire Dio, combattendo nel suo esercito di “soldati di Cristo”. Diventa monaco e nel 360 fa erigere il primo monastero d’Europa, a Ligugè, dove conduce una vita di preghiera. Nel 372 viene proclamato vescovo di Tours. Viaggia a piedi o a dorso di un asino, in visita ai villaggi di campagna dove parla di Gesù e aiuta poveri e indifesi. Martino comunica con animali e piante, compie guarigioni miracolose e converte al Cristianesimo, cambiando il cuore indurito delle persone. Muore nel 397 a 82 anni, a Tours, dove viene sepolto, meta di numerosi pellegrini a lui devoti. San Martino è popolarissimo in Francia dove quattromila chiese gli sono dedicate. Sostiene poveri, mendicanti, militari, soldati, albergatori, vendemmiatori e viticoltori. Protegge i cavalli e le oche e viene invocato contro l’alcolismo, il pericolo di sbornie e la dissenteria. (Autore: Mariella Lentini)
O Signore, che ci hai nutriti con il sacramento dell’unità,
concedi a noi di vivere in perfetta concordia con il tuo volere
perché, imitando san Martino [di Tours] nella totale sottomissione a te,
gustiamo la gioia di essere veramente tuoi.
Per Cristo nostro Signore.
gustiamo la gioia di essere veramente tuoi.
Per Cristo nostro Signore.