6 Ottobre 2025
 
Lunedì XXVII Settimana Tempo Ordinario
 
Gn 1,1-2,1.11; Salmo Responsoriale Gn 2,3-5.8; Lc 17,5-10
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che esaudisci le preghiere del tuo popolo
oltre ogni desiderio e ogni merito,
effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme
e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Giovanni Paolo II (Omelia): Il Vangelo di oggi ci presenta la figura del buon Samaritano. Con questa parabola, Cristo vuole mostrare ai suoi ascoltatori chi è il prossimo citato nel più grande comandamento della Legge divina: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 29). Un dottore della Legge domandava che cosa fare per avere la vita eterna: trovò in queste parole la risposta decisiva. Sapeva che l’amore di Dio e del prossimo è il primo e il più grande dei comandamenti. Malgrado ciò, chiede: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29).
Il fatto che Gesù proponga un Samaritano quale esempio per rispondere a tale domanda è significativo. In effetti, i Samaritani non erano particolarmente stimati dagli Ebrei. Di più: Cristo paragona il comportamento di quest’uomo a quella di un sacerdote e di un levita che avevano visto l’uomo ferito dai briganti ed era sulla strada quasi morto, ed avevano proseguito il loro cammino senza prestargli soccorso. Al contrario, il Samaritano che vide l’uomo sofferente, «ne ebbe compassione» (Lc 10, 33). La sua pietà lo portò ad una serie di azioni.
Anzitutto medicò le piaghe, poi condusse il ferito in un albergo perché ne avessero cura; e prima di partire, diede all’albergatore il denaro necessario perché ci si occupasse di lui (cfr Lc 10, 34-35). L’esempio è eloquente. Il dottore della Legge riceve una risposta chiara alla sua domanda: chi è il mio prossimo? Il prossimo è ogni essere umano, senza eccezioni. È inutile chiedere la sua nazionalità, la sua appartenenza sociale o religiosa. Se è nel bisogno, occorre venire in suo aiuto. Questo è quanto chiede la prima e la più grande Legge divina, la legge dell’amore di Dio e del prossimo.
 
Prima Lettura - Epifanio Gallego: Il libro di Giona è l’unico che troviamo integro nelle letture biblico-liturgiche, se si eccettua la preghiera del capitolo 2, chiara aggiunta estranea all’opera originale ... Il racconto comincia con quel «fu rivolta a Giona ... questa parola del Signore», ripetuto in 3,1, che colloca Giona in piena linea vocazionale profetica. E subito dopo, ecco l’ordine: «Va’ a Ninive».
Identificando il nostro personaggio tipo col Giona storico dei tempi di Geroboamo II, Ninive era allora la capitale del grande impero assiro che avrebbe distrutto Israele nell’anno 721. Per gli israeliti prima dell’esilio rappresentava l’oppressione e la crudeltà mortale. A questa città di lingua sconosciuta, prototipo dei nemici di Israele, è inviato un profeta ebreo - è il primo grande paradosso - perché si converta.
Il profeta non solo non ubbidisce, ma tenta di fuggire da Dio, come se Dio fosse localizzato in Gerusalemme, per andare alla fine del mondo, a Tarsis, alle colonne di Ercole, dove arrivavano solo le migliori imbarcazioni fenicie e greche e i più audaci marinai. È la resistenza alla vocazione, chiaramente espressa da Mosè (Es 3,11) da Gedeone (Gdc 6,15) e da Geremia (1,6).
La fuga di Giona è interrotta da Dio per mezzo di elementi naturali: nessuno può sottrarsi ai suoi disegni. E nella descrizione entra in gioco il ridicolo dei cosiddetti buoni di fronte ai cattivi. I gentili invocano i loro dèi, mentre il giudeo russa saporitamente. Egli si ostina a non pregare; essi riconoscono Yahveh come Dio, lo temono, gli offrono un sacrificio e gli fanno voti. L’unica cosa positiva in Giona è la confessione della sua fede, articolo base del credo giudaico: «Venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra».
Il ricorso alle sorti era il mezzo ordinario per conoscere la volontà degli dèi in tutto il Medio Oriente, pratica comune nel popolo giudaico e usata dagli apostoli nell’elezione di Mattia. La sorte cade su Giona che è buttato nel Mediterraneo. Così si confermavano due forti credenze antiche: la solidarietà nella pena per la colpa di uno e il valore delle sorti.
Una volta in mare, ecco il pesce o cetaceo nel cui ventre Giona passò tre giorni. Eco fedele della credenza nei grandi mostri marini. Più tardi si pensò a una balena o a un capidoglio. Per Dio il miracolo è lo stesso. Il mito di Ercole narrava qualcosa di simile, e forse, il nostro autore lo conosceva. Comunque sia, la lezione non cambia: la provvidenza di Dio anche nei confronti del peccatore e la irresistibilità dei suoi disegni. Essendo egli il Dio della creazione, tutto collabora con la sua volontà salvifica pe, il bene dei popoli.
Argomentando contro i farisei, Gesù accenna a questo passo di Giona come tipo di risurrezione. Il ricorso è perfetto e il simbolismo anche: Giona liberato dalle fauci del pesce è un esempio vivo nella tradizione della Chiesa della liberazione dalla morte e dallo sheol. Dio aveva messo la vita là dove Giona avrebbe dovuto trovare la morte. Ma né il tipismo né il simbolismo né il ricorso di Gesù a lui pregiudica il problema esegetico e secondario della storicità del racconto. Il ritorno del figlio prodigo e Lazzaro nel seno di Abramo saranno sempre tipi letterario-didattici perfetti delle realtà concrete e storiche.
Giona, vomitato dal pesce, possibile simbolo del ritorno dall’esilio, si trova nuovamente al punto di partenza, nelle mani del Dio dei viventi alle cui mani nessuno può sfuggire.
 
Vangelo
Chi è il mio prossimo?
 
I personaggi del racconto evangelico appartengono a due mondi contrapposti, «l’un contro l’altro armato» (Alessandro Manzoni): da una parte il Samaritano, lo straniero ed eretico (Cf. Gv 8,48; Lc 9,53), dal quale non si attenderebbe normalmente che odio e dall’altra il sacerdote e il levita, coloro che in Israele sono maggiormente tenuti a osservare la legge della carità. Quest’ultimi sono convinti di amare Dio anche se lasciano morire per strada chi ha avuto la disavventura di incappare nei briganti: non si accorgono che è una pura scempiaggine credere di amare Dio disprez­zando il prossimo. La religione che separa totalmente il religioso dal profano, che ha cura del rito senza integrarlo con la morale, che non assomma il culto con la carità, è praticamente una religione atea con pericolosi propensioni al fanatismo e all’idolatria.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,25-37
 
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
 
Parola del Signore.
 
Un uomo scendeva... - Solo Luca parla di questo episodio. Il «dottore della Legge» che si «alza» per mettere alla prova Gesù è un esperto della Legge e trascinare intenzionalmente il giovane maestro di Nazaret in questioni riguardanti la Legge era come spingerlo sulle sabbie mobili. La domanda posta a Gesù, - che devo fare per ereditare la vita eterna? -, era di vitale importanza per ogni ebreo e la preoccupazione del dottore della Legge non è sul piano teorico, ma pratico (Cf. Lc 18,18). Non era facile districarsi in una selva di precetti e trovarvi la via che conduceva alla vita eterna. Basti pensare che il numero dei precetti della Torà era ben 613, di cui 248 precetti positivi e 365 precetti negativi.
Alla domanda del leguleio, Gesù risponde a sua volta con una domanda in modo che sia lo stesso interlocutore a dare la risposta. Quando il dottore della Legge cita la sacra Scrittura, e precisamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza... » (Dt 6,5) e la legge parallela «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18), Gesù gli dice che ha risposto correttamente e lo invita a comportarsi di conseguenza.
Il monito fa’ questo (tu fa’ così) è ripetuto anche alla fine della parabola per sottolineare l’importanza della pratica di vita di cui certamente difettava il borioso dottore della Legge, il quale volendosi giustificare chiede a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
La risposta per l’interlocutore era in verità già scontata. In linea di massima, il prossimo, per un Giudeo, era il connazionale o lo straniero che dimorava in Israele (Cf. Lev 19,33-34). Più tardi saranno considerati prossimo i pagani convertiti.
Da questa lista certamente erano esclusi i nemici e sopra tutto i Samaritani. Secondo Rinaldo Fabris, al tempo di Gesù erano state aggiunte altre restrizioni, «per cui praticamente il prossimo era il membro della setta o del gruppo religioso [farisei, esseni, zeloti, ecc.]. È su questo sfondo che deve essere trascritto il racconto magistrale di Gesù».
Gesù, a questo punto, perché sia più chiara la sua esortazione, narra la parabola dell’uomo incappato nei briganti. Di proposito gli attori del racconto sono un sacerdote, un levita e un Samaritano. I primi due, consci di essere gli «eletti» rappresentanti religiosi dell’ebraismo, appartengono al popolo d’Israele; il Samaritano invece a un popolo considerato dai Giudei eretico, pagano. Un’antica ferita che si perdeva nella notte dei tempi quando Sargon re degli Assiri, nel 721 a.C., aveva conquistato il regno del Nord deportando i suoi abitanti e al loro posto erano state trasferite genti di altre nazioni (Cf. 2Re 17) che si erano amalgamate con i pochi rimasti in patria. Anche in campo religioso si era creato un sincretismo che aveva spinto i Giudei scampati all’esilio, e che erano ritornati nella loro terra, a considerare i Samaritani come popolo misto.
Gesù nel raccontare la parabola, di proposito, opera uno spostamento di accento, dall’oggetto al soggetto. Mentre il dottore della Legge aveva chiesto chi doveva essere oggetto del suo amore, Gesù fa vedere il soggetto, chi è colui che ama veramente; al dottore della Legge che chiedeva chi fosse il prossimo da amare, Gesù gli insegna come lui avrebbe dovuto diventare prossi­mo. Praticamente, Gesù chiede al dottore della legge di rientrare in se stesso e di verificare in che modo egli si pone nei confronti degli altri, quali relazioni costruisce con gli altri. Al termine della parabola, il saccente custode della Legge scopre il senso dell’insegnamento di Gesù: come il Samaritano deve avere il coraggio di farsi prossimo di chi nell’immediato ha bisogno del suo aiuto senza stare a sofisticare in questioni di lana caprina. Una bella lezione per chi era abituato a «filtrare il moscerino» (Mt 23,24). Non va poi dimenticato il senso cristologico della parabola: il buon Samaritano è Gesù che nell’amare l’umanità rivela e realizza l’infinito amore del Padre per tutti gli uomini. In questa ottica l’amore verso il prossimo, che con la parabola viene comandato a tutti i discepoli, deve essere interpretato come continuazione dell’amore di Gesù, come insegnano le sue stesse parole: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 15,34).
 
Chi è il mio prossimo? - Xavier Léon-Dufour: Antico Testamento:  Il termine «prossimo», che rende con molta esattezza il termine greco plesìon, corrisponde imperfettamente al termine ebraico rea’ che gli è soggiaceste. Non dev’essere confuso con il termine «fratello», quantunque sovente vi corrisponda. Etimologicamente esprime l’idea di associarsi con uno, di entrare nella sua compagnia. Al contrario del fratello, al quale si è legati per relazione naturale, il prossimo non appartiene alla casa paterna; se il mio fratello è un altro me stesso, il mio prossimo è diverso da me, un estraneo che per me può rimanere «un altro», ma che può anche diventare un fratello. Un legame può crearsi in tal modo fra due esseri, sia in modo passeggero (Lev 19,13.16.18), sia in modo duraturo e personale, in virtù dell’amicizia (Deut 13,7) o dell’amore (Ger 3,1.20; Cant 1,9.15) o della dimestichezza (Giob 30,29). Nei codici antichi non si faceva questione di «fratelli» ma di «altri» (ad es. Es 20,16 s): nonostante questa apertura virtuale sull’universalismo, l’orizzonte della legge non andò oltre il popolo di Israele. In seguito, con la loro coscienza più viva della elezione, il Deuteronomio e la legge di santità confondono «gli altri» e «fratello» (Lev 19,16s), intendono con ciò i soli Israeliti (17,3). Non è un restringimento dell’amore del «prossimo» all’amore dei soli «fratelli»; al contrario, questi testi si sforzano di estendere il comandamento dell’amore assimilando all’Israelita lo straniero residente» (17,8.10.13; 19,34). Dopo l’esilio si fa luce una duplice tendenza. Da una parte, il dovere di amare non concerne più che l’Israelita od il proselito circonciso: la cerchia dei «prossimi» si restringe. Ma dall’altra parte, quando i Settanta rendono l’ebraico rea’ con il greco plesìon, separano «gli altri» da «fratello». Il prossimo che bisogna amare sono gli altri, siano o no un fratello. Non appena due uomini si incontrano, sono l’uno per l’altro il «prossimo», indipendentemente dalle loro relazioni di parentela o da quel che pensano l’uno dell’altro.
Nuovo Testamento - Quando lo scriba domandava a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29), è probabile che assimilasse ancora questo prossimo al suo «fratello», membro del popolo di Israele. Gesù trasformerà definitivamente la nozione di prossimo. Innanzitutto consacra il comandamento dell’amore: «Amerai il prossimo come te stesso». Non soltanto concentra in esso gli altri comandamenti, ma lo collega indissolubilmente al comandamento dell’amore di Dio (Mt 22,34-40 par.). Sull’esempio di Gesù, Paolo dichiara solennemente che questo comandamento «racchiude tutta la legge» (Gal 5,14), è la «somma» degli altri (Rom 13,8 ss), e Giacomo lo qualifica come «legge regale» (Giac 2,8). In seguito, Gesù universalizza questo comandamento: si devono amare i propri avversari, non soltanto i propri amici (Mt 5,43-48); ciò suppone che sia stata abbattuta nel proprio cuore ogni barriera, cosicché l’amore può estendersi allo stesso nemico. Infine, nella parabola del buon Samaritano, Gesù scende alle applicazioni pratiche (Lc 10,29-37). Non spetta a me decidere chi è il mio prossimo. L’uomo in difficoltà, quand’anche mio nemico, mi invita a diventare suo prossimo. L’amore universale conserva così un carattere concreto: si manifesterà nei confronti di ogni uomo che Dio pone sulla mia strada.
 
Il prossimo è ogni uomo - Severo di Antiochia, Hom., 89, passim: Dimmi ora, o dottore della Legge, senza guardarmi con i tuoi occhi cattivi e indagatori, chi è per te il prossimo? Non deve essere forse chi è diventato tale per il semplice fatto che era nel bisogno? Tu credi spesso nella tua ignoranza che tuo prossimo sia semplicemente chi professa la tua religione o un tuo connazionale. Ma io dico e sostengo che prossimo è ogni uomo, ogni essere che partecipa della natura umana. Come vedi, ci alza anche il capo per il fatto di essere sacerdote, e colui che si vanta di essere levita e svolge le sacre funzioni del servizio sacerdotale secondo la Legge, ambedue - come te - dicono con orgoglio di conoscere i comandamenti divini. Eppure, a loro non viene nemmeno in mente il pensiero che il loro fratello abbandonato in terra nudo, coperto di ferite e morente, è un uomo della loro stessa nazione. Lo disprezzano come un sasso, come un pezzo di legno gettato via.
Ma il Samaritano riconosce la natura umana e comprende chi è il prossimo, anche se ignora i comandamenti e voi lo ritenete uno zotico ... Così, dunque, colui che voi considerate troppo lontano, eccolo vicino a chi ha bisogno di cure.
Perciò, non rimanere attaccato alla lettera delle tue leggi giudaiche, quando devi riconoscere il tuo prossimo, non vederlo solo in quelli del tuo sangue, poiché è prossimo ogni persona e su di essa deve scendere lo spirito di carità.
 
Il Santo del Giorno - 6 Ottobre 2025 - San Bruno. Dalle “lettere dell’uomo” alla Parola l’itinerario che porta al cuore di Dio: La ricerca della verità è un cammino che porta all’assoluto, che apre all’infinito e che mostra la luce dell’Amore vero. Alla fine questo è il percorso che spesso spinge i cercatori di Dio a partire dalle “lettere”, dai testi e dai pensieri prodotti dall’uomo per arrivare alle scritture “sacre” e al messaggio di Dio affidato alla storia da Cristo. Seguendo questo itinerario san Bruno (o Brunone), che passò dalle “lettere” e dallo studio alla ricerca di Dio nella preghiera e nella cura della vita interiore, ha lasciato all’Europa una preziosa eredità spirituale e culturale. Questo sacerdote e monaco vissuto nell’XI secolo, infatti, fu il padre delle certose che di fatto sono stati e sono ancora piccoli tesori e semi preziosi piantanti nel cuore della storia del Vecchio Continente. Nato a Colonia nel 1030, Bruno studiò la filosofia e la teologia, dedicandosi poi all’insegnamento a Reims. In seguito, però, decise di intraprendere una vita da eremita e con l’aiuto del vescovo di Grenoble, Ugo, creò una comunità di monaci dediti alla preghiera e al lavoro in una località isolata: nasceva così la Grande Chartreuse. Vivevano e lavoravano in baracche individuali e si ritrovavano in un ambiente comune per la preghiera insieme. Nel 1090 fu scelto come consigliere da papa Urbano II, che era stato suo studente a Reims. In Calabria, nella Foresta della Torre, fondò il monastero dal quale poi nacque la certosa che oggi porta il suo nome: la certosa di Serra San Bruno. Qui morì nel 1101. (Matteo Liut)
 
Concedi a noi, Padre onnipotente,
che, inebriati e nutriti da questi sacramenti,
veniamo trasformati in Cristo
che abbiamo ricevuto come cibo e bevanda di vita.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.