5 Ottobre 2025
 
XXVII Domenica Tempo Ordinario
 
Ab 1,2-3;2,2-4; Salmo Responsoriale Dal Salmo 94 (95); 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
 
Colletta
O Dio, che soccorri prontamente i tuoi figli
e non tolleri l’oppressione e la violenza,
rinvigorisci la nostra fede,
affnché non ci stanchiamo di operare in questo mondo,
nella certezza che la nostra ricompensa
è la gioia di essere tuoi servi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Udienza Generale 1 Maggio 2024): La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani.
A proposito della fede, viene in mente un episodio del Vangelo. I discepoli di Gesù stanno attraversando il lago e vengono sorpresi dalla tempesta. Pensano di cavarsela con la forza delle loro braccia, con le risorse dell’esperienza, ma la barca comincia a riempirsi d’acqua e vengono presi dal panico (cfr Mc 4,35-41). Non si rendono conto di avere la soluzione sotto gli occhi: Gesù è lì con loro sulla barca, in mezzo alla tempesta, e Gesù dorme, dice il Vangelo. Quando finalmente lo svegliano, impauriti e anche arrabbiati perché Lui li lascia morire, Gesù li rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale. Quando ci hanno portato al fonte battesimale, i nostri genitori, dopo aver annunciato il nome che avevano scelto per noi, si sono sentiti interrogare dal sacerdote – questo è successo nel nostro Battesimo –: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». E i genitori hanno risposto: «La fede, il battesimo!».
Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte.
Certo, come dice l’Apostolo, la fede non è di tutti (cfr 2 Ts 3,2), e anche noi, che siamo credenti, spesso ci accorgiamo di averne solo una piccola scorta. Spesso Gesù ci può rimproverare, come fece coi suoi discepoli, di essere “uomini di poca fede”. Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede “innesca” la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio. Come disse una volta Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede! (cfr Lc 17,5) È una bella preghiera! La diciamo tutti insieme? “Signore, aumenta la nostra fede”. La diciamo insieme: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede”. Troppo debole, un po’ più forte: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede!”. Grazie.
 
Prima Lettura: Epifanio Gallego (Commento della Bibbia Liturgica) - «Perché? ... Perché?»: Dato che la prima lettura è praticamente inclusa nella seconda e tutte e due hanno l’identica tensione tematica, siamo costretti a presentarle insieme per evitare ripetizioni inutili.
Il profeta comincia la sua opera con un interrogativo che è, allo stesso tempo, una lamentazione: «Fino a quando ...? perché? ». Le formule sono comuni, ma non topiche. Attraverso la situazione concreta del profeta che deve contemplare disgrazie, dolori, violenze, catastrofi, lotte e contese senza che Dio mostri di rendersi conto della sua situazione, che è quella del suo popolo, come se fosse impotente o distratto, si sente l’eterno grido dell’uomo che, nella sua disgrazia, sa solo ripetere: Perché? ... fino a quando? E l’interrogativo che sgorga dall’esperienza del male umano quando non accettiamo vitalmente la risposta che è la fede a dare senso al dolore. In Abacuc, questo interrogativo ha la forza della tragedia perché, per lui, non esistevano ancora la croce e la risurrezione.
La risposta di Yahveh nei versetti seguenti, non registrati da questa lettura, è che egli susciterà i caldei e i babilonesi quale strumento della sua giustizia.
Il profeta però continua a esprimere i suoi dubbi e la mancanza di logica nella condotta di Dio. Se Yahveh è un Dio santo dall’antichità, come può castigare il cattivo con uno che è peggiore di lui? Se ha castigato il suo popolo per mezzo degli assiri e castigherà costoro per mezzo dei caldei ... fin dove arriverà la malizia dell’uomo, e fin dove arriverà questa catena di strumenti divini di castigo? Continuerà ad ammazzare popoli senza compassione?
Questo pensiero latente nella tradizione giudaica, espresso poeticamente in Giobbe a livello personale e in Abacuc a livello internazionale, acquista, nel nostro testo, il colore d’una specie di parabola in azione.
L’aggressore ingiusto è come un pescatore, e i popoli sono i suoi pesci.
Davanti al suo amo al quale offre sacrifici e al suo giacchio al quale brucia incenso, simboli delle sue divinità con tutto d fasto del loro culto e della loro liturgia che ha abbagliato persino gli ebrei, i popoli abboccano ingenuamente sottomettendosi a tributi e altre  esigenze: «fanno grassa la sua parte e succulente le sue vivande». Egli continua a vuotare il suo giacchio, a pescare e a uccidere, facendo del suo potere un dio, e il vero Dio, direttore di questa pesca, continua a osservare in silenzio i banditi, mentre il malvagio divora l’innocente?
Ora il profeta, con un gesto di coraggio, sfida Dio a dargli una risposta.
Le sue parole sono l’eco del modo di sentire del popolo. Come vedetta e sentinella, egli resterà al suo posto fino a che Dio gli risponda. Bella immagine dell’autentica preghiera, di quell’incondizionato stare in ascolto della parola di Dio.
La risposta venne. Dio parlò a lui e, per mezzo di lui, a tutti gli uomini.
Per questo, gli ordinò di mettere la sua risposta in scritto, perché tutti la potessero leggere. In primo luogo, pazienza. Tutto dovrà avvenire senza tardare, ma, «se indugia, attendi, perché certo verrà e non tarderà».
Il tempo non conta nell’eterno presente di Dio. Insieme con la certezza dell’intervento di Dio, l’insicurezza del momento. Durante quest’attesa, «l’ingiusto si gonfia», divinizza la sua rete, ma il suo gonfiore non è altro che vento e vuoto. Al contrario, «il giusto vivrà per la sua fede», salverà la sua vita mediante la fiducia piena e unica in Yahveh, con la sua fedele perseveranza nell’osservanza delle esigenze divine. Questa perla nascosta del libro di Abacuc servirà a san Paolo di base per affermare l’efficacia della fede in Cristo (Rm 1,17; Gal 3,11) e tutto il suo insegnamento sulla giustificazione per mezzo della fede. Il contenuto paolino, come è ovvio, superò di molto il vecchio modello teologico letterario di Abacuc.
 
Seconda Lettura: José María González- Ruiz (Commento della Bibbia Liturgica) - Il profetismo non ha sempre buona stampa: Paolo insiste, come sempre, sull’origine soprannaturale della sua vocazione: egli è apostolo «per volontà di Dio».
È assai curioso osservare che, scrivendo al giudeo Timoteo, gli ricorda che «dà culto a Dio come i suoi antenati». Effettivamente Timoteo era figlio di padre greco e di madre israelita (At 16,1-3); era già cristiano quando Paolo lo conobbe a Derbe; ma, per evitare un conflitto inutile, lo circoncise «per riguardo ai giudei che vi erano in quei luoghi». Paolo insegnava con tenacia che non era necessario passare attraverso la circoncisione per essere cristiano: la fede in Cristo la poteva ottenere anche chi restava nella sua condizione di pagano. Aveva però ricordato strategicamente che i giudei ammessi al cristianesimo procedevano dalla circoncisione. Il caso di Timoteo era chiaro: sua madre era giudea e questo, secondo la tradizione, bastava per considerarlo come tale. Così si spiega quell’atto di accondiscendenza, che ci fa vedere un Paolo fermo nelle sue convinzioni, ma anche dotato di sufficiente flessibilità in un momento concreto della pratica.
Questa condizione di giudeo viene menzionata anche subito dopo, quando parla della madre e della nonna di Timoteo, che dovettero essere pie israelite e che, forse, non s’erano fatte cristiane. Paolo ci dà un mirabile esempio di libertà interiore e di ecumenismo: la sua fede cristiana si collegava direttamente con la sua realtà religiosa precedente, nella quale era perfettamente d’accordo con quelle pie donne, che seguirono la vecchia via religiosa dei loro padri e che, probabilmente, non entrarono nella comunità cristiana.
Paolo ricorda poi a Timoteo che un giorno gli imposero le mani. Questo rito, del quale ha già parlato in 1Tm 4,14, era compiuto «dal collegio dei presbiteri», fra i quali vi era lo stesso Paolo. E questa imposizione delle mani trasmetteva a Timoteo «un dono di Dio». Come vediamo, è un linguaggio assai poco giuridico. E in che consisteva allora questo dono?
Non si trattava di «timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza». Probabilmente, l’ambiente della comunità di Timoteo è dominato dal timore per le nascenti persecuzioni delle quali già cominciava a essere vittima il cristianesimo dei primi tempi. Un cristiano «ordinato» dev’essere un cristiano forte e battagliero, non un dirigente timido ed eccessivamente prudente «secondo la carne».
Per questo, Paolo ricorda a Timoteo: «Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro né di me, che sono in carcere per lui». A quel tempo la proclamazione del vangelo non era circondata di alcun prestigio: le autorità imperiali romane la consideravano addirittura un atto sovversivo e persino criminale. Erano ancora molto lontani i tempi in cui il «martirio» sarebbe stato considerato un eroismo. È quello che avviene agl’inizi di ogni attività profetica, mentre lo «establishment» è rivestito di ogni onorabilità e ogni atto che lo metta in pericolo è considerato, anche da parte dei migliori, come un’ingenua follia o addirittura come un tentativo di sovvertire l’ordine e il benessere d’una società ben costituita. Il profetismo dei primi momenti non è accompagnato dal clamore e dal plauso della stampa contestataria, ma dal silenzio sepolcrale dei buoni e dei migliori. Si tratta d’un profetismo «inconfessato e inconfessabile».
Quella appunto era la situazione della comunità di cui era capo il vecchio Timoteo. E questo spiega come egli ritorni con tanta precisione a quei ricordi e quei consigli che, un giorno, gli aveva lasciato il suo indimenticabile maestro. Di questo maestro egli ricorda che, quando era in prigione, gli diceva che «non si vergognava del vangelo, perché sapeva benissimo a chi aveva creduto» e di chi si era fidato. Paolo morì nella solitudine, senza il minimo applauso dei suoi ammiratori; morì nel terribile e meraviglioso isolotto della sua fede.
Al suo discepolo egli raccomanda che «custodisca il buon deposito».
Com’è evidente, non si tratta d’un elenco scolastico di affermazioni religiose, bensì della fede in Cristo risuscitato, per quanto questo gesto possa essere impopolare.
 
Vangelo
Se aveste fede!
 
Il brano appartiene agli insegnamenti di Gesù dettati lungo il cammino verso Gerusalemme. Tali insegnamenti riguardano la vita del cristiano come sequela del Cristo. Il Vangelo, proclama la potenza della fede nel Padre e indica come trovarla e gli strumenti adatti per tenerla viva: «La purezza della fede non si conquista senza una autentica e profonda umiltà di cuore, senza una devozione pia, senza una costante assiduità nella preghiera. Per questo occorre pregare spesso e dire: “Signore, accresci in noi la fede!”» (Sant’Antonio da Padova). Il breve dialogo tra Gesù e gli Apostoli viene completato da una parabola, che invita a ridimensionare ogni sopravvalutazione delle proprie opere. Le parole di Gesù non vogliono umiliare l’uomo o la sua intelligenza creativa, ma semplicemente gli vogliono ricordare che tutto è grazia.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Parola del Signore.
 
Se aveste fede … Qualche esegeta considera Lc 17,5-10 (la petizione degli Apostoli e la parabola del servo umile) un brano unitario. Gesù «risponde agli Apostoli con un ragionamento a fortiori: se con la vostra poca fede potete ottenere un risultato straordinario, tanto più potrete adempiere il vostro incarico di servi, paghi e felici soltanto di agire sotto lo sguardo benevolo del Padre celeste, che non attende altro dagli esseri umani, se non di essere lodato nel loro servizio umile, riconoscente e filiale» (Angelico Poppi).
Alla richiesta degli Apostoli - Aumenta la nostra fede - Gesù risponde con un detto paradossale, caratteristico del suo linguaggio (Cf. Mc 11,23; Lc 17,2; 18,5).
Anche se non è del tutto chiaro il rapporto tra la domanda e la risposta, il linguaggio iperbolico serve a Gesù a illustrare la potenza della fede: da una parte il gelso, una pianta praticamente inestirpabile; dall’altra, una fede piccola quanto un granello di senape, «che era assunto come parame­tro per indicare la minima traccia visibile ad occhio nudo. Il senso è chiaro: la fede anche nella più piccola quantità ipotizzabile, racchiude una forza straordinaria» (Vittorio Fusco).
Certamente gli Apostoli avevano intuito la potenza e la preziosità della fede e comprendendo che essa è un dono del Signore la invocano da lui con fermezza: la risposta di Gesù non fa altro che sottolineare la felice comprensione dei Dodici.
Il breve insegnamento sulla potenza della fede viene completato dalla parabola del servo inutile che va compresa facendo memoria dei rapporti sociali esistenti nel mondo greco-romano.
La parabola non vuole assolvere il comportamento collerico del padrone dispotico e sopra tutto non vuole svelare il volto del Padre, il quale, invece, nonostante tutto, ha sempre i lineamenti del Dio amorevole sempre pronto a chinarsi sull’uomo per guarirlo, consolarlo, salvarlo. Gesù ha rivelato agli uomini il vero, dolce volto del Padre; il Dio di Gesù non è un padre-padrone esoso, arcigno e tirannico: Dio, nella sua generosità e bontà, «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Quindi, si può ben dire che la parabola evangelica non vuole mettere in luce l’agire di Dio verso l’uo- mo, ma vuole illustrare l’atteggiamento dell’uomo verso Dio mettendo in questo modo in evidenza il giusto valore delle opere umane al cospetto del Signore.
I Farisei sopravvalutavano le loro opere (Lc 18,9-14). Erano convinti che esse dessero loro il diritto ad un’adeguata retribuzione, che fossero esse a far ottenere loro il perdono e l’amicizia di Dio. A questa concezione Gesù contrappone una diversa immagine dell’uomo che decide di mettersi al servizio di Dio. Totalmente impegnato nel servizio affidatogli non deve accampare meriti, diritti o ricompense particolari, ma sentirsi sempre in debito e mai in credito, sempre a mani vuote davanti al Signore.
L’uomo «deve ricordare che quando ha fatto il suo dovere, la ricompensa Dio gliela dà. Non gliela fa mancare perché Dio è un buon pagatore, che non si lascia vincere da nessuno e mai in generosità. Il dono però non risponde ad un’esigenza umana naturale, ma esclusivamente alla munificenza divina» (Vincenzo Raffa).
 
P. Gabriele di S. M. Maddalena (Intimità Divina) - Fede vissuta: La fede deve essere la luce che avvolge tutta la nostra vita e non solo le nostre ore di preghiera.
Nella preghiera tu dici: «Credo in Dio Padre onnipotente», ma pochi istanti dopo, di fronte a un dovere difficile, a una persona importuna, a una circostanza che turba i tuoi piani, dimentichi che tutto ciò è voluto, è disposto da Dio per il tuo bene; dimentichi che Dio è Padre e, come tale, pensa al tuo bene più di quello che tu stesso possa pensarvi; dimentichi che Dio è onnipotente e, come tale, può aiutarti in ogni difficoltà.
Perdendo di vista la luce della fede che ti fa vedere tutte le cose in dipendenza da Dio e da lui ordinate per tuo vantaggio, ti smarrisci in considerazioni, in proteste puramente umane, come se Dio non entrasse per nulla nella tua vita o vi entrasse solo molto poco; ti perdi in scoraggiamenti simili a quelli di chi non ha fede.
Sì, credi in Dio Padre onnipotente, ma non ci credi al punto di riconoscere la sua volontà o, almeno la sua permissione, in tutte le circostanze. Eppure, fino a che la fede non penetrerà nella tua vita al punto di farti considerare tutto in rapporto a Dio, in dipendenza da lui, non potrai dire che la luce della fede è la guida della tua vita. Ossia, lo è, ma solo parzialmente.
Quante volte questa luce vera, che partecipa della luce di Dio, rimane nascosta sotto il moggio della tua mentalità ancora troppo umana, troppo terrena! Gesù ha detto che «non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia lume a tutti quelli che sono in casa» (Mt. 5, 15).
La lucerna della fede è stata accesa in te il giorno del tuo battesimo e tu devi metterla in alto, al di sopra di tutti i tuoi pensieri, di tutti i tuoi ragionamenti, affinché illumini tutta la tua vita, tutta la tua casa: la casa interiore dell’anima tua, la casa esteriore in cui vivi, l’ambiente in cui ti muovi, le persone con le quali tratti.
Chi vive di fede può ripetere le belle parole di suor Elisabetta della Trinità: «Tutto ciò che accade è per me un messaggio dell’amore eccessivo di Dio per l’anima mia».
Per arrivare a questo sguardo di fede vivo e profondo devi abituarti, nelle tue relazioni con le creature, a oltrepassare le cause seconde per risalire alla Causa prima, a Dio, che con la sua provvidenza tutto governa e ordina ai suoi santissimi fini.
Sapendo e credendo che Colui che guida tutte le cose è tuo Padre, ti affiderai al suo governo con piena fiducia e saprai mantenerti sereno anche nelle avversità, ben convinto che Egli sa valersi anche del male, anche degli errori degli uomini e perfino dei loro peccati e della loro malignità per il bene degli eletti: «tutto coopera al bene per chi ama Dio» (Rom. 8,28).
Lo sguardo di fede è lo sguardo più comprensivo e concreto perché tiene conto della realtà intera delle creature e degli avvenimenti, considerandoli, non solo nella loro entità materiale, ma anche nella loro relazione di dipendenza da Dio.
Quanto più saprai guardare tutte le cose in questa luce, tanto più ti avvicinerai al pensiero eterno, alla sapienza infinita di Dio, tanto più giudicherai tutto secondo la verità infallibile di Dio.
Lo sguardo di fede ti renderà così meno difficile accettare certe situazioni dolorose, certe amarezze della vita perché anche in esse ti farà scorgere la mano paterna di Dio che tutto ordina alla tua santificazione.
 
Un apostolo è un umile servo - I fedeli sono chiamati a un umile servizio - Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca 8,31-32: Se dunque tu non soltanto non dici al tuo servitore: Mettiti a tavola, ma richiedi da lui un altro lavoro e neppure lo ringrazi, così nemmeno in te il Signore permette che vi sia l’esclusività di una sola occupazione o di un’unica fatica, perché, finché viviamo, dobbiamo sempre essere in attività.
Riconosci dunque che sei un servitore obbligato a molte incombenze. Non stimarti qualcosa di più, perché sei chiamato figlio di Dio - bisogna sì riconoscere la grazia, ma non ignorare la nostra natura -, e non vantarti se hai fatto bene il tuo servizio; avevi il dovere di farlo. Il sole obbedisce, la luna si sottomette (cf. Gb 10,12-13), gli angeli servono. [ ... ] Perciò anche noi non pretendiamo di lodarci da soli, e non preveniamo troppo presto il giudizio di Dio, né anticipiamo la sentenza del Giudice, ma lasciamola al suo tempo, al suo giudice.
 
Il Santo del Giorno - 5 Ottobre 2025 - Sant’Anna Schaeffer: La storia della beata Anna Schaeffer (1882-1925) è il racconto di come Dio sa trasformare i progetti degli uomini. Mandando all’aria anche quelli che noi gli penseremmo più congeniali. La giovanissima Anna, bavarese, voleva andare missionaria in terre lontane.
Di umilissime origini per raccogliere la «dote» allora necessaria per entrare in convento era andata a servizio presso una famiglia benestante. Ma all’improvviso la morte del padre la costringe a rimandare quel progetto: ci sono cinque fratelli e sorelle più piccole da aiutare. «Aspetterò che diventino grandi», pensa Anna. Ma un incidente nella lavanderia dove lavora la costringe inferma in un letto. A 21 anni è l’inizio di un vero e proprio Calvario, durissimo da accettare. Ma è anche l’inizio di una serie di illuminazioni. Quel letto, a poco a poco, diventa un punto di riferimento per tante persone che vengono da lei a chiedere consiglio. La missione che pensava di vivere in terre lontane la realizza nella sua stanza. Morirà il 5 ottobre 1925. È stata proclamata beata nel 1999 e santa nel 2012. (Avvenire)
 
Concedi a noi, Padre onnipotente,
che, inebriati e nutriti da questi sacramenti,
veniamo trasformati in Cristo
che abbiamo ricevuto come cibo e bevanda di vita.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.