26 OTTOBRE 2025
 
XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C
 
Sir 35,15b-17.20-22a; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
 
Colletta
O Dio, che sempre ascolti la preghiera dell’umile,
guarda a noi come al pubblicano pentito,
e fa’ che ci apriamo con fiducia alla tua misericordia,
che da peccatori ci rende giusti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Papa Francesco (Angelus 23 Ottobre 2019): La seconda lettura dell’odierna Liturgia ci presenta l’esortazione di San Paolo a Timoteo, suo collaboratore e figlio diletto, nella quale ripensa alla propria esistenza di apostolo totalmente consacrato alla missione (cfr 2 Tm 4,6-8.16-18). Vedendo ormai vicina la fine del suo cammino terreno, lo descrive in riferimento a tre stagioni: il presente, il passato, il futuro.
Il presente, lo interpreta con la metafora del sacrificio: «Sto per essere versato in offerta» (v. 6). Per quanto riguarda il passato, Paolo indica la sua vita trascorsa con le immagini della «buona battaglia» e della «corsa» di un uomo che è stato coerente con i propri impegni e le proprie responsabilità (cfr v. 7); di conseguenza, per il futuro confida nel riconoscimento da parte di Dio, che è «giudice giusto» (v. 8). Ma la missione di Paolo è risultata efficace, giusta e fedele solo grazie alla vicinanza e alla forza del Signore, che ha fatto di lui un annunciatore del Vangelo a tutti i popoli. Ecco la sua espressione: «Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero» (v. 17).
In questo racconto autobiografico di san Paolo si rispecchia la Chiesa, specialmente oggi, Giornata Missionaria Mondiale, il cui tema è “Chiesa missionaria, testimone di misericordia”. In Paolo la comunità cristiana trova il suo modello, nella convinzione che è la presenza del Signore a rendere efficace il lavoro apostolico e l’opera di evangelizzazione. L’esperienza dell’Apostolo delle genti ci ricorda che dobbiamo impegnarci nelle attività pastorali e missionarie, da una parte, come se il risultato dipendesse dai nostri sforzi, con lo spirito di sacrificio dell’atleta che non si ferma nemmeno di fronte alle sconfitte; dall’altra, però, sapendo che il vero successo della nostra missione è dono della Grazia: è lo Spirito Santo che rende efficace la missione della Chiesa nel mondo.
Oggi è tempo di missione ed è tempo di coraggio! Coraggio di rafforzare i passi vacillanti, di riprendere il gusto dello spendersi per il Vangelo, di riacquistare fiducia nella forza che la missione porta con sé. È tempo di coraggio, anche se avere coraggio non significa avere garanzia di successo. Ci è richiesto il coraggio per lottare, non necessariamente per vincere; per annunciare, non necessariamente per convertire. Ci è richiesto il coraggio per essere alternativi al mondo, senza però mai diventare polemici o aggressivi. Ci è richiesto il coraggio per aprirci a tutti, senza mai sminuire l’assolutezza e l’unicità di Cristo, unico salvatore di tutti. Ci è richiesto coraggio per resistere all’incredulità, senza diventare arroganti. Ci è richiesto anche il coraggio del pubblicano del Vangelo di oggi, che con umiltà non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Oggi è tempo di coraggio! Oggi ci vuole coraggio!
La Vergine Maria, modello della Chiesa “in uscita” e docile allo Spirito Santo, ci aiuti ad essere tutti, in forza del nostro Battesimo, discepoli missionari per portare il messaggio della salvezza all’intera famiglia umana.
 
I Lettura: L’autore del libro del Siracide affronta un argomento fondamentale per la vita spirituale, quello della preghiera intesa come incontro-dialogo con Dio da realizzarsi in un clima reciproco di amore e di fiducia e non secondo le regole umane, molto meschine, del ‘do ut des’.
 
II Lettura: Paolo sente ormai prossima la morte, e non tanto in ragione dell’età quanto piuttosto perché tutto gli fa prevedere che il processo giudiziario finirà con la condanna capitale. Le sue parole-testamento non grondano di malinconica tristezza, ma rivelano la gioia dell’atleta che, al termine del duro combattimento, già vede vicina la vittoria. A motivo dell’imminente morte dell’Apostolo, Timoteo, il discepolo, si trova dinanzi al gravoso impegno di raccogliere l’eredità del maestro, di custodirla con scrupolo e di testimoniarla, qualora fosse necessario, anche con il dono della vita.
 
Vangelo
Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo.
 
Luke Timothy Johnson: La parabola del fariseo è un invito all’introspezione per ognuno di noi, perché parla di qualcosa di molto radicato nel cuore di ogni uomo. È tanto facile che l’amore di Dio si trasformi in un amore idolatra di se stessi; è tanto facile scambiare il dono per un bene proprio; ciò che viene da altri può essere tanto sfacciatamente presentato come un successo personale. La preghiera può trasformarsi in insensato vanto. La pietà non è un atteggiamento inequivocabile. La bravura letteraria che la parabola rivela è pari alla penetrazione psicologica. Il «devoto» fariseo è tutto confronti e contrasti contorti; non può ricevere nessun dono perché non è capace di smettere di bearsi dei propri pregi. La sua è una preghiera di confronto con gli altri. Peggio ancora, si appropria del ruolo di giudice che spetta a Dio: non si limita a enumerare tutti i meriti che gli danno il diritto a sentirsi giusto, ma si premura di ricordare a Dio le manchevolezze del pubblicano, casomai Dio non le avesse notate. Per contro, il pubblicano è tutta semplicità e verità. Ammette di essere peccatore. Ammette di aver bisogno del dono della giustizia di Dio, perché lui di sua non ne ha. E poiché egli ha bisogno e riconosce il suo bisogno del dono, egli lo riceve.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,9-14
 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 
Parola del Signore.
 
Il fariseo e il pubblicano - La cornice entro la quale l’evangelista Luca pone la parabola è un insegnamento sull’umiltà (Cf. v. 14: Vi dico... chi invece si umilia sarà esaltato). Due uomini salirono al tempio per pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Se la parabola è narrata per riprovare l’operato ipocrita dei farisei, non vuole sottintendere una sentenza di demerito o di condanna sul gruppo storico dei farisei. Occorre, quindi, comprendere il giudizio di Gesù. Egli loda la fede del pubblicano, ma non approva il suo peccato. Il peccatore deve pentirsi e convertirsi (Cf. Mt 3,2; 4,17); deve tendere al possesso di un cuore nuovo e dimostrare il suo pentimento con preghiere, digiuni ed elemosine (Cf. Tob 12,8-9; 1Pt 4,8). Gesù rimprovera l’arroganza dei farisei che con i loro sedicenti meriti credono di potere pilotare il giudizio di Dio e di tirarselo dalla loro parte, ma non disprezza il loro amore per la legge di Dio, la giustizia e lo sforzo di inculcarlo nel cuore degli uomini (Cf. Mt 23,3).
Il fariseo stando in piedi... Il fariseo è l’immagine dell’uomo amato, adulato, onorato dal mondo per quello che ha e per quello che fa, per il posto sociale che occupa, e non per quello che è.
Digiuno due volte ... Il fariseo va al di là delle prescrizioni: digiuna il Lunedì e il Giovedì, mentre questa pratica penitenziale è prescritta una volta all’anno, nel giorno dell’espiazione (Kippur). Così per la decima. La legge comanda il pagamento della decima sui principali prodotti (Dt 14,22-23); il fariseo invece, la paga su tutti i prodotti e per questo si ritiene più giusto degli altri.
Il pubblicano... non osava alzare gli occhi al cielo... Sulla sponda opposta il pubblicano, il quale stava a distanza e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo. I pubblicani sono i “senza legge”, “gente maledetta” (Gv 7,49), o per il mestiere che esercitavano o perché collaborazionisti dell’odiato potere romano. La partita doppia di questo povero uomo non ha voci né di credito né di debito; il pubblicano sa soltanto battersi il petto e chiedere perdono di tutti i suoi peccati: pensieri, parole, opere ed omissioni. E forse nella conta esagerava un po’!
Io vi dico ... Umiltà, fede, preghiera, penitenza..., queste sono le vie maestre che conducono l’uomo al cuore di Dio e obbligano Dio a volgere il suo sguardo pietoso sulla creatura: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Negli ultimi versetti della parabola possiamo cogliere così «l’idea centrale della parabola e dell’insegnamento di Gesù: ciò che ci rende giusti, graditi a Dio, non sono i nostri meriti, le nostre virtù. Ciò che vi è di nostro in noi ci allontana da Dio, solo ciò che vi è di suo in noi ci avvicina a lui: il suo perdono e la sua grazia, accompagnati, da parte nostra, dalla penitenza e dalla fede» (CARLO GHIDELLI, Luca).
 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro - P. Rosario Pistone: «Vi dico che questi...»: la conclusione tratta da Gesù stesso sembra ancora riecheggiare le parole del salmo: il cuore affranto e umiliato (cfr 51,9) non viene disprezzato da Dio, il quale è, appunto, «conoscitore dei cuori di ognuno» (At 1,24). Così, mentre la preghiera del pubblicano si configura come richiesta affinché Dio agisca in un certo modo ( = usando misericordia) quella del fariseo mostra l’orante continuamente soggetto di ogni azione; si potrebbe quasi concludere dell’inutilità del suo salire al tempio: la sua preghiera poteva benissimo essere fatta davanti ad uno specchio piuttosto che davanti al Signore. Diverso l’atteggiamento del pubblicano: il participio perfetto passivo del testo greco, tradotto con «giustificato» rimanda ad una parte all’azione immediata di Dio, mentre sottolinea che gli effetti di questo agire permangono nella vita di colui che ne è stato beneficiato. Le immagini del salire al tempio, battersi il petto, ricevere il perdono suggeriscono un raffronto con Lc 23, 47-48. Anche in questo brano c’è il salire ad un monte, ci si batte il petto, si torna a casa propria. In tale cornice trova posto una confessione di fede che viene qualificata come «dar gloria a Dio». Si potrebbe anzi dire che il non giudicare secondo le apparenze si trasforma in gloria di Dio e, a maggior stizza dei benpensanti, è proprio un pagano che riesce a cogliere i disegni di Dio. La luce della crocifissione di Gesù rischiara perciò in modo particolare la pericope odierna: giustificazione e perdono sono, ormai, in connessione di consequenzialità con la sua morte. Si comprende, dunque, perché Gesù tragga le sue conclusioni non come un qualsiasi maestro della legge ma con l’autorità e la potenza che gli competono in quanto rivelatore del Padre (cfr Mc 1,22). L’accoglienza di tale insegnamento/rivelazione situa, perciò, bene al di là del semplice «non giudicare» per riproporre il salto dei veri adoratori del Padre, i quali, lungi dall’esser legati a questo o quel luogo a questo o quel rito, osservanza o esteriorità, adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23).
 
Pensa a te stesso: «Chiediti sempre se hai peccato in pensieri, se la lingua sia stata troppo facile, se la mano sia stata temeraria. E se troverai che hai peccato molto (e lo troverai, perché sei uomo), usa le parole del pubblicano: “Dio, abbi pietà di me peccatore” [Lc 18,13]. Bada a te stesso. Questa parola ti starà bene nel felice successo, quando la tua nave è portata dalla corrente, e ti gioverà nei momenti difficili, in modo che non diventi orgoglioso nel fasto e non disperi nell’avversità. Ti senti grande perché sei ricco? T’inorgoglisci per la nobiltà dei tuoi antenati? Ti glori della tua nazione, bellezza, onori ricevuti? Pensa a te stesso: Sei mortale; vieni dalla terra e tornerai nella terra [Gen 3,19]» (Basilio di Cesarea, Hom. «Attende tibi ipsi», 5).
 
Il Santo del Giorno - 26 Ottobre 2025 - San Folco Scotti di Piacenza e Pavia - Costruire la pace vera, impegno nel quotidiano: Costruire la pace è un impegno che riguarda tutti e comincia dalla vita quotidiana, dalle nostre relazioni, dai luoghi dove viviamo. Si tratta di un impegno spirituale ma incarnato nel tempo, che rappresenta il cuore del percorso di san Folco Scotti di Piacenza e Pavia, che fece riconciliare tra loro due città da sempre rivali. I suoi resti sono custoditi nella Cattedrale di Pavia, città della quale fu vescovo nel XIII secolo. Folco (o Fulco) secondo la tradizione nacque intorno al 1165 a Piacenza da una celebre famiglia, quella degli Scotti, originari dell’Irlanda, che allora veniva identificata come patria degli “scoti”, ovvero degli scozzesi. All’età di 20 anni entrò tra i canonici regolari di Sant’Eufemia, che vivevano come monaci. Venne poi inviato a Parigi per continuare il percorso di formazione e compiere gli studi di teologia. Al rientro fu eletto priore di Sant’Eufemia, poi canonico, poi arciprete della Cattedrale. Nel 1210 venne scelto come vescovo di Piacenza. Sei anni dopo venne designato vescovo anche di Pavia: Piacentino e vescovo della comunità pavese, egli fu il paciere dei due centri divisi da un’aspra rivalità, dovuta anche agli antagonismi tra le famiglie dei due centri. Non solo: il suo impegno si estese anche alla pacificazione interna delle due singole comunità cittadine. Morì nel 1229. (Avvenire)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.