19 Ottobre 2025
 
XXIX Domenica T. O.
 
Es 17,8-13; Salmo Responsoriale Dal Salmo 120 (121); 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8
 
Colletta
O Padre, che hai accolto l’intercessione di Mosè,
dona alla Chiesa di perseverare
nella fede e nella preghiera
fino a quando farai giustizia ai tuoi eletti
che a te gridano giorno e notte.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Prima Lettura: Tra l’uscita dall’Egitto e l’arrivo al monte Sinai, Israele affronta nel deserto innumerevoli disagi. La sua fede e la sua stessa sopravvivenza sono sempre in pericolo. Ora deve affrontare in campo aperto gli Amaleciti e la preghiera di Mosè, continua e insistente, è l’unica carta vincente per ottenere la vittoria sui nemici. Una salutare lezione: il popolo di Dio non può compiere la sua missione se non chiede continuamente aiuto al Signore nella preghiera.
 
Seconda Lettura: Come un patriarca vicino alla morte (4,6), Paolo traccia al suo discepolo una chiara linea di condotta:
1) fuggire gli eretici e non lasciarsi contaminare dai loro cattivi esempi (3,1-9);
2) sostenersi con l’esempio ricevuto dall’apostolo (3,10-12), rimanendo fedele all’insegnamento tradizionale (3,14; 2,2);
3) istruirsi con le Scritture, arma efficace per combattere l’eresia (correggere), per istruire le anime (insegnare e convincere), per formare alla giustizia, cioè a vivere secondo Dio, e per salvare. L’istruzione biblica costituisce quel bagaglio vitale dell’uomo di Dio che lo rende atto al suo compito (3,15-17). Questi ultimi versetti sono il documento scritturistico più esplicito sulla natura della Bibbia.
Da una parte essa è ispirata da Dio che parla o scrive per mezzo di uomini pieni del suo Spirito (2 Pt 1,21; Mt 22,43); dall’altra è cristocentrica che conduce alla salvezza (Cf Dei Verbum 16 e 25).
San Paolo, quindi, raccomanda a Timoteo di nutrire la sua fede e il suo zelo apostolico con la lettura assidua della Parola di Dio.
 
Vangelo
Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui.
 
La parabola è facile da comprendere: se persino l’uomo più iniquo cede di fronte ad una supplica incessante, Dio, che è buono, non ascolterà e salverà prontamente chi lo invoca? Ma non si confonda la giustizia umana con quella di Dio. L’agire di Dio è molto diverso da quello umano.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,1-8
 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
Parola del Signore.
 
Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?
 
Prima di entrare nei dettagli bisogna ricordare che il racconto lucano è una parabola e che «la parabola è una storia che sovente comprende alcuni dati umoristici con lo scopo di far risaltare un’idea fondamentale. Bisognerà perciò stare attenti a non architettare teorie sulla base di un solo dettaglio. Che il giudice di questa parabola sia un disonesto è provocante, ma ciò non ha nulla a che vedere con Dio» (I Quattro Vangeli Commentati).
Il brano lucano va posto nel suo contesto e cioè tra il diciassettesimo e il ventunesimo capitolo che sono dominati da una domanda insistentemente posta a Gesù: «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20). La risposta di Gesù non lascia spazio a dubbie interpretazioni: il «Regno di Dio in parte è già presente, in parte deve ancora venire. Nel suo primo stadio, il regno “è già in mezzo a voi”; nel suo secondo stadio esso verrà di sorpresa. Nel tempo intermedio i credenti devono cooperare al suo avvento e perseverare nella preghiera» (Adrian Schenker - Rosario Scognamiglio).
La parabola odierna si inserisce in questa cornice di tempo intermedio, che spiega così la domanda finale, apparentemente senza alcun nesso immediato con la parabola: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il fine della parabola poi è abbastanza chiaro: Gesù vuole insegnare ai suoi discepoli la necessità di «pregare sempre, senza stancarsi mai» e di attendere con perseveranza il suo ritorno perché Egli certamente ritornerà come giudice degli uomini.
Luca ama soffermarsi sulla preghiera di Gesù: è l’orante perfetto in continua comunione di amore con il Padre. Gesù prega sopra tutto nei momenti più importanti della sua vita: è orante nelle acque del Giordano (Lc 3,21); è orante sul monte Tabor (Lc 9,28); prega prima di compiere il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Lc 9,16); prega nel Cenacolo quando istituisce l’Eucarestia (Lc 22,19-20); prega prima di consegnarsi alla sua beata Passione (Lc 22,39-46); confitto sulla croce prega per i suoi aguzzini (Lc 23,34); muore pregando: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
La vedova fa parte degli anawim, i poveri di Dio.
Spesso abbandonati alla loro sorte vengono maltrattati, vessati, derubati. Un’accusa mossa ai Farisei è proprio quella di divorare le case delle vedove (Lc 20,47) con pretestuosi e interessati consigli.
Nonostante che la legge ammonisse i giudici ad emettere giuste sentenze (Cf. Dt 16,18), nella prassi contavano molto le regalie e le influenze degli amici potenti. La sentenza iniqua che condannò Nabot alla lapidazione fu confezionata solo per soddisfare i capricci del re Acab e della regina Gezabele (Cf. 1Re 21,1-16). Anna, Caifa e compagni di congrega si serviranno di falsi testimoni per emettere la sentenza di morte che porterà sulla croce il Figlio di Dio (Cf. Mt 26,60-61).
Che il giudice sia iniquo quindi non sorprende chi ascolta la parabola, la sorpresa sta nel fatto che alla fine il giudice, pur consapevole della sua empietà e del suo disprezzo verso il prossimo, si arrenda alle suppliche della vedova. Una manovra meschina pensata unicamente per liberarsi delle noiose insistenze della donna.
Che le istanze fossero veramente insistenti a suggerirlo è il verbo che Luca usa: hypopiazo, alla lettera «sbattere sotto gli occhi».
Nel commentare la parabola, Gesù mette in evidenza il punto focale del racconto: se quel giudice disonesto e crudele accondiscese ad aiutare una povera vedova unicamente per togliersela di torno, come potrebbe Dio, buono, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), non aiutare i suoi eletti che si rivolgono a lui «giorno e notte» con grande fede?
Un’altra grande differenza tra i due attori principali della parabola sta nel loro intervenire: il giudice per la sua iniquità ha obbligato la vedova ad attendere penosamente la sentenza, Dio che è buono (Cf. Lc 18,19) invece interverrà prontamente.
Rifacendoci sempre alla lingua greca, l’espressione corrispondente all’avverbio prontamente può significare sia la prontezza di Dio, sia improvvisamente, di sorpresa: in tal caso il monito che Gesù rivolge al suo uditorio - Dio farà loro giustizia prontamente - assume una valenza preziosissima: è un’incitazione all’attesa e alla vigilanza escatologica: «Sì, vieni presto, Gesù!» (Cf. Ap 22,20).
Se vale quest’ultima lettura, allora si comprende nel suo significato più genuino la domanda di Gesù «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Negli ultimi tempi la fede avrà vita difficile, ma sarà salvato chi vigila nella preghiera con spirito pentito e umile.
 
Angel González (Commento della Bibbia Liturgica) - Vittoria sugli amaleciti: Anche episodi di guerra sono un tema tipico della dimora d’Israele nel deserto. Sono una nota in più della durezza di questo viaggio, privo di ogni conforto naturale, pieno di necessità e di pericoli. E il luogo della prova d’Israele e anche della prova di Dio. In questo contesto, l’incontro con i nemici dà luogo alla proclamazione della guerra santa, nella quale Dio è presentato come un guerriero che combatte per il suo popolo. Gli episodi di guerra di questa tappa della storia sono già orientati verso la seguente, quella della conquista.
Questo episodio di guerra con Amalek e gli amaleciti appartiene ai ricordi delle tribù del sud, nella regione del Negheb. Gli amaleciti erano un gruppo nomade legato a questa regione (Gn 14,7) fin dai tempi a cui risalgono i primi ricordi d’Israele (Nm 24,20). Per classificarli nelle proprie genealogie di popolo, Israele li fa parenti di Edom (Gn 36,12-16). Certamente, le tribù del sud ebbero qualcosa da spartire con essi per contrasti di interesse, nel tempo in cui abbracciarono la vita sedentaria o anche prima.
Sono presentati in questa relazione di inimicizia all’epoca dei giudici e fino ai tempi di Davide (1Sam 15; 1Cron 4,42s). Il Deuteronomio si fa eco di questo primo scontro con essi, e, nell’occasione, costata la loro persistente inimicizia (Dt 25,17s),
Secondo la versione che leggiamo, gli amaleciti prendono l’iniziativa di attaccare, e Mosè ordina a Giosuè un’azione di rappresaglia con un drappello di guerrieri, mentre egli prega sull’alto d’una collina, tenendo in mano la verga taumaturgica. La sorte della battaglia dipende dal suo gesto: mentre Aronne e Cur tengono sollevate le braccia di Mosè, Giosuè riporta piena vittoria.
Giosuè è presentato qui per la prima volta nel suo aspetto di uomo valoroso e guerriero; e comparirà in altri episodi legati a tentativi di entrare nella terra promessa, come nell’eroica impresa degli esploratori (Nm 13s). Sono particolari che annunziano colui che dovrà essere la grande figura della conquista, come racconta il libro che porta il suo nome. Colui che sarà il successore di Mosè ci appare qui come il suo ministro, in azioni che sono il preludio alla conquista.
Mosè non è dipinto con i lineamenti del guerriero neppure in questi episodi di guerra nei quali è presente. Non è un capo militare, ma un intercessore e un taumaturgo. Porta nella mano la verga dei prodigi, che dà tante volte l’impressione di essere una bacchetta magica. Gli storici non si resero conto che avrebbero potuto essere intesi male ricorrendo a questo espediente, per parlare dell’azione salvatrice di Dio. Ma una lettura magica del gesto è fuori posto: la vittoria non è attribuita alla verga né al gesto né alla preghiera di Mosè, bensì a Dio, dell’opera del quale è possibile parlare solo con questi segni o con altri simili. L’atteggiamento di Mosè in preghiera non è quello del mago che controlla il potere divino, ma quello di colui che supplica Dio, il quale risponde liberamente alla supplica. Data la relazione che si stabilisce fra la vittoria e il gesto di supplica, lo scontro ha il carattere d’una guerra santa.
L’artefice di una vittoria, sul piano storico, è un capo militare. Qui, non si dice che l’autore della vittoria sia Giosuè, anche se è lui che impugna la spada. Il risultato non è visto semplicemente come una vittoria militare, bensì come un avvenimento di salvezza, perché la vittoria è data da Dio.
In essa, ha una parte più importante Mosè che supplica, che non Giosuè che combatte. Nel racconto, si legge un’intenzione deliberata di affermare l’opera salvifica dell’esodo, e Dio è posto chiaramente in primo piano. È una testimonianza della fede d’Israele in Dio e nella sua autocomprensione come popolo di Dio.
 
Settimio Cipriani (Le lettere di Paolo) - Il vero uomo di Dio: 14-17 Nonostante gli apparenti successi degli avversari, Timoteo deve «rimanere saldo» nella fede (v. 14), richiamandosi all’autorità dei suoi maestri (Paolo, la madre e la nonna, i numerosi «testimoni» ecc. Cfr. 1,5; 3, 10) e soprattutto della Bibbia a lui ben nota fin dall’infanzia (v. 15), la quale, essendo stata «ispirata da Dio» (v. 16), fornisce abbondantemente la «sapienza» indispensabile per «salvarsi» (v. 15). Essa poi è di somma «utilità» per ogni ministro di Dio «uomo di Dio»; cfr. 1Tim. 6,11) che voglia essere all’altezza del suo compito di maestro e di educatore alla santità e alla giustizia (v. 16).
Di particolare importanza teologica è il v. 16: «Ogni Scrittura è divinamente ispirata e utile (θεόπνευστος καὶ ὠφέλιμος) a insegnare .... », poiché vi si afferma in maniera esplicita il carattere «ispirato» dei Libri sacri, i quali, appunto perché «ispirati», sono di somma «utilità» pastorale. Moltissimi esegeti considerano il termine greco θεόπνευστος,  anziché predicato, come attributo: «Ogni Scrittura, essendo ispirata, è anche utile ...»; ma a torto, a nostro avviso. Comunque, fondamentalmente il significato è lo stesso.
L’aggettivo verbale θεόπνευστος (da Θεός = Dio, e  πνεῦμα = soffio) deve intendersi in senso passivo e non in senso attivo, come pretendono alcuni protestanti, quasi fossero i Libri sacri che ispirano, cioè fanno sentire Dio e non viceversa. Difatti i Padri greci, che conoscevano bene la loro lingua e tutte le antiche versioni lo rendono in senso passivo (p. es. la Volgata traduce «divinitus inspirata»); inoltre tutti i passi, in cui quel termine ricorre fuori dalla Bibbia (Plutarco, Pseudo-Focilide ecc.), hanno senso passivo; infine i composti analoghi hanno quasi tutti senso passivo.
Tale significato è confermato poi da un passo parallelo, incontrovertibile, della 2Piet. 1,20-21: «Nessuna profezia di Scrittura è frutto d’interpreta-zione privata. Infatti nessuna profezia fu giammai proferita per volontà d’uomo; ma portati dallo Spirito Santo, parlarono degli uomini da parte di Dio». D’altra parte, questo passo di S. Paolo deve essere inquadrato nella dottrina generale del N.T. sulla ispirazione.
Per questa loro origine divina le «Scritture» possono davvero definirsi «sacre» (v. 15. Il termine ἱερὰ γράμματα applicato alla Bibbia si legge solo in Filone e Giuseppe Flavio; nel mondo greco romano anche le missive imperiali venivano talvolta dette «sacre lettere») e possono comunicare «la sapienza che conduce alla salvezza» soprannaturale (v. 15).
«Sapienza» qui è da intendersi sia nel senso di conoscenza speculativa, che di rettitudine di giudizio e pratica morale coerente; molto vicina dunque alla «sapienza», di cui parlano frequentemente i Libri sapienziali dell’A.T. A tale «sapienza» bisogna però aggiungere ormai la «fede in Cristo Gesù» (v. 15) per essere salvi: Cristo, di cui sono piene tutte le pagine dell’A.T., come attesa della sua venuta, e di cui traboccano soprattutto le pagine del Nuovo. [...].
Non è piccolo peccato perciò ignorare la Bibbia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est», scriveva stupendamente san Girolamo. Solo una ricca «pastorale» biblica aiuterà i cristiani a riscoprire se stessi e a vivere coerentemente.
 
Giuseppe Barbaglio - Cristo non è solo il modello della nostra preghiera; è l’intermediario attraverso cui ogni preghiera deve passare: Come ogni rivelazione di Dio ci è comunicata attraverso Cristo, così la nostra preghiera deve passare attraverso di lui, o meglio, deve inserirsi nella sua preghiera personale. Questa mediazione di Cristo è attestata, in gradi diversi, in tutto il Nuovo Testamento, poiché costituisce uno degli elementi principali dell’epoca escatologica. All’inizio della seconda lettera ai Corinzi, Paolo proclama con forza la mediazione di Cristo: in lui Dio ha compiuto tutte le promesse in nostro favore (cf. At 13,32s); e quanto a noi, possiamo fare nostra la preghiera di Cristo dicendo «amen» in lui: «E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute sì. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria» (2Cor 1,20).
È degno di nota il fatto che tutte le rivelazioni divine sono venute a Paolo, dopo l’apparizione sulla via di Damasco, direttamente attraverso il Signore Gesù. In particolare, la sua esperienza mistica gli è stata data «nel Cristo» (2Cor 1,5; 12,2). In senso inverso, notiamo che normalmente la preghiera di Paolo non è indirizzata a Cristo, ma a Dio attraverso Cristo: «Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi» (Rm 1,8); «... a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Rm 16,27). L’autore della lettera agli Ebrei è quello che ha maggiormente insistito sulla mediazione di Cristo nella preghiera. Poiché egli fu perfettamente obbediente, è divenuto l’unico sommo sacerdote, mediatore definitivo (2,18; 4,14-16; 5,7-10; 7,23-28; 10,19-22). Il verbo prosérchomai, «accostarsi», è una parola-chiave della lettera: la preghiera consiste nell’avvicinarsi a Dio in e attraverso Cristo (4,16; 7,25; 10,1.22; 12,22-24). Questo «accostamento» è determinato dalla fede, poiché avvicinarsi a Dio significa che egli esiste e che risponde a coloro che lo cercano (11,6). Fissare i nostri occhi su di lui è l’atteggiamento vitale (12,2). Nessun sacrificio, se non quello di lode, è più richiesto (13,15), dopo che Cristo ha offerto se stesso come unico e sovrabbondante sacrificio (7,27; 9,27s).
Anche san Giovanni fa dell’intercessione di Cristo glorificato il cuore della preghiera cristiana.
È essenziale che i credenti rimangano in Cristo, partecipando al suo corpo e al suo sangue (Gv 6,56). Uniti in questo modo a Cristo, come i tralci alla vite (15,8), possono domandare tutto ciò che vogliono, e ogni richiesta sarà esaudita (Gv 15,7).
Questa unione organica suppone l’unione di volontà e di tensione con Cristo, come fondamento della preghiera. Questa legge fondamentale della preghiera cristiana si esprime spesso in Gv nella formula: «Chiedete in nome mio» (14,13-14; 15,16; 16,23-24; cf. Mt 18,19-20). Poiché il nome è l’equivalente della persona, chiedere nel nome di Cristo significa pregare in Cristo, conformando la nostra preghiera alla sua, domandando ciò che egli domanda.
Una simile preghiera si inserisce nella preghiera incessante di Cristo, risuscitato da Dio e sempre vivente, a intercedere in favore dei suoi (Eb 7,25 vedi sopra). Poiché in questo intervento Dio ha compiuto tutte le promesse, ogni preghiera appoggiata su Cristo glorificato sarà certamente esaudita, come appare soprattutto in 1Gv 5,14-15: «Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già quello che gli abbiamo chiesto» (cf. anche Gv 15,7 e 16,23). Questa certezza della preghiera cristiana è uno dei suoi elementi più caratteristici. Nemmeno la preghiera dell’Antico Testamento gode di una sicurezza indefettibile, poiché i peccati del popolo possono rompere l’alleanza, e Dio, in conseguenza, può allontanarsi e non ascoltare più la preghiera (Ez 8-11; Os 5,6s; Sal 89,39-52). I cristiani, invece, non hanno più da temere una rottura della nuova alleanza, la quale, suggellata nel sangue di Cristo, è un’alleanza eterna (Eb 13,20; cf. 9,15; 12,24). Quest’atteggiamento di sicurezza assoluta caratterizza già le prime preghiere cristiane (cf. At 4,24-30). Tale sicurezza si fonda sulla fedeltà di Dio e di Cristo (1Cor 1,9) e sulla potenza di Cristo (Col 1,11). Paolo insiste su questa confidenza, che i credenti devono avere (Ef 3,11-12; cf. 2Cor 3,4; 1Gv 2,1-3).
 
Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare … - Impossibile comprendere la Scrittura in tutta la sua profondità: «Perché se i giorni di un uomo fossero tanti quanti tutti i giorni del mondo da Adamo fino alla fine dei secoli, e quello sedesse a meditare sopra la Sacra Scrittura, non comprenderebbe ugualmente tutta la forza della profondità di quelle parole. Un uomo non può crescere fino alla sapienza di Dio» (Afraat, Dimostrazioni 22,26).
 
Il Santo del Giorno - 19 Ottobre 2025 - San Paolo della Croce. Nel grido delle vittime innocenti il dolore di Dio nell’ora del Golgota: Vediamo sangue e dolore, pianto e disperazione, ma cogliamo la Croce; sentiamo il grido di un’umanità ferita e cogliamo la sofferenza di Dio; vediamo la morte di innocenti e ci troviamo sul Golgota, ai piedi del Crocifisso. E fu proprio con lo sguardo verso la Passione di Cristo che visse e operò san Paolo della Croce. Al secolo Francesco Paolo Danei, era nato a Ovada, nell’Alessandrino, nel 1694, primo di 16 figli di una famiglia di origine nobile ma in ristrettezze economiche e per questo egli dovette aiutare il padre nel suo lavoro di commerciante. Fin da giovane aveva coltivato il progetto di creare un nuovo ordine religioso, immaginando all’inizio una congregazione impegnata a combattere i “Turchi”. A 26 anni si ritirò a vita eremitica presso la chiesa di Castellazzo Bormida. Qui maturò l’idea di un altro Ordine religioso, ispirato alla Passione di Cristo: questo nuovo cammino prese il via nel 1720 quando mise le fondamenta dei «Poveri di Gesù» assieme al primo compagno, il fratello Giovanni Battista. Nel 1725 Benedetto XIII gli permise di accogliere altri compagni nella nuova congregazione: presero vita così i «Chierici scalzi della santa Croce e della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo» (Passionisti). Ordinato prete nel 1727 e ritiratosi sul monte Argentario, vide le regole approvate da Benedetto XIV il 15 maggio 1741. Tornò a Roma nel 1750 impegnandosi nella predicazione per il Giubileo. Nel 1771 Paolo, con la collaborazione della venerabile madre Crocifissa Costantini, fondò le Claustrali Passioniste. Consigliere dei Papi, morì nel 1775. (Matteo Liut)
 
La partecipazione ai doni del cielo, o Signore,
ci ottenga gli aiuti necessari alla vita presente
nella speranza dei beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.