3 Marzo 2025
 
Lunedì VIII Settimana del Tempo Ordinario
 
Sir 17,20-28 (NV) [gr. 17, 24-29]; Salmo Responsoriale Dal Salmo 31 (32); Mc 10,17-27
 
Colletta
Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo
si svolga secondo la tua volontà di pace
e la Chiesa si dedichi con gioiosa fiducia al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Maestro buono - Veritatis Splendor 9: Gesù dice: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17). Nella versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così formulata: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf Lc 18,19).
Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo interroga. Il «Maestro buono» indica al suo interlocutore - e a tutti noi - che la risposta all’interrogativo: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che «solo è buono»: «Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf Lc 18,19). Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene.
Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l’uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente» (Mt 22,37), Colui che è la sorgente della felicità dell’uomo. Gesù riporta la questione dell’azione moralmente buona alle sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine ultimo dell’agire umano, felicità perfetta.
 
I Lettura: Un invito alla conversione, sollecitato dalla benevolenza di Dio, il quale a “chi si pente Dio offre il ritorno”.  Se la punizione è certa (il “contraccambio” per il male compiuto, 18), c’è tuttavia la possibilità che Dio ne sospenda l’esecuzione per qualche tempo, dando così a chi ha sbagliato l’opportunità di non peccare più, di pentirsi e di tornare alla casa del Signore (20-21).
 
Vangelo
Vendi quello che hai e vieni! Seguimi!
 
Il brano evangelico si divide in tre parti: la prima descrive l’incontro di Gesù con un “tale” desideroso di ottenere la vita eterna; la seconda riporta una riflessione del Maestro a proposito delle ricchezze; la terza, Gesù, “guardando in faccia” i discepoli, rivela loro l’onnipotenza di Dio, alla quale nessuno può porre ostacoli o limiti. Tre parti che in ogni caso sono unite da un unico tema: il serio pericolo che rappresentano le ricchezze per il possesso dei beni celesti.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 10,17-27
 
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».
I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
 
Parola del Signore.
 
... un tale gli corse incontro - Per Matteo il “tale” che si accosta a Gesù è un giovane (Mt 19,20.22) e per Luca un notabile, quindi una persona importante (Lc 18,18). Il giovane, agiato, molto ricco, osservante della Legge, cresciuto in un ambiente familiare molto religioso, certamente doveva nutrire buoni propositi. Lo suggeriscono la fretta con la quale va incontro a Gesù e il suo gettarsi in ginocchio davanti al giovane Rabbi di Nazaret. A sentirsi chiamare ‘Maestro buono’, Gesù sembra reagire bruscamente rispondendo che solo Dio è buono. Con questa risposta Gesù non nega la sua divinità. Affatto, perché la conferma. Per san Beda significa che «la stessa unica e indivisibile Trinità ... è il solo unico Dio buono. Il Signore dunque non nega di essere buono, ma afferma di essere Dio; non dichiara di non essere il buon Maestro, ma testimonia che al di fuori di Dio nessun maestro è buono» (Comm. in Marci ev., III).
La domanda posta dal giovane ricco riflette la mentalità farisaica. Per salvarsi bastava ubbidire alla Legge di Mosè e alle tante, infinite prescrizioni legali, liturgiche, morali ad essa direttamente o indirettamente legate. Forse temeva che nel computo mancasse qualcosa. L’uomo è schietto, ma ha una mentalità legalista che lo tiene inevitabilmente lontano dalla fede. È deciso a tutto pur di arrivare al beato possesso, però, confrontandosi con il ‘Maestro buono’, non sa di giuocare su un campo minato.
La risposta di Gesù può sembrare ovvia, ma in verità vuol far uscire allo scoperto l’anonimo interlocutore. Il giovane nel rispondere è indubbiamente sincero, e lo sguardo di Gesù lo sottolinea (Marco ama soffermarsi sullo sguardo di Gesù: cf. 3,5.34; 5,32; 10,23; 11,11). Il giovane non mente perché «se fosse stato colpevole del reato di menzogna o di simulazione, certamente non si sarebbe detto di lui che Gesù lo amava dopo averlo guardato nell’intimo del cuore» (San Beda, ibidem).
Gesù, ottenuta la risposta che aveva sollecitato, indica al giovane quello che gli manca per raggiungere la vita eterna: la sequela cristiana perché solo in essa può trovare quello che cerca. E pone una condizione: abbandonare tutte le ricchezze.
È facile sentirsi a posto perché si osservano i comandamenti di Dio. Ma questo modo di ragionare apre l’uomo all’autosufficienza, alla tentazione di catturare Dio, di imporgli delle regole di comportamento: significa voler costringere Dio ad essere buono perché si osserva la Legge. Formalmente, senza mettere amore nei giudizi, carità nelle parole, misericordia nelle relazioni (cf. Mt 9,13). È il peccato originale dei farisei. Ragionando così il giovane notabile ricco sbaglia di molto.
Gesù non impone l’indigenza, ma l’abbandono fiducioso all’agire di Dio. La proposta addolora il giovane che sconcertato lascia il campo triste perché spudoratamente attaccato ai suoi beni.
 
Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò - Adalberto Sisti (Marco): guardandolo con amore: letteralmente «guardandolo lo amò: notazione propria di Marco, con cui si fa rilevare l’atteggiamento tutto ispirato ad amore e simpatia di Gesù, il quale in tal modo dimostra la sua soddisfazione per essersi incontrato con un uomo sinceramente religioso e desideroso di perfezione. - Va’, vendi tutto ciò che hai: le parole di Gesù rispondono al desiderio di perfezione del giovane e vogliono indicare in modo concreto ciò che egli deve fare per realizzare quell’unica cosa che gli manca. Non contengono, perciò, un obbligo assoluto per tutti, ma solo un consiglio di maggiore perfezione. Per gli ebrei del tempo le ricchezze erano una benedizione di Dio, che permettevano di aiutare il prossimo con opere di ben come l’elemosina (cf Mt 6,2-4). Per Gesù, che più realisticamente vi vedeva un pericolo a un impedimento al raggiungimento del regno di Dio (vv. 23-27), spogliarsi di esse era come rendersi liberi per poter più speditamente camminare dietro le sue stesse orme; anzi, si dovrebbe dire, come il presupposto ala condizione indispensabile per essere suo discepolo (cf Lc 14.33).
 
Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio! - Christa Breuer: Nell’Antico Testamento il ricco era considerato un uomo particolarmente benedetto da Dio. La ricchezza era un segno di un particolare favore divino (per es. Abramo, Gen 13,2). Ma quando più tardi si abusò della ricchezza, i profeti biasimarono spesso i ricchi (per es. Ger 34,8ss). Nel Nuovo Testamento, di fronte al lieto messaggio del regno di Dio e all’attesa imminente, si esige la totale abnegazione per amore del regno dei cieli (cf. la parabola della perla preziosa. Mt 13,45s). Soprattutto Luca condanna ripetutamente il cattivo uso della ricchezza. I ricchi e i sazi vengono esclusi dal regno di Dio; ai poveri e a quanti hanno fame viene promessa la ricompensa in cielo (Lc 6,20ss). Ricercare i beni terreni è stoltezza. Quando giunge la morte, il ricco non può portare con sé ciò a cui ha attaccato la propria anima (Lc 12,16). L’uomo può servire un solo padrone: Dio o mammona (Lc 16,13). Il significato del possesso dei beni in rapporto alla salvezza eterna dell’uomo viene rivelato nella parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Chi vuole entrare nel regno di Dio deve sciogliere il suo cuore dal legame con la ricchezza (Lc 18,29s). Per il credente però la ricchezza è un dono di Dio che deve essere impiegato per il servizio del prossimo (Lc 16,10-12). 
 
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?»: Il tale va via triste, ma rimangono sconcertati anche i discepoli. Per il loro modo di pensare la ricchezza era una benedizione di Dio. Più si era buoni, più si era giusti e più Dio moltiplicava la ricchezza in figli, campi, servi, bestiame, denaro ... e sono ancora più sbigottiti quando le loro orecchie sentono che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
In ebraico il termine ricchezza ha la stessa radice del termine fede che significa appoggiarsi, dare fiducia. Quindi, Gesù ha spostato il problema su un piano diverso: il dilemma della scelta del giovane non è fra ricchezza e povertà, ma fra ricchezza e Cristo stesso. La sacra Scrittura non condanna la ricchezza in se stessa, ma i ricchi disonesti (cf. Lc 6,24), né tanto meno considera la povertà di mezzi economici un bene in sé. Il vero problema sta nel fatto che la ricchezza, quando diventa un fine, quando diventa “un appoggio”, si sostituisce a Dio facendo precipitare nell’idolatria. La contrapposizione fra Dio e il denaro è quindi sul piano religioso e non sociale! È sul piano religioso in quanto si giunge a credere che la felicità derivi dal possesso delle cose e quindi dalle cose stesse. Il regno di Dio non si conquista assommando la Legge al conto corrente, ma seguendo risolutamente Gesù povero, casto, umiliato e obbediente alla volontà del Padre fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2,8).
È il percorso tracciato per ogni discepolo che vuole avere la vita eterna. Altre strade, o peggio ancora scorciatoie, non esistono. Ancora una volta nel messaggio evangelico si impone la radicalità.
 
Lumen gentium 42: La santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr. Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel celibato. Questa perfetta continenza per il regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno e stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito dell’Apostolo, il quale incitando i fedeli alla carità, li esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale «spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo... facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,7-8), e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9). L’imitazione e la testimonianza di questa carità e umiltà del Cristo si impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa, nostra madre, si rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più da vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà e rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio, in ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura umana al di là della stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più pienamente a Cristo obbediente.
 
Alberto Magno: In ev. Mare., X.: ... quanto è difficile per chi confida nelle ricchezze varcare la soglia del Regno di Dio: prima invece (Mc. 10,23) aveva parlato di possesso delle ricchezze ... ora spiega che è la fiducia nelle ricchezze che impedisce di entrare nel Regno ... Altro è avere ricchezze, e altro è amarle. Molti le hanno ma non le amano; molti non le hanno ma le amano; altri le hanno e anche le amano; altri ancora non provano piacere né dall’averle, né dal l’amarle, perché hanno maggiori certezze: sono coloro che possono dire, 10,25 con l’Apostolo (Gal. 6,14): Il mondo, per me, è stato crocefisso e io sono stato crocefisso per il mondo.
 
Il Santo del Giorno - 3 Marzo 2025 - Santa Cunegonda. La santità è esperienza che trasforma se condivisa: La santità è “contagiosa”: vivere come testimoni trasparenti della vita di Dio, affascina il mondo e sparge i semi del Vangelo, trasformando le vite. È di questa dimensione condivisa della santità, che ci parla la vicenda di santa Cunegonda, il cui marito, l’imperatore Enrico II appare come lei nell’elenco dei santi. E fu sicuramente l’imperatrice a mettere il seme della testimonianza eroica di fede nel proprio matrimonio, perché proprio il suo modo di vivere il Vangelo spinse Enrico a non ripudiarla, quando si accorse della sterilità della consorte. Nata in Lussemburgo nel 978, a 20 anni Cunegonda sposò Enrico, che nel 1002 fu incoronato re di Germania e nel 1014 imperatore. Poiché la moglie non poteva dargli una discendenza, il sovrano avrebbe potuto ripudiare la donna, secondo il diritto germanico, ma decise di condividere con lei questo stile di vita. Nel 1007 i due coniugi sovrani fecero costruire il Duomo di Bamberga e un’abbazia benedettina. Con la propria dote poi Cunegonda fece erigere il monastero benedettino di Kaufungen nel 1021. Fu qui, che nel 1025, un anno dopo essere rimasta vedova e aver retto l’Impero per qualche mese, Cunegonda si ritirò infine a vita monastica. Morì nel 1033 o, secondo alcune fonti, nel 1039. (Avvenire)
 
Saziati dal dono di salvezza,
invochiamo la tua misericordia, o Signore:
questo sacramento, che ci nutre nel tempo,
ci renda partecipi della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.