2 Marzo 2025
 
VIII Domenica Tempo Ordinario
 
Sir 27,5-8, (NV) [gr. 27,4-7]; Salmo responsoriale Dal Salmo 91 (92); 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45
 
Colletta
Dio nostro Padre,
che hai inviato nel mondo la Parola di verità,
risana i nostri cuori divisi,
perché dalla nostra bocca non escano parole malvagie
ma parole di carità e di sapienza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Angelus 3 Marzo 2019): L’odierna pagina evangelica presenta brevi parabole, con le quali Gesù vuole indicare ai suoi discepoli la strada da percorrere per vivere con saggezza. Con l’interrogativo: «Può forse un cieco guidare un altro cieco?» (Lc 6, 39), Egli vuole sottolineare che una guida non può essere cieca, ma deve vedere bene, cioè deve possedere la saggezza per guidare con saggezza, altrimenti rischia di causare dei danni alle persone che a lei si affidano. Gesù richiama così l’attenzione di quanti hanno responsabilità educative o di comando: i pastori d’anime, le autorità pubbliche, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad essere consapevoli del loro ruolo delicato e a discernere sempre la strada giusta sulla quale condurre le persone. […].
Nel brano di oggi troviamo un’altra frase significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. Dice così: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» (v.41). Tante volte, lo sappiamo tutti, è più facile o comodo scorgere e condannare i difetti e i peccati altrui, senza riuscire a vedere i propri con altrettanta lucidità. Noi sempre nascondiamo i nostri difetti, li nascondiamo anche a noi stessi; invece, è facile vedere i difetti altrui. […] Tutti abbiamo difetti: tutti. Dobbiamo esserne consapevoli e, prima di condannare gli altri, dobbiamo guardare noi stessi dentro. Possiamo così agire in modo credibile, con umiltà, testimoniando la carità.

I Lettura: L’Antico Testamento, Siracide (Ed. Paoline): Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti: La vita agricola della Palestina suggerisce la prima immagine: un setaccio che trattiene la pula e lascia passare i chicchi di grano da utilizzare subito oppure da conservare per qualche tempo. Il paragone è con la “riflessione” (logismos, pensiero, ragionamento, discussione, ecc.), che funziona anch’essa come un setaccio che trattiene e porta in superficie tutti i difetti di chi parla. Le successive immagini della fornace (5) e dell’albero da frutto (6) vogliono essere un’ulteriore esemplificazione di ciò che è sotteso all’agire a al parlare umano: le imperfezioni e le lacune vengono inevitabilmente a galla.
I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il modo di ragionare, discutere o conversare (il sostantivo dialogismos usato qui contempla tutti e tre questi significati) è rivelatore del carattere della qualità dell ‘uomo: come il forno lo è per le ceramiche del vasaio.
Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini. Come al v. 5, anche qui la parola è concepita come una sorta di test attraverso il quale si misura il valore e I ‘affidabilità di un individuo: il modo in cui uno parla e soprattutto come uno ragiona.
 
II Lettura: Nel testo paolino ai versetti 54 e 55 troviamo citazioni molto libere di Isaia 25,8 e Osea 13,14.
Per l’apostolo Paolo la morte come uno scorpione, possiede un pungiglione (il peccato) di cui si serve per inettiare il veleno.
Gesù Cristo sconfiggendo il peccato (Rm 8,1-2), causa dalla morte (Gen 3,19; Rm 5,12), riveste d’immortalità il corpo mortale dell’uomo.
 
Vangelo
La bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,39-45
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 39 Disse loro anche una parabola, cioè una breve immagine. Un cieco può forse condurre un altro cieco? In Luca questo detto trova un’applicazione differente da quella che si ha in Matteo; per il primo evangelista infatti i Farisei sono accusati di essere dei ciechi e delle guide dei ciechi (cf. Mt., 15, 14); per Luca invece la parabola ha un valore generale, poiché è rivolta a tutti coloro che, senza avere la scienza e la prudenza sufficienti, pretendono di essere la guida degli altri. Chi è cieco non può erigersi a maestro degli altri.
40 Non v’è discepolo al di sopra del maestro; in Matteo l’affermazione ricorre in altro contesto ed ha un senso differente da quello inteso da Luca nel passo attuale; queste parole in Mt., 10, 24-25 significano che la sorte del discepolo di Cristo non può essere diversa da quella riservata al Maestro; perciò come Gesù fu osteggiato e perseguitato, così anche i suoi discepoli dovranno subire ostilità e persecuzioni. L’affermazione di Luca, presa in senso assoluto, significa che ogni discepolo, anche quando avrà raggiunto la sua perfezione, non supererà il Maestro; tuttavia non si vede con chiarezza il nesso che lega questo vers. con il contesto. Il senso dell’affermazione sembra essere il seguente: chi vuol esser la guida degli altri deve essere perfetto, perché nessun discepolo è superiore al maestro; il discepolo quindi deve raggiungere la perfezione del maestro poiché soltanto chi è maestro ha l’esatta conoscenza delle cose e, di conseguenza, può essere una guida illuminata.
41-42 Perché guardi la scheggia che è nell’occhio del tuo fratello; preferiamo tradurre il sostantivo κάρφος con «scheggia» invece di «pagliuzza», come hanno spesso le versioni, per mantenere il parallelismo dell’immagine (trave-scheggia, cioè un pezzettino di legno). Luca e Matteo sono in perfetto accordo; le due immagini della scheggia e della trave sono in sé evidenti e non hanno bisogno di lunghe spiegazioni. Non si parla più di misericordia per gli altri, ma di onestà verso se stessi e di sincero desiderio di emendarsi. Un’altra condizione fondamentale dello zelo autentico è quella di correggere i propri difetti prima di censurare quelli degli altri.
43 Non vi è albero buono che dia frutto cattivo; i verss. 43-44 corrispondono a quelli di Mt., 12, 33-35, tuttavia l’insegnamento è riferito da questi evangelisti in due differenti contesti: in Matteo il principio è applicato ai falsi profeti e serve a discernere la loro dottrina, in Luca al contrario esso ha un valore universale ed assurge a norma di vita spirituale; in Matteo inoltre il detto ricorre in un contesto polemico, in Luca invece esso ha il tono asseverativo di un principio etico.
44 Ogni albero infatti si conosce dal proprio frutto; ogni albero rivela la propria qualità dai frutti che produce. Il vers. non costituisce soltanto una spiegazione del precedente, ma ne è anche una conferma; le cose infatti non possono andare diversamente: dalle spine non si raccolgono dei fichi, né dai rovi dell’uva; i cespugli ed i rovi non possono produrre che spine.
45 L’uomo buono trae fuori dal buon tesoro del suo cuore cose buone; nel vers. si passa ad una maggiore precisazione della dottrina; mentre nei verss. 43-44 si ricorreva ad immagini e si parlava in modo generico delle azioni umane, qui invece si accenna apertamente al cuore ed alla bocca dell’uomo. Il cuore, considerato come il principio della vita morale (cf. Mc., 7, 20-21), viene paragonato ad un tesoro (cf. Mt., 13, 52) che è detto buono o cattivo secondo le qualità del suo contenuto. Poiché la bocca parla di quello di cui il cuore sovrabbonda; il cuore è raffigurato come un recipiente che dà quello di cui è ricolmo. La parola è il segno rivelatore di ciò che c’è nell’intimo dell’uomo. Il detto, preso isolatamente, rileva che vi è una stretta connessione tra quello che l’uomo è realmente nel suo intimo e ciò che manifesta all’esterno; tuttavia se questo principio psicologico viene considerato alla luce delle affermazioni precedenti, esso allora acquista un senso molto più concreto che fa vedere nella parola quasi una specie di opera; con la parola infatti l’uomo buono esercita un influsso benefico, l’uomo malvagio al contrario un influsso nocivo.
 
Ipocrita - Xavier Léon Dufour: Sull’esempio dei profeti (ad es. Is. 29, 13) e dei sapienti (ad es. Eccli 1, 28 s; 32, 15; 36, 20), ma con una forza ineguagliata, Gesù ha messo a nudo le radici e le conseguenze dell’ipocrisia, avendo di mira specialmente quelli che allora costituivano l’«intellighenzia», scribi, farisei e dottori della legge. Ipocriti sono evidentemente coloro la cui condotta non esprime i pensieri del cuore; ma essi sono pure qualificati da Gesù come ciechi (cfr. Mi 23, 25 e 23, 26). Un legame sembra giustificare il passaggio dall’uno all’altro senso: a forza di voler ingannare gli altri, l’ipocrita inganna se stesso e diventa cieco sul suo proprio stato, incapace di vedere la luce.
1. Il formalismo dell’ipocrita. - L’ipocrisia religiosa non è semplicemente una menzogna; essa inganna gli altri per acquistarne la stima mediante atti religiosi la cui intenzione non è semplice. L’ipocrita sembra agire per Dio, ma di fatto agisce per se stesso. Le pratiche più raccomandabili, elemosina, preghiera, digiuno, sono in tal modo pervertite dalla preoccupazione di «farsi notare» (Mt 6, 2. 5. 16; 23, 5). Quest’abitudine di mettere una disarmonia tra il cuore e le labbra insegna a velare intenzioni malvagie sotto un’aria ingenua, come quando sotto pretesto di una questione giuridica si vuol tendere un’insidia a Gesù (Mt 22, 18; cfr. Ger 18, 18).
Desideroso di salvare la faccia, l’ipocrita sa scegliere tra i precetti o adattarli con una sapiente casistica: può così filtrare il moscerino ed inghiottire il cammello (Mt 23, 24), o rivolgere le prescrizioni divine a profitto della sua rapina e della sua intemperanza (23, 25): «Ipocriti! Ben ha profetizzato di voi Isaia dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me» (15, 7).
2. Cieco che inganna se stesso. - Il formalismo può essere guarito, ma l’ipocrisia è vicina all’indurimento. I «sepolcri imbiancati» finiscono per prendere come verità ciò che vogliono far credere agli altri: si credono giusti (cfr. Lc 18, 9; 20, 20) e diventano sordi ad ogni appello alla conversione. Come un attore di teatro (in gr. hypocritès), l’ipocrita continua a recitare la sua parte, tanto più che occupa un posto elevato e si obbedisce alla sua parola (Mt 23, 2s). La correzione fraterna è sana, ma come potrebbe l’ipocrita strappare la trave che gli impedisce la vista, quando pensa soltanto a togliere la pagliuzza che è nell’occhio del vicino (7, 4 s; 23, 3s)? Le guide spirituali sono necessarie in terra, ma non prendono il posto stesso di Dio quando alla legge divina sostituiscono tradizioni umane? Sono ciechi che pretendono di guidare gli altri (15, 3-14), e la loro dottrina non è che un cattivo lievito (Lc 12, 1). Ciechi, essi sono incapaci di riconoscere i segni del tempo, cioè di scoprire in Gesù l’inviato di Dio, ed esigono un «segno dal cielo» (Lc 12, 56; Mt 16, 1 ss); accecati dalla loro stessa malizia, non sanno che farsene della bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene (Lc 13, 15); se osano immaginare che Beelzebul è all’origine dei miracoli di Gesù, si è perché da un cuore malvagio non può uscire un buon linguaggio (Mt 12, 24. 34). Per infrangere le porte del loro cuore, Gesù fa loro perdere la faccia dinanzi agli altri (Mt 23, 1 ss), denunziando il loro peccato fondamentale, il loro marciume segreto (23, 27 s): ciò è meglio che lasciarli condividere la sorte degli empi (24, 51; Lc 12, 46). Qui Gesù si serviva indubbiamente del termine aramaico hanefa, che nel VT significa ordinariamente «perverso, empio»: l’ipocrita può diventare un empio. Il quarto vangelo cambia l’appellativo di ipocrita in quello di cieco: il peccato dei Giudei consiste nel dire: «Noi vediamo», mentre sono ciechi (Gv 9, 40).
3. Il pericolo permanente dell’ipocrisia. - Sarebbe un’illusione pensare che l’ipocrisia sia propria soltanto dei farisei. Già la tradizione sinottica estendeva alla folla l’accusa di ipocrisia (Lc 12, 56); attraverso ai «Giudei» Giovanni ha di mira gli increduli di tutti i tempi. Il cristiano, soprattutto se ha una funzione di guida, corre anch’egli il rischio di diventare un ipocrita. Pietro stesso non è sfuggito a questo pericolo nell’episodio di Antiochia che lo mise alle prese con Paolo: la sua condotta era una «ipocrisia» (Gal 2, 13). Lo stesso Pietro raccomanda al fedele di vivere semplice come un neonato, conscio che l’ipocrisia lo attende al varco (1 Piet 2, 1s) e lo porterebbe a cadere nell’apostasia (1 Tim 4, 2).
 
Clemente di Alessandria, Paedagogus, 1, 3, 9: La reciprocità dell’amore verso il Maestro divino: È conveniente che noi si pratichi un amore di reciprocità verso chi, per amore, ci guida ad una vita migliore; che noi si viva secondo i dettami della sua volontà, non solo in adempienza di quanto egli ordina di fare o astenendoci da quanto egli vieta, ma fuggendo altresì taluni esempi e imitando il più possibile gli altri; è così che compiremo, per similitudine, le opere del Pedagogo e che si realizzerà appieno la parola: “Ad immagine e somiglianza” (Gen 1,26).
Impegnati in questa vita come in una notte profonda, abbiamo bisogno effettivamente di una guida infallibile e precisa. Ora, la migliore guida non è certo il cieco che, secondo la Scrittura, portato per mano da un altro cieco, conduce al precipizio (cf. Mt 15,14 e parr.); è invece il Logos il cui sguardo penetrante arriva al fondo dei cuori (cf. Ger 17,20; Rm 8,27).
E come non può esistere luce che non illumini, né oggetto in movimento che non si muova, né essere amante che non ami, così non può darsi un bene che non sia benefico e non conduca alla salvezza.
Amiamo dunque i precetti del Signore traducendoli nelle azioni: il Logos, facendosi carne (cf. Gv 1,14), ha manifestamente indicato che una stessa virtù concerne ad un tempo la vita pratica e la contemplazione. Sì, assumiamo il Logos come legge; riconosciamo che i suoi precetti e i suoi consigli sono sentieri accorciati e rapidi verso l’eternità: infatti, i suoi comandi sono pieni di forza persuasiva, e non di paura.
 
Il Santo del giorno - 2 Marzo 2025 - Sant’Agnese, Principessa, Badessa: Figlia del sovrano boemo Otakar I, Agnese nacque a Praga nel 1211. Nel 1220, essendo promessa sposa di Enrico VII, figlio di Federico Barbarossa, Agnese fu condotta a Vienna ove visse sino al 1225 quando, rotto il fidanzamento, tornò a Praga per consacrarsi a Dio. Grazie ai Frati Minori, venne a conoscenza della vita spirituale di Chiara d’Assisi. Rimase affascinata da questo modello e decise di imitarne l’esempio. Fondò il monastero di San Francesco per le «Sorelle Povere o Damianite» nel 1234. Insieme a Santa Chiara si adoperò per ottenere l’approvazione di una nuova ed apposita regola che ricevette e professò. Agnese divenne badessa del monastero, ufficio che conservò per tutta la vita. Morì il 2 marzo 1282. Numerosi miracoli furono attribuiti alla principessa badessa che venne beatificata da Pio IX nel 1874 e canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1989. (Avvenire)
 
Saziati dal dono di salvezza,
invochiamo la tua misericordia, o Signore:
questo sacramento, che ci nutre nel tempo,
ci renda partecipi della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.