25 Febbraio 2025
Martedì VII Settimana T. O.
Sir 2,1-13 (NV); Salmo Responsoriale Dal Salmo 35 (37); Mc 9,30-37
Colletta
Il tuo aiuto, Dio onnipotente,
ci renda sempre attenti alla voce dello Spirito,
perché possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà
e attuarlo nelle parole e nelle opere.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
Catechismo della Chiesa Cattolica 2847 Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore in vista di una «virtù provata», e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte.
«Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere [...]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere».
I Lettura: L’Antico Testamento Siracide (Paoline): 2,1 Figlio. Secondo un uso molto frequente nella letteratura sapienziale non solo biblica ma di tutto il Vicino Oriente antico, il maestro iniziava spesso la sua lezione rivolgendosi all’allievo con l’appellativo di “figlio” (teknon). In ambito scolastico ed educativo, questo rapporto tra insegnante e studente era in pratica assimilato a un legame paterno, data la funzione esercitata di istruire e correggere, consigliare e ammonire, come appunto fa un padre che vuole il bene dei propri figli.
Anche in Sir si ritrova dunque più volte questo vocativo, prevalentemente al singolare (3,12.17; 4,1; 6,18.23.32; 10,28; 11,10; 14,11; 31,22), ma anche al plurale (3,1; 23,7; 39,13; 41,14).
• preparati alla tentazione. Il tema della seconda unità letteraria (2,1-18) è, in senso lato, la “prova” (peirasmos), difficile da sopportare e da vincere senza l’aiuto di Dio (6). Ma chi teme il Signore deve avere il coraggio e la sapienza di imparare ad accettarla, non come punizione, bensì come esercizio educativo per fortificare se stesso nella fedeltà. È quanto più avanti si dice di Abramo, lodato perché “nella prova fu trovato fedele” (44,20).
2,2 non ti smarrire. L’esortazione a non lasciarsi sfuggire di mano il timone della vita nel tempo delle avversità si collega a quella precedente di mantenere il cuore “retto” e di perseverare nello sforzo fino a superare la prova.
2,3 Sta’ unito a lui. La stretta unione con Dio presuppone l’affidamento e la speranza che vengono richiamati al
v.6 .
• esaltato ... ultimi giorni. Si affaccia qui l’idea della ricompensa finale come premio che attende chi resta fedele al Signore.
2,5 con il fuoco si prova l’oro. Si ricorre alle immagini tradizionali del fuoco purificatore e del crogiuolo per ricordare che il dolore e la sventura sono un mezzo per liberare il metallo prezioso dalle scorie impure: ossia per verificare se la fede e la fedeltà al Signore sono tali da resistere anche alle prove più dure.
2,6 segui la via diritta. Letteralmente l’invito è a “mantenere diritta” o a “raddrizzare” (euthynō) la via: ad osservare, cioè, i precetti della Legge e a tenere una condotta degna di chi veramente confida nel Signore.
2,7 aspettate la sua misericordia. Fa la sua comparsa la “misericordia” (eleos): prerogativa di Dio (11) e riflesso della sua grandezza (18). Essa è la speranza dell’uomo che crede (6), non solo per i benefici che procura (8-9), ma per la sussistenza stessa della vita, che dalla misericordia riceve continuamente perdono e salvezza (11).
2,10 Considerate le generazioni passate. Per avvalorare le sue affermazioni circa l’utilità dell’affidarsi a Dio, Ben Sira richiama l’esperienza del passato, chiedendosi in forma retorica se mai qualcuno che abbia sperato in
Dio sia mai rimasto deluso o abbandonato. La domanda anticipa già la risposta negativa e, come altrove (cfr. ad es., Gb 4,7; Sal 22,5-6; 37,25), viene posta al centro ed esaltata la bontà misericordiosa del Signore (11), già solennemente proclama davanti a Mosè (Es 34,6-7).
Vangelo
Il Figlio dell’uomo viene consegnato. Se uno vuole essere il primo, sia il servitore di tutti.
Marco presenta la missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio. Un progetto che necessariamente deve passare attraverso la croce e la morte del Figlio di Dio. Un discorso che risulta ostico agli stessi Apostoli.
È da sottolineare il verbo consegnare. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: «per la loro salvezza Dio “consegna” Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito ... solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato “consegnato” a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso [nel senso teologico] dai contemporanei [anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte], ma dalle “mani” di ogni uomo [= dai suoi peccati] alle quali Dio ha consegnato Gesù» (Don Primo Gironi).
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 9,30-37
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Parola del Signore.
La Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): 30-32. Gesù Cristo, che pur si commuove vedendo le folle come pecore senza pastore (M: 9,36), tuttavia le lascia per dedicarsi all’istruzione accurata degli apostoli. Si ritira con loro in luoghi solitari e qui, con pazienza, spiega quei punti che essi non avevano inteso mentre predicava al popolo (Mt 13,36). In concreto, per la seconda volta, il Signore annunzia agli apostoli l’evento imminente della sua morte redentrice sulla Croce, alla quale farà seguito la Risurrezione. Nel suo rapporto con le anime Gesù si comporta allo stesso modo: chiama le anime a raccogliersi nella preghiera e, in questa sede, li istruisce intorno ai suoi disegni più reconditi e sugli aspetti più esigenti della vita cristiana. Successivamente, al pari degli apostoli, i cristiani saranno tenuti a seminare la dottrina del Signore fino agli estremi confini della terra.
34-35. Traendo occasione da una disputa svoltasi alle sue spalle, il Maestro addottrina i discepoli su come vada esercitata l’autorità nella Chiesa: non al modo di un dominatore, ma di chi serve. Egli, nell’adempiere la sua missione di fondare la Chiesa di cui è capo e legislatore supremo, è venuto a servire e non a essere servito (Mt 20,28). Chi non persegue questo atteggiamento di servizio disinteressato, oltre a non possedere una delle più efficaci disposizioni per il retto esercizio dell’autorità, si espone al rischio di farsi trascinare dall’ambizione del potere, dalla superbia e dall’arbitrio. «Essere a capo di un’opera d’apostolato vuoi dire essere disposto a soffrire tutto, di tutti, con infinita carità» (Cammino, n. 951).
36-37. Gesù, per insegnare icasticamente agli apostoli l’abnegazione e l’umiltà di cui hanno bisogno nell’esercizio del loro ministero, prende un bambino, l’abbraccia e spiega il significato di questo gesto: accogliere in nome e per amore di Cristo coloro che, come quel bambino, sono irrilevanti agli occhi del mondo, significa accogliere Cristo stesso e il Padre che l’ha inviato. Nel bambino che Gesù abbraccia sono rappresentati tutti i bambini del mondo, come pure tutti gli uomini bisognosi - gli emarginati, i poveri, gli ammalati - nei quali non si rinviene alcunché di singolare o d’importante da ammirare.
BAMBINO - Léon. Roy (Dizionario di Teologia Biblica): Come tutti i popoli sani, Israele vede nella fecondità un segno della benedizione divina: i bambini sono «la corona degli anziani » (Prov 17,6), i figli sono «rampolli di olivi attorno alla mensa» (Sal 128, 3).
Tuttavia, a differenza di taluni moderni, gli autori biblici non dimenticano che il bambino è un essere incompiuto e sottolineano l’importanza di una ferma educazione: la stoltezza è stretta al suo cuore (Prov 22, 15), il capriccio è la sua legge (cfr. Mt 11,16-19), e per non lasciarlo in balia di tutti i venti (Ef 4, 14) bisogna tenerlo sotto tutela (Gal 4, 1 ss). Di fronte a queste constatazioni sono tanto più notevoli le affermazioni bibliche sulla dignità religiosa del bambino.
I DIO ED I BAMBINI - Già nel VT il bambino, a motivo stesso della sua debolezza e della sua imperfezione native, appare come un privilegiato di Dio. Il Signore stesso è il protettore dell’orfano ed il vindice dei suoi diritti (Es 22,21ss; Sal 68,6); egli ha manifestato la sua tenerezza paterna e la sua preoccupazione pedagogica nei confronti di Israele «quando era bambino », al tempo dell’uscita dall’Egitto e del soggiorno nel deserto (Os 11, 14). I bambini non sono esclusi dal culto di Jahve, partecipano anche alle suppliche penitenziali (Gioe 2, 16; Giudit 4,10s), e Dio si prepara una lode dalla bocca dei bambini e dei piccolissimi (Sal 8,2 s = Mt 21,16).
Lo stesso avverrà nella Gerusalemme celeste, dove gli eletti faranno l’esperienza dell’amore «materno» di Dio (Is 66,10-13). Già un salmista, per esprimere il suo abbandono fiducioso nel Signore, non aveva trovato di meglio che l’immagine del piccino che si addormenta sul seno della madre (Sal 131,2).
Più ancora, Dio non esita a scegliere taluni bambini come primi beneficiari e messaggeri della sua rivelazione e della sua salvezza: il piccolo Samuele accoglie la parola di Jahve e la trasmette fedelmente (1Sam 1-3); David è scelto a preferenza dei suoi fratelli maggiori (1Sam 16, 1-13); il giovane Daniele si dimostra più sapiente degli anziani di Israele salvando Susanna (Dan 13,44-50).
Infine, un vertice della profezia messianica è la nascita di Emmanuel, segno di liberazione (Is 7,14 ss); ed Isaia saluta il bambino regale che, assieme al regno di David, ristabilirà il diritto e la giustizia (9, 1-6).
II. GESÙ ED I BAMBINI - Non era perciò conveniente che, per inaugurare la nuova alleanza, il Figlio di Dio si facesse bambino? Luca ha notato con cura le tappe dell’infanzia così percorse: neonato del presepio (Lc 2, 12), piccino presentato al tempio (2,27), bambino sottomesso ai genitori, e tuttavia misteriosamente indipendente da essi nella sua dipendenza dal Padre suo (2,43-51).
Fatto adulto, Gesù nei confronti dei bambini adotta lo stesso comportamento di Dio.
Come aveva dichiarato beati i poveri, cosi benedice i bambini (Mc 10,16), rivelando in tal modo che essi sono, gli uni e gli altri, atti ad entrare nel regno; i bambini simboleggiano i discepoli autentici, «il regno dei cieli appartiene a quelli che sono come loro» (Mt 19,14 par.). Di fatto si tratta di «accogliere il regno come bambini» (Mc 10 15), di riceverlo con tutta semplicità come un dono del Padre, invece di esigerlo come qualcosa di dovuto; bisogna «diventare come bambini» (Mt 18,3) ed acconsentire a «rinascere» (Gv 3,5) per accedere a questo regno. Il segreto della vera grandezza è «di farsi piccoli» come i bambini (Mt 18,4): questa è la vera umiltà, senza la quale non si può diventare figli del Padre celeste.
I veri discepoli sono precisamente i «piccolissimi», a cui il Padre ha voluto rivelare, come un tempo a Daniele, i suoi segreti nascosti ai sapienti (Mt 11,25s). D’altronde, nel linguaggio del vangelo, «piccolo» e «discepolo» sembrano talvolta termini equivalenti (cfr. Mt 10,42 e Mc 9,41). Beati coloro che accolgono uno di questi piccoli (Mt 18,5; cfr. 25,40), ma guai a chi li scandalizza o li disprezza (18,6. 10).
III LA TRADIZIONE APOSTOLICA - Paolo è soprattutto sensibile allo stato di imperfezione rappresentato dall’infanzia (1Cor 13,11; Gal 4,1; Ef 4,14). Invita i cristiani a proseguire la propria crescita per pervenire insieme alla «pienezza di Cristo» (Ef 4,12-16). Rimprovera ai Corinti il loro atteggiamento puerile (1Cor 3,1ss) e li mette in guardia contro una falsa concezione dell’infanzia spirituale, reagendo, a quanto pare, contro un’abusiva interpretazione delle parole di Gesù (1Cor 14,20; cfr. Mt 18,3 s). Paolo tuttavia non misconosce il privilegio dei piccoli: «Ciò che vi è di debole nel mondo è quanto Dio ha scelto» (1Cor 1,27s). Nella sua carità apostolica, si comporta lui stesso spontaneamente nei confronti dei neofiti, i suoi «piccoli», con la tenerezza di una madre (1Tess 2,7 s; Gal 4,19 s; cfr. 1 Cor 4,15).
Ebr 5,11-14 presenta un insegnamento analogo a proposito della legge della crescita inerente alla vita cristiana: non si tratta di fermarsi allo stadio di bambino che si nutre solo di latte; e se 1Piet 2,2 esorta i nuovi battezzati a desiderare, come dei neonati, il latte della Parola di Dio, è al fine di crescere per la salvezza. Quanto a Giovanni, egli non parla tanto dell’infanzia spirituale, quanto della nuova nascita dei figli adottivi di Dio (1Gv 3,1); ma al pari di Paolo, quando si rivolge ai suoi « piccoli » (1Gv 2,1.18; Gv 13,33) ha accenti paterni.
Clemente di Alessandria (Paedagogus, V, 16,1-17,3): [Gesù] Non si serve del termine “bambino” pensando all’età in cui si manca di intelligenza, come certuni hanno ritenuto. E quando dice: “Se non diverrete come questi bambini, non entrerete nel regno dei cieli” [Mt 18,3], non bisogna interpretarlo scioccamente. In effetti, noi non siamo più dei bambini che camminano carponi, non ci trasciniamo più sul suolo come prima, alla maniera di serpenti rotolandoci con tutto il nostro corpo nei desideri irragionevoli; al contrario, tesi verso l’alto con la nostra intelligenza, separati dal mondo e dai peccati, toccando appena la terra con la punta del piede, pur apparendo presenti in questo mondo, conseguiamo la santa sapienza. Questa, però, sembra una follia [cfr. 1Cor 1,18-22] a coloro che sono orientati alla malvagità. Sono davvero dei bambini coloro che riconoscono Dio come unico Padre, semplici, piccolini, puri»
Il Santo del giorno - 25 Febbraio 2025 - San Gerlando, Vescovo: Al vescovo Gerlando si deve la riorganizzazione della diocesi di Agrigento dopo la lunga occupazione musulmana che durò dall’829 al 1086. Secondo alcuni studiosi Gerlando era nativo di Besançon e fu nominato primicerio della «Schola cantorum» della chiesa di Mileto (Catanzaro) dal gran conte di Sicilia Ruggero I degli Altavilla. Dopo la riconquista di Agrigento dall’occupazione araba e il ristabilimento della gerarchia ecclesiastica nell’isola, Gerlando fu nominato dallo stesso conte, vescovo della città nel 1088. Venne consacrato a Roma da papa Urbano II. La sua opera di riorganizzazione della comunità cristiana di Agrigento, che oggi lo venera come patrono, lo portò in sei anni a costruire l’episcopio e la cattedrale, dedicati alla Madonna e a san Giacomo. A lui si deve la fortificazione del castello di Agrigento, che allora si chiamava Girgenti dal precedente nome arabo «Gergent». Partecipò al convegno di Mazara del 1098 e battezzò il signore arabo Chamud, chiamato poi Ruggero Achmet. Morì il 25 febbraio 1100. (Avvenire)
Dio onnipotente,
il pegno di salvezza ricevuto in questi misteri
ci conduca alla vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.