19 Febbraio 2025
 
Mercoledì VI Settimana T, O.
 
Gen 8,6-13.20-22; Salmo Responsoriale Dal Salmo 115 (116); Mc 8,22-26
 
Colletta
O Dio, che hai promesso di abitare
in coloro che ti amano con cuore retto e sincero,
donaci la grazia di diventare tua degna dimora.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
 L’universalità del peccato nella storia dell’uomo: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 17 Settembre 1986): Già in Genesi 4 leggiamo ciò che avvenne tra i due primi figli di Adamo e di Eva: il fratricidio compiuto da Caino su Abele, fratello minore di lui. E già nel capitolo sesto si parla dell’universale corruzione a causa del peccato: “II Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male” (Gen 6,5). E in seguito: “Dio guardo la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (Gen 6,12). Il Libro della Genesi non esita a dire in questo contesto: “E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gen 6,6). Sempre secondo questo Libro, la conseguenza di quell’universale corruzione a causa del peccato è il diluvio ai tempi di Noè (Gen 7-9). Nella Genesi (Gen 11,1-9) viene menzionata anche la costruzione della torre di Babele, che diventò - contro le intenzioni dei costruttori - occasione di dispersione degli uomini e di confusione delle lingue. Ciò significa che nessun segno esterno, e analogamente nessuna convenzione puramente terrena, basta a realizzare l’unione tra gli uomini, se manca il radicamento in Dio. A questo proposito dobbiamo osservare che, nel corso della storia, il peccato si manifesta non solo come un’azione chiaramente rivolta “contro” Dio; a volte esso è anche un agire “senza Dio”, come se Dio non esistesse; è un pretendere di ignorarlo, di fare a meno di lui, per esaltare invece il potere dell’uomo, del quale si presume oltre ogni limite. In questo senso la “torre di Babele” può essere un ammonimento anche per gli uomini di oggi.
 
I Lettura:  Ladislas Szabò - Il ricordo di una inondazione catastrofica, che risale ad un passato lontanissimo, fu conservato ed ingrandito da leggende sumero-babilonesi di date diverse. Alla luce della fede monoteistica la tradizione biblica fece una cernita tra i materiali di questa eredità popolare e li permeò di un insegnamento morale e religioso. Ciò che era attribuito al capriccio degli dèi gelosi appare ormai come la giusta opera del Dio unico; l’idea di disastro fa posto a quella di epurazione in vista d’una salvezza, rappresentata dall’arca liberatrice; al di là delle forze irresponsabili spicca un giudizio divino che colpisce il peccatore e fa del giusto il seme di una nuova umanità. L’avventura di Noè cessa così di essere un episodio accidentale; riassume e simboleggia tutta la storia di Israele e la storia stessa dell’umanità. Noè solo è detto giusto (Gen 7,1), ma, come Adamo, rappresenta tutti i suoi e li salva con sé (Gen 7,l.7.13). Mediante questa elezione gratuita Dio si riserva un piccolo resto, i superstiti che saranno il ceppo di un nuovo popolo. Se il cuore dell’uomo salvato è ancora incline al peccato, Dio ormai si dichiara paziente: la sua misericordia si oppone al castigo puramente vendicativo ed apre la via alla conversione (Gen 8,15-22). Il giudizio mediante le acque finisce così in una alleanza che assicura la fedeltà di Dio non soltanto alla famiglia di Noè, ma all’intera umanità (Gen 9,1-17).
 
Vangelo
Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa.
 
Il Nuovo Testamento (Ed, Paoline): 8,23 La guarigione del cieco - che presenta tratti simili a quella del sordomuto (7,33) - avviene fuori del villaggio perché Gesù si rifiuta di dare un “segno” ai farisei che glielo chiedono per metterlo alla prova.
8,24 È da notare che questa è l’unica volta in Mc che la guarigione non avviene subito, ma richiede un secondo intervento (25). In un primo momento, infatti, il cieco vede soltanto delle figure in movimento: molto grandi, tanto da apparirgli come “alberi che camminano”. È soltanto dopo la nuova imposizione delle mani che la visione difettosa diventa immediatamente nitida.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 8,22-26
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo.
Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano».
Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

Parola del Signore.
 
Alessandro Pronzato (Un cristiano comincia a leggere il Vangelo di Marco): La prima tappa del ministero di Gesù si era conclusa con l’indurimento del cuore dei farisei e degli erodiani (3, 1-6). La seconda, con l’indurimento dei suoi concittadini di Nazaret (6, 1-6). Questa terza tappa rischia di terminare con l’indurimento del cuore dei discepoli stessi di Gesù.
Siccome l’indurimento del cuore equivale alla cecità, urge una guarigione miracolosa. Ed è ciò che avviene con questo miracolo che presenta un evidente valore simbolico, data la sua collocazione.
Soltanto Gesù è in grado di aprire gli occhi.
Marco ha uno schema fisso nel riferire le guarigioni operate da Cristo. Qui mancano, però, alcuni di quegli elementi caratteristici. Del malato, ad esempio, non è detto nulla (mentre, abitualmente, la malattia viene descritta, si accenna alla sua durata, gravità, agli sforzi vani di medici ... ). Possiamo soltanto procedere per induzione. Costui non dovrebbe essere cieco dalla nascita perché, non appena recupera la vista, distingue tra uomini e alberi. E possiamo anche immaginare la sua condizione non troppo felice, date le caratteristiche dell’ambiente. Nel Medio Oriente, infatti, i casi di oftalmia purulenta risultavano molto frequenti ed erano aggravati dal sole, dalla polvere e dalla sporcizia. Inoltre, quel tipo di infermità, secondo la mentalità ebraica, rappresentava una punizione divina, personale o familiare (nel tardo giudaismo, la cecità era un castigo derivante dall’accettazione di denaro per corruzione, volgarmente « bustarelle » ... ). Mentre la Legge esortava alla pietà per il cieco, come per un peccatore castigato, la tradizione rabbinica arrivava a proibire la visita ai malati di occhi. Un altro elemento mancante in questa relazione di miracolo è la fede. L’uomo rimane totalmente passivo. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Gesù esige la fede, ma questa può anche essere implicita, ed è soltanto Lui che può accertarla. Inoltre, in alcuni casi - come quello del paralitico calato dal tetto - la fede può essere quella dei portatori. E non si può escludere che siamo nello stesso caso.
E un’omissione finale: non viene descritta la reazione della folla.
La novità rilevante, in questo miracolo, consiste nel fatto che la guarigione avviene in due tempi. Pare che Gesù non riesca subito. Dapprima il cieco ci vede confusamente. Soltanto dopo la seconda imposizione delle mani, distingue nitidamente le cose.
Forse anche questo particolare ha una portata simbolica e sta a indicare la lenta, progressiva illuminazione dei discepoli, il loro graduale aprirsi alla comprensione attraverso la fede.
Le omissioni e la novità che si riscontrano in questo racconto legittimano la sensazione che Marco, discostandosi dallo schema familiare, abbia voluto accentuare la portata simbolica del miracolo, che tra l’altro è collocato in una posizione centrale nel vangelo, e fa quasi da cerniera tra le due grandi parti in cui è diviso il racconto di Marco. La prima, infatti, si conclude con il riconoscimento messianico da parte di Pietro. La seconda si apre con la rivelazione, da parte di Gesù, del suo mistero pasquale.
E, proprio nell’imminenza di queste due «illuminazioni», si colloca la guarigione del cieco. Gli occhi degli apostoli cominciano ad aprirsi alla luce.
 
Padre Lino Pedron: Gesù vuole aiutare i suoi discepoli ad aprirsi all’ascolto della verità, a vederci chiaro nella propria vita, a rendersi abili, a parlare correttamente della propria fede. Finché non si vede distintamente, come il cieco guarito, finché non si vede Gesù nella vera luce della sua identità non si è ancora adatti per l’annuncio del vangelo. Non credere significa diventare come i pagani, che somigliano ai loro idoli i quali “hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono...” (Sal 105,4-6). In tutta questa sezione del vangelo Gesù rimprovera più volte i suoi discepoli perché non capiscono o non vogliono vedere chiaramente la realtà. Ma, mentre egli fa questi rimproveri, guarisce un sordo e un cieco, e la cosa diventa un segno della guarigione spirituale dei discepoli. Così essi diventeranno capaci di dire (finalmente!): “Tu sei il Cristo!” (Mc 8,29). Ma la loro guarigione non è completa. Infatti, si riveleranno altrettanto chiusi al nuovo insegnamento di Gesù sul cammino del Cristo verso la croce. Gesù avrà di nuovo a che fare con le loro orecchie tappate e i loro occhi ciechi, e la sua difficoltà a guarire fisicamente un sordomuto e un cieco manifesta appunto la difficoltà a guarire il cuore dei discepoli. Marco descrive questi due miracoli come segni di una guarigione interiore: guarigione della sordità e della cecità spirituale. La guarigione del cieco di Betsaida avviene in due tempi, ed è un fatto unico in tutto il Vangelo: si presta a simboleggiare il viaggio della fede, che avviene progressivamente e non senza esitazioni. Questa guarigione è un gesto profetico di Gesù e simboleggia lo schiudersi degli occhi dei suoi discepoli alla sua messianicità. Gesù è l’unica luce che dà la vista, che illumina ogni uomo [Gv 1,9]. Il discepolo è un cieco che sa di esserlo, riconosce l’impossibilità di guarire da solo e lascia che il Signore agisca secondo la sua misericordia.
 
Teofilo di Antiochia (Ad Autolico, 1,2): Se tu dicessi: «Mostrami il tuo Dio»; io ti direi: «Mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il mio Dio». Mostra quindi se gli occhi della tua mente vedono e se le orecchie del tuo cuore odono. Infatti, come gli occhi corporei percepiscono gli oggetti che si muovono su questa terra, notando le differenze fra una cosa e l’altra, la luce e le tenebre, il bianco e il nero, il brutto e il bello, il simmetrico e l’asimmetrico, il proporzionato e il deforme [e analogamente si deve dire a proposito di quanto è udito dalle orecchie: suoni acuti o gravi o armoniosi], non diversamente le orecchie del cuore e gli occhi della mente possono vedere Dio. Infatti, Dio può essere visto soltanto da coloro che sono in grado di vederlo, da coloro, cioè, che hanno gli occhi dello spirito ben aperti. Infatti, sebbene tutti abbiano gli occhi, quelli di talune persone sono talora avvolti dall’oscurità e perciò incapaci di contemplare la luce del sole. Se i ciechi non sono in grado di vedere nulla, non per questo la luce del sole non risplende: la causa è da ravvisarsi unicamente nella loro cecità. Allo stesso modo, anche gli occhi del tuo spirito sono accecati dai tuoi peccati e dalle cattive azioni che commetti. L’anima dell’uomo dev’essere pura come uno specchio terso. Una volta formatasi la ruggine sullo specchio, il volto dell’uomo non può più riflettervisi: similmente, l’uomo offuscato dal peccato non può vedere Dio. Mostra allora te stesso: se non sei adultero o libertino, ladro o brigante o saccheggiatore, sodomita o insolente o maldicente o collerico; fa’ vedere se non sei invidioso o arrogante o superbo, violento o avaro o ribelle verso i tuoi genitori; se non sei venditore dei tuoi figli. Infatti Dio non si manifesta a coloro che si comportano in questo modo, se non si siano dapprima purificati da ogni macchia. Tutte queste cose portano le tenebre dentro di te, come quando sopraggiunge l’albugine nei tuoi occhi rendendoli incapaci di fissare la luce del sole. Allo stesso modo, anche i tuoi peccati diffondono intorno a te l’oscurità in maniera che tu non possa più riconoscere Dio
 
Il Santo del Giorno - 19 Febbraio 2025 - San Mansueto di Milano. Le due volontà di Cristo: così Dio incontra l’umanità: Accettare lo scandalo di un Dio che «si mescola» con l’umanità è la sfida che il Vangelo pone da sempre al mondo. L’incarnazione è la testimonianza della scintilla di sacralità che sta al cuore di ogni vita, è l’eternità che vive dentro il tempo dell’umanità. Questo messaggio non solo provocò il rifiuto dei testimoni del Risorto da parte del mondo giudaico e di quello romano pagano, ma innescò anche numerosi dibattiti nella Chiesa dei primi secoli. La figura di san Mansueto, 40° vescovo di Milano, è legata proprio alla disputa tra monotelismo e duotelismo: in Cristo, ci si chiedeva, la volontà era unica (quella divina) o coesistevano le due volontà divina e umana? Per Mansueto affermare la presenza di due volontà significava difendere il significato più profondo del Vangelo, che dava dignità alla natura umana nella sua creaturalità. Apparteneva a una famiglia romana e venne chiamato a guidare la Chiesa ambrosiana dal 672 al 681; nel 680 partecipò al Concilio di Roma che dichiarò ortodossa proprio la dottrina del «duotelismo». (Matteo Liut)
 
O Signore, che ci hai fatto gustare il pane del cielo,
fa’ che desideriamo sempre questo cibo che dona la vera vita.
Per Cristo nostro Signore.