12 Marzo 2020

Giovedì II Settimana di Quaresima

Ger 17,5-10; Sal 1; Lc 16,19-31

Colletta: O Dio, che ami l’innocenza, e la ridoni a chi l’ha perduta, volgi verso di te i nostri cuori e donaci il fervore del tuo Spirito, perché possiamo esser saldi nella fede e operosi nella carità. Per il nostro Signore Gesù Cristo... 

Gaudium et spes 27 - Rispetto della persona umana - Scendendo a conseguenze pratiche di maggiore urgenza, il Concilio inculca il rispetto verso l’uomo: ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro «se stesso», tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per viverla degnamente, per non imitare quel ricco che non ebbe nessuna cura del povero Lazzaro. Soprattutto oggi urge l’obbligo che diventiamo prossimi di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti, o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza, rievocando la voce del Signore: «Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Inoltre tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore.

Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31: In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

La parabola dell’“uomo ricco e del povero” è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo, ma conosciuto con il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande), e che gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulábatur cotidie spléndide).  Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a suo favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is 1,17; 58,7).
La ricchezza dell’Epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di bisso». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di bisso, sorta di telo di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’Epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi degli avanzi che cadevano dalla mensa» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo. Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt 7,6).
Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudine presentate come castighi e premi eterni.
Il tema è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché chi «ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto» (Qo 6,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo.
Il «tragico è chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (Carlo Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (cf. Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologia della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri.
Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Cànopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutto qui la «morale» della parabola.

Dio e il denaro - É. Beaucamp e J. Guillet: 1. La rivoluzione evangelica in rapporto alla ricchezza è brutale. Il «Guai a voi, o ricchi, perché avete la vostra consolazione» (Lc 6,24) ha l’accento di una condanna assoluta. Questa assume tutto il suo rilievo quando si pone a confronto delle beatitudini e delle maledizioni del discorso della montagna, le benedizioni e le maledizioni promesse dal Deuteronomio (in occasione della grandiosa scena di Sichem), a seconda che Israele sarà, oppure no, fedele alla legge (Deut 28). Qui la distanza tra il VT ed il NT è una delle maggiori. E questo perché il vangelo del regno annunzia il dono totale di Dio, la comunione perfetta, l’ingresso nella casa del Padre, e che, per ricevere tutto, bisogna dare tutto. Per acquistare la perla preziosa, il tesoro unico, occorre vendere tutto (Mt 13,45 s), perché non si può servire due padroni (Mt 6,24), ed il denaro è un padrone spietato: soffoca nel cupido la parola del vangelo (Mt 13,22); fa dimenticare l’essenziale, la sovranità di Dio (Lc 12,15-21); blocca sulla via della perfezione i cuori meglio disposti (Mt 19,21s). È una legge assoluta, e che non pare ammettere né eccezioni né attenuazioni: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi beni, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33; cfr. 12,33). Il ricco, che ha in questo mondo «i suoi beni» (Lc 16,25) e «la sua consolazione» (6,24), non può entrare nel regno; sarebbe «più facile ad un cammello passare attraverso la cruna di un ago» (Mt 19,23s par.). Soltanto i poveri sono capaci di accogliere la buona novella (Is 61,1 = Lc 4,18; Lc 1,53) e proprio facendosi povero per noi il Signore ha potuto arricchirci (2Cor 8,9) Con la sua «insondabile ricchezza» (Ef 3,8).
2. Dare ai poveri - Rinunziare alla ricchezza non significa necessariamente non comportarsi più da proprietario. Persino al seguito di Gesù vi furono alcune persone agiate, e proprio un ricco uomo di Arimatea accolse il corpo del Signore nella sua tomba (Mt 27,57). Il vangelo non vuole che ci si sbarazzi della propria fortuna come di un peso ingombrante, ma esige che la si distribuisca ai poveri (Mt 19,21 par.; Lc 12,33; 19,8); facendosi degli amici con il «denaro disonesto» - quale fortuna infatti è, nel mondo, immune da ogni ingiustizia? - i ricchi possono quindi sperare che Dio aprirà loro la via difficile della salvezza (Lc 16,9). Lo scandalo non è che ci sia un ricco ed un povero Lazzaro, ma che Lazzaro, «pur desiderando nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco» (Lc 16,21), non ne ricevesse nulla. Il ricco è responsabile del povero; colui che serve Dio dà il suo denaro ai poveri, colui che serve Mammona lo conserva per appoggiarsi su di esso. Infine la vera ricchezza non è quella che si possiede, ma quella che si dà, perché questo dono chiama la generosità di Dio, unisce nel ringraziamento colui che dà e colui che riceve (2Cor 9,11) e permette al ricco di esperimentare anch’egli che c’è «più felicità nel dare che nel ricevere» (Atti 20, 35). 

… soffro terribilmente in questa fiamma - Giovanni Paolo II (Udienza Generale 28 Luglio 1999): Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (n. 1033).
La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato.
La fede cristiana insegna che, nel rischio del ‘sì’ e del ‘no’ che contraddistingue la libertà creaturale, qualcuno ha già detto no. Si tratta delle creature spirituali che si sono ribellate all’amore di Dio e vengono chiamate demoni (cfr Concilio Lateranense IV: DS 800-801). Per noi esseri umani questa loro vicenda suona come ammonimento: è richiamo continuo ad evitare la tragedia in cui sfocia il peccato e a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù che si è svolta nel segno del ‘sì’ a Dio.
La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno – tanto meno l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche - non deve creare psicosi o angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà, all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto Satana, donandoci lo Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre” (Rm 8,15; Gal 4,6).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La dannazione rimane una reale possibilità” (Giovanni Paolo II).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Questo sacramento continui ad agire in noi, Signore,
e la sua efficacia cresca di giorno in giorno
per la nostra attiva collaborazione.
Per Cristo nostro Signore.