4 Febbraio 2020

Martedì IV Settimana T. O.

2Sam 18,9-10.14b.21a.24-25a.30-32; 19,1-3; Sal 85; Mc 5,21-43

Colletta: Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l’anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio, e vive e regna con te...

Due miracoli che mettono in evidenza la potenza taumaturgica di Gesù, ma soprattutto la sua misericordia tesa a lenire ogni tipo di sofferenza.
La donna affetta di emorragia guarisce per la sua fede. Gesù, «con la sua strana domanda: “Chi mi ha toccato”, enfatizza il fatto, mettendo pure in imbarazzo la donna, ma lo fa per esaltare pubblicamente la sua fede e indicarla come requisito necessario per la guarigione» (Bruno Barisan).
Giàiro, mentre parlava con Gesù, è raggiunto da una ferale notizia: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Si era spenta ogni speranza, ma Gesù, come se non avesse inteso nulla, esorta Giàiro a desistere dal suo timore e a continuare ad avere fede in lui. Poi, con Pietro, Giacomo e Giovanni, che saranno le «colonne della Chiesa» (Gal 2,9), si avvia verso la casa di Giàiro.
La scelta dei tre discepoli non è lasciata al caso: più avanti sempre Pietro, Giacomo e Giovanni, e soltanto loro, saranno chiamati ad essere gli unici testimoni privilegiati della trasfigurazione (Mc 9,2) e della preghiera nel giardino del Getsemani (Mc 14,33). Gesù, così come dettava la legge mosaica (Dt 19,15), vuole dei testimoni qualificati che in seguito avessero potuto testimoniare la realtà del miracolo che stava per operare.
Anche la morte è vinta, la bambina risuscitata diventa speranza per l’umanità intera, speranza che diventerà “verità-certezza” quando il Figlio di Dio su una Croce donerà la sua vita per la salvezza del mondo.

Dal Vangelo secondo Marco 5,21-43: In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva - José Maria González-Ruis (Vangelo secondo Marco): Due gesti decisivi di Gesù di fronte alla morte si intrecciano in questo racconto. La donna che soffriva d’una perdita di sangue era il simbolo della frustrazione vitale. Per un’ebrea, la sterilità o il semplice fatto di non avere discendenza equivaleva a una morte prematura. «Dammi dei figli, se no io muoio» (Gn 30,1), invocava Rachele. Effettivamente i figli prolungano la vita, e chi moriva senza figli era una specie di morto totale. Questa era la «vergogna» della povera donna che aveva speso tutto quello che aveva per poter vivere. Quanto alla figlia del capo della sinagoga, quando Gesù giunse alla sua casa, era realmente morta.
Il fatto che i due avvenimenti si intreccino offre una chiave interpretativa. Noi abbiamo una mentalità razionalista, con la quale cerchiamo di verificare se la guarigione della donna fu dovuta realmente a un fatto miracoloso, oppure a una specie di suggestione psichica prodotta dall’entusiasmo che essa sentiva per Gesù. Nel caso della fanciulla «risuscitata», si sono sprecati fiumi d’inchiostro a proposito delle diverse ipotesi razionaliste, la prima delle quali si riferisce alla possibilità d’una «morte apparente». Penso però che perderemmo il tempo se impostassimo il problema in questi termini.
Il secondo evangelista era tutto fuorché un razionalista. Per lui, come per molti fra i suoi contemporanei, il fatto che uno risuscitasse non era cosa molto miracolosa: anche fra i greci, vi erano casi di «risurrezione» con tanto di certificato ufficiale e tutto il resto. Marco intende far vedere che Gesù era il vero Messia, perché la sua parola dava la vita, quale che fosse la spiegazione del fatto concreto) di ricuperare la vita.
Un altro elemento domina il racconto: Gesù che è presentato da Marco con gli stessi tratti di Dio, non è mai presentato con i tratti del superuomo. L’uomo Gesù rivolge domande come tutti gli altri: «Chi mi ha toccato?»; non avvolge la grandezza del suo potere benefico nel mistero d’una magia accecante; tenta di limitare l’importanza del suo potere di guarigione («la bambina non è morta, ma dorme»), e infine si preoccupa d’un particolare della vita quotidiana: «ordinò di darle da mangiare». Egli non veniva a risolvere i piccoli problemi della vita per fare del credente un fannullone. La bambina risuscitata doveva mangiare come tutti gli altri; altrimenti, si sarebbe esposta a una nuova malattia.
Gesù voleva far sapere che la morte non era un limite assoluto: vi era un’altra spiaggia che poteva essere raggiunta unicamente con la fede. È inutile tutto il razionalismo teologico, che spende tante chiacchiere per sognare e giustificare la sua risurrezione corporale e quella di coloro che credono in essa.
Il vero credente attende fermamente di superare la morte, ma lascia a Dio il «come» e il «quando».
In definitiva, il razionalismo non è altro che l’ortopedia d’una fede debole e instabile; e quando il razionalismo si trasforma in apologetica vuol dire che quella comunità è gravissimamente inferma nel suo stato di fede.

Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. Le parole di Gesù non devono far credere che si tratta di morte apparente, la fanciulla è veramente morta. Gesù non è ancora entrato nella camera dove era stato composto il cadavere della fanciulla, ma per il fatto che aveva già deciso di restituire alla vita la figlia di Giàiro, il presente stato della fanciulla è soltanto temporaneo e paragonabile ad un sonno.
Riecheggiano le parole che Gesù dirà quando gli portano la notizia della morte di Lazzaro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Questo linguaggio eufemistico è stato adottato dalla Chiesa che lo ha esteso a tutti coloro che «si addormentano nel Signore» (At 7,60; 13,36; 1Cor 7,39; 11,30), in attesa della risurrezione finale (1Ts 4,13-16; 1Cor 15,20-21.51-52).
Per i brontoloni le parole di Gesù sembrano essere fuori posto: come se Egli avesse voluto irridere il dolore dei genitori, dei parenti e degli amici convenuti in quel luogo di dolore.
La reazione però segnala anche un’ottusa ostilità nei confronti di Gesù e sopra tutto mette in evidenza la mancanza di fede nella sua potenza. È la sorte di tutti i profeti (Lc 4,24). Tanta cecità, pur addolorandolo intimamente, non lo ferma, per cui dopo aver messo alla porta gli increduli piagnoni, prende con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entra dove era la bambina.
Gesù presa la mano della fanciulla, il gesto abituale delle guarigioni (Mc 1,13.41; 9,27), pronuncia le parole ‘Talità kum’. Sono parole aramaiche, la lingua che parlava Gesù, e Marco si affretta a dare la traduzione forse per evitare che venissero scambiate per qualche formula magica. La guarigione è immediata e istantanea.
La risurrezione della fanciulla è collocata all’apice di una sequenza di miracoli dall’impatto dirompente: la tempesta sedata (Mc 4,35-41), la liberazione dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20). La vittoria di Gesù sugli elementi della natura impazziti (Sal 88,10), poi sul potere del maligno, e qui infine sulla morte stessa, mettono in luce la potenza del Figlio di Dio. La raccomandazione di dare da mangiare alla fanciulla svela la tenerezza di Gesù verso gli ammalati e i sofferenti. Allo stupore segue il perentorio ordine da parte di Gesù di non divulgare il miracolo. Il comando, che è in linea con tutti i testi relativi al segreto messianico (Mc 1,25.33-44; 3,12; ecc.), vuole rinviare alla Croce e alla Risurrezione perché soltanto questi eventi possono rivelare la vera identità del Cristo e i doni che Egli è venuto a portare agli uomini (Ef 4,7).
Oggi, Gesù, pur sedendo alla destra del Padre (Rom 8,34; Ef 1,20), continua ad essere presente nella sua Chiesa: per questa Presenza, i credenti fruiscono della potenza salvifica del Cristo celata misteriosamente nei sacramenti fino a che arrivino «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

Morire ogni giorno - P. Grelot: La nostra unione alla morte di Cristo, realizzata sacramentalmente nel battesimo, deve essere ancora attualizzata nella nostra vita di tutti i giorni. Questo è il senso dell’ascesi, mediante la quale «mortifichiamo», cioè: «facciamo morire» in noi le opere del corpo (Rom 8,13), le nostre membra terrene con le loro passioni (Col 3,5). Questo è pure il senso di tutto ciò che manifesta in noi la potenza della morte naturale; infatti la morte ha mutato senso dopo che Cristo ne ha fatto uno strumento di salvezza. Se l’apostolo di Cristo, nella sua debolezza, appare agli uomini come un morente (2Cor 6,9), se è continuamente in pericolo di morte (Fil 1,20; 2Cor 1,9s; 11,23), se «muore ogni giorno» (1Cor 15,31), ciò non costituisce più un segno di sconfitta: egli porta in sé la mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesù si manifesti pure nel suo corpo; è consegnato alla morte a motivo di Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata nella sua carne mortale; quando la morte compie la sua opera in lui, la vita opera nei fedeli (2 Cor 4,10ss). Questa morte quotidiana attualizza quindi quella di Gesù e ne prolunga la fecondità nel suo corpo che è la Chiesa.
Dinanzi alla morte corporale. - Nella stessa prospettiva la morte corporale assume per il cristiano un nuovo senso. Non è più soltanto un destino inevitabile al quale ci si rassegna, un decreto divino che si accetta, una condanna in cui si incorre per effetto del peccato. Il cristiano «muore per il Signore» come aveva vissuto per lui (Rom 14,7s; cfr. Fil 1,20). E se muore martire di Cristo, versando il suo sangue in testimonianza, la sua morte è una libagione che ha valore di sacrificio agli occhi di Dio (Fil 2,17; 1Tim 4 6). Questa morte, mediante la quale egli «glorifica Dio» (Gv 21,19), gli merita la corona di vita (Apoc 2,10; 12,11). Da necessità angosciosa essa è quindi diventata oggetto di beatitudine: «Beati coloro che muoiono nel Signore! Si riposino ormai dalle loro fatiche!» (Apoc 14,13). La morte dei giusti è un ingresso nella pace (Sap 3,3), nel riposo eterno, nella luce senza fine. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis! La speranza di immortalità e di risurrezione che si faceva strada nel VT ha trovato ora, nel mistero di Cristo, la sua salda base. Infatti, non soltanto l’unione alla sua morte ci fa vivere attualmente di una vita nuova, ma ci dà la sicurezza che «colui Che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la vita ai nostri Corpi mortali» (Rom 8,11). Allora, con la risurrezione, entreremo in un mondo nuovo dove «non ci sarà più morte» (Apoc 21,4); o meglio, per gli eletti risorti con Cristo, non ci sarà «seconda morte» (Apoc 20,6; cfr. 2,11): questa sarà riservata ai reprobi, al demonio, alla morte, all’Ade (Apoc 21,8; cfr. 20,10.14). Perciò, per il cristiano, morire è in definitiva un guadagno, perché Cristo è la sua vita (Fil 1,21). La condizione presente, che lo lega al suo corpo mortale, è per lui opprimente: preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2Cor 5,8); ha fretta di indossare la veste di gloria dei risorti, affinché ciò che c’è in lui di mortale sia assorbito dalla vita (2Cor 5,1-4; cfr. 1Cor 15,51-53). Desidera andarsene per essere Con Cristo (Fil 1,23). 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La morte dei giusti è un ingresso nella pace.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che per la forza di questo sacramento,
sorgente inesauribile di salvezza,
la vera fede si estenda sino ai confini della terra.
Per Cristo nostro Signore.