31 Dicembre 2019

MARTEDÌ VI GIORNO FRA OTTAVA DI NATALE

1Gv 2,18-21; Sal 95 (96); Gv 1,1-18

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che nella nascita del tuo Figlio hai stabilito l’inizio e la pienezza della vera fede, accogli anche noi come membra del Cristo, che compendia in sé la salvezza del mondo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Vangelo - In principio era il Verbo... Gesù è l’Icona perfetta del Padre, è il rivelatore del Padre, è il missionario del Padre: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.” (Gv 3,16). Gesù è il progetto del Padre: in Cristo “mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.” (Ef 1,7-10). Gesù è la Parola del Padre: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.” (Eb 1,1-2). Gesù “è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb1,1-3). Gesù viene nel mondo nella debolezza della carne e a chi lo accoglie da il potere di diventare figli di Dio: in Gesù il “mondo invisibile” si fa visibile e si dona alla contemplazione amorosa dell’uomo.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,1-18: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto - Henri van den Bussche (Giovanni): «Conoscere» per il semita comporta tutta la gamma delle azioni coscienti con una netta insistenza sull’aspetto sperimentale di queste azioni. L’orientale non è né filosofo né metafisico; per lui conoscere una persona comporta più di una conoscenza nominale, di una semplice identificazione; conoscere qualcuno è sapere ciò che rappresenta, ciò che vale. Una simile conoscenza impone un comportamento, un atteggiamento. Quindi conoscere Dio significa sapere ciò che Dio vale, è venerare la sua santità, la sua grandezza infinita. Conoscere Iahvé significa sapere ciò che possiamo attendere dal Dio dell’Esodo, la protezione condiscendente e duratura di Iahvé. Conoscere la luce è per san Giovanni riconoscerla come la luce definitiva, unica, valida per ogni uomo. Il lamento giovanneo si fa l’eco del lamento profetico: Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce nulla, il mio popolo non comprende nulla (Is. 1,3).
Egli è venuto tra i suoi e i suoi non l’hanno ricevuto. L’espressione greca (eis ta idia) traduce l’espressione ebraica «la sua casa propria» (beitho). Alcuni autori pensano che l’espressione «in casa sua» indichi il mondo che appartiene in proprio alla luce, perché essa lo ha creato. I suoi designerebbe allora i suoi sudditi, quelli che le appartengono perché essa li ha creati, tutti gli uomini. Ma se si osserva che nel pensiero di Giovanni il mondo indica il mondo giudaico, si può cogliere il crescendo del brano. Israele doveva conoscere Iahvé, riconoscerlo come Creatore ma soprattutto come il Dio dell’elezione e dell’alleanza. Il popolo di Israele è proprietà di Iahvé; nella formula dell’alleanza, Iahvé chiama Israele mio popolo. Però la venuta della luce tra i suoi ricorda non tanto gli avvenimenti dell’Esodo quanto la dimora della Sapienza divina in Israele. La luce non è venuta in un mondo estraneo, ma nel suo ambiente proprio, tra persone alle quali essa avrebbe dovuto essere familiare a motivo di una preparazione secolare al suo avvento. Ma, anch’essi, i familiari non l’accolsero (Gv 8,35).

A quanti però lo hanno accolto - Bibbia di Navarra (nota a Gv 1,12): Accogliere il Verbo vuol dire riceverlo con la fede, poiché è per mezzo della fede che Cristo dimora nei nostri cuori (cfr Ef 3,17). Credere nel Nome suo significa credere nella sua Persona, in Gesù che è il Cristo, il Figlio di Dio. In altri termini, i credenti nel suo Nome sono coloro che serbano integro il nome di Cristo, in maniera tale da non sottrarre alcunché alla sua natura divina o alla sua umanità” (SAN TOMMASO D’AQUINO, In Evangelium Ioannis expositio et lectura).
«Ha dato potere» equivale a dire “ha concesso” in virtù di un dono: la grazia santificante; infatui “non è in nostro potere diventare figli di Dio” (Ivi). Per mezzo del Battesimo questo dono viene esteso a tutti gli uomini senza limitazione di razza, di età, di cultura o altro (cfr At 10,45; Gal 3,28). L’unica condizione richiesta è la fede.
«Il Figlio di Dio si fece uomo - osserva sant’Atanasio - perché i figli dell’uomo, cioè i figli di Adamo, potessero diventare figli di Dio [...]. Cristo è Figlio di Dio per natura, mentre noi lo siamo per grazia» (De Incarnatione contro arianos, 8). Si tratta della nascita alla vita soprannaturale, nella quale “tutti fruiamo della medesima dignità: schiavi e liberi, Greci e barbari, sapienti e ignoranti, uomini e donne, fanciulli e vecchi, ricchi e poveri... Tanto grande è la forza della fede in Cristo, così possente è la grazia!» (Omelia sul Vangelo di san Giovanni, 10,2).
«L’unione di Cristo «con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione: di san Giovanni nel prologo del suo Vangelo: “Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio”. Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna (cfr Gv 4,14)» (Redemptor hominis, n. 18).

E il Verbo si è fatto carne - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): E il Verbo si è fatto carne; secondo il P. Boismard la congiunzione «e» lascia supporre che nel testo immediatamente precedente si parli del Verbo; ciò confermerebbe la posizione critica che egli accetta (la lettura: «... ma da Dio è generato»). La generazione del Verbo da Dio e la sua nascita da Dio preparerebbero, secondo questo esegeta, l’affermazione storica dell’apparizione del Verbo incarnato tra gli uomini (nascita terrestre). In verità la congiunzione «e» inizia la seconda sezione del Prologo. Carne; designa l’intera natura umana; il termine tuttavia accentua la condizione di mortalità e di debolezza in cui si trova l’uomo (cf. Genesi, 6,3; Isaia, 40,6; Salmo, 56 [55],5). Il Verbo assume la natura umana senza cessare di essere Dio; l’affermazione dell’autore esprime in forma inequivocabile la realtà dell’incarnazione (cf. 1Giov., 4,2; 2Giov.,7). Ha dimorato; in greco ἐσκήνωσεν, letteral.: «fissò la tenda», «dimorò sotto la tenda». Il verbo fa pensare alla piena realizzazione della presenza o abitazione di Jahweh nel tabernacolo (tenda) o nel tempio dell’antica alleanza (cf. Esodo, 25,8; Numeri, 35,34); l’idea indicata dal verbo greco si richiama a tutta una tradizione biblica che parla della presenza di Dio tra il popolo eletto e della sua presenza nella Gerusalemme dei tempi messianici (cf. Gioele, 4,17,21; Zaccaria, 2,14); nell’Ecclesiastico si trova un’ampia illustrazione della dimora della Sapienza in Israele, dimora che la Sapienza attua per mezzo della legge mosaica (cf. Ecclesiastico, 24,7-22). Vari esegeti pensano che l’evangelista abbia usato intenzionalmente il verbo σκηνόω perché richiama la radice verbale shakan, da cui deriva il sostantivo ebraico shekinah, che significa «abitazione» ed è una metonimia per designare Jahweh stesso. I rabbini ricorrevano a questa metonimia per motivi di riverenza religiosa, per evitare cioè l’impiego del nome ineffabile di Jahweh. Tra noi; l’espressione sottolinea con accento compiaciuto l’importanza ed il significato della presenza del Verbo tra gli uomini. Noi abbiamo veduto la sua gloria; «noi»: indica i testimoni oculari dell’attività e particolarmente dei miracoli di Gesù; l’evangelista insiste nel suo scritto sul valore della testimonianza (cf. anche 1Giov., 1,1). Per il Lamarche «noi» designerebbe il popolo ebraico. Abbiamo veduto; la formula non implica soltanto il fatto fisico e materiale del vedere le opere di Gesù, ma anche l’atto della fede che scopre al credente la natura divina di Cristo; infatti tra gli spettatori dei miracoli di Gesù, soltanto una parte ha veduto la «gloria» del Figlio di Dio (si richiami quanto è rilevato in Giov., 6,11-12 a proposito del miracolo della moltiplicazione dei pani). La sua gloria; nell’Antico Testamento una nube ricopriva lo splendore della gloria di Jahweh presente nel santuario (cf. Esodo, 40,34-35; 1Re, 8,10-13; Isaia, 6,1-4 ecc.); nel Nuovo Testamento invece il Figlio di Dio manifesta la propria «gloria». La «gloria» (δόξα) è un sostantivo caro al quarto evangelista e ne caratterizza lo scritto; il termine designa un attributo proprio di Dio e si ricollega a tutta una tradizione contenuta nell’Antico Testamento, secondo la quale la gloria si identifica con una manifestazione sensibile della presenza di Dio. In Cristo la «gloria» si rivela nelle opere divine che egli compie, nominatamente nei miracoli (cf. Giov., 2,11); tale gloria, come si è accennato, si rivela a coloro che credono (cf. Giov., 11,40). Gloria [che hacome unigenito dal Padre; «come»: greco ὡς; questa preposizione, tradotta dalla Volgata quasi, non ha valore comparativo, ma asseverativo; essa indica una qualità del soggetto e va intesa nel modo seguente: la gloria che è propria e compete all’Unigenito. «Unigenito»; μονογενής, è attribuito a Gesù soltanto dal quarto evangelista (cf. Giov., 1,14,18; 3,16j,18; 1Giov., 4,9); il sostantivò mette in evidenza il carattere singolare ed unico della figliolanza del Verbo (Figlio unico). Pieno di grazia e di verità, l’evangelista indica il seguente sviluppo di pensiero: il Logos si è fatto carne ed ha dimorato tra noi... pieno di grazia e di verità. L’aggettivo πλήρης, quantunque distante dal soggetto, che si trova all’inizio della frase, si riferisce ad esso, poiché tutte le affermazioni contenute nel vers. gravitano intorno al Logos. La proposizione è ridondante e sovraccarica; le parole: «e noi abbiamo veduto... dal Padre» costituiscono una parentesi. «Pieno di grazia e di verità»; i due sostantivi designano in modo compendioso tutti i benefici che il Verbo incarnato comunica agli uomini (cf. vers. 17). La formula espressiva «grazia e verità» deriva dal Vecchio Testamento (cf. Esodo, 34,6); tuttavia nel Prologo il senso della frase è molto più ricco; infatti là grazia e la verità (hesed we’emeth) non significano soltanto il favore e la fedeltà di Dio, ma il dono della vita e della verità sostanziale, fonte della rivelazione cristiana, dono che viene elargito ai credenti dal Verbo fatto uomo. La «grazia» (χάρις), termine frequentissimo in San Paolo, non ricorre più nel quarto vangelo; la «verità» (ἀλήθεια) invece diverrà uno dei temi più cari a Giovanni.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Sostieni, Signore, con la tua provvidenza
questo popolo nel presente e nel futuro,
perché con le semplici gioie che disponi sul suo cammino
aspiri con serena fiducia alla gioia che non ha fine.
Per Cristo nostro Signore.