20 Novembre 2019

Mercoledì XXXIIII Settimana T. O.

 2Mac 7,1.20-31; Salmo Responsoriale 16 (17); Lc 19,11-28

Colletta: Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La parabola corrisponde a quella dei talenti, che Matteo colloca nel discorso escatologico (25,14-30), tra le parabole della vigilanza. Ma le divergenze tra le due redazioni sono tanto notevoli che numerosi esegeti le fanno derivare da fonti diversi. Inoltre, molti credono che «la parabola delle monete d’oro o dei talenti» faccia riferimento a Erode Archelao il quale era partito per Roma per ricevere il titolo di re della Giudea. Al di là di questa nota, l’insegnamento del racconto è molto chiaro. Gesù è l’uomo che intraprende il viaggio, i servi i credenti, le monete d’oro il «patrimonio del padrone dato da amministrare in proporzione diverse “a ciascuno secondo le sue capacità”» (Clara Achille Cesarini). Non è degno del premio celeste chi non sente la responsabilità di far crescere il regno. L’inattività del servo malvagio, alla fine della vita, sarà giudicata con severità.

Dal Vangelo secondo Luca 19,11-28: In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”. Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”. Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”. Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”». Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.

In quel tempo, Gesù disse una parabola - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): La parabola funge da transizione dalla sezione precedente (18,15-19,27), incentrata sulla ricerca del regno, all’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme. Ormai i discepoli erano convinti che egli fosse il Messia e pensavano che avrebbe presto inaugurato il regno di Dio, «sull’istante», con la sua intronizzazione regale in occasione delle festività pasquali imminenti. Nel contesto lucano la parabola delle mine serve a chiarire come prima del compimento del regno di Dio, nel giorno del giudizio finale, dovesse trascorrere molto tempo. Era quindi importante far fruttificare i doni ricevuti, per non restarne esclusi. Si tratta quindi di una «parabola di giudizio» (Jeremias). L’ingresso messianico a Gerusalemme andava distinto dalla parusia, quando il Figlio dell’uomo verrà nella gloria per attuare pienamente e in modo definitivo la sovranità di Dio sul mondo. Il ritardo della parusia costituiva per i cristiani un problema che era sentito acutamente. Dal contesto lucano della parabola e da alcune accentuazioni risulta chiaro che l’evangelista prevedeva un periodo di tempo piuttosto prolungato prima del ritorno del Signore. Si tratta del tempo intermedio della chiesa, nel quale bisogna impegnarsi a fondo con fedeltà e costanza per l’irradiazione del vangelo tra le genti, senza indugiare in un’attesa sterile e improduttiva della parusia gloriosa del Cristo (cf. At 1,11). «La parabola delle mine, scrive Stoger, riduce l’entusiasmo per una imminente parusia e incoraggia in compenso la speranza escatologica» (II, p. 146).

Decodificare il testo evangelico è molto facile. Le monete non sono le buone qualità o le virtù dei credenti, ma i beni, «i misteri del Regno» (Mt 13,11), che il padrone dà da amministrare ai suoi servi secondo le loro capacità. L’«uomo» è Cristo che, ormai prossimo alla morte, lascia agli Apostoli, e quindi alla Chiesa, il suo patrimonio per riscuotere, al suo ritorno, i frutti prodotti dalla operosità di ciascuno. Il ritorno non è soltanto quello ultimo della fine dei tempi, ma anche quello del rendiconto individuale alla morte di ciascun discepolo. Al ritorno del padrone, dopo la resa dei conti, il giudizio divino sarà senza sconti. I servi sono i cristiani, in modo particolare quelli che hanno compiti di responsabilità nella comunità cristiana, o tutti gli uomini di buona volontà chiamati a lavorare indefessamente per la crescita del Regno di Dio. I servi devono attendere il ritorno del Signore trafficando il denaro ricevuto e il premio della fedeltà consisterà in un incarico di maggiore responsabilità. L’ammissione nella gioia del Signore significa che il servo entrerà in una perfetta comunione di vita con il suo padrone.
Il padrone non dà comandi, lascia tutto il suo patrimonio alla libera iniziativa dei servi, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 26,15). Il Signore Dio nel consegnare agli uomini i suoi beni non li costringe ad operare secondo schemi già prestabiliti, ma li lascia liberi di trovare i modi per metterli in pratica, per trafficarli, per incrementarli. Così per quel bene grande e prezioso che è la sua Parola. Affidata come inviolabile deposito alla Chiesa è custodita quando è trafficata, cioè messa in pratica; quando viene annunciata senza timore, con grande franchezza e non quando se ne fa un tesoro nascosto.
Come risulta chiaramente dal testo, tutta la parabola si concentra sul comportamento del terzo servo: quello che ha tenuto la moneta nascosta in un fazzoletto e per questo viene rimproverato e condannato dal padrone. Trafficare il denaro comporta dei rischi, il rischio di bruciare in operazioni commerciali tutto il patrimonio ricevuto in affidamento, ma vi è la possibilità di accrescerlo. Con i doni di Dio bisogna rischiare. Il servo infingardo non ha perso nulla, ma non ha guadagnato nulla. Poteva depositarlo in banca e ritirare a tempo debito gli interessi. Una precauzione che l’avrebbe messo al riparo dall’ira del suo padrone. Il fatto paradossale del servo pigro che viene spogliato dell’unica moneta e data a chi ne aveva dieci «indica che i poteri conferiti ai discepoli aumentano quando sono esercitati bene e diminuiscono quando non lo sono. Il castigo per questo tipo di infedeltà è severo quanto quello inflitto per mancanze più positive; è l’espulsione nelle tenebre esteriori» (John L. MacKenzie).
La «parabola delle monete d’oro» sembra suggerire che la non risposta ai doni di Dio sia dettata dalla paura. È come se l’uomo avesse paura di Dio. Come, in un Giardino, si era nascosto dietro una siepe perché si era scoperto nudo, così, ora, nasconde sotto terra i semi della salvezza: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Ma forse nasconde i doni di Dio sotto terra perché non diventino Parole di Dio che possano parlare al suo cuore, alla sua mente e sopra tutto alla sua coscienza. La possibilità che il seme diventi Parola di Dio ha scatenato nel servo infingardo, tardo di mente e di cuore, la paura, la paura di Dio. Così, la paura ha finito per paralizzare, complessare, bloccare il servo malvagio. La paura della reazione del padrone esigente ha ucciso la sua semplicità, la sua purezza, la sua creatività... un vero e proprio suicidio: «... gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi» (Mt 27,5). La paura ha impedito al servo dell’unico talento di fare il calcolo delle probabilità e lo ha bloccato nell’immobilismo fissandolo per sempre in una eternità buia senza luce, salato col fuoco (Cf. Mc 9,49), dov’è pianto e stridore di denti.

Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato - Lino Pedron: Le amare osservazioni che il servo malvagio e fannullone fa contro il suo padrone sono la manifestazione della sua cattiva coscienza. Il Signore viene accusato di essere un padrone crudele, un trafficante ingordo, un egoista senza riguardo per nessuno. Secondo queste parole sarebbe stato proprio il Signore a togliere ogni coraggio e a mettere addosso al suo servo un tale terrore paralizzante.
Quello che il Signore domanda è fedeltà nell’amministrazione, attività coraggiosa, lavoro oculato. Per questo non è concepibile un’attesa inoperosa e piena di paura. Il capitale che ci ha dato non serve per arricchire davanti agli uomini, ma davanti a Dio; farlo fruttare non significa accumulare con avidità, ma dare con generosità (cfr Lc 12,13ss; 16,1ss). Questa parabola illustra la scelta giusta operata da Zaccheo: ha fatto fruttare i suoi averi dandoli ai poveri. Il vero guadagno che ci arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21) consiste nel donare. È l’unico modo di investire; ci dà il nostro vero tesoro (cfr Lc 12,33) e ci procura amici che ci accolgano nelle dimore eterne (cfr Lc 16,9). La salvezza è un premio e come tale è insieme dono e conquista, incontro tra la benevolenza di Dio e la libertà dell’uomo. Il premio è sproporzionato al merito, come una città rispetto a una “mina”. Una “mina” greca d’argento corrispondeva allo stipendio di trecento giornate lavorative.
Fuori parabola, Dio ci dona “molto più di quanto possiamo domandare o sperare” (Ef 3,20): ci dona se stesso. Tutto è dono suo, noi stessi e le nostre azioni.
La paura di Dio è tipica di Adamo (Gen 3,10) e dei suoi discendenti. Essa deriva dall’immagine di un Dio cattivo, che non ci ama. Questa paura blocca l’azione dell’uomo. L’uomo “religioso” considera Dio severo e intransigente. Il suo comportamento da uomo “giusto” è mosso da un’estrema difesa da Dio, nella ricerca parossistica di chiudere il conto in parità. Ma ciò non è possibile. L’unica via d’uscita è la gratitudine per la gratuità del dono.

E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me - Questo versetto è un po’ difficile da accettare, ma così è stato registrato da  Luca. Molto probabilmente “è un’immagine truculenta per presentare la dannazione eterna. È la sorte di chi rifiuta la vita di Dio.” (Lino Pedron), ma in linea con l’annuncio evangelico, si deve dire che i nemici, quelli che non hanno accolto Gesù, “saranno esclusi dal regno. La descrizione parabolica è fatta in base alle abitudini del tempo, ma ‘insegnamento vuol solo dire che saranno esclusi. Purtroppo esiste questa triste possibilità: essere eternamente falliti. Il discepolo conosce dunque il suo destino, e conosce tutta la bontà del suo Signore. Viva dunque la speranza” (Mario Galizzi, Vangelo secondo Luca).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che ci hai nutriti con questo sacramento,
ascolta la nostra umile preghiera:
il memoriale, che Cristo tuo Figlio ci ha comandato di celebrare,
ci edifichi sempre nel vincolo del tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.