12 Novembre 2019

Martedì XXXII Settimana T. O.

Sap 2,23-3,9; Salmo Responsoriale 33 [34]; Lc 17,7-10

SAN GIOSAFAT MARTIRE - MEMORIA

San Giosafat: Nasce a Wolodymyr in Volynia (Ucraina) nel 1580 e viene ricordato come il simbolo di una Russia ferita dalle lotte tra ortodossi e uniati. La diocesi di Polock si trovava in Rutenia, regione che dalla Russia era passata in parte sotto il dominio del Re di Polonia, Sigismondo III. La fede dei Polacchi era quella cattolica romana; in Rutenia invece, come nel resto della Russia, i fedeli aderivano alla Chiesa greco-ortodossa. Si tentò allora un’unione della Chiesa greca con quella latina. Si mantennero cioè i riti e i sacerdoti ortodossi, ma si ristabilì la comunione con Roma. Questa Chiesa, detta «uniate», incontrò l’approvazione del Re di Polonia e del Papa Clemente VIII. Gli ortodossi, però, accusavano di tradimento gli uniati, che non erano ben accetti nemmeno dai cattolici di rito latino. Giovanni Kuncevitz, che prese il nome di Giosafat, fu il grande difensore della Chiesa uniate. A vent’anni era entrato tra i monaci basiliani. Monaco, priore, abate e finalmente arcivescovo di Polock, intraprese una riforma dei costumi monastici della regione rutena, migliorando così la Chiesa uniate. Ma a causa del suo operato nel 1623 un gruppo di ortodossi lo assalì e lo uccise a colpi di spada e di moschetto. (Avvenire)

Colletta: Suscita nella Chiesa, o Padre, il tuo Santo Spirito, che mosse il vescovo san Giosafat a dare la vita per il suo popolo, perché, fortificati dallo stesso Spirito, non esitiamo a donare la nostra vita per i fratelli. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

All’insegnamento sulla fede (Lc 17,5-6) segue una parabola rivolta a tutti i discepoli.
L’insegnamento è abbastanza chiaro: tutti i credenti, ma in modo particolare i capi della Chiesa, non possono mai fermarsi e riposarsi nella convinzione di avere già lavorato abbastanza. La parabola, che non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, vuole mettere in evidenza come deve essere il comportamento dell’uomo verso Dio: totale disponibilità, pienezza di dono, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si entra nello spirito del Vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno, ma con lo spirito del servizio gratuito: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8). Sulle orme di Gesù, Servo del Signore, gli operai evangelici dopo una intensa giornata di lavoro, non possono dire abbiamo finito e non possono accampare diritti. L’unica cosa che possono dire, e ad alta voce senza tema di essere smentiti: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.

Dal Vangelo secondo Luca 17,7-10: In quel tempo, Gesù disse: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Chi di voi, se ha un servo … Lothar Coenen: Se in certi casi il servire poteva apparire come qualcosa di onorevole (servire a corte, in certe «case» ecc.), si può comunque dire che si è sempre più affermata l’idea che si tratti di un qualcosa di penoso per l’uomo, un sintomo di assenza di libertà, di asservimento agli altri. [...] Giustamente la predicazione cristiana ha dovuto tener conto dell’avversione che destava questa parola. Un’avversione che non è solo della nostra epoca, ma che esisteva anche al tempo del NT, specialmente nella società greca. Per l’uomo greco, l’insistenza sul diakonéin, cioè su un atteggiamento e un modo di vivere proprio degli strati inferiori, invece che sul leitourghéin, e cioè sul nobile e onorato servizio in funzione del bene comune, non poteva non apparire scandaloso. Ed è invece sul diakonéin che, nonostante tutto, insiste la predicazione neotestamentaria, rivelando in questo un intenzionale spostamento d’accento: servirsi gli uni gli altri, dare la precedenza all’altro, vivere per gli altri: ecco il contrassegno dell’esistenza cristiana. E questo non per una costrizione indotta dalle proprie condizioni economiche e sociali sfavorevoli, ma per gratitudine verso Dio che si è piegato verso l’uomo con amore e misericordia. Da quando Cristo ha dato la sua vita per gli altri, il servire implica sempre gli aspetti della rinuncia, dell’umiliazione, della sofferenza; suscita, tra gli uomini, più la prospettiva della solidarietà nel dolore che quella della ricompensa e del riconoscimento. Tuttavia sarebbe salutare se anche il servire per amore di Cristo cessasse di essere una specie di commedia per travestire un’attività in realtà appetibile e rispettata, o di ridursi a un semplice atteggiamento, come per es. l’umiltà. Il senso profondo del servire è un altro: ciò che l’uomo stima stolto e poco onorevole, Dio lo ha valorizzato. Poiché egli ha dimostrato in Cristo che non solo il servire viene cronologicamente prima del presiedere, ma che il presiedere stesso, nel suo contenuto, è essenzialmente servire e solo così è legittimo. L’uomo infatti raggiunge la vera libertà non quando c’è abbastanza gente che lo serve, ma quando egli esiste per gli altri.

Il vero servizio - Carlo Ghidelli (Luca): Quanto al vero servizio, notiamo che Gesù ci offre un insegnamento in netto contrasto con la mentalità dei farisei, i quali si facevano belli della loro giustizia fino a pretendere l’attenzione degli uomini e la benevolenza divina (cfr 18,9ss). Paradossalmente Gesù qui afferma che nessuno, neppure il servo più fedele e il discepolo più attento, può vantare alcun diritto di fronte a Dio. Come uno schiavo di fronte al suo padrone, come una serva verso la padrona (cfr Sal 123,2), siamo tutti servi inutili (v. 10: achreìoi può voler dire anche ordinari). Segue una breve parabola, per comprendere la quale occorre rilevare il punto centrale primariamente inteso da Gesù: ebbene egli vuol fermare la nostra attenzione sull’atteggiamento personale del vero discepolo, sulla consapevolezza della propria inutilità. Ogni parabola ci presenta una verità ed un insegnamento parziale (cfr 11,5-8).

Così anche voi - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Così (è) anche (di) voi; nell’applicazione della parabola non si parla più dei sentimenti del padrone, ma di quelli dei servi; la parola conclusiva infatti è pronunziata dai servi, non già dal padrone. Siamo dei semplici servi; l’aggettivo ἀρεῖος significa: inutile, da nulla; la Volgata traduce: servi inutiles sumus. Nel contesto l’aggettivo «inutile» non è appropriato, né rende con fedeltà il pensiero; infatti il servo dopo aver lavorato e compiuto fedelmente tutto ciò che gli è stato ordinato non può dire di essere inutile, poiché sarebbe insincero. È meglio quindi tradurre con l’espressione indicata nel testo, la quale puntualizza meglio lo spirito del sublime insegnamento di Cristo. Dalla parabola che presenta una situazione, giudicata dal lettore moderno eccessiva e tirannica, emerge questo confronto: come lo schiavo non si gloria del lavoro compiuto per il padrone, né può esigere da lui una qualsiasi ricompensa, poiché per lo schiavo la più grande soddisfazione consiste nel poter dire: ho servito in tutto il mio padrone, così dev’essere anche per i discepoli; essi quindi si guardino dall’insuperbirsi per ciò che hanno compiuto, né possono esigere delle ricompense per l’opera prestata, ma debbono ritenersi dei semplici servi che hanno eseguito ciò che era stato loro comandato. Tra l’immagine e la verità esiste una sproporzione notevole; per questo motivo gli elementi descrittivi utilizzati nella parabola restano ad un livello inferiore della dottrina proposta. Il Maestro ha voluto impartire ai suoi collaboratori una lezione incisiva sulla umiltà, che per essi ha un valore fondamentale. Soltanto Luca ha trasmesso questo elevato insegnamento che scopre ai ministri del vangelo un aspetto misterioso della vocazione che hanno ricevuta. La parabola, pur con i suoi tratti rudi e marcati, lascia chiaramente intendere agli apostoli che per essi il servire la causa del regno è una grazia incomparabile ed un onore inestimabile. Gesù non ha soltanto insegnato agli altri questa dottrina che ha degli aspetti paradossali, ma l’ha proposta a se stesso come norma ispiratrice della propria vita (cf. Lc., 12,37; 22,27).

Servire con umiltà: Benedetto XVI (Omelia 3 Ottobre 2010): La seconda parte del Vangelo odierno presenta un altro insegnamento, un insegnamento di umiltà, che tuttavia è strettamente legato alla fede. Gesù ci invita ad essere umili e porta l’esempio di un servo che ha lavorato nei campi. Quando torna a casa, il padrone gli chiede ancora di lavorare. Secondo la mentalità del tempo di Gesù, il padrone aveva tutto il diritto di farlo. Il servo doveva al padrone una disponibilità completa; e il padrone non si riteneva obbligato verso di lui perché aveva eseguito gli ordini ricevuti. Gesù ci fa prendere coscienza che, di fronte a Dio, ci troviamo in una situazione simile: siamo servi di Dio; non siamo creditori nei suoi confronti, ma siamo sempre debitori, perché dobbiamo a Lui tutto, perché tutto è suo dono. Accettare e fare la sua volontà è l’atteggiamento da avere ogni giorno, in ogni momento della nostra vita. Davanti a Dio non dobbiamo mai presentarci come chi crede di aver reso un servizio e di meritare una grande ricompensa. Questa è un’illusione che può nascere in tutti, anche nelle persone che lavorano molto al servizio del Signore, nella Chiesa. Dobbiamo, invece, essere consapevoli che, in realtà, non facciamo mai abbastanza per Dio. Dobbiamo dire, come ci suggerisce Gesù: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). Questo è un atteggiamento di umiltà che ci mette veramente al nostro posto e permette al Signore di essere molto generoso con noi. Infatti, in un altro brano del Vangelo egli ci promette che «si cingerà le sue vesti, ci farà mettere a tavola e passerà a servirci» (cfr Lc 12,37). Cari amici, se faremo ogni giorno la volontà di Dio, con umiltà, senza pretendere nulla da Lui, sarà Gesù stesso a servirci, ad aiutarci, ad incoraggiarci, a donarci forza e serenità.

Il dono non deve umiliare il prossimo: Deus caritas est nn. 34-35: L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona.
Questo giusto modo di servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l’ultimo posto nel mondo - la croce - e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17,10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: « L’amore del Cristo ci spinge » (2Cor 5,14).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo.
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Venga a noi, Signore, da questo sacro convito
il tuo Spirito di fortezza e di pace,
perché a imitazione di san Giòsafat
doniamo volentieri la nostra vita
per l’unità e la santità della Chiesa.
Per Cristo nostro Signore.