27 Ottobre 2019

 XXX DOMENICA T. O.

Sir 35,1.15b-17.20-22a; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

Colletta: O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura - L’autore del libro del Siracide affronta un argomento fondamentale per la vita spirituale, quello della preghiera intesa come incontro-dialogo con Dio da realizzarsi in un clima reciproco di amore e di fiducia e non secondo le regole umane, molto meschine, del ‘do ut des’.

Salmo Responsoriale - Paolino Beltrame-Quattrocchi: Messaggio di gioia e di speranza di un umile agli altri umili, del povero del Signore agli altri poveri. Ad essi egli racconta la sua meravigliosa esperienza di Dio. Credete a me, egli dice, io ho cercato il Signore, ed egli mi ha risposto davvero; io, questo povero, grido, e trovo nientemeno che il Signore ad ascoltarmi. Su, fate la prova anche voi: toccherete con mano quanto è buono il Signore! Egli è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti.

Seconda Lettura - Paolo sente ormai prossima la morte, e non tanto in ragione dell’età quanto piuttosto perché tutto gli fa prevedere che il processo giudiziario finirà con la condanna capitale. Le sue parole-testamento non grondano di malinconica tristezza, ma rivelano la gioia dell’atleta che, al termine del duro combattimento, già vede vicina la vittoria. A motivo dell’imminente morte dell’Apostolo, Timoteo, il discepolo, si trova dinanzi al gravoso impegno di raccogliere l’eredità del maestro, di custodirla con scrupolo e di testimoniarla, qualora fosse necessario, anche con il dono della vita.

Vangelo - La parabola evangelica presenta due tipi umani opposti. I farisei, scrupolosi osservanti della Legge, e i pubblicani schedati come peccatori pubblici, gente senza salvezza. La preghiera del fariseo non è accetta a Dio perché sgorga da un cuore infettato dall’orgoglio, mentre il pubblicano è ascoltato e giustificato perché, riconoscendo la propria indegnità, la sua preghiera erompe da un cuore contrito e umiliato. È quanto insegna anche la prima lettura: il valore della preghiera non dipende dalla sua prolissità, ma dalle disposizioni del cuore. La preghiera del povero, spoglia di arroganza e di sedicenti meriti, penetrando le nubi arriva fino al cuore di Dio che è pronto ad intervenire per rendere soddisfazione ai giusti e ristabilire l’equità.

Dal Vangelo secondo Luca 18,9-14: In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il fariseo e il pubblicano - La cornice entro la quale l’evangelista Luca pone la parabola è un insegnamento sull’umiltà (Cf. v. 14: Vi dico... chi invece si umilia sarà esaltato).
Due uomini salirono al tempio per pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Se la parabola è narrata per riprovare l’operato ipocrita dei farisei, non vuole sottintendere una sentenza di demerito o di condanna sul gruppo storico dei farisei. Occorre, quindi, comprendere il giudizio di Gesù. Egli loda la fede del pubblicano, ma non approva il suo peccato. Il peccatore deve pentirsi e convertirsi (Cf. Mt 3,2; 4,17); deve tendere al possesso di un cuore nuovo e dimostrare il suo pentimento con preghiere, digiuni ed elemosine (Cf. Tob 12,8-9; 1Pt 4,8). Gesù rimprovera l’arroganza dei farisei che con i loro sedicenti meriti credono di potere pilotare il giudizio di Dio e di tirarselo dalla loro parte, ma non disprezza il loro amore per la legge di Dio, la giustizia e lo sforzo di inculcarlo nel cuore degli uomini (Cf. Mt 23,3).
Il fariseo stando in piedi... Il fariseo è l’immagine dell’uomo amato, adulato, onorato dal mondo per quello che ha e per quello che fa, per il posto sociale che occupa, e non per quello che è.
Digiuno due volte... Il fariseo va al di là delle prescrizioni: digiuna il Lunedì e il Giovedì, mentre questa pratica penitenziale è prescritta una volta all’anno, nel giorno dell’espiazione (Kippur). Così per la decima. La legge comanda il pagamento della decima sui principali prodotti (Dt 14,22-23); il fariseo invece, la paga su tutti i prodotti e per questo si ritiene più giusto degli altri.
Il pubblicano... non osava alzare gli occhi al cielo... Sulla sponda opposta il pubblicano, il quale stava a distanza e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo. I pubblicani sono i “senza legge”, “gente maledetta” (Gv 7,49), o per il mestiere che esercitavano o perché collaborazionisti dell’odiato potere romano. La partita doppia di questo povero uomo non ha voci né di credito né di debito; il pubblicano sa soltanto battersi il petto e chiedere perdono di tutti i suoi peccati: pensieri, parole, opere ed omissioni. E forse nella conta esagerava un po’!
Io vi dico... Umiltà, fede, preghiera, penitenza..., queste sono le vie maestre che conducono l’uomo al cuore di Dio e obbligano Dio a volgere il suo sguardo pietoso sulla creatura: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Negli ultimi versetti della parabola possiamo cogliere così «l’idea centrale della parabola e dell’insegnamento di Gesù: ciò che ci rende giusti, graditi a Dio, non sono i nostri meriti, le nostre virtù. Ciò che vi è di nostro in noi ci allontana da Dio, solo ciò che vi è di suo in noi ci avvicina a lui: il suo perdono e la sua grazia, accompagnati, da parte nostra, dalla penitenza e dalla fede» (CARLO GHIDELLI, Luca - Edizioni Paoline).

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro - P. Rosario Pistone: «Vi dico che questi...»: la conclusione tratta da Gesù stesso sembra ancora riecheggiare le parole del salmo: il cuore affranto e umiliato (cfr 51,9) non viene disprezzato da Dio, il quale è, appunto, «conoscitore dei cuori di ognuno» (At 1,24). Così, mentre la preghiera del pubblicano si configura come richiesta affinché Dio agisca in un certo modo ( = usando misericordia) quella del fariseo mostra l’orante continuamente soggetto di ogni azione; si potrebbe quasi concludere dell’inutilità del suo salire al tempio: la sua preghiera poteva benissimo essere fatta davanti ad uno specchio piuttosto che davanti al Signore. Diverso l’atteggiamento del pubblicano: il participio perfetto passivo del testo greco, tradotto con «giustificato» rimanda ad una parte all’azione immediata di Dio, mentre sottolinea che gli effetti di questo agire permangono nella vita di colui che ne è stato beneficiato. Le immagini del salire al tempio, battersi il petto, ricevere il perdono suggeriscono un raffronto con Lc 23, 47-48. Anche in questo brano c’è il salire ad un monte, ci si batte il petto, si torna a casa propria. In tale cornice trova posto una confessione di fede che viene qualificata come «dar gloria a Dio». Si potrebbe anzi dire che il non giudicare secondo le apparenze si trasforma in gloria di Dio e, a maggior stizza dei benpensanti, è proprio un pagano che riesce a cogliere i disegni di Dio. La luce della crocifissione di Gesù rischiara perciò in modo particolare la pericope odierna: giustificazione e perdono sono, ormai, in connessione di consequenzialità con la sua morte. Si comprende, dunque, perché Gesù tragga le sue conclusioni non come un qualsiasi maestro della legge ma con l’autorità e la potenza che gli competono in quanto rivelatore del Padre (cfr Mc 1,22). L’accoglienza di tale insegnamento/rivelazione situa, perciò, bene al di là del semplice «non giudicare» per riproporre il salto dei veri adoratori del Padre, i quali, lungi dall’esser legati a questo o quel luogo a questo o quel rito, osservanza o esteriorità, adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23).

Luke Timothy Johnson: La parabola del fariseo è un invito all’introspezione per ognuno di noi, perché parla di qualcosa di molto radicato nel cuore di ogni uomo. È tanto facile che l’amore di Dio si trasformi in un amore idolatra di se stessi; è tanto facile scambiare il dono per un bene proprio; ciò che viene da altri può essere tanto sfacciatamente presentato come un successo personale. La preghiera può trasformarsi in insensato vanto. La pietà non è un atteggiamento inequivocabile. La bravura letteraria che la parabola rivela è pari alla penetrazione psicologica. Il «devoto» fariseo è tutto confronti e contrasti contorti; non può ricevere nessun dono perché non è capace di smettere di bearsi dei propri pregi. La sua è una preghiera di confronto con gli altri. Peggio ancora, si appropria del ruolo di giudice che spetta a Dio: non si limita a enumerare tutti i meriti che gli danno il diritto a sentirsi giusto, ma si premura di ricordare a Dio le manchevolezze del pubblicano, casomai Dio non le avesse notate. Per contro, il pubblicano è tutta semplicità e verità. Ammette di essere peccatore. Ammette di aver bisogno del dono della giustizia di Dio, perché lui di sua non ne ha. E poiché egli ha bisogno e riconosce il suo bisogno del dono, egli lo riceve.

La preghiera come è insegnata da Gesù -  É. Beaucamp: Mediante l’incarnazione, il Figlio di Dio è collocato al centro della richiesta incessante degli uomini. Egli la nutre di speranza rispondendovi; nello stesso tempo loda, incoraggia, od educa la  fede (Lc 7,9; Mt 9,22.29; 15,28). Collocato su questo sfondo vissuto, il suo insegnamento si estende anzitutto sul modo di pregare, più abbondantemente che sulla necessità della preghiera: «quando pregate, dite...» (Lc 11,2).
1. I sinottici. - Il Pater è il centro di questo insegnamento (Lc 11,2ss; Mt 6,9-13). Dall’invocazione di Dio come Padre, che prolunga, superandola, l’intimità dei salmi (Sal 27,10; 103,13; cfr. Is 63,16; 64,7), deriva tutto l’atteggiamento dell’orante. Questa invocazione è un atto di fede e già un dono di sé, che immette nel circuito della carità. Ne deriva che, perfettamente in linea con la preghiera biblica, egli fa passare dinanzi a tutto la preoccupazione del disegno di Dio: del suo nome, del suo regno (cfr. Mt 9,38), dell’attuazione della sua volontà. Ma domanda pure il pane (che egli offre nell’eucaristia), poi il perdono, dopo essersi riconciliato con i figli dello stesso Padre, ed infine la grazia di non essere travolto dalle prove del tempo futuro. Le altre prescrizioni inquadrano o completano il Pater noster, nominano sovente il Padre. L’impressione dominante è che la certezza di essere esauditi è fonte e condizione della preghiera (Mt 18,19; 21,22; Lc 8,50). Marco lo esprime nel modo più diretto: «se egli non esita in cuor suo, ma crede che accadrà ciò che dice, l’otterrà» (Mc 11,23; Cfr. 9,23 e soprattutto Giac 1,5-8). Ora, si è sicuri perché si prega il Padre (Lc 11,13; Mt 7,11). L’interiorità si fonda sulla presenza del Padre che vede nel segreto (Mt 6,6; cfr. 6,4.18). Non accavallare e ripetere le parole (Mt 6,7) quasi che Dio sia lontano da noi, come Baal deriso da Elia (1Re 18,26ss), mentre è il nostro Padre. Perdonare (Mc 11,25 par.; Mt 6,14). Pregare in unione fraterna (Mt 18,19). Ricordare le proprie colpe in una preghiera contrita (Lc 18,9-14). Bisogna pregare senza interruzione (Lc 18,1; cfr. 11,5-8): la nostra perseveranza deve essere provata, la vigilanza del cuore espressa. La necessità assoluta della preghiera è insegnata nel contesto degli ultimi tempi (Lc 18,1-7), resi vicini dalla passione; senza di essa si sarebbe sommersi da «tutto ciò che deve accadere» (Lc 21,36; cfr. 22,39-46); così pure il Pater termina implorando Dio contro la tentazione insostenibile degli ultimi tempi.
2. Giovanni presenta sotto una luce molto unificata la pedagogia della preghiera, passaggio dalla richiesta alla vera preghiera, e dal desiderio dei doni di Dio a quello del dono che apporta Dio stesso, come leggevamo già nei salmi. Così la Samaritana è condotta dai suoi propri desideri fino a quello del dono di Dio (Gv 4,10), la folla al «nutrimento che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Perciò la fede non è soltanto condizione della preghiera, ma suo effetto: il desiderio è nello stesso tempo esaudito e purificato (Gv 4,50.53; 11,25ss.45).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La preghiera è tanto migliore quanto più carichi d’amore sono gli sguardi dell’anima” (Charles de Foucauld).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, questo sacramento della nostra fede
compia in noi ciò che esprime
e ci ottenga il possesso delle realtà eterne,
che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.