21 SETTEMBRE 2019
Sabato XXIV Settimana T. O. - Anno C
SAN MATTEO, APOSTOLO ED EVANGELISTA - FESTA
Ef 4,1-7.11-13; Sal 18 (19); Mt 9,9-13
Dal Martirologio: Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, che, detto Levi, chiamato da Gesù a seguirlo, lasciò l’ufficio di pubblicano o esattore delle imposte e, eletto tra gli Apostoli, scrisse un Vangelo, in cui si proclama che Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ha portato a compimento la promessa dell’Antico Testamento.
Colletta: O Dio, che nel disegno della tua misericordia, hai scelto Matteo il pubblicano e lo hai costituito apostolo del Vangelo, concedi anche a noi, per il suo esempio e la sua intercessione, di corrispondere alla vocazione cristiana e di seguirti fedelmente in tutti i giorni della nostra vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Il racconto della vocazione dell’apostolo Matteo si incunea in una sezione che va dal capitolo 8,1 fino al capitolo 9,34 nella quale, l’evangelista, mette in risalto l’autorità di Gesù che emana non solo dalle sue parole, ma anche dalle sue azioni. Gesù ammaestra con autorità e agisce con signoria: «le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,28-29; Cf. Mc 1,2; Lc 4,32-26). Inoltre, la chiamata dell’apostolo Matteo introduce due controversie sul comportamento di Gesù: una con i farisei sul suo atteggiamento verso pubblicani e peccatori (Cf. Mt 9,10-13) e una con i discepoli di Giovanni Battista sul digiuno (Cf. Mt 9,14-17). Ognuna di esse diventa per Gesù occasione per presentarsi come autorità superiore e definitiva. Egli è il medico dell’umanità (Cf. Mt 9,12-13) e lo sposo messianico (Cf. Mt 9,15).
Nel brano odierno, Il Vangelo mette in risalto la potenza della parola di Cristo: la Parola chiama alla sequela l’esattore di tasse Matteo, lo muove dal di dentro per una risposta pronta e positiva e l’esattore delle tasse senza battere ciglio si alza e la segue; la Parola ha il potere (exousia) di annunziare la remissione dei peccati, di proclamare ai poveri il Vangelo, la buona notizia, e di annunziare la liberazione ai prigionieri; la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto (Eb 4,12-13). Tra le righe la gioia, la festa per sottolineare l’attenzione amorosa di Dio per i più disperati, per i peccatori, per coloro che a motivo della loro vita o mestiere erano considerati dannati. Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori, perché diventino giusti attraverso la loro fede in lui (cfr. Gal 2,16), attraverso l’abbandono totale e fiducioso in lui, che «è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25).
Viene smantellata quella peregrina idea che faceva considerare la salvezza come una miscela di obbedienza pedissequa della Legge e di supererogazione di opere buone (cfr. Lc 18,9-14). Tutto è grazia e come corrispondenza al dono gratuito della salvezza Dio desidera unicamente il nostro amore (cfr. Dt 6,5), come Matteo il pubblicano immantinènte gli ha dato.
Dal Vangelo secondo Matteo 9,9-13: In quel tempo, mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Gesù vide un uomo, chiamato Matteo - Felipe F. Ramos (Vangelo secondo Matteo): La vocazione di Matteo ci è [...] presentata dall’evangelista con due pennellate che raccolgono l’essenziale: Matteo che siede al banco delle imposte ed è, quindi, pubblicano, e la sua ubbidienza senza discussioni alla parola di Gesù che gli chiede di seguirlo.
È evidente che il racconto dell’evangelista sulla vocazione di Matteo non è determinato dall’interesse storico sul personaggio in questione; altrimenti ci avrebbe offerto una serie di quei particolari che sono indispensabili, nel momento di presentare una persona che dev’essere conosciuta, perché ha un innegabile interesse per il lettore. Si dice che era «pubblicano», il che equivaleva a dire che era peccatore, proscritto dalla società giudaica come una delle persone che si erano vendute a Roma e che, pe;r questo, erano segnate a dito quando passavano per le strade. Era quello che oggi diremmo un peccatore pubblico. L’opinione pubblica giudaica considerava come mestieri «peccaminosi» quelli che, in un modo o in un altro, denotavano slealtà o qualcosa di simile nei riguardi del popolo.
Il centro d’interesse dell’evangelista è tutto nella parola esigente di Gesù: «Seguimi». Esigenza indiscutibile e inappellabile della parola del Maestro. Gesù chiama con lo stesso tono imperativo con cui Yahveh aveva chiamato nell’Antico Testamento. E teniamo presente che Matteo non aveva i presupposti psicologici sui quali oggi insistiamo tanto, e aveva anzi i presupposti contrari. Così si vede la ragione determinante dell’elezione che Dio fece del suo popolo o di determinate persone destinate a compiere una missione speciale. Nel corso di tutta la Bibbia, troviamo sempre la stessa legge, la legge dell’amore, senza meriti precedenti che la giustifichino. Insieme con questo imperativo di esigenza, si fa ammirare la risposta data nella piena libertà e ubbidienza, l’ubbidienza della fede.
Matteo o Levi: La vocazione dell’apostolo Matteo è raccontata anche dall’evangelista Marco (2,13-14) e dall’evangelista Luca (5,27-28), ma con una differenza degna di nota: nei vangeli di Marco e di Luca il nome del vocato è Levi. Le soluzioni di tale diversità sono varie: o il gabelliere aveva due nomi o Gesù gli diede il sopranome di Matteo, che significa dono di Dio, oppure, come alcuni credono, sono stati «Marco e Luca a sostituire il nome di Matteo con Levi per non offuscare la dignità di uno dei Dodici, trattandosi di un pubblicano» (Angelico Poppi).
Il mestiere di Matteo è quello di esattore delle tasse e per questo motivo è esecrato dal popolo perché creduto ladro (Cf. Lc 3,11) e disprezzato dai Farisei i quali, considerandolo peccatore pubblico perché impuro, lo ritenevano hic et nunc un condannato alla Geenna. Forse al soldo di Erode Antipa o degli odiati Romani, Matteo, a differenza dei suoi detrattori si mostra pronto ad accogliere con gioia la parola della salvezza: è il mercante accorto che ha trovato «una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Cf. Mt 13,45-46).
Non viene specificato se la casa dove viene apparecchiato il banchetto è quella di Matteo o quella di Gesù dove dimorava da quando aveva abbandonato Nazaret (Cf. Mt 4,13). Nel testo parallelo di Luca (5, 27-32) è il pubblicano divenuto discepolo che prepara in casa sua un banchetto per Gesù al quale invita anche i suoi pari.
Per Angelo Lancellotti «è probabilmente il banchetto d’addio che il nuovo “apostolo” dà ai suoi ex-colleghi per sottolineare la serietà e il carattere definitivo della sua risposta alla singolare chiamata del Maestro di Nazaret». In ogni caso mettersi a tavola con i pubblicani e i peccatori significa rendersi impuri. Alle proteste dei farisei, sempiterni scandalizzati di tutti e di tutto quello che non rientrava nel loro modo di pensare, Gesù risponde con un proverbio abbastanza eloquente e con una citazione veterotestamentaria tratta da Osea 6,6, qui certamente non al suo posto (Cf. Mt 12,7). Nella citazione fatta dall’evangelista Matteo vi si trova una notevole e sostanziale differenza: mentre in Osea l’oggetto diretto della religiosità fatta di «amore e conoscenza» è Dio, nel Vangelo è il peccatore.
Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori, perché diventino giusti attraverso la loro fede in lui (Cf. Gal 2,16), attraverso l’abbandono totale e fiducioso in lui, che «è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25; Cf. seconda lettura).
Misericordia voglio - Misericordia è un attributo che viene costantemente riferito a Dio e si presenta come una delle caratteristiche peculiari della divinità. In essa si possono distinguere due elementi: uno di disposizione di fondo di Dio al perdono e alla benevolenza; l’altro, ad esso indissolubilmente unito, di effettiva azione divina per il bene dell’uomo. Dietro la parola misericordia soggiace il termine ebraico hesed, il cui significato, assai più ricco di sfumature, lo si coglie molto chiaramente studiando le parole con le quali è associato. Per esempio in Osea hesed è associato con mispat, giudizio, «che qui significa giustizia; le due virtù sono un aspetto della conversione voluta da Yahweh [Os 12,7] e sono due delle tre virtù in cui Michea fa consistere la volontà di Yahweh [Mi 6,8]. Questi, insieme con la rettitudine, sono gli attributi del rapporto di Yahweh con gli uomini [Ger 9,23]» (JOHN L. McKENZIE, Dizionario biblico). I Vangeli presentano la misericordia come dovere di un uomo verso il prossimo. Nel Vangelo odierno, Gesù applica Os 6,6 a questo dovere e lo assume egli stesso verso tutti gli uomini sopra tutto verso coloro che si trovano in particolari condizioni di bisogno. Tra questi primeggiano i peccatori, operando in questo modo un collegamento tra misericordia e perdono dei peccati; collegamento abbastanza ovvio, se la misericordia è l’atteggiamento di Dio verso l’uomo in condizione di miseria, e se la massima miseria dell’uomo è il peccato. Nel Nuovo Testamento tutta la buona novella è il racconto della misericordia fatta da Dio all’uomo peccatore nella morte redentrice di Cristo. Da questa considerazione scaturiscono due riflessioni. La prima è che l’uomo non può sfrontatamente abusare della misericordia di Dio (Sir 5,4-7), ma ad essa deve rispondere con la conversione, con l’adorazione; la seconda è che in conseguenza a tanto amore l’atteggiamento etico dell’uomo che vuol vivere conformemente alla realtà di salvezza, nella quale è stato inserito, deve essere un atteggiamento di misericordia verso il suo simile (Mt 18,23-35); solo così può rendersi degno della misericordia di Dio ed avere l’accesso al suo regno.
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». (Vangelo)
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
O Padre, tu ci fai rivivere nell’Eucaristia
l’esperienza gioiosa di san Matteo,
che accolse come ospite il nostro Salvatore;
fa’ che possiamo sempre ricuperare le nostre energie
alla mensa di colui che è venuto a chiamare a salvezza
non i giusti, ma i peccatori, Gesù Cristo, nostro Signore.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
l’esperienza gioiosa di san Matteo,
che accolse come ospite il nostro Salvatore;
fa’ che possiamo sempre ricuperare le nostre energie
alla mensa di colui che è venuto a chiamare a salvezza
non i giusti, ma i peccatori, Gesù Cristo, nostro Signore.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.